Articolo originale • Original article La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone Clinical assessment of patients with mental disorders and violent behavior directed towards others G.C. Nivoli, L. Lorettu, P. Milia, A. Nivoli, L.F. Nivoli Clinica Psichiatrica, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Sassari Summary Objective The management of patients with mental disorder and violent behavior has become one of the most important issues among psychiatrists, due to repercussions related to professional liability. The aim of this study is to identify an assesment methodology of patients with mental disorder and violent behaviors oriented to manage the risk of violent behavior in clinical practice, particularly focusing on both stimulating and protective factors. Methods This study is a personal contribution based on clinical experience among specific institutions specialized in the evaluation and treatment of psychiatric patients, who committed violent crimes. The presented methodology is based on contributions of clinical reports and the most recent literature. Key words Mental disorder • Violent behavior • Liability • Assessment • Treatment Results and conclusions Authors present a methodology of assessment of patients with a mental disorder and violent behaviors including categorical psychiatric diagnosis, dimensional psychiatric diagnosis, dynamic psychiatric diagnosis, etiologic evaluation of violent behavior, the assesment of transference, countertransference and resistance of the patient (Table I). The treatment trend that emerges includes a sequence of operative indications that concern the treatment of both mental disorder and violent behavior, beyond the adoption of protective measures. It is also specified that the evaluation of the risk have to focus on the specific patient. We ought to, at least, emphasize the importance to document in case histories, the evaluation of the violent behavior risk carried-out, as a concrete proof of good clinical practice. Definire una buona pratica clinica nella valutazione del paziente con disturbo mentale (psicopatologia di interesse psichiatrico) e comportamento violento sulle persone (omicidio, tentato omicidio, lesioni personali, percosse), può apparire un obiettivo non solo ingenuo ma irrealizzabile. La saltuaria, ma pur presente, messa in discussione della esistenza del disturbo mentale come entità categoriale, così come definita nei manuali psichiatrici, la continua mutevolezza dei criteri diagnostici, la molteplicità delle scelte terapeutiche, la multivarietà espressiva e la multifattorialità causale del comportamento violento, (oggetto di correnti ideologiche di rifiuto del suo inserimento nelle competenze psichiatriche o di una sua consacrazione ad entità nosologica multideterminata indipendente), non aiutano certo ad un approccio privo di giustificate Corrispondenza Liliana Lorettu, Dipartimento di Neuroscienze e Scienze Materno Infantili, Sezione di Psichiatria, Villaggio S. Camillo SS200, Sassari 07100, Italia • Tel. 079-254406 • Fax 079 228350 • E-mail: [email protected] 396 Giorn Ital Psicopat 2008;14:396-412 La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone ma anche emotivamente vivaci critiche ad una ipotesi metodologica di valutazione del paziente con disturbo mentale e comportamento violento. Nonostante questi limiti, è realtà quotidiana, per la maggior parte degli psichiatri, non solo dover gestire pazienti con disturbo mentale e comportamento violento ma anche saperli gestire con una buona pratica clinica: in caso contrario non solo la propria sensibilità morale, etica, deontologica potrebbe portare alla colpevolizzazione, ma anche potrebbero verificarsi imputazioni e condanne in tema di responsabilità professionale a livello civile e penale. Queste ultime realtà, (necessità di una buona pratica clinica e possibile responsabilità professionale a livello giuridico), possono giustificare un tentativo seppur a livello di ipotesi (passibile di miglioramento e di continui aggiornamenti clinici e scientifici), di una metodologia per la valutazione del paziente con disturbo mentale e comportamento violento. Nelle pagine che seguono saranno descritte le otto tappe della valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulla persona (Tab. I) unitamente alla chiarificazione, attraverso un caso clinico esemplificativo, ed alla citazione di una bibliografia essenziale. Inoltre è da precisare che nel presente scritto, si è inteso per diagnosi (diagnosis) e terapia (therapy), (farmacoterapia e psicoterapia) un concetto restrittivamente limitato al campo medico-psichiatrico. Per valutazione (assessment) e trattamento (treatment), del paziente con disturbo mentale e comportamento violento si è inteso un concetto, più ampio del campo medico psichiatrico, che comprende, per convenzione, variabili non primariamente ed esclusivamente di interesse e di competenza medico-psichiatrica. Diagnosi psichiatrica categoriale La diagnosi categoriale, prevista da Sistemi di Classificazione Internazionali, prevalentemente su base statistica e descrittiva (DSM-IV-Tr, ICD-10), mette in luce una classificazione dei disturbi mentali a grandi gruppi, mutuamente esclusivi, sulla base di variabili obiettive considerate segni e sintomi psicopatologici. Questo tipo di diagnosi (indispensabile per la comunicazione universalmente condivisa e l’attendibilità diagnostica tra studiosi, ha validità anche nell’approccio scientifico alla psicopatologia, soprattutto in ambito epidemiolo- gico), può fornire una prima indicazione valida, a livello generale, sulla tipologia di psicopatologia di cui soffre il paziente con comportamento violento. La diagnosi categoriale può presentare diversi livelli di approfondimento nell’ambito di una valutazione multi-assiale (ad esempio, nel DSM-IV-Tr il I asse: disturbi clinici, il II asse: disturbi di personalità e ritardo mentale, il III asse: condizioni mediche generali, il IV asse: problemi psicosociali e ambientali, il V asse: valutazione globale del funzionamento). Esempio clinico di diagnosi categoriale D.A., uomo di 45 anni, uccide il proprio datore di lavoro sparando con un fucile e poi cerca di uccidersi con la stessa arma, ferendosi gravemente al torace. D.A. è in cura da alcuni mesi per sintomi depressivi. D.A. aveva già attuato un tentativo di suicidio, mediante ingestione incongrua di psicofarmaci, in un suo precedente episodio depressivo, all’età di 32 anni, all’epoca della separazione dalla moglie. Ultimamente D.A. ha lamentato contrasti con il datore di lavoro, a causa della sua scarsa produttività, delle sue assenze sul luogo di lavoro (legate, a suo dire, alla sua “depressione”) che lo porta ad essere apatico, abulico, isolato e talvolta irritabile. Nell’anamnesi familiare di D.A. si segnala, il padre affetto da disturbo bipolare I, ed uno dei fratelli da depressione ricorrente. L’anamnesi personale di D.A., mostra l’alternanza di episodi di deflessione dell’umore e innalzamenti (di tipo ipomaniacale), caratterizzati da disforia e irritabilità. Inoltre all’esame psichiatrico attuale D.A. presenta tratti di personalità paranoidea nell’approccio al mondo, con tendenza a percepirsi con facilità vittima dell’ingiustizia e della aggressività altrui e di non essere apprezzato per le “ottime” (sempre nella sua percezione) qualità umane e professionali (tratto paranoideo proiettivo e rivendicativo). Sono altresì presenti tratti paranoicali con scissione e proiezione su altri della propria aggressività ed una forte idealizzazione di se stesso (il paziente era l’oggetto “buono” mentre tutti gli altri erano gli oggetti “cattivi”) che rifugge da ogni atteggiamento di passività adottando una logica di pensiero rigida (la logica paranoicale del tutto o del nulla). D.A. è attualmente in cura con equilibratori dell’umore, antidepressivi, ansiolitici. È stata formulata la diagnosi di disturbo bipolare II. 397 G.C. Nivoli et al. Tabella I. La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulla persona. Clinical assessment of patients with mental disorder and violent behavior against other persons. Tappe della valutazione Esempio clinico (paziente autore di omicidio) 1) Diagnosi psichiatrica categoriale Disturbo bipolare II, tratti di disturbo paranoideo e paranoicale 2) Diagnosi psichiatrica dimensionale Tristezza, demoralizzazione, irritabilità, impulsività, attivazione neurovegetativa 3) Diagnosi psichiatrica dinamica Meccanismi proiettivi della colpa Relazione oggettuale con incompleta separazione dall’altro 4) Valutazione eziologica del compor- Apprendimento psico-sociale della violenza: anomia, opportunità diffetamento violento renziali, violentizzazione, violenze plurigenerazionale con successiva identificazione all’aggressore 5) Valutazione dinamica del comportamento violento Tendenza alla distruzione dell’oggetto frustrante per: 1) narcisismo maligno 2) reattività maniacale di trionfo alla depressione 6) Diagnosi attraverso la traslazione, Necessità di gestire nella relazione personale: rabbia narcisistica, dipencontrotraslazione e resistenze denza esplosiva, rapido viraggio da idealizzazione a demonizzazione 7) Indirizzo trattamentale 1) Terapia farmacologica e psicoterapia sul disturbo bipolare II e sulla diagnosi psichiatrica dimensionale 2) Trattamento: a) psicoterapia sulla diagnosi dinamica b) introspezione sul comportamento violento c) gestione della rabbia narcisistica d) miglioramento della mentalizzazione con riduzione del passaggio all’azione 8) Valutazione del rischio del comportamento violento HCR20: rischio tra debole e medio (nella scala: debole-medio-grave) In conclusione, la diagnosi categoriale, mette sostanzialmente in luce un disturbo bipolare di tipo II con tratti di disturbo di personalità paranoideo e paranoicale. Diagnosi psichiatrica dimensionale La diagnosi psichiatrica dimensionale, da intendersi in questo contesto come un approfondimento integrato alla diagnosi categoriale, può essere intesa, nel suo significato più ampio, come un approccio diagnostico che privilegia le dimensioni psicopatologiche, definite come insieme di sintomi correlati tra loro. A livello teorico il modello di approccio dimensionale prevede che ogni dimensione psicopatologica possa essere correlata ad uno specifico meccanismo patofisiologico e ad un intervento terapeutico altrettanto specifico, permettendo così una maggior e più approfondita identificazione diagnostica e flessibilità terapeutica in ogni singolo paziente 1 2. Questo approccio 398 dimensionale, (per il quale ancora non esiste una univoca definizione e sistemi di validazione empiricamente ed universalmente riconosciuti), tende ad isolare gruppi di sintomi che si presentano trasversalmente in diverse entità nosologiche categoriali e possono variare dalla più lieve entità clinica sino alla patologia più grave e conclamata 2. Esempio clinico di diagnosi dimensionale D.A., al momento dell’esame psichiatrico presenta una deflessione del tono dell’umore, in cui è particolarmente manifesta la dimensione tristezza e demoralizzazione (il paziente riferisce profondi sentimenti di tristezza, di inadeguatezza, di mancanza di fiducia nel prossimo e nelle proprie capacità, sporadiche occasioni di pianto). È presente inoltre irritabilità. Il paziente riferisce tale irritabilità soprattutto nell’ambiente lavorativo (il paziente è spesso coinvolto in accese discussioni con i colleghi di lavoro, viene irritato facilmente da questioni anche di poco conto, ha manifestato in alcune occasioni atteggiamenti di tipo pantoclastico, danneggiando oggetti, La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone ma senza coinvolgere fìsicamente altre persone). Inoltre dal colloquio si evincono intensi sentimenti di rabbia, che sono a volte chiaramente verbalizzati dal paziente (riferisce rabbia per non essere valorizzato sul posto di lavoro, è astioso verso tutti coloro che in qualche modo insinuano dubbi sulla perfezione del suo operato e sulla sua identità). Il paziente appare impulsivo e non controlla in modo adeguato le emozioni sia a livello cognitivo che comportamentale (pensieri inarrestabili ed irriflessivi conseguenti ad una forte incapacità a tollerare qualsiasi tipo di frustrazione, frequente passaggio all’atto, sia verbale che fisico). Infine, è presente, anche se in maniera sfumata, una attivazione neurovegetativa che si manifesta principalmente con insonnia e lieve, ed occasionale, agitazione psicomotoria afìnalistica. In conclusione la diagnosi psichiatrica dimensionale mette in luce una deflessione del tono dell’umore con tristezza e demoralizzazione, accompagnata da irritabilità, impulsività, saltuaria attivazione neurovegetativa. Diagnosi psichiatrica psicodinamica Nella diagnosi psichiatrica psicodinamica è descritto sia il funzionamento mentale del “soggetto senza disturbo mentale” (il presupposto è che la classificazione e le indicazioni terapeutiche nei disturbi mentali non possono prescindere da una conoscenza dei processi mentali che avvengono nel soggetto non portatore di psicopatologie di interesse psichiatrico), sia il funzionamento del “soggetto con disturbo mentale” (le gravi alterazioni a livello cognitivo, emotivo, comportamentale, il valore comunicativo dei sintomi, il loro valore simbolico ecc.). In merito esistono numerose teorie di riferimento nell’ambito della psichiatria dinamica 3 (basate sulla psicologia del profondo, sui meccanismi psicologici di difesa, sulla psicologia dell’Io, sulle relazioni oggettuali, sull’analisi strutturale genetico-dinamica-descrittiva ecc.) ed in particolare esiste una classificazione del funzionamento psichico con criteri diagnostici psicodinamici: il PDM 4 (una sorta di manuale statistico diagnostico che si basa sulla psicodinamica del soggetto senza disturbo mentale e del soggetto con disturbo mentale, a differenza del DSM-IV-Tr o all’ICD-10, che si basano su un approccio categoriale di tipo descrittivo limitato al soggetto con disturbo mentale). La formulazione di una diagnosi psicodinamica è indispensabile per implicare non solo la “parte psichica malata”, ma anche la “parte psichica sana” del soggetto con comportamento violento nel processo terapeutico conseguente la diagnosi psichiatrica. Esempio clinico di diagnosi psichiatrica psicodinamica I primi sintomi di interesse psichiatrico nella diagnosi di D.A., in relazione al suo attuale comportamento violento, sono stati una deflessione del tono dell’umore, turbe del sonno, apatia, abulia, sentimenti di incapacità, di indegnità e di colpa (fase del biasimo verso se stessi). Successivamente D.A. è andato incontro a un peggioramento del quadro depressivo, e ha incominciato a rivolgere le sue lamentele e dopo le sue accuse (fase del passaggio manifesto dalle lamentele alle accuse) al proprio ambiente di lavoro. Secondo la percezione di D.A., sul luogo di lavoro le persone non riconoscevano la sua buona volontà, le sue capacità professionali e umane e lo mettevano spesso nella condizione di essere umiliato e vilipeso, peggiorando il suo stato di sofferenza (fase del biasimo proiettato su altre persone). Oltre al meccanismo psicologico di difesa della proiezione (tra i più primitivi) D.A. utilizza anche una relazione oggettuale (nel caso specifico si intende i rapporti con le altre persone) che non si basa sulla completa separazione (“gli altri sono persone diverse da me con i loro pensieri, emozioni, comportamenti, che io debbo capire e rispettare” ecc.) ma su di una separazione incompleta legata a tratti di immaturità narcisistica (“gli altri sono come miei oggetti personali che debbono dire, fare e pensare quello che mi fa piacere, mi è utile” ecc.). Queste due dinamiche di base (uso della proiezione ed immaturità nella relazione oggettuale) sono stati esacerbati nel caso di D.A. dai tratti paranoidei e paranoicali (che facilitano proiezioni e scissioni) e dalle dinamiche più squisitamente depressive. Il vissuto depressivo di D.A., prima dell’omicidio, è particolarmente doloroso e concretizzato sulla situazione di lavoro “disastrata senza rimedio” (peraltro accentuata dalla sua depressione che gli forniva una immagine di realtà molto più “disastrosa” di quanto non fosse), “senza possibilità di aiuto” e “senza speranza per il futuro”, tale da configurare una vera e propria disperazione, con un dolore verbalizzato come “insopportabile” (fase della disperazione, senza possibilità di aiuto, con dolore morale “insopportabile”). In questo stato d’animo, dopo aver pensato più volte al suicidio (fase della dinamica suicidaria) D.A., nel corso di una discussione frustrante aggressiva con il suo datore di lavoro, lo uccide (fase della dinamica omicidaria). Successivamente D.A. cerca di uccidersi (ritorno della fase suicidaria). D.A. verbalizzerà poi, a proposito del suo tentativo di suicidio dopo l’omicidio: “Per me era la stessa cosa … era come se non vivessi più … uccidere o uccidermi non faceva differenza …”. Allo stato attuale D.A. non presenta sintomi, verbalizzazioni o comportamenti che depongano per progetti 399 G.C. Nivoli et al. anticonservativi o suicidari e non è più presente la gravità dello stato di depressione al momento dei fatti omicidari. Perdurano nel funzionamento dello stato globale e psichico di D.A. l’uso della proiezione e immaturità nelle relazioni oggettuali. In conclusione, allo stato attuale il funzionamento psichico di D.A. privilegia i meccanismi più primitivi di difesa quale la proiezione della colpa (esasperata dai tratti paranoidei, paranoicali, depressivi, ecc.) unitamente ad una immaturità relazionale oggettuale (le altre persone sono percepiti come oggetti personali, (“self objects”), nell’ambito di una immaturità narcisistica. Valutazione eziologica del comportamento violento Le diagnosi psichiatriche che precedono (categoriale, dimensionale, psicodinamica) permettono di approfondire la descrizione dei sintomi psico-patologici ed il funzionamento psichico globale del soggetto ma non forniscono elementi significativi sulle cause e sulle caratteristiche cliniche e dinamiche del comportamento violento. A livello di approccio metodologico la diagnosi del disturbo mentale non segue gli stessi criteri della valutazione del comportamento violento: infatti vi può essere comportamento violento senza disturbo mentale e disturbo mentale senza comportamento violento, anche a prescindere dalle più sofisticate e pretestuose definizioni di psicopatologia di interesse psichiatrico e di dotte disquisizioni bio-socio-psico-politiche sul comportamento violento. Nei casi clinici dove il paziente, accanto al disturbo mentale, presenta anche un comportamento violento sulla persona è indispensabile, per lo psichiatra, non solo provvedere alla diagnosi e alla terapia del disturbo mentale ma anche alla valutazione (eziologica e dinamica) e al trattamento del comportamento violento. La valutazione eziologica dell’agito di violenza permette di comprendere la nascita del comportamento violento attraverso lo studio delle cause (etologiche, primatologiche, paleoantropologiche, antropologiche, politiche, sociali, culturali, sottoculturali, psicologiche sperimentali, cliniche e dinamiche, psicoanalitiche, esistenziali, fenomenologico-esistenziali, neurofisiologiche, organiche ecc.) L’eziologia del comportamento violento non è la stessa del disturbo mentale, ed è trattata da specifica letteratura 5 6. 400 Esempio clinico di valutazione eziologica del comportamento violento. D.A. è vissuto in una famiglia dove la sua maturazione emotiva in relazione agli obiettivi sociali da raggiungere (ad esempio uno “stato sociale di potere”, una “ricchezza economica”, ecc.) si è svolta all’insegna dell’assenza e/o confusione dei valori morali, della empatia verso il prossimo, del rispetto dei desideri e dei sentimenti degli altri (teoria della anomia). D.A. ha inoltre utilizzato il comportamento violento come opportunità differenziale gratificante, come scelta rispetto a tante altre, ed ottenere tutto ciò che desiderava (teoria delle opportunità differenziale). D.A. sin dalla più giovane età, ha frequentato compagni che valorizzavano l’uso della forza fisica e della violenza sulla persona per affermarsi e risolvere i conflitti interpersonali. Questo apprendistato del comportamento violento è avvenuto progressivamente e gradualmente. D.A., invece di imparare la “socializzazione”, ha avuto come insegnamento psicosociale la “violentizzazione” (teoria della violentizzazione). D.A. è inoltre andato incontro ad un progressivo uso sottoculturale della violenza dapprima negli sport (pugilato), successivamente anche per ottenere la leadership sui propri compagni, (frequenti risse con danni all’integrità fisica delle persone) e infine con atti di violenza sulle cose nell’ambito delle istituzioni (atti di vandalismo in edifici pubblici come la scuola) (teoria della sottocultura della violenza). D.A. attraverso il comportamento violento o la minaccia, ha spesso ottenuto quanto desiderava, almeno in tempi brevi, e cioè denaro, visibilità e plauso dei compagni, evitando responsabilità e compiti gravosi nell’attività scolastica e nell’ attività di lavoro. Si è trattato di comportamenti che hanno rinforzato la sua adesione al comportamento violento (teoria del rinforzo alla violenza per gratificazione). Infine è da segnalare che D.A. proviene da una famiglia ove il nonno aveva ucciso la moglie ed il padre era stato più volte denunciato per maltrattamenti in famiglia. In particolare D.A. aveva assistito a comportamenti violenti intrafamiliari che aveva successivamente interiorizzato, con possibilità quindi di riprodurli attraverso l’imitazione (teoria della riproduzione della violenza plurigenerazionale attraverso l’identificazione all’aggressore). In conclusione, la valutazione eziologica permette di isolare numerose modalità psicosociali di apprendimento e rinforzo del comportamento violento adottato dal soggetto in esame, secondo la teoria della anomia, della opportunità differenziale, dell’apprendimento della violentizzazione, del rinforzo della violenza per gratificazione, dell’imitazione della violenza plurigenerazionale attraverso il meccanismo psicologico di difesa dell’identificazione all’aggressore. La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone Valutazione dinamica del comportamento violento Il comportamento violento “non nasce dal nulla”, come un “fulmine a ciel sereno”, non è una “conseguenza unica, ineluttabile e diretta del disturbo mentale” ma, adeguatamente approfondito, ha una sua genesi, evoluzione e passaggio all’atto attraverso specifiche variabili biopsicosociali. È compito della valutazione dinamica del comportamento violento lo studio della sua evoluzione nella vita del paziente (anamnesi del comportamento violento); l’analisi delle tappe attraverso le quali il soggetto giunge a commettere il fatto delittuoso (le differenti fasi del passaggio all’atto di violenza); l’osservazione delle variabili biopsicosociali circostanziali che precedono, nell’immediatezza, lo scatenarsi dell’atto di violenza in quello specifico paziente, nell’ambito di uno specifico agito violento, in quelle specifiche circostanze (la costellazione dei fattori scatenanti del passaggio all’atto violento nel caso specifico) 7-10. Inoltre, sempre nell’ambito della valutazione delle dinamiche del comportamento violento, è da rilevare che non solo esistono manuali per formulare una diagnosi psichiatrica categoriale (ad esempio DSM-IV-Tr), una diagnosi psicodinamica (ad esempio il PDM), ma anche manuali di classificazione di delitti che si accompagnano a comportamenti violenti sulla persona (ad esempio il CCM, Crime Classification Manual, 11). Tali manuali di descrizione dei crimini violenti, pur essendo spesso concepiti in via prioritaria per esigenze investigative, non possono essere ignorati dagli studiosi del comportamento violento, per la loro importanza nell’approfondire a livello dinamico “l’anatomia delle motivazioni all’agito” e “l’autopsia comportamentale delle tecniche esecutive”. In questo senso concetti quali la “personificazione” (“personation”: ad esempio la realizzazione sulla scena del crimine di fantasie specifiche sessuali, aggressive, di rimorso, di riparazione, ecc. del paziente violento), le “firme” (“signature”: cioè la ripetizione della recidiva delittuosa sulla scena del crimine di agiti atti a soddisfare bisogni psicologici profondi dell’aggressore), la “messa in scena” (“staging”: le alterazioni volontarie della scena del crimine messe in opera dall’aggressore), l’eccesso della qualità e quantità di violenza omicidiaria (“overkilling”: ad esempio la sua relazione con il legame emotivo tra aggressore e vittima), la gravità del crimine in rapporto alla comune sensibilità morale (“depravity”: con- cetto psicosociale di giudizio morale e reattività emotiva sul crimine, più allargato del concetto giuridico delle circostanze aggravanti comuni e la sua influenza su chi esamina il comportamento violento) ecc. possono arricchire la valutazione ed il trattamento del paziente con disturbo mentale che ha commesso un comportamento violento sulla persona. Senza una valutazione dinamica del comportamento violento, il paziente con disturbo mentale che compie un atto di violenza, è studiato esclusivamente sotto il profilo della psicopatologia di interesse psichiatrico ma non in rapporto alla psicodinamica del comportamento violento. Esempio clinico di valutazione dinamica del comportamento violento D.A. ha verbalizzato in modo chiaro le motivazioni, nel suo percepito, alla base dell’omicidio del proprio datore di lavoro, vissuto come minaccia alla propria identità. In base alla verbalizzazione di D.A., il datore di lavoro lo avrebbe insultato, offeso, ma, soprattutto, distrutto la sua identità ricordandogli che era un “buono a nulla”, un “fallito”. Le dinamiche dell’omicidio, a livello manifesto, possono essere state stimolate in D.A. primariamente da almeno due variabili: narcisismo maligno distruttivo e reattività maniacale di trionfo alla depressione. Il narcisismo maligno consiste nel fatto che D.A. si ritiene, come ha sempre pensato e agito nella sua vita, più bravo e più capace professionalmente di quello che è in realtà, e soprattutto tende sempre a reagire con rabbia impulsiva e distruttiva verso chiunque metta in dubbio o critichi l’ottima ma irrealistica percezione che lui ha di se stesso (rabbia distruttiva da ferita narcisistica in narcisista di tipo maligno). D.A., dopo aver sempre coltivato un’immagine di se stesso come un’ottima persona, è stato ferito nel suo narcisismo e, in particolare, nel suo narcisismo maligno, dal brusco richiamo alla realtà attuato dal datore di lavoro. Il narcisismo maligno di D.A. non gli ha permesso di tollerare questo confronto con la realtà, non solo “frustrante”, ma, in quello specifico momento (con la costellazione di disperazione della depressione, tratti paranoidei proiettivi, tratti paranoicali di rigidità di conservazione della propria immagine), per lui “disintegrante e distruttivo”. Si è trattato di una esplosione di violenza di D.A., quasi in “specchio e contraria” a quella del datore di lavoro che, nella percezione di D.A., “lo voleva distruggere”: “il mio datore di lavoro mi stava uccidendo, io l’ho dovuto distruggere per vivere ...”. Questa dinamica propria del narcisismo maligno è stata accentuata dalla dinamica altalenante di depressione ed eccitazione dell’umore caratteristica 401 G.C. Nivoli et al. della psicopatologia (disturbo bipolare II) di cui D.A. soffriva al momento dei fatti. Alla depressione, che lo faceva percepire impotente, incapace e distrutto, D.A. ha reagito con una dinamica correlata al trionfo maniacale di tipo distruttivo in relazione all’eccitamento (depressione: “io sono impotente e sarò distrutto dagli altri”; reazione di trionfo maniacale alla depressione: “io sono onnipotente ed io distruggo gli altri”). Inoltre i tratti paranoidei proiettivi (“non sono io o la mia malattia, la causa dei miei malesseri, ma sono gli altri la causa dei miei malesseri …), l’uso del meccanismo psicologico della “concretizzazione” (“la causa di tutti i miei malesseri è il mio datore di lavoro”); i tratti paranoicali (“io solo sono buono perché tutti gli altri, e soprattutto il mio datore di lavoro, sono cattivi... io sono un oggetto o tutto buono o tutto cattivo ... se sono oggetto tutto buono debbo distruggere chi mi arreca torto … se sono un oggetto tutto cattivo mi debbo distruggere... io non posso vivere senza applicare queste regole che sono rigide e perfette …”). Le verbalizzazioni di D.A. “non c’era più speranza, rimaneva solo la soluzione: o uccidermi od uccidere … o tutte e due le cose … intanto per me erano la stessa cosa ...”, non solo mettono in luce le tendenze suicidarie da componente depressiva, caratterizzata da mancanza di speranza, mancanza di possibilità di aiuto, sentimento di indegnità senza rimedio, disperazione e dolore morale profondo ecc., ma anche l’uso di un processo primario di equivalenza (e non di un più evoluto meccanismo psicologico di difesa consistente nello “spostamento” della vittima tra omicidio e suicidio). Per processo primario di equivalenza si può intendere una parità di risonanza emotiva nei criteri di scelta concreta tra eventualità, tra loro molto differenti, come può essere, almeno a livello manifesto, uccidere se stesso o uccidere un’altra persona. In conclusione la valutazione dinamica del comportamento violento mette in luce la relazione al percepito di “minaccia distruttiva della propria identità” in un contesto dinamico di rabbia nell’ambito di un narcisismo maligno; di altalena tra depressione e trionfo maniacale reattivo nell’ambito di una psicopatologia depressiva; di proiezioni e identificazioni proiettive e rivendicative di tratti paranoidi; di un processo di scissione rigido in “buoni” o “cattivi”, dalla applicazione della “legge del tutto o nulla”, legata a tratti paranoicali; di processi primari del pensiero (uccidere se stesso o uccidere un’altra persona sono due eventualità con lo stesso valore emotivo e facilmente interscambiabili). 402 Diagnosi attraverso la traslazione e le resistenze del paziente e la controtraslazione del terapeuta Tra le doti più richieste e più desiderate per essere uno psichiatra ad alta professionalità e ad ottima visibilità sociale di competenza, vi è la capacità di saper riconoscere e gestire le proprie emozioni e le emozioni del paziente nel corso del processo diagnostico e terapeutico. La dote di riconoscere e gestire le proprie emozioni in rapporto al paziente, è particolarmente richiesta quando il paziente è un soggetto che non solo presenta un disturbo mentale, ma anche un comportamento violento: due fattori che non possono che suscitare molteplici e variegate emozioni, non sempre consapevoli in tutti gli operatori della salute mentale. è quindi di utilità primaria, per una buona pratica clinica, che lo psichiatra possa conoscere le reazioni emotive del paziente nei propri confronti (traslazione o transfert del paziente) le proprie emozioni nei confronti del paziente (controtraslazione o controtransfert del terapeuta) e le varie emozioni che il paziente prova nei confronti della capacità di riconoscere e gestire la sua psicopatologia e il suo comportamento violento in vista di un trattamento (resistenza al trattamento), allo scopo non solo di migliorare la diagnosi e terapia, ma anche di evitare il rischio iatrogeno (cioè l’intervento terapeutico che non sia efficace o peggiori la situazione clinica del paziente). La traslazione, intesa in senso allargato 1 3 7 10 13-15, è rappresentata da tutte le reazioni emotive che il paziente prova nei confronti del terapeuta ed è condizionata da almeno tre fattori: 1. la reazione alla realtà del terapeuta: un terapeuta, ad esempio, freddo, distante, giudicante, può sollevare nel paziente emozioni di chiusura, diffidenza, rigetto; 2. la reazione del paziente secondo schemi infantili verso persone significative del passato trasportate nel presente sulla figura del terapeuta: il paziente può percepire il terapeuta, ad esempio, come un “padre affettuoso” o un “padre crudele” e comportarsi di conseguenze (a prescindere dalle reali caratteristiche del terapeuta); 3. le reazioni del paziente legate al suo immaginario interno: ad esempio ai suoi problemi e conflitti personali, alle sue paure, ai suoi desideri, che sono imprestati ed attribuiti (attraverso la proiezione, l’identificazione proiettiva, ecc.) La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone all’esterno, e cioè al terapeuta. Continuando l’esempio, l’aggressività ed il desiderio di distruggere che il paziente prova all’interno di se stesso, sono così attribuiti all’esterno del paziente, e cioè al terapeuta che è percepito come una persona, indipendentemente dalla realtà, aggressiva e desiderosa di distruggere. Esempi clinici di gestione della traslazione del paziente D.A., in ragione del suo disturbo narcisistico, ha inizialmente messo in atto una traslazione di tipo “speculare” verso il terapeuta. Si attendeva cioè che il suo terapeuta, come non avevano fatto i suoi genitori ma come lui avrebbe desiderato, soddisfacesse il suo “sé grandioso ed esibizionistico” dicendogli, in concreto, quanto era “bravo”, “buono”, “coraggioso”, nella sua vita e nei suoi rapporti personali. In un secondo tempo D.A., vista l’impossibilità di ottenere questo riconoscimento di profonda approvazione e di plauso da parte del terapeuta, ha utilizzato, sempre nell’ambito del disturbo narcisistico, una traslazione di tipo “idealizzante”. Ha cioè trasformato il terapeuta in una sorta di “genitore protettivo” molto potente cui lui “poteva affidarsi perché il terapeuta avrebbe provveduto a tutte le sue necessità”. Questo tipo di idealizzazione del terapeuta si è accompagnata in D.A. ad un forte sentimento di dipendenza e di impotenza personale. Inoltre ha implicato la latente possibilità di un rapido viraggio della concezione del terapeuta da “padre angelo buono” a “padre demonio persecutore” a causa delle aspettative irrealistiche (e successive dinamiche legate alla frustrazione) che D.A. aveva attribuito al terapeuta. La controtraslazione, nella sua accezione più ampia, e cioè tutte le reazioni emotive del terapeuta verso il paziente, è caratterizzata dalle stesse variabili che modulano la traslazione prima descritta. La traslazione è oggetto di discussione terapeutica con il paziente ai fini della diagnosi e della terapia. La controtraslazione deve essere costantemente controllata monitorizzata, valutata e utilizzata dal terapeuta per non commettere errori iatrogeni, diagnostici e terapeutici, e per meglio conoscere il “mondo interno del paziente” e la dinamica delle sue relazioni interpersonali. Gli errori iatrogeni dello psichiatra legati al mancato riconoscimento delle sue reazioni emotive nei confronti della traslazione e della controtraslazione possono presentare una ampia variabilità sia nel campo della diagnosi che della terapia psichiatrica ed altresì nel campo della valutazione e trattamento del comportamento violento nel soggetto con disturbo mentale. Sotto il profilo generale nell’approccio al comportamento violento sulla persona è da sottolineare la frequenza con la quale, psichiatri con specifici problemi di accettazione della propria aggressività, tendono a mettere in atto, (attraverso l’uso dei meccanismi psicologici di difesa della razionalizzazione, sublimazione, intelletualizzazione), la “psichiatrizzazione” e cioè la valutazione del comportamento violento esclusivamente come conseguenza del disturbo mentale, (come si rileva nella mitologia popolare). La necessità psicologica della maggior parte delle persone di potersi differenziare dal soggetto violento, allo scopo di mantenere un sentimento di “sicurezza personale” e di “previsibilità sul mondo”, può stimolare a livello di meccanismi psicologici di difesa la tendenza ad etichettare, emarginare come “malato di mente”, (cioè come diverso da chi giudica che è “sano di mente”), chi compie atti di estrema violenza su altre persone (“solo un malato di mente può compiere atti così aggressivi, violenti, crudeli”; “io, che sono sano di mente, non corro infatti il pericolo di agire in un modo così aggressivo, violento, crudele”). Lo psichiatra non è esente, soprattutto se non formato alla valutazione del comportamento violento, da queste reazioni emotive che colpiscono la gente comune. Anzi, l’esperienza clinica mostra che, più lo psichiatra ha problemi, di cui non ha consapevolezza, con la propria aggressività e più utilizzerà le varie finezze e sofisticatezze diagnostiche della psicopatologia, a favore della “psichiatrizzazione”, in modo globale ed acritico, del comportamento violento. Questi stessi psichiatri nei confronti del comportamento violento del loro paziente con disturbo psichico, potranno mettere in atto una grande varietà di meccanismi psicologici di difesa, sia nell’ambito della diagnosi che della terapia (tra questi meccanismi di difesa ricordiamo: concretizzazione, formazione reattiva, identificazione, intelletualizzazione, minimizzazione, negazione, passaggio all’azione, proiezione, razionalizzazione, regressione; scissione) 10 . Anche il corretto utilizzo della farmacoterapia e della psicoterapia può essere profondamente influenzato e divenire iatrogeno in ragione di errati pregiudizi o conflitti non coscienti dello psichiatra in tema di comportamento violento. Ad esempio uno psichiatra che ritiene, anche se non è in grado di verbalizzarlo in modo chiaro ed esauriente, che i neurolettici siano molto più dannosi a causa dei loro effetti collaterali di quanto non lo siano in 403 G.C. Nivoli et al. realtà (una sorta di “veleno che danneggia gravemente la salute fisica e psichica”), può facilmente imprestare, attraverso il meccanismo della proiezione, una aggressività vendicativa al paziente legata alle emozioni personali di chi valuta e non alla realtà clinica del paziente valutato (“se io fossi il paziente e mi somministrassero dei veleni che nuocciono alla mia salute fisica e mentale, sarei molto aggressivo e vendicativo verso lo psichiatra che me li prescrive …”). È infine da sottolineare, sempre nell’ambito del riconoscimento delle proprie emozioni finalizzato ad evitare errori iatrogeni, la necessità per gli psichiatri di saper riconoscere le varie espressioni con le quali si manifesta sia la traslazione che la controtraslazione. Pur evitando l’eccesso di sofisticate ed ultraspecialistiche definizioni ed utilizzi terapeutici della traslazione e della controtraslazione, è necessario per lo psichiatra che ha in trattamento un paziente con comportamento violento, conoscere alcune reazioni emotive fondamentali che possono portare distorsioni alla diagnosi e alla terapia. Nell’ambito dell’intervento psichiatrico è necessario, ad esempio, che uno psichiatra di sesso maschile che ha in terapia una paziente, sappia che accanto ad un delirio erotomanico verso un famoso attore del cinema (la paziente asserisce di amare in modo profondissimo e di essere ricambiata in modo altrettanto profondo da una persona che in realtà non conosce affatto), vi possa essere anche un innamoramento della paziente nei confronti del terapeuta: il delirio erotomanico della paziente potrebbe essere alimentato e condizionato, a causa di questo specifico stato d’animo, verso lo psichiatra che la cura. Qualora lo psichiatra non riesca a cogliere questo mescolarsi ed integrarsi tra delirio erotomanico ed innamoramento della paziente nei suoi confronti, può compiere un grave errore non solo diagnostico ma anche terapeutico (ad esempio, trascinare nel tempo, anche per decine d’anni, la cura della paziente perché, a livello non necessariamente del tutto consapevole, lo psichiatra è gratificato dalle manifestazioni d’amore della paziente nei propri confronti). Nel campo specifico della valutazione e trattamento del comportamento violento lo psichiatra non può non cogliere le differenze e la commistione (riconoscimento della “traslazione laterale”) tra le espressioni di aggressività del paziente verso terze persone e le espressioni di aggressività del paziente nei confronti del terapeuta. In linea generale, per illustrare un ulteriore danno iatrogeno 404 da mancato controllo delle emozioni da parte del terapeuta, lo psichiatra che mostri, anche a livello non conscio, un particolare timore nei confronti del comportamento violento, può favorire, infatti, un’esasperazione dei comportamenti violenti del paziente fino a veri e propri passaggi all’atto, tanto etero quanto autoaggressivi. In queste circostanze il paziente può infatti non percepirsi più contenuto e protetto nel contesto della relazione con il suo terapeuta: troppo ansioso, troppo turbato, troppo distrutto dalla violenza reale o percepita della persona cui sono affidate le sue cure, (“io paziente sono così gravemente ed irrimediabilmente aggressivo e distruttivo che posso anche distruggere il mio terapeuta, l’unica persona che potrebbe aiutarmi a contenere, ridurre e proteggermi dalla mia aggressività … non ho più speranza di essere curato e guarito … sono disperato, senza speranze future e senza possibilità di essere aiutato”). Esempi clinici di gestione della controtraslazione del terapeuta Il terapeuta, in relazione al transfert “speculare” di D.A., non ha commesso l’errore di colludere con la psicopatologia di tipo narcisistica del paziente e non ha favorito la ricerca di plauso, ammirazione, cadendo nel “tranello” di un “rinforzo narcisistico”. Il terapeuta è riuscito inoltre a non provocare nel paziente una “rabbia narcisistica” legata alla frustrazione nell’ambito dell’approccio da traslazione speculare di ottenere ammirazione, plauso, attribuzione di importanza e sentimenti di grandezza. In seguito il terapeuta, in relazione alla traslazione di D.A. di tipo idealizzante, non ha nuovamente colluso con la psicopatologia narcisistica, ma ha messo in atto un esame critico, seppur a sfondo accettante e di speranza futura, della realtà della situazione emotiva, giuridica e sociale di D.A. Il terapeuta ha utilizzato particolare attenzione e sensibilità nell’evitare che i sentimenti di dipendenza di D.A. si accentuassero sino a giungere a una “dipendenza esplosiva”, e cioè ad una reazione di “onnipotenza aggressiva” in seguito a un eccessivo sentimento di “impotenza paralizzante” (anche in considerazione di movimenti non solo depressivi ma anche di tipo irritativo e provocatorio legati al disturbo dell’umore). Inoltre, il terapeuta ha gestito un altro aspetto della personalità narcisistica del paziente ed in particolare della sua “Vulnerabilità-Sensibilità” (la grande sensibilità di D.A. al giudizio degli altri, la sua tendenza a inibirsi, a isolarsi, a sentirsi facilmente umiliato e ferito nella discussione con le altre persone ecc.) unitamente alla dimensione di “Grandiosità ed Esibizionismo” (arroganza, aggressività, concentrazione esclusiva su se stesso con deficit di empatia non consapevole dei desideri e delle necessità delle altre persone). La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone La definizione di resistenza non è univoca, ma può essere intesa, in senso allargato, come tutte le forze ed i meccanismi psicologici che si sovrappongono alla presa di coscienza di desideri, paure, impulsi inaccettabili per il paziente 15. In particolare, nel caso clinico esemplificativo, le resistenze del paziente alla introspezione (riconoscimento della quantità e qualità dei sintomi psicopatologici, della quantità e qualità del comportamento violento, ecc.), alla empatia (coscienza delle dinamiche e delle relazioni sociali con le altre persone, della sofferenza della vittima), al possibile cambiamento in seguito al trattamento (la necessità di migliorare le sue relazioni oggettuali con una “separazione dall’altro” più completa, rispettosa e autonoma; l’utilizzo in modo creativo del sentimento di colpa trasformandolo in un “processo di riparazione” del danno arrecato e non evacuato all’esterno attraverso la proiezione ecc.) sono state adeguatamente valutate anche nel corso dell’esame della traslazione e della controtraslazione. Esempi clinici di resistenze del paziente ed approfondimento diagnostico Il terapeuta, nei confronti di D.A., ha isolato un approfondimento diagnostico del disturbo narcisistico di personalità: 1) maligno (tendenza a distruggere l’oggetto frustrante), 2) misto (con tratti di grandiosità-esibizione e tratti di vulnerabilità-sensibilità) e ne ha isolato dinamiche importanti per un primo approccio terapeutico: 1) la gestione della “dipendenza esplosiva”, 2) del viraggio possibile da “terapeuta angelo buono” a “terapeuta demonio persecutore”, 3) della rabbia narcisistica legata a frustrazione per la mancata accettazione della traslazione di tipo speculare, idealizzante ecc. In conclusione l’esame della traslazione, controtraslazione, resistenze ha permesso, in primo luogo, di meglio comprendere nel caso specifico la dinamica del comportamento violento omicidario. Il paziente nel colloquio con lo psichiatra ha “ripetuto” la “messa in atto” di uno “schema di comportamento” nei rapporti interpersonali con molte analogie con quello adottato con la vittima, e cioè il suo datore di lavoro. In ambedue i casi è stato adottato dal paziente uno schema di comportamento interpersonale su base narcisista con immaturità nella relazione oggettuale. Questa constatazione non vuol certo significare una uguaglianza rigida tra le dinamiche di “ora” (rapporto con lo psichiatra) con quelle di “allora” (rapporto con il datore di lavoro e vittima di omicidio), ma solo l’utilità psichiatrica di cogliere la ripetizione di schemi di comportamento analoghi ai fini della valutazione della dinamica e della prevenzione del comportamento violento nel singolo caso clinico. In secondo luogo l’esame della traslazione, controtraslazione, resistenze ha permesso di approfondire la diagnosi psichiatrica (disturbo narcisistico misto, inconsapevole ed ipervigile), la diagnosi psicodinamica (relazioni oggettuali perturbate legate ad una intensa proiezione ed identificazione proiettiva dell’immaginario del mondo interno del paziente) e le zone di più difficile gestione comportamentale del paziente con valore di “costellazioni scatenanti” nell’immediato per quanto concerne il passaggio all’atto violento (dipendenza esplosiva, rabbia narcisistica, rapidi viraggi dalla idealizzazione alla demonizzazione, ecc.). Tali elementi sono passibili di essere esacerbati in rapporto alle variazioni di umore propri di un paziente con diagnosi psichiatrica categoriale di disturbo bipolare di tipo II, tratti paranoidei e paranoicali di disturbo di personalità e diagnosi psichiatrica dimensionale con tristezza, demoralizzazione, irritabilità, impulsività. Indirizzo trattamentale L’indirizzo trattamentale comprende una serie di indicazioni operative che riguardano sia l’intervento sul disturbo mentale (ad esempio farmacoterapia, psicoterapia) sia sul comportamento violento sotto forma di trattamenti generali (ad esempio il riconoscimento, la gestione e la prevenzione del comportamento violento) o trattamenti specifici (terapie per autori di violenze sessuali, autori di maltrattamento in famiglia, ecc.). Questa duplice serie di interventi deve essere progettata con semplicità, chiarezza e soprattutto realismo (sulla effettiva praticabilità nel singolo caso con risorse disponibili), tenendo conto dei fattori favorevoli al trattamento (ad esempio sostegno familiare al paziente, idoneità del familiare di riferimento ecc.), dei fattori sfavorevoli all’esito trattamentale (possibilità di scompensi psicotici, di stimolazione a passaggi all’azione violenta ecc.) e di principi generali vittimologici (misure cautelative nei confronti di vittime potenziali, evitamento della vittimizzazione dello stesso paziente ecc.). Ogni indirizzo trattamentale deve essere valutato in rapporto alle possibili misure giudiziarie erogate in persona del 405 G.C. Nivoli et al. paziente e deve presentare flessibilità al crearsi di significativi mutamenti in corso di realizzazione del trattamento. Inoltre quando è suggerito un trattamento è da considerare che spesso si tratta della applicazione di tecniche particolari, corroborate da risultati pratici, realizzate da professionisti che trattano spesso con esperienza pluriennale e a tempo pieno pazienti con comportamento violento. Si tratta quindi di indirizzi trattamentali diversi da quelli che potrebbero essere suggeriti dal “buon senso” o dalla “originalità volenterosa” di qualche pur “brillante professionista”, che opera in modo esclusivo nel campo del disturbo mentale e non del comportamento violento. Ad esempio, l’introspezione al comportamento violento è condizionata da numerosi colloqui che attraverso modalità specifiche sensibilizzano il soggetto a varie componenti: 1. coscienza di mettere in pratica una violenza fisica (su chi, come, quando, dove; grado di introspezione ecc.); 2. empatia verso la vittima (la realtà della meccanica esecutiva sulla vittima e delle dinamiche psichiche aggressore-vittima, la verbalizzazione dei pensieri e dei sentimenti della vittima alla luce dell’intelligenza emotiva, le varie tappe della trasformazione dell’immagine della vittima, le conseguenze fisiche e psichiche sulla vittima ipotizzate dall’aggressore e realmente obiettivate ecc.); 3. esame della costellazione scatenante (le varie componenti che scatenano il comportamento violento nella fase cronica e acuta dell’atto ecc.); 4. valutazione e utilizzo delle misure trattamentali (meccanismi inibitori della nascita della violenza, tecniche di disinnesto acuto del passaggio all’atto, automonitorizzazione dell’aumento progressivo del ciclo della violenza ecc.). Come esistono specifiche tecniche psicoterapiche (psicoterapia cognitivo comportamentale, terapia interpersonale, psicoterapia relazionale della famiglia ecc.), nel campo del disturbo mentale, così esistono specifiche tecniche trattamentali nel campo del comportamento violento (trattamento della identificazione negativa negli adolescenti, trattamento dei delinquenti sessuali violenti ecc.). Esempio clinico di indirizzo trattamentale Nei confronti di D.A. sulla base di quanto precede sono stati individuati alcuni indirizzi primari per il trattamento. 406 1. intervento farmacologico sul disturbo bipolare II allo scopo di ridurre la depressione, l’irritabilità, l’ipomania e le brusche oscillazioni d’umore; 2. psicoeducazione al farmaco per migliorare l’aderenza al trattamento; 3. insegnamento al paziente di tecniche specifiche per: a)introspezione sul comportamento violento, b) riconoscimento e gestione della rabbia narcisistica, c) miglioramento delle capacità di mentalizzazione (sopportare emozioni spiacevoli senza passare agli agiti). In conclusione l’indirizzo trattamentale mette in luce semplici, chiari e realistici obiettivi da raggiungere, nel caso specifico del paziente, su concrete risorse disponibili: 1) trattamento farmacologico con psicoeducazione al farmaco, 2) apprendimento di tecniche per: a) una maggiore introspezione sul comportamento violento, b) il riconoscimento e la gestione della rabbia narcisistica, c) il miglioramento della capacità di mentalizzare le emozioni senza passare all’agito. Valutazione del rischio del comportamento violento Non esistono, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, esami clinici e strumentali per effettuare obiettive e precise previsioni di un comportamento violento di un soggetto specifico, portatore di una psicopatologia di interesse psichiatrico. Non esiste nemmeno, allo stato attuale, sotto l’aspetto medico legale, la responsabilità penale o civile, dello psichiatra, in modo diretto, automatico, indiscriminato, per tutti i comportamenti violenti, su se stesso o su altri, agiti dal proprio paziente. Lo psichiatra, ha l’obbligo, (morale, deontologico, giuridico), di mettere in atto tutte le misure terapeutiche o di cautela, secondo perizia, prudenza e diligenza che gli competono, atte ad evitare, che il paziente commetta agiti di violenza su se stesso e su altri. Concretamente quindi, nelle interpretazioni più diffuse della legge attuale, in linea generale, quando lo psichiatra “avrà fatto tutto quello che doveva fare” (rispettare la metodologia di una buona pratica clinica) non potrà essere ritenuto colpevole in tribunale, in tema di responsabilità civile o penale, del comportamento violento su se stesso o su altri, messo in atto da un suo paziente (responsabilità dello psichiatra sulla “prestazione dei mezzi” e non sulla “prestazione dei risultati”). La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone Il pregiudizio che il disturbo psichico sia, in ogni caso, la causa unica, diretta ed esclusiva del comportamento violento sulla persona, è errato sotto il profilo scientifico e clinico, e causa di stigma per il paziente. Sotto l’aspetto psichiatrico forense può favorire, in ambito giudiziario, la confusione, lo sconfinamento tendenzioso, od il franco passaggio della responsabilizzazione dello psichiatra dalla “prestazione dei mezzi” (responsabilità di una buona pratica clinica) alla “prestazione dei risultati” (ad esempio responsabilità diretta, automatica, indiscriminata dello psichiatra, per il paziente che si uccide o uccide altre persone). L’agito violento sulle persone (come del resto il suicidio) sono comportamenti multideterminati, che presentano numerosi fattori eziologici e dinamici che possono esulare dall’interesse specifico e dalle competenze medico psichiatriche. Per tali motivi, è giusto che lo psichiatra per primo, come persona fortemente interessata in ambito clinico e forense, non faccia confusioni tra disturbo mentale e comportamento violento, soprattutto utilizzando il più errato e pericoloso dei pregiudizi (“guarisco il disturbo mentale e così, automaticamente, guarisco il comportamento violento”). Tenendo conto di questi dati di realtà è utile, e vantaggioso per lo psichiatra, nei casi che lo richiedono, documentare in cartella clinica, con adeguati e riconosciuti mezzi d’indagine, la valutazione del rischio del comportamento violento come prova concreta della sua buona pratica clinica effettuata sul singolo paziente, proteggendosi al contempo da possibili accuse mosse sia in sede civile che penale. I mezzi di “valutazione del rischio del comportamento violento”, debbono essere applicati ed interpretati con analoghe modalità che presiedono la valutazione del rischio nella disciplina medica in generale, adattandosi alla specificità della disturbo mentale e del comportamento violento. Concretamente le valutazioni approfondite del rischio, con i rispettivi provvedimenti terapeutici, non sono da applicare indistintamente a tutti i pazienti, ma solo a quelli che presentano un’indicazione clinica (è principio di buona pratica clinica e medico legale che ad un paziente non si fanno “tutti” gli esami possibili, ma solo “quelli” che presentano un’indicazione). Inoltre, i risultati della valutazione debbono essere interpretati (possibilmente dopo adeguati corsi di formazione teorica e pratica) con diligenza, prudenza, ma anche perizia clinica (i risultati non sono identificabili, a livello clinico e forense, come un giudizio sulla “pericolosità di uno specifico soggetto”). Infine, essendo possibile scegliere tra vari strumenti per la valutazione del rischio del comportamento violento, (HCR 20, START, 16-17) o per specifici comportamenti violenti (nell’ambito della sessualità, della violenza familiare, della pedofilia, ecc.) è importante ai fini di una buona pratica clinica e di una propria realistica cautela medico legale, che lo strumento scelto dallo psichiatra, sia riconosciuto nel suo valore scientifico e clinico, da una letteratura accreditata, rispecchi un approccio basato su dati sperimentali condivisi di una medicina basata sull’evidenza dei fatti o sia il frutto di una indiscussa, documentata (approvata dalla letteratura) competenza personale nel campo specifico. In termini poi di applicazione realistica lo strumento di valutazione deve presentare caratteristiche di facile applicabilità ed utilizzabilità, tra le quali possiamo sottolineare quanto segue: 1. necessità di un tempo ristretto di applicazione: il tempo richiesto per l’esame deve essere compatibile con le esigenze pratiche dell’assistenza psichiatrica nel pieno rispetto del valore clinico dello strumento; 2. obiettività dei dati: le informazioni raccolte debbono essere semplici e chiare a tutti coloro che applicano lo strumento e a chi lo interpreta; 3. evitare la non collaborazione del paziente: le informazioni raccolte, col loro valore di obiettività, non devono essere condizionate da simulazioni, dissimulazioni o generica non collaborazione del paziente; 4. specificità dell’obiettivo: lo strumento deve fornire una misura, il più possibile specifica, per quanto si desidera misurare (ad es. il rischio del comportamento violento sulle persone, il rischio di suicidio, il rischio di recidive in paziente violento con pedofilia ecc); 5. interpretazione prudente ed integrata con altre informazioni cliniche: l’interpretazione dei risultati non deve essere rigida, automatica ed acriticamente riferita al caso specifico in esame, ma deve fornire indicazioni statistiche generiche per grandi gruppi di pazienti di una eventuale maggiore attenzione di cura e cautela, anche alla luce di altre variabili specifiche, al caso clinico in trattamento. 407 G.C. Nivoli et al. Esempio clinico di valutazione del rischio di comportamento violento È stata somministrata a D.A. la scala di valutazione del rischio di violenza HCR 20. Questo mezzo di valutazione consiste in una lista di venti variabili di rischio relative al comportamento violento. Dieci di queste variabili sono in relazione all’anamnesi passata del soggetto e sono chiamati fattori cronologici: 1) violenza precedente; 2) primo atto di violenza commesso in giovane età; 3) instabilità delle relazioni intime; 4) problemi sul lavoro; 5) problemi legati alla tossicofilia; 6) presenza di malattia mentale grave; 7) presenza di psicopatia; 8) incapacità di adattamento durante la giovane età; 9) disturbi di personalità; 10) precedente fallimento di misure cautelative. Vi sono poi cinque variabili che si riferiscono allo stato presente del soggetto e sono i fattori clinici: 1) difficoltà all’introspezione; 2) atteggiamenti negativi; 3) sintomi attivi di una malattia mentale grave; 4) impulsività; 5) resistenza al trattamento. Altri cinque fattori nella scala HCR20 sono in relazione con il futuro del paziente e sono chiamati i fattori della gestione del rischio: 1) piani di trattamento irrealizzabili; 2) esposizione a fattori che possono provocare scompensi psichici; 3) assenza di sostegno personale e familiare; 4) inosservanza delle prescrizioni medico-psichiatriche; 5) presenza di fattori di stress. Ognuna di queste venti variabili subisce, da parte di chi la somministra, una votazione che varia da zero sino a due in ordine di gravità. Sulla base del punteggio finale il giudizio sul rischio di comportamento violento può essere espresso in debole, medio o elevato. Nel caso specifico di D.A. il rischio è stato considerato di grado debole-medio. In conclusione, la valutazione del paziente con disturbo mentale e comportamento violento attraverso la diagnosi psichiatrica categoriale, dimensionale, dinamica, traslazione, controtraslazione, resistenze, valutazione delle eziologie e dinamiche del comportamento violento, può giustificatamente apparire troppo complessa, ultraspecialistica, soggettiva, fortemente speculativa, richiedente troppo tempo per la formulazione ed essere di poco valore per la sua scarsa obiettività e condivisibilità in un aula giudiziaria in tema di responsabilità professionale. Il rischio di comportamento violento esaminato attraverso una scala di valutazione come quella suggerita presenta vantaggi sul piano clinico di applicazione pratica, di cautela medico legale in tema di responsabilità professionale, e di stimolazione alla formazione della professionalità dello psichiatra. Sul piano clinico, come illustrato nel caso concreto riportato, con la scala HCR 20 (potrebbe essere, ripetiamo, un’altra scala equi408 valente) vi è la presenza di variabili cliniche che hanno le caratteristiche di semplicità, immediatezza, concretezza e condivisibilità da rilevare e valutare. Sotto il profilo della ricerca clinica l’applicazione di questo specifico strumento di valutazione del rischio di comportamento violento (HCR 20) può offrire ulteriori e validi approfondimenti, ad esempio la variabile numero sette nell’anamnesi del soggetto (presenza di psicopatia) può essere ampliata attraverso un’ulteriore valutazione della psicopatia e dei suoi risvolti trattamentali a mezzo della scala PCL-R (Hare Psychopathy Checklist-Revised, 18) che contempla, per definire un soggetto psicopatico, venti variabili (1. facondia o fascino personale, 2. grandioso senso del valore di sé, 3. bisogno di uno stimolo o propensione alla noia, 4. mentire patologico, 5. astuto o manipolativo, 6. mancanza di rimorso o sentimenti di colpa, 7. affettività superficiale, 8. insensibilità o mancanza di empatia, 9. stile di vita con comportamenti parassitari, 10. scarso controllo del comportamento, 11. comportamento sessuale promiscuo, 12. precedenti problemi comportamentali, 13. mancanza di progetti realistici a lungo termine, 14. impulsività, 15. irresponsabilità, 16. incapacità ad assumere la responsabilità per le proprie azioni, 17. molteplici relazioni coniugali di breve durata, 18. presenza di delinquenza giovanile, 19. precedenti revoche della libertà condizionata, 20. versatilità nelle attività criminali). Anche la variabile numero quattro (impulsività), nell’esame clinico del soggetto, può essere ulteriormente approfondita a scopo di ricerca clinica attraverso ulteriori specificazioni, anche in tema di patofisiologia di diagnosi dimensionali: l’impulsività in un soggetto con disturbo dell’umore può presentare, infatti, una eziologia e rispettivamente delle indicazioni terapeutiche non necessariamente sovrapponibili alla impulsività di un soggetto con un disturbo Borderline di personalità, disturbo Antisociale di personalità, disturbo da deficit dell’attenzione nell’adulto, disturbo dell’alimentazione ecc. Gli esempi di approfondimento che precedono mettono in luce l’importanza della capacità del ricercatore clinico nella gestione non solo del HCR20, ma anche di altri strumenti di valutazione del rischio che non “impoveriscono” ma “arricchiscono” di informazioni cliniche utili alla terapia e al trattamento del soggetto in esame. Inoltre il tempo che il clinico deve dedicare alla compilazione è estremamente ridotto e fa parte del minimo di informazioni che uno psi- La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone chiatra con buona pratica clinica deve conoscere su questa tipologia di pazienti. Sotto il profilo giuridico la valutazione di rischio di comportamento violento attraverso una scala con successive decisioni cliniche ad essa associate e giustificate, offre garanzie medico legali. Ad esempio, se in futuro si dovessero verificare atti di violenza compiuti dal paziente, questi potrebbero essere più facilmente relegati nel campo del “non prevedibile” (e non del “prevedibile”) in quanto lo psichiatra (come è documentato) ha messo in atto tutti i mezzi in suo possesso per una buona pratica clinica (che non implica sotto il profilo medico-legale la responsabilità per fatti “imprevedibili”). Inoltre sotto il profilo più generale medico-legale, una pratica obiettiva, condivisa e validata da letteratura adeguata, nel valutare il rischio (a prescindere da velleità di sicure, indiscutibili, rigide linee guida di specifiche scuole di pensiero) pone chi amministra la legge, e deve giudicare in concreto gli psichiatri, in una situazione più agevolata per conoscere una buona pratica clinica senza rischiose e sperequative interpretazioni personalistiche di tutte le persone che concorrono a formulare una imputazione ed una condanna (ricerca di una definizione di una buona pratica clinica psichiatrica da parte degli stessi psichiatri e non solo od esclusivamente da parte di amministratori della giustizia, studiosi del diritto, rappresentati degli ordini degli avvocati, periti e consulenti senza adeguata preparazione scientifica e pratica clinica in tema di disturbo mentale e di comportamento violento ecc.). Infine la compilazione di una scala di valutazione del rischio permette attraverso continue critiche ad aggiornamenti, una miglior formazione professionale ed una creativa integrazione con le varie modalità di diagnosi del disturbo mentale e valutazioni del comportamento violento precedentemente illustrate. Conclusioni L’offerta di una ipotesi metodologica di valutazione integrata del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulla persona può sollevare legittime critiche di semplicità, e di scarso approfondimento clinico da parte di psichiatri forensi specialisti, per formazione teorica e pratica quotidiana, nel trattamento di specifici pazienti (come ad esempio, pedofili violenti, aggressori sessuali, disturbi di personalità borderline violenti, psico- patici aggressivi ecc.) che sono trattati con sofisticate tecniche di intervento. Il trattamento di questi pazienti può inoltre richiedere una particolare accortezza medico-legale nella documentazione delle decisioni trattamentali, per la possibilità di richieste giuridiche in tema di responsabilità professionale civile e penale, dello psichiatra soprattutto quando opera in ambito penitenziario. D’altro canto, la stessa ipotesi di valutazione che precede può sollevare critiche, come sottolineato precedentemente, di complessità applicativa, di eccessiva richiesta di tempo per essere praticata, di necessità di una formazione estremamente specifica e approfondita (non solo nella psichiatria clinica, ma anche nel riconoscimento della eziologia e nella dinamica del comportamento violento) in psichiatri che si trovano ad operare con “poco tempo” a disposizione e “tanti pazienti” da dover accudire in un contesto di “trincea” e “continua emergenza ed urgenza” sul territorio con “strutture spesso inadeguate ed insufficienti” in quanto ad ambienti, a mezzi economici e personale disponibile. Tuttavia tali critiche non tengono conto di due fatti fondamentali. Il primo è che il tempo necessario all’applicazione pratica della intera metodologia suggerita, per uno psichiatra mediamente esperto, non supera il tempo richiesto di un normale colloquio clinico. Il secondo fatto è che la valutazione del rischio, attraverso l’ausilio di una griglia d’indagine non richiede più tempo di una “normale misurazione della pressione arteriosa”, ma permette anche di documentare una buona pratica clinica. Questa documentazione in cartella clinica è un elemento utilizzabile per rispondere alla prima domanda che in genere un magistrato si pone prima di imputare o condannare uno psichiatra in tema di responsabilità professionale: “Ha fatto quello che doveva fare? E cioè ha applicato una buona pratica clinica nel caso specifico?”. Attraverso l’adozione della valutazione del rischio è così facilitata la risposta del magistrato utile al riconoscimento della buona professionalità dello psichiatra: “ Si, ha fatto quello che doveva fare e cioè ha applicato e soprattutto ha documentato per iscritto in cartella una buona pratica clinica”. Per l’esperto e sensibile ricercatore clinico, poi, può essere motivo di critica l’apparente semplicistica adozione di poche modalità tecniche per la valutazione del rischio non rispettose della multivarietà di presentazione e della multifattorialità di origine del comportamento violento. 409 G.C. Nivoli et al. Infine, nel continuo divenire delle acquisizioni scientifiche e della mutevole sensibilità sociale, termini come “disturbo mentale”, “comportamento violento”, “valutazione del rischio” ecc., possono sollevare non poche perplessità per una accurata ed obiettiva definizione. Il caso clinico presentato, nella sua apparente semplicità e rigidità interpretativa (deliberatamente scelto per poter rappresentare la realtà clinica quotidiana) in realtà può sollevare non pochi dubbi in tema di diagnosi, terapia, relazione tra agiti auto ed eteroaggressivi, psicopatologia della “mentalizzazione” (capacità di gestire le emozioni senza passaggio all’atto) in rapporto al comportamento violento ecc. La descrizione clinica presentata non ha avuto lo scopo di privare il clinico di spaziare con la sua esperienza nel “mondo del possibile” (ad esempio è possibile che ogni depresso possa compiere un suicidio, il disturbo bipolare II presenta una tendenza al suicidio superiore ad altre categorie psichiatriche, le persone che uccidono presentano una tendenza al suicidio superiore alle persone che non uccidono, ecc.) ma solo di segnalare l’utilità (ai fini degli interventi concreti, fattibili e della documentazione medico-legale) di situarsi in questo tipo di valutazione anche nel “mondo del probabile” (nel caso specifico, ad esempio al momento dell’esame, il paziente non manifestava verbalizzati o comportamenti in tema di progetti anticonservativi e suicidiari). È da sottolineare che scrivere in una cartella clinica (basandosi sull’esclusivo “mondo del possibile” senza specificare il “mondo del probabile” nel caso clinico specifico) che il paziente presenta “tendenze suicidiarie” e poi non adottare le “opportune cautele terapeutiche” (anche documentate per iscritto), non solo è indice di una cattiva pratica clinica ma può equivalere sotto il profilo medico-legale a scrivere contemporaneamente la propria imputazione ed il motivo alla propria condanna sia in ambito penale che civile. Per evitare, non solo a livello formale, ma anche sostanziale, termini che sollevano legittime critiche in tema di etichettamento e stigma, come “pericolosità sociale”, “diagnosi criminogenetica”, “diagnosi criminodinamica”, “psichiatria difensiva” ecc., sono stati utilizzati nel presente scritto concetti differenti, sia a livello formale che sostanziale, attualmente meno criticabili, come “gestione del rischio”, “valutazione dell’eziologia e della 410 dinamica del comportamento violento”, “psichiatria creativa” con buona pratica clinica, e realistica cautela medico-legale. Non è possibile escludere che anche questi termini possano subire ulteriori cambiamenti concettuali, formali e sostanziali con il passare del tempo. È inoltre da sottolineare che la valutazione clinica proposta può essere almeno nelle sue linee essenziali la prima parte di una valutazione forense, ai fini della perizia psichiatrica, che deve essere però completata con una seconda parte alla luce di “specifici principi giuridici”. L’ipotesi metodologica offerta per la valutazione del paziente con disturbo psichico e con comportamento violento sulla persona che è stata presentata ha valore indicativo in alcuni concetti clinici offerti alla discussione e quindi passibili di profonde modifiche: 1. la doppia valutazione clinica: quella legata al disturbo mentale e quella legata al comportamento violento: nel trattamento del paziente con disturbo mentale con comportamento violento, è da evitare l’errore clinico di “psichiatrizzare” in modo globale, vago e pregiudiziale il comportamento violento, soprattutto ignorando tutta la letteratura e la clinica che concerne l’eziologia e la dinamica della valutazione e trattamento del comportamento violento. Deve anche essere evitato l’errore di “criminalizzare” in modo inadeguato il paziente psichiatrico misconoscendo il ruolo, nell’ambito del comportamento violento, della diagnosi e terapia del disturbo mentale; 2. la diagnosi psichiatrica descrittiva integrata ad una diagnosi psichiatrica dinamica: non è solo necessaria una diagnosi psichiatrica categoriale, ed una diagnosi psichiatrica dimensionale, descrittive della patologia di interesse psichiatrico, ma anche della loro integrazione con una diagnosi psichiatrica dinamica, per mettere in luce il funzionamento psichico globale dell’individuo, allo scopo di formulare una corretta valutazione o impostare un adeguato trattamento implicando la totalità del soggetto (sia la sua “parte psichica malata” che la sua “parte psichica sana”); 3. utilizzazione diagnostica e terapeutica della traslazione, delle resistenze del paziente e della controtraslazione del terapeuta: l’equilibrio psichico e il riconoscimento delle emozioni proprie e delle emozioni del paziente, sono (anche se è un tema non indenne da pregiudizi La valutazione clinica del paziente con disturbo mentale e comportamento violento sulle persone e da sofisticate definizioni e precisazioni concettuali), una delle doti più importanti per uno psichiatra, per poter essere un buon strumento che pratica una buona pratica clinica, ed evita grossolani errori iatrogeni nella valutazione e nel trattamento. Il riconoscimento, la condivisione e l’utilizzo della traslazione, controtraslazione e resistenza può positivamente integrarsi con il lavoro di equipe con altri operatori della salute mentale (come si verifica attualmente a livello internazionale nei centri specialistici per pazienti psichiatrici “difficili” o “violenti”); 4. indirizzi trattamentali realistici ed individualizzati: abbandonando atteggiamenti nichilistici (“non si può fare nulla”), onnipotenti (“si può fare tutto”), perfezionisti callidamente dilatori (“si dovrebbe fare”), sofisticatamente ed utilitaristicamente evitanti di compiti gravosi e difficili (“non si deve fare”), l’indicazione trattamentale può essere individualizzata nel singolo soggetto in relazione alle sue specifiche esigenze in uno specifico contesto di eventuali misure giudiziarie e di risorse disponibili (“si può sempre fare qualcosa di utile per ogni paziente per ridurre la sofferenza del suo disturbo psichico e il suo passaggio all’atto di violenza sulle persone”). Individualizzare un trattamento può integrarsi positivamente con l’adozione di specifiche tecniche di intervento sia nell’ambito della terapia della psicopatologia di interesse psichiatrico, che di specifiche tecniche di intervento in tema di trattamento del comportamento violento; 5. buona pratica clinica e realistica cautela medico legale in uno spazio temporale adeguato: la valutazione del paziente con disturbo mentale e comportamento violento attraverso l’aiuto di uno schema metodologico di indagine nel colloquio psichiatrico può non solo permettere e facilitare una buona pratica clinica ma la rende anche, realisticamente, un documento medicolegale a protezione della professionalità e della diligenza, prudenza ed esperienza dello psichiatra. Questa metodologia, in concreto, non richiede più tempo di interventi non strutturati, vaghi, dispersivi e inadeguati e non penalizza la creatività individuale dello psichiatra. Quest’ultimo può infatti applicare al singolo caso clinico una sua “psichiatria creativa” (cioè una buona pratica clinica al servizio delle esigenze del paziente e del singolo psichiatra pur attenta a confrontarsi sotto il profilo forense) attraver- so varie tecniche di “arricchimento dei dati”, (richiesta di specifici esami medici, esami con specifici reattivi mentali, psicodiagnostici, scale di valutazione, reattivi mentali, ecc.). Anche l’approfondimento diagnostico (attraverso le varie diagnosi categoriali, dimensionali, dinamiche, con l’ausilio della traslazione, controtraslazione e resistenze) può essere considerato una metodologia d’approccio che arricchisce le conoscenze sul paziente per meglio gestire la sua terapia e trattamento. L’uso del potere di “arricchimento della diagnosi”, soprattutto se mirato alla individuazione e all’approfondimento delle informazioni cliniche sul paziente, permette una miglior ampiezza e personalizzazione delle misure terapeutiche e trattamentali. Questa ulteriore tecnica di arricchimento dei dati può evitare il “potere impoverente della diagnosi” inteso, nell’ambito di una non corretta pratica clinica, come un approccio che riduce l’individualità delle sofferenze del singolo paziente ad una entità astratta impersonale di malattia facilitando meccanismi di difesa dal disturbo psichico attraverso l’intellettualizzazione, la razionalizzazione, la sublimazione ecc. e stimolando processi di etichettamento e emarginazione sociale e disimplicazione emotiva e umana degli operatori di salute mentale. In conclusione, l’ipotesi metodologica offerta per la valutazione del paziente con disturbo mentale e con comportamento violento sulla persona può offrire spunti di riflessione non solo teorica, ma concreti sul piano clinico operativo e di cautele medico-legali, ma anche e soprattutto stimolare una sempre maggior formazione professionale dello psichiatra, quale strumento indispensabile per una buona valutazione e trattamento del paziente. Bibliografia Pancheri P. Approccio dimensionale e approccio categoriale alla diagnosi in psichiatria. Giornale Italiano di Psichiatria 1995;1:8-23. 1 Cassano GB, a cura di. Psicopatologia e clinica psichiatrica. Milano: UTET 2006. 2 Gabbard GO. Psichiatria psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina Editore 2007. 3 PDM Task Force, a cura di. Manuale Diagnostico Psicodinamico. Milano: Raffaello Cortina Editore 2008. 4 411 G.C. Nivoli et al. Bandini T, Gatti U, Marugo MI, Verde A. Criminologia. Milano: Giuffrè Editore 1991. 5 Ponti G. 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