Caratteristiche fisiche dell’occhio umano Con gli strumenti dell’Ottica geometrica è possibile analizzare le proprietà fisiche ed il funzionamento dell’occhio umano. Esso, infatti, è schematizzabile come sistema ottico approssimativamente centrato: una sequenza di vari elementi diottrici, organizzati in modo da ricevere raggi da oggetti esterni e formarne immagini reali su di un sensore ad alta risoluzione spaziale (retina), i cui segnali sono inviati al cervello attraverso il nervo ottico. La struttura ottica dell’occhio è visibile nella figura a lato. Principalmente, si distinguono: ∼ ∼ ∼ ∼ ∼ cornea: sottile membrana trasparente, funzionante come una lente avente raggi di curvatura praticamente uguali tra loro, nella quale si realizza la rifrazione dei raggi luminosi dall’ambiente esterno all’umore acqueo; in pratica, un diottro sferico di raggio π 1 ≅ 8ππ; umore acqueo: sostanza che riempie la camera anteriore, spessa π 1 ≅ 3ππ, avente indice di rifrazione πππ΄ ≅ 1.33 come quello dell’acqua, di cui è composto al 98%; cristallino: mezzo trasparente ed elastico indispensabile affinché l’immagine si formi sulla retina, con indice di rifrazione ππΆ non uniforme (variabile al suo interno da 1.40 a 1.45), assimilabile ad una lente biconvessa, quasi simmetrica ed avente raggio di curvatura π 2 variabile insieme alla sua focale per azione di un sistema di muscoli, detti ciliari; iride: diaframma circolare, posto tra cornea e cristallino, al cui centro c’è un’apertura variabile (pupilla) utile a limitare opportunamente il fascio luminoso entrante; esso può accomodarsi su raggi tra 1ππ e 4ππ a seconda delle condizioni di illuminazione; umore vitreo: sostanza che riempie buona parte del bulbo oculare, spesso π 2 ≅ 19ππ, avente indice di rifrazione πππ ≅ 1.34 vicino a quello dell’acqua e dell’umore acqueo. Il processo per cui varia la focale del cristallino (unica, nell’approssimazione di lente simmetrica), al fine di dare immagini reali e capovolte poste esattamente sulla retina, viene usualmente detto di accomodamento; quello per cui la pupilla sia più o meno dilatata è invece detto di adattamento. Per un occhio normale (emmetrope) è possibile accomodare immagini di oggetti situati tra il punto remoto (posto idealmente all’infinito) ed il punto prossimo, a distanza di circa 15ππ dall’occhio. Tuttavia, il punto prossimo varia da individuo a individuo ed in base all’età. Esiste, inoltre, una distanza che massimizza l’acuità visiva, ossia la capacità dell’occhio di distinguere i dettagli di un oggetto: essa è pertanto detta distanza della visione distinta e dista circa 25ππ dall’occhio. Frequenti disfunzioni dell’occhio sono la miopia, per la quale l’immagine di un oggetto lontano si forma prima della retina a causa di una eccessiva convergenza del cristallino; e l’ipermetropia, per cui l’immagine si forma aldilà della retina a causa di un difetto di convergenza del cristallino. Il primo difetto visivo si corregge con lenti divergenti, mentre il secondo con lenti convergenti. Un altro possibile difetto è l’astigmatismo, dovuto al fatto che la cornea non è esattamente sferica Caratteristiche fisiche dell’occhio umano 1 e quindi risulta più convergente nel piano orizzontale che in quello verticale o viceversa; tale problema si corregge per mezzo di lenti cilindriche. Sempre nell’approssimazione che vuole le proprietà del cristallino essere ben approssimate da quelle di una lente sottile simmetrica, è possibile stimare dei limiti nella gamma di variabilità del raggio di curvatura del cristallino di un occhio normale, ovvero quando questo sia accomodato al punto remoto o al punto prossimo. Infatti, per la trasmissione attraverso la cornea vale l’equazione del diottro sferico, che si scrive π1 πππ΄ πππ΄ − π1 + = , π1 π1 π 1 essendo π1 ≅ 1.00 l’indice di rifrazione dell’aria, π1 la distanza dell’oggetto dal vertice della cornea e π1 la distanza dell’immagine dallo stesso vertice. L’effetto convergente del cristallino, invece, si quantifica mediante l’equazione πππ΄ πππ ππΆ − πππ΄ πππ − ππΆ 2ππΆ − πππ΄ − πππ + = − = , π2 π2 π 2 π 2 π 2 laddove si intende essere π2 = π 1 − π1 la distanza dell’oggetto (immagine prodotta dal diottro – cornea) dal vertice del cristallino e π2 = π 2 la distanza della sua immagine dallo stesso vertice, pari allo spessore del bulbo oculare per la condizione che l’immagine debba formarsi sulla retina. Allora, in caso di occhio accomodante un oggetto posto nel punto remoto, si ricava (1) π1 ~ + ∞, (1) π1 (1) π2 ≅ 32ππ, ≅ −29ππ ⇒ (1) π 2 ≅ 8.5ππ; mentre, in caso di occhio accomodante un oggetto posto nel punto prossimo, si ottiene (2) π1 ≅ 150ππ, (2) π1 ≅ 38ππ, (2) (2) π2 ≅ −35ππ ⇒ π 2 ≅ 6.5ππ. La variazione relativa del raggio del cristallino è circa del 30%. Risulta pure evidente che le immagini date dalla cornea si formerebbero (in assenza dell’azione convergente del cristallino) oltre la retina, essendo persino (1) π1 > π 1 + π 2 ≅ 22ππ Immaginando, ora, di avere un oggetto π΄π΅ esteso di lunghezza π¦, osservato da un occhio normale in condizioni di luminosità adeguate, ad una distanza pressappoco coincidente con quella della visione distinta πΏ ≅ 25ππ, esso si presenta sotto un angolo πΌ tale che π¦ = tg(πΌ )πΏ Ricordato che la maggiore acuità visiva si ottiene posizionando l’oggetto alla distanza πΏ, per aiutare l’occhio a distinguere maggiormente dei dettagli si è soliti ricorrere ad una lente sottile convergente: la lente di ingrandimento. Infatti, ponendo l’oggetto tra il primo fuoco della lente e la lente stessa, mentre l’occhio è Caratteristiche fisiche dell’occhio umano 2 situato in prossimità del secondo fuoco, una lente di ingrandimento migliora la capacità di percezione di dettagli; essa, in altre parole, fa aumentare l’angolo sotto cui è visto l’oggetto π΄π΅. L’occhio percepisce l’immagine dell’oggetto sotto un angolo π½ > πΌ tale che π¦ = tg(π½ )π, essendo π la distanza focale della lente. Detto, allora, ingrandimento visuale il rapporto πΌπ = tg(π½ ) πΏ = , tg(πΌ ) π si vede semplicemente che, per funzionare da lente di ingrandimento, è necessario che la lente in esame abbia distanza focale π sufficientemente piccola rispetto a πΏ. Tralasciando ora il campo dell’Ottica geometrica e passando a valutare l’incidenza del diametro della pupilla sulla qualità della visione, è necessario soffermarsi sul fenomeno della diffrazione, il quale risulta significativo qualora la radiazione incidente abbia lunghezza d’onda π paragonabile alle dimensioni di un ostacolo incontrato sul suo percorso; questo fenomeno, essendo legato alla natura ondulatoria delle onde elettromagnetiche, è ovviamente ineliminabile. Nel caso dell’occhio umano, la restrizione posta dalla pupilla (il cui diametro varia tra i limiti π·1 ≅ 8ππ e π·2 ≅ 2ππ a seconda delle condizioni di illuminazione ambientale) è quella che si conosce studiando la diffrazione da un foro circolare di diametro π·. Sfruttando il teorema di Kirchhoff ed il principio di Huygens-Fresnel, si può calcolare che l’angolo π a cui cade il primo minimo di intensità della figura di diffrazione(♣) è tale da soddisfare la relazione sen(π) = 1.22 π π· In molte applicazioni tuttavia accade che π βͺ π·, per cui la precedente relazione può essere riscritta in maniera linearizzata come π ≈ 1.22 π , π· π →0 π· 2π, allora, rappresenta la larghezza angolare del massimo centrale della figura di diffrazione. Un aspetto notevole, che di fatto limita la risoluzione degli strumenti ottici in generale, è che l’immagine di un punto data da una lente sia un dischetto. Questa osservazione è fondamentale quando si vogliano distinguere due oggetti puntiformi, visti dalla lente sotto un angolo πΌ piccolo. Se πΌ β« π (oggetti molto spaziati angolarmente), allora non c’è sovrapposizione tra i due dischetti che rappresentano le immagini degli oggetti: le due sorgenti si dicono risolte. Al diminuire di πΌ, invece, le figure di diffrazione cominciano a sovrapporsi. Esiste un angolo πΌπ tale che il primo minimo di diffrazione di una sorgente coincide col massimo principale dell’altra sorgente. (♣) N.B. Vale la pena di ricordare che, per ragioni di simmetria, la figura di diffrazione consta di un disco luminoso centrale e di una serie di corone circolari alternativamente scure e chiare. Caratteristiche fisiche dell’occhio umano 3 In questa situazione, le sorgenti si dicono appena risolte ed πΌπ è detto angolo minimo risolvibile; il suo reciproco, π −1 π· π = (πΌπ )−1 = οΏ½1.22 οΏ½ = , π· 1.22π si dice potere risolutivo o separatore della lente. Fatta questa necessaria digressione, si supponga di avere luce incidente di lunghezza d’onda nel vuoto π = 0.55ππ (luce gialla); è possibile calcolare i limiti di variabilità di πΌπ in funzione del diametro variabile π· della pupilla, ossia (1) (π) (2) πΌπ ≅ 0.84 × 10−4 πππ < πΌπ < 3.36 × 10−4 πππ ≅ πΌπ , essendo πΌπ = πΌπ (π·π ), π = 1, 2. Posto un oggetto alla distanza πΏ ≅ 25ππ di visione distinta, la minima distanza π tra due punti ancora distinguibili dall’occhio nel caso più sfavorevole (π· = π·2 ≅ 2ππ) vale (2) π 2 ≈ πΏπΌπ ≅ 84ππ; con π· = π·1 ≅ 8ππ, si trova π 1 ≅ 21ππ. I fatti sperimentali, tuttavia, mostrano che l’angolo minimo risolvibile dall’occhio umano è più vicino a 4 × 10−4 πππ, per cui la minima distanza π tra due punti distinguibili si attesta intorno al valore di 100ππ. Questa sovrastima del potere risolutivo discende da una carenza del modello fisico adottato per spiegare il funzionamento dell’organo: infatti, non si tiene in alcun modo conto della struttura granulare della retina, costituita da vari strati di cellule diverse che ricoprono la parte posteriore del bulbo oculare, ricevono l’immagine formata dal cristallino e la inviano al cervello mediante il nervo ottico. Tra le cellule della retina gli elementi sensibili alla luce sono di due tipi: i coni ed i bastoncelli. Alla luce che attraversa il bulbo la retina si presenta dunque come una sorta di superficie piastrellata dalle terminazioni di coni e bastoncelli, che in totale assommano in un occhio a qualcosa come 125 milioni e le cui sezioni hanno diametri dell’ordine di 2ππ. Pertanto, due punti sono visti come distinti qualora la luce da essi emessa colpisca due sensori diversi: allora, non è sufficiente l’assunzione che i due dischetti (immagini dei punti mediante la diffrazione) siano appena risolvibili, piuttosto occorre che questi abbiano raggio paragonabile alla distanza tra i sensori; è questa la condizione che fissa la risoluzione. In prossimità del collegamento del bulbo oculare al nervo ottico, sulla retina è presente una zona, di diametro dell’ordine di 2ππ, detta macchia lutea, in cui i coni sono predominanti rispetto ai bastoncelli. L’accomodamento dell’occhio, quando si fissa un oggetto, tende a portarne l’immagine al centro della macchia lutea, in una zona più sottile del resto della retina, detta fovea (si veda la figura a pag. 1); in essa sono presenti esclusivamente coni ed in tal modo si realizza la miglior acuità visiva possibile. Ciò che risulta veramente notevole è che la distanza tra due coni in questa zona vale circa 10ππ: pressoché la stessa misura del raggio dei dischetti di diffrazione ottenuti con la pupilla aperta con diametro π·2 ≅ 2ππ. In altri termini, la granularità della retina è Caratteristiche fisiche dell’occhio umano 4 corrispondente al potere risolutivo del cristallino, dal momento che due punti risolvibili producono dischetti che interessano due sensori distinti. D’altra parte, quando sia π· = π·1 ≅ 8ππ, i dischetti di due punti ancora risolvibili sono sì ridotti, ma sono anche più vicini tra loro e non colpiscono sensori distinti: in questa diversa condizione di illuminazione la risoluzione del cristallino non trova adeguata corrispondenza in quella della retina, che pertanto non distingue i due punti. Infine, per quanto riguarda la capacità dell’occhio di distinguere i colori, si ritiene che la funzione di reagire diversamente alle varie lunghezze d’onda sia demandata ai coni, piuttosto che ai bastoncelli. Come è noto, la possibilità di distinguere i colori dipende anche dal grado di illuminazione dell’oggetto (al crepuscolo tutti gli oggetti diventano grigi). I bastoncelli, che veicolano un’immagine meno nitida, risultano particolarmente adatti alla visione crepuscolare, essendo circa 4000 volte più sensibili alla luce dei coni, i quali invece presentano tre tipologie di terminazioni nervose con sensibilità diversa per i tre colori fondamentali (rosso, verde, violetto). Combinando le tre eccitazioni per questi colori, pesate coi rispettivi rapporti di intensità, nascono le sensazioni per tutti i diversi colori. Prima di concludere l’analisi fisica delle principali caratteristiche dell’occhio umano, è bene porre un commento alla presenza all’interno di quest’ultimo di un vero e proprio diaframma, la pupilla, che, come si è più volte ripetuto, è necessario a variare il flusso luminoso entrante, data l’evidente impossibilità di modifiche all’assetto dei componenti ottici del sistema oculare. In effetti, la presenza della pupilla, oltre a limitare l’apertura angolare dei fasci luminosi uscenti da oggetti puntiformi posti sull’asse ottico, riduce anche le zone di spazio-oggetto i cui raggi possono essere accettati dal sistema e trasformarsi in immagini: tali zone determinano il cosiddetto campo visivo. Trascurando gli effetti della diffrazione, tutti i raggi uscenti da un oggetto puntiforme π disposto sull’asse ed interni ad un cono (in asse all’asse ottico) e la cui apertura (definita dal diametro della pupilla) sia πΌ, vengono accettati e trasformati in una immagine π′ puntiforme. L’immagine che l’occhio forma della pupilla (d’entrata) si chiama pupilla d’uscita: tutti i raggi entranti nella pupilla d’entrata escono dalla pupilla d’uscita, la quale è vista sotto l’angolo πΌ′ dall’immagine π′. A questo punto, si possono sviluppare delle semplici considerazioni legate alle proprietà energetiche delle immagini. Infatti, preso un oggetto di area dσ piccola (ad esempio quadrato di lato π), disposto perpendicolarmente all’asse ottico e che emetta luce in modo uniforme su tutta la sua superficie, indicando con dΩ l’angolo solido sotto cui è vista la pupilla da parte dell’oggetto e con πΌ la semiapertura del cono a sezione retta, avente l’oggetto come vertice e la pupilla come base, si definisce la brillanza π΅ della sorgente l’energia luminosa dπΈ che questa emette per unità della sua superficie, per unità di tempo e per unità di angolo solido; in simboli π΅= dπΈ dσdπ‘dΩ In analogia si definisce la brillanza π΅′ dell’immagine (considerando ovviamente la pupilla d’uscita). Se si suppongono trascurabili le perdite di energia per riflessione e assorbimento, si ha che la quantità di energia che esce nell’unità di tempo dalla sorgente ed entra nella pupilla arriva inalterata sull’immagine; ciò permette di scrivere Caratteristiche fisiche dell’occhio umano 5 dπΈ = π΅dσdΩ = π΅′dσ′dΩ′ dπ‘ Tenuto conto che, per quanto ipotizzato, dσ = π 2, dσ′ = π′2, dΩ ≅ ππΌ 2 , dΩ′ ≅ ππΌ′2 e che vale la cosiddetta formula di Lagrange ππΌπ = π′ πΌ ′ π ′ , essendo π ed π′ gli indici di rifrazione dei mezzi che contengono le superfici dσ e dσ′ rispettivamente, si ha finalmente π΅π 2 ππΌ 2 = π΅′ π′2 ππΌ′2 βΊ π΅ π΅′ = 2 2 π π′ Allora, nell’ipotesi che la trasparenza sia perfetta e che non ci siano dispersioni di energia per assorbimento, la brillanza dell’oggetto sta in un rapporto, definito dagli indici di rifrazione π ed π′, con la brillanza dell’immagine. Nel caso in cui, come usualmente accade, una parte non trascurabile dell’energia luminosa venga dispersa nel sistema ottico, l’ultima relazione scritta è da leggersi in verità come un diseguaglianza; ovvero 2 π′ π΅′ < οΏ½ οΏ½ π΅ π Insomma, la brillanza è una quantità invariante per sistemi ottici ideali (senza dispersioni, né riflessioni); nel caso tale approssimazione non rispecchi la realtà, si vede che la brillanza può soltanto diminuire. Se anche si riesce a concentrare la luce su di una piccola area, si osserva simultaneamente un aumento della divergenza angolare (e viceversa). Questa ultima osservazione è, di fatto, coerente con il Teorema di Liouville, formulato spesso per sistemi meccanici, ma la cui validità è tutt’altro che limitata a questi, prestandosi evidentemente a notevoli generalizzazioni. Vincenzo Ventriglia Caratteristiche fisiche dell’occhio umano 6