ESPERIMENTI DI NUOVA DEMOCRAZIA

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Charles F. Sabel
ESPERIMENTI
DI NUOVA DEMOCRAZIA
Tra globalizzazione e localizzazione
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione
Esperimenti di (nuova) democrazia: come salvare l’esperienza
democratica nell’epoca della sua crisi
RICCARDO PRANDINI
Prefazione all’edizione italiana
CHARLES F. SABEL
7
43
Oltre la governance dei principali-agenti: organizzazioni
sperimentali, apprendimento e responsabilità
CHARLES F. SABEL
47
Globalizzazione, nuovi servizi pubblici, democrazia locale:
quale connessione?
CHARLES F. SABEL
79
Sovranità e solidarietà: l’Unione europea e gli Stati Uniti
JOSHUA COHEN – CHARLES F. SABEL
97
Costituzionalizzare un consenso per intersezione: la Corte Europea
di Giustizia e l’emergere di un ordine costituzionale coordinato
135
CHARLES F. SABEL – OLIVER GERSTENBERG
Governance sperimentalista
CHARLES F. SABEL – JONATHAN ZEITLIN
197
Democrazia globale?
JOSHUA COHEN – CHARLES F. SABEL
225
Bibliografia di riferimento
261
Introduzione
Esperimenti di (nuova) democrazia: come salvare
l’esperienza democratica nell’epoca della sua crisi
RICCARDO PRANDINI
1. Il significato di questa introduzione al pubblico italiano
L’appassionata riflessione teorica di Charles F. Sabel, sempre svolta
insieme a importanti e valenti colleghi (tra cui ricordiamo M.C. Dorf,
W.H. Simon, J. Cohen, J. Zeitlin e O. Gerstenberg) è frutto della sua duplice competenza di Professore di Diritto e di Scienze sociali1. Alla sensibilità giuridica si deve l’interesse per la questione che potremmo definire normativo-costituzionale: come progettare, prima, e implementare,
poi, forme di regolazione adattabili ad un ambiente sociale cangiante,
radicando i valori della democrazia senza irrigidimenti e deleghe di potere a tecnocrazie o oligarchie. Alla sensibilità sociale si deve, invece,
l’interesse per le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato il
passaggio dalla società industriale a quella post-industriale: trasformazioni che hanno riqualificato il modo di produzione economico e quindi, di conseguenza, quello di social policy. Non è certo un caso che lo
studio più famoso di Sabel, almeno per il pubblico italiano, rimanga il
fondamentale The Second Industrial Divide. Possibilities for Prosperity scritto, insieme a Michael J. Piore agli inizi degli anni Ottanta, per
1 C.F. Sabel è stato dal 1987 al 1990 Professore di Scienze Sociali e Politiche nel
Dipartimento di Scienza Politica e nel Programma di Scienza presso il Technology, &
Society, M.I.T; dal 1990 al luglio del 1995 ha ricoperto l’incarico di Ford International
Professor di Scienza sociale presso il Dipartimento di Scienza Sociale al M.I.T. Dal
1995 è Professore di Diritto e Scienza Sociale presso la Columbia Law School.
7
spiegare la grande rivoluzione toyotista2. Sabel ha sempre mantenuto
questa doppia cittadinanza intellettuale e l’ha trasformata in una piattaforma girevole capace di fare interagire i due campi di ricerca, fino a
condensarli in una problematica comune ben più ampia. A mio avviso,
infatti, il problema che da sempre affascina Sabel, è quello di come
affrontare, sia nel campo della produzione di beni e servizi sia in quello
del policy making, la governance di una società sempre più complessa, caratterizzata da strutture e processi sempre più contingenti. E, al
centro di questo cambiamento, sta proprio la questione della crisi della
democrazia3. La società globale potrà conservare l’ideale moderno democratico come guida politica? O dovrà entrare nell’epoca della postdemocrazia, come ormai molti indicano? L’argomentazione di Sabel è
figlia della tradizione pragmatista americana che identifica nel pensiero
e nell’azione modalità di problem solving4. Tipico di questa tradizione
è la reciproca determinazione di scopi e mezzi, nel senso che la teoria
deve guidare l’azione e questa a sua volta correggere la teoria (e così
via, alla ricerca delle soluzioni migliori). Per il pragmatismo stabilire
principi primi o regole definitive è tanto inutile quanto sbagliato. Sono
invece i dubbi la sostanza della ricerca ma non, si badi bene, uno sterile
scetticismo. L’ideale pragmatista è quello di una serie di abitudini (habits) utili che vengono messe alla prova/sperimentate costantemente,
mediante l’azione e la riflessione, per costruire nuovi “abiti” più adatti
al contesto (che, a loro volta, verranno cambiati nel futuro). La ricerca
pragmatica è sempre collettiva e mai individualistica perché le abitudini
sono tali soltanto se praticate socialmente, riconosciute e criticate da
altri. La democrazia è il metodo per riflettere insieme sulla relazione tra
mezzi e fini comuni. Per Dewey, che è sempre al centro della riflessione
di Sabel, la democrazia è sia una via per identificare e correggere, mediante un dibattito pubblico e trasparente, le conseguenze inattese delle
azioni coordinate dei cittadini, sia un modo per riconoscere il valore del
giudizio personale: solo “chi porta le proprie scarpe può sapere se sono
2 M.J.
Piore, C.F. Sabel, The Second Industrial Devide. Possibilities for prosperity,
New York, Basic Books, 1984, trad. it. Le due vie dello sviluppo industriale. Produzione
di massa e produzione flessibile, Torino, Isedi, 1987.
3 Sarebbe assolutamente ridicolo affrontare il tema della crisi della democrazia e
indicare una bibliografia. Per la leggibilità e la chiarezza indico solo: C. Galli, Il disagio
della democrazia, Torino, Einaudi, 2011.
4 In particolare il riferimento va all’opera filosofica, ma anche al riformismo politico di John Dewey.
8
comode”, non una amministrazione pubblica o un attore di mercato.
Perciò le politiche devono essere sperimentali: debbono permettere ai
soggetti di giudicare le loro azioni e di riconsiderarle in modo flessibile,
per adeguarle alla situazione cangiante.
Questa introduzione non pretende di presentare il pensiero e l’opera
di Charles Sabel e neppure di seguirne lo sviluppo in tutta la sua complessità5. Suo compito è invece quello di introdurre il lettore italiano al
problema dell’opera “politologico-giuridica“ di Charles Sabel – il rinnovamento degli ideali democratici in un contesto di profonda crisi della democrazia rappresentativa, basata sul modello Principale-Agente.
La scelta dei saggi tradotti segue uno schema molto semplice. Attraverso i primi due saggi, si comincia ad affrontare la crisi del modello di governo Principale-Agente che, fin dal primo dopoguerra, è stato proposto
come la soluzione ottimale ai problemi della democrazia rappresentativa. Questa crisi si manifesta “anche” come crisi del welfare state. Le
soluzioni classiche a questa crisi – introdurre metodologie economiche
da un lato (il New Public Management o il Minimalism di cui diremo)
o ri-statalizzare il welfare dall’altro mostrano sempre più i loro limiti.
È proprio per dare una nuova soluzione al problema del governo di una
società “destandardizzata” che emergono le cosiddette organizzazioni
sperimentali. Queste sono al cuore di una più ampia pletora di dispositivi di governance finalizzati a ri-democratizzare i processi e le strutture
della società. Sono organizzazioni che operano al di fuori del modello
di governo principale-agente, per adattarsi alle situazioni cangianti e
per provare a dare soluzioni, allo stesso tempo efficaci e democratiche,
ai problemi quotidiani delle persone6. Il modello della governance spe5
Lo stile che ho scelto dà preminenza alla presentazione delle tesi di Sabel, mentre
non intende contestualizzarle entro la discussione scientifica, né compararle con altre
proposte teoriche. In buona sostanza ho scelto di privilegiare quella che un tempo era
considerata una onesta presentazione del pensiero di un Autore.
6 Il tema delle little politics of daily life e della constitutionalization of everiday life, in tutta la sua prosa e quotidianità, è al centro della riflessione di Sabel, qui
buon erede daella grande tradizione pragmatista statunitense. Questa si scontra con la
pretesa che the man of the street debba interessarsi alla vita sociale, soltanto in particolari constitutional moments. Da qui la polemica con il filosofo e giurista Bruce
Ackerman. Per la tradizione dei pragmatisti statunitensi in relazione alla democrazia
e alla filosofia del quotidiano si vedano: S. Cavell, In Quest of the Ordinary: Lines
of Skepticism and Romanticism, Chicago, Chicago University Press, 1988; The Claim
of Reason: Wittgenstein, Skepticism, Morality, and Tragedy, Oxford, Clarendon Press,
1979; Oxford, Oxford University Press, 1982. Per la riscoperta dell’ordinario si
9
rimentalista viene poi generalizzato, nel terzo e quarto saggio, al livello
europeo. Sabel, insieme ad alcuni suoi colleghi (Zeitlin e Gerstenberg
in primis), ritiene che la governance della Unione europea, rappresenti
una modalità di sperimentazione democratica. In questi due saggi la
“vecchia Europa” viene presentata con gli occhi della giovane democrazia statunitense e, miracolosamente, si trasforma in una sorta di Cenerentola. Al centro della governance europea sta il problema della sua
costituzionalizzazione, cioè della ricerca di una forma giuridico-politica che gli imprima una identità pienamente democratica. Gli ultimi due
saggi generalizzano ancora il modello sperimentalista, proiettandolo a
livello globale. È a quel livello che Sabel mostra tutta la potenza teorica dello sperimentalismo democratico nel governare una democrazia
globale senza unità politica7. Il volume quindi vuole accompagnare il
lettore a riflettere sul problema della democrazia e dei modelli di governance che possono implementarla a diversi livelli di complessità – dal
locale al nazionale – fino all’europeo e al globale.
In questa mia introduzione cercherò di definire in modo chiaro il
“problema” di Sabel, quello della crisi della democrazia basata sul modello Principale-Agente e di mostrarne il pendant nei modi di produzione di massa di beni e servizi. La democrazia “in crisi” è dunque in specifico quella rappresentativa, statale e nazionale che si istituzionalizza
nella seconda metà del Novecento. In seconda battuta vorrei riflettere
sulle innovazioni che lo sperimentalismo democratico introduce nella
progettazione, erogazione e valutazione dei nuovi servizi di welfare.
Ritengo che sia una argomentazione molto importante per il pubblico italiano, soprattutto in questo momento di estrema crisi del welfare
state. In terza istanza proverò a mostrare cosa significa applicare lo
sperimentalismo democratico alle istituzioni dell’Unione europea generando così quella “strana” polity che Sabel chiama “poliarchia direttamente deliberativa” (PDD). La rilevanza del problema democratico
veda anche: C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, trad. it.,
Milano, Feltrinelli, 1993 [The Sources of the Self. The Making of the Modern Identity,
Cambridge, Harvard University Press, 1989].
7 Anche il tema delle costituzioni civili e globali ha ormai a disposiziione una bibliografia estesissima. Mi permetto di rimandare a: R. Prandini, G. Teubner (a cura
di), Le costituzioni civili. Politica e diritto oltre lo Stato, Milano, Franco Angeli,
2011; P. Dobner, M. Loughlin (eds.), The Twilight of Constitutionalism?, Oxford,
Oxford University Press, 2010; G. Teubner, Verfassungsfragmente: Gesellschaftlicher
Konstitutionalismus in der Globalisierung, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2012.
10
nella Ue è evidente, visto che l’Unione non è mai stata tanto in crisi
come oggi, fino addirittura a ipotizzarne la fine, o la frammentazione,
a breve termine. Mi soffermerò, infine e più brevemente, sul problema
della democrazia globale che è ormai al centro delle preoccupazioni
della parte più rilevante della politologia (a sua volta “mondiale”). Difatti, se nel Ventunesimo secolo avremo ancora democrazia, allora questa dovrà adattarsi alla globalizzazione e alle altre innumerevoli sfide
che la stanno sfiancando.
Si tratterà di una democrazia sperimentale, nel quadruplice senso
del termine. Sperimentale perché: 1) mette in discussione le vecchie
teorie e pratiche di democrazia rappresentativa, sperimentandone sul
campo delle nuove; 2) ogni sua applicazione pratica riveste la funzione di esperimento e test per valutare e corroborare il modello generale
(che così si arricchisce di nuovi exempla); 3) rappresenta una continua
ricerca di nuove soluzioni ai problemi sociali; 4) implica l’ex-perire, il
fare esperienza, di un modo sempre diverso di condividere con altri il
governo di se stessi e della società.
2. Just in time! Come ri-pensare e ri-praticare la democrazia
nell’epoca della sua crisi
I temi e le argomentazioni che presenteremo sono stati preceduti da
almeno 15 anni di ricerche teoriche ed empiriche che hanno incubato
il modello delle organizzazioni sperimentali e della loro governance8.
Cercherò di sintetizzare questa enorme massa di riflessioni partendo
dal fondamentale articolo scritto da Charles Sabel con Michael C. Dorf
nel 19989. In quel lunghissimo articolo (quasi un libro), Sabel affronta
il problema della crisi della democrazia, derubricandola come crisi di
quell’ordine costituzionale americano. Questa crisi può essere sintetizzata come incapacità di governare la complessità sociale attraverso leg8 Per poter seguire lo sviluppo dell’opera di Sabel, rimandiamo al suo sito istituzionale, ricco di materiali e informazioni, compreso il Curriculm Vitae e l’elenco aggiornato delle pubblicazioni: http://www2.law.columbia.edu/sabel/index.html.
9 A Constitution of Democratic Experimentalism, in: «Columbia Law Review»,
1998. Non è mio scopo presentare qui la complessità di quel lunghissimo saggio che ha
una parte molto estesa dedicata alla organizzazione politica degli Stati Uniti d’America.
Cercherò solo di dare il succo dei suoi argomenti.
11
gi federali (del Congresso); norme amministrative rigide; e giudizi della Corte Suprema (sempre più opinabili). Ognuno di questi meccanismi
è sia troppo astratto, rispetto al concreto contesto sociale, sia troppo
generale, rispetto ai programmi che debbono poi rispecificare i valori
della Costituzione generati da due tradizioni socio-politiche contrastanti. La prima, ispirata dalla Polis greca, intende la democrazia come la
capacità dei cittadini, liberi ed eguali, di deliberare, cioè di dare e ricevere “buone ragioni”. La seconda prende invece spunto dalla Roma
Repubblicana, ed esalta la negoziazione tra interessi individuali, entro
un mercato politico attento ai bisogni quotidiani. I valori in campo sono
dunque: (a) la scelta democratica (b) che va implementata negli “affari”
quotidiani. La prima sintesi di questi valori fu quella “madisoniana”,
con uno Stato centrale forte capace di decidere unitariamente in modo
immune dagli interessi particolari degli Stati federati e con una Corte
Suprema capace di garantire che le decisioni non fossero né di parte né
irrispettose dei diritti individuali. La seconda sintesi, quella che porta
fino alla fine del XX secolo, nasce con il New Deal, quando la grande
industria di massa rende impossibile l’auto-governo delle società locali.
Questo secondo tentativo derivava dalla presa d’atto che il Congresso
non riusciva più a risolvere problemi sempre più complessi e che occorreva delegare il governo dell’economia ad agenzie amministrative capaci di produrre una regolazione, certa e duratura, dei possibili conflitti.
Era la formula di governo Command and Control – su cui si declinava
il modello di governo Principale-Agente – con cui si intendevano allontanare i problemi quotidiani dall’attenzione del Congresso per spostarli
su Amministrazioni meno avvezze a farsi corrompere e più concentrate
sul far rispettare le regole. Fino agli anni Settanta questa sintesi funzionò, poi però cominciò a entrare i crisi. La complessità e la volatilità
sociale non tolleravano più norme rigide e durevoli. Anzi, ormai il legislatore, doveva “temporalizzare” le norme stesse, prevedendone la contingenza. Di conseguenza il Congresso ricominciò a legiferare in modo
“particolaristico”, cercando di limitare il particolarismo dello “Stato
amministrativo”, creando Agenzie centrali che dovevano controllare
quelle locali. Il risultato emergente fu quello di un sistema che ormai
“scambiava“ tutto con tutti e la cui equità e giustizia era stata persa.
È a questo punto che si aprirono nuove prospettive. Ormai era chiaro
il problema: connettere decisioni generali (il rule-making), con la loro
applicazione (enactment) a casi concreti evitando però, da un lato, le
12
tendenze all’accentramento di potere nel governo (tirannia della maggioranza), e dall’altro, alla parcellizzazione dei poteri nelle “piccole
repubbliche” degli Stati federati (tirannia degli interessi particolari).
La proposta di Sabel e di Dorf riprende le innovazioni organizzative
emerse negli anni Ottanta in alcune aziende giapponesi, per prima la
Toyota, che hanno rivoluzionato la produzione di massa adeguandola
ai bisogni sempre più cangianti del mercato. Secondo gli studiosi esisteva un isomorfismo tra le logiche organizzative della produzione di
massa e quelle dello Stato amministrativo del New Deal, creato proprio
per limitare i poteri delle grandi Corporations. La produzione di massa
era realizzata da aziende fortemente (a) centralizzate (gran parte della
filiera produttiva era proprietà dell’azienda), (b) gerarchiche, e (c) integrate verticalmente. I cardini della produzione erano: 1) l’efficienza,
concepita come divisione del lavoro; 2) la progettazione del prodotto
attribuita ai vertici del management; 3) la sua realizzazione delegata
a sub-unità specializzate che dovevano solo implementare il progetto;
4) una governance del processo produttivo fortemente integrata in termini verticistici, per abbattere i rischi di opportunismo delle sub-unità
o dei terzisti; 5) un tipo di cognizione intesa come limitata e quindi da
sostenere mediante abitudini acquisite (habits) e una suddivisione dei
compiti in liste di micro-compiti. Lo Stato amministrativo esprimeva
logiche e i valori isomorfi a quelli del mercato: un centro che progettava i prodotti per la società (in questo caso: leggi, atti amministrativi,
regolamenti, servizi sociali, ecc.); delle sotto-unità gerarchicamente
obbligate a implementare quei progetti (la Pubblica Amministrazione)
e; una pletora di burocrati di livello alto, medio e di base (gli street level
burocrats), che dovevano operare mediante routine di lavoro standard
per non lasciare spazio alle possibilità di arbitrio. Il sistema delle Corti
serviva a risolvere le miriadi di conflitti che sorgevano lungo la filiera
che partiva dalla creazione di un atto giuridico generale, per giungere
alla sua applicazione. Fino agli anni Settanta il modello funzionò, poi
con l’inizio della globalizzazione entrò in profonda crisi.
A livello aziendale la risposta alla crisi esplose con la novità del
modo di produzione giapponese che poi si estese negli USA e in Europa. Le nuove aziende si organizzarono in (1) reti cooperative e non
gerarchiche; (2) aperte e non integrate verticalmente; (3) centrate sulla logica della ricerca invece che sugli habits. Per capire cosa e come
produrre, le aziende cominciarono ad analizzare quali prodotti e quali
13
metodologie di lavoro utilizzavano altre aziende vincenti10. Mediante
questo lavoro di benchmarking, l’azienda fissava una idea di base del
prodotto, mentre lasciava piena libertà alle sotto-unità di riflettere e di
modificare il progetto. Si tratta di un processo di simultaneous engeneering, dove ogni parte di una organizzazione deve riflettere sulle conseguenze del suo operare su quello delle altre (esattamente l’opposto
della routine11). Il bene viene testato mentre è in lavorazione e la catena
di montaggio viene interrotta al primo guasto, al primo errore e alla
prima deviazione. Comincia poi una fase di inchiesta (i famosi cinque
why) volta a scoprire dove sia l’errore e quali siano le sue cause profonde (error-detection methods). Nel contempo viene approntato un complesso sistema di valutazione, comparazione, revisione delle utilità, del
calcolo dei benefici, ecc. Queste revisioni portano alla ri-progettazione
del bene. Tutto ciò genera collaborazione, lavoro di gruppo, scoperta
di possibilità nascoste, crescita professionale: nasce un nuovo livello
di condivisione di saperi e pratiche, capace di modificare anche il criterio di efficienza, non più definito dalla divisione del lavoro, quanto
piuttosto dalla capacità di collaborare in modo fiducioso12. Anche il
problema dell’opportunismo è superato mediante una utilità che deriva
dalla collaborazione13. L’insieme del processo produce apprendimento
attraverso monitoraggio (learning by monitoring) e qualifica le nuove
organizzazioni come pragmatiche e sperimentali14.
10 Sul tema dei search networks, si vedano anche di Sabel: C.F. Sabel, A. Saxenian,
The New Argonauts and the Rise of Venture Capital in the “Periphery”, in Handbook
of Research on Innovation and Entrerpeneurship, London, Edward Elgar Publishing,
2011; C.F. Sabel, Y. Kuznetsov, International Migration of Talent, Diaspora Networks,
and Development: Overview of Main Issues, in Y. Kuznetsov (ed.), Diaspora Networks
and the International Migration of Skills, Washington DC, World Bank Institute, 2006.
11 Sul tema delle routines e della cooperazione riflessiva, si veda: C.F. Sabel, A Real
Time Revolution in Routines, in C. Heckscher, P. Adler (eds.), The Firm as Collaborative
Community, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 106-156.
12 Sulle nuove forme di disintegrazione verticale nel mondo economico si veda:
C.F. Sabel, R-J. Gilson, R. Scott, Contracting for Innovation. Vertical Disintegration
and Interfirm Collaboration, in «Columbia Law Review», vol. 109, n. 3, 2009.
13 C.F. Sabel, P. Sheridan Dodds, D. Watts, Information Exchange and the
Robustness of Organizational Networks, in Proceedings of the National Academy of
Sciences, 2003; C.F. Sabel, S. Helper, J.P. MacDuffie, Pragmatic Collaborations.
Advancing Knowledge while Controlling Opportunism, in «Industrial and Corporate
Change», vol. 9, n. 3, Oxford University Press, 2000, pp. 443-488.
14 C.F. Sabel, Pragmatic Collaborations in Practice, in «Industry & Innovation»,
vol. 11, n. 1/2, 2004.
14
Questa metodologia di lavoro, appunto sperimentalista in quanto
mette alla prova ogni sua fase e la rivede alla luce di osservatori esperti, viene adattata al settore pubblico e alla organizzazione dello Stato
con evidenti effetti democratizzanti: creare una logica di soluzione dei
problemi che parta dalle unità di livello locale, mantenendo però l’idea
di rendicontabilità al pubblico. In buona sostanza un “buon governo”
deve essere “locale”, ma condiviso e rendicontato a tutti. Al Congresso,
perciò, è riconosciuto il potere di autorizzare e finanziare le molteplici
riforme che dovranno attuarsi negli Stati e a livello locale. Alle Amministrazioni pubbliche è attribuito il compito di fornire, agli attori prescelti, tutte le risorse necessarie per la realizzazione delle riforme e di
proteggere i cittadini da possibili abusi di potere. Ai diversi attori pubblici, privati e di terzo settore – o a partnership tra di essi – è attribuita
la piena libertà di raggiungere gli obiettivi come meglio credono. Si
noti, en passant, che in questo modello gli erogatori di servizi, non sono
soltanto degli esecutori di un piano, bensì rappresentano il trait d’union
tra chi programma e chi riceve il servizio. Loro compito è quello di far
dialogare amministrazioni e cittadini, dando informazioni e supporto
agli uni e agli altri per migliorare il servizio stesso. Hanno anche il
compito di educare i cittadini a valutare meglio i servizi e a far sentire la
loro voce nei confronti delle amministrazioni. Questa libertà di azione
attribuita alle unità locali, è compensata dal dovere di rendere pubblici i
modi, le ragioni di agire e le modalità di valutare i risultati (raggiunti o
meno). La rendicontabilità è periodica e obbligatoria e viene realizzata
davanti a un gruppo di pari che può intervenire, criticare e suggerire
nuove soluzioni. Il ruolo delle Corti, infine, è quello di assicurare che
gli esperimenti statali, locali e di altri attori, avvengano entro le regole
stabilite e nel rispetto dei diritti dei cittadini. Le Corti devono attivarsi
laddove i cittadini citano in causa uno degli attori per aver abusato del
suo potere. Il controllo di legittimità diventa il modo in cui gli erogatori di servizi rendono ragione ai cittadini delle loro scelte. Il Giudice
non è più considerato un osservatore e valutatore passivo, bensì un risolutore di problemi attivo che opera in collaborazione con avvocati,
giuristi e con la rete dei servizi sul territorio. In tal senso lo sperimentalismo democratico ha come scopo il cambiamento delle «ragioni e
delle prove prodotte in un dibattito pubblico e con esse il mutamento
delle condizioni per la partecipazione alla vita civica, in modo tale che
la nostra democrazia politica sia resa sia più efficace come strumento di
15
soluzione pubblica di problemi e più fedele al suo scopo di assicurare
l’auto-determinazione di cittadini liberi ed eguali»15. È questo il centro della riforma costituzionale: evitare che la democrazia evolva in un
sistema (al meglio) oligarchico dove una élite (eletta o meno) prenda
il sopravvento su una massa ignorante di cittadini. L’unico modo per
evitare questa deriva è invogliare e rendere capaci i cittadini di partecipare alla cosa pubblica. Qui incrociamo nuovamente Dewey con la sua
fondamentale idea che le capacità degli individui dipendono, non solo
da qualità personali, ma dalla qualità della vita associata. In altri termini
i problemi delle persone (al plurale) vanno affrontati e risolti dalle persone stesse (al plurale), sostenute in questa loro azione dalle istituzioni
politiche. Il nome di tale democrazia è Poliarchia direttamente deliberativa (PDD): diretta perché i cittadini partecipano in prima persona
alla soluzione di problemi che li toccano; deliberativa, perché le decisioni che riguardano il pubblico debbono essere giustificate “dandone
ragione”; poliarchica perché il potere circola nella società e non viene
centralizzato in nessun organo politico specifico.
3. La crisi del modello Principale-Agente e la necessità dello
“sperimentalismo”
3.1. I nuovi dispositivi personalizzati di politica sociale
La poliarchia direttamente deliberativa nasce dalla crisi del modello
Principale-Agente che incornicia l’idea classica di democrazia rappresentativa e di welfare state16. In buona sostanza il modello afferma che il
sistema politico-amministrativo si organizza distinguendo un principale
– il popolo che elegge democraticamente il Parlamento e che, mediante
esso, definisce legislativamente i suoi obiettivi politici – da degli agenti
– la Pubblica Amministrazione il cui operato è a sua volta controllato in
termini giuridici dalle Corti – a cui delega l’implementazione degli sco15
C.F. Sabel, M.C. Dorf, 1988, op. cit., p. 288.
La critica al modello Principale-Agente è sviluppata in: C.F. Sabel, Beyond
Principal-Agent Governance: Experimentalist Organizations, Learning and
Accountability, in E. Engelen, M.S. Dhian Ho (eds.), De Staat van de Democratie.
Democratie voorbij de Staat. WRR Verkenning 3, Amsterdam, Amsterdam University
Press, 2004, pp. 173-195 (tradotto in questo volume).
16
16
pi collettivi. Una parte rilevantissima della crisi contemporanea della
democrazia è proprio causata dalla totale disaffezione dei cittadini nei
confronti degli “agenti”, a sua volta causata da una fortissima delusione
su come vengono prodotti ed erogati beni pubblici come l’educazione,
la sanità, i servizi sociali, le infrastrutture, ecc.17. Davanti alla possibile
crisi di legittimità della democrazia, sono emersi due tipi di risposta.
Una risposta (riforma) dal basso che fa aggio sul controllo delle burocrazie, mediante nuove forme di democrazia diretta o quasi-diretta (o
comunque con la cessione di pezzi di potere statale alla società civile
o al governo locale: devolution, federalismo, sussidiarietà, regionalismo, ecc.): una risposta (riforma) dall’alto che rende più semplice la
rendicontabilità degli apparati amministrativi attraverso metodologie
tratte dal campo economico (New Public Management, creazione di
quasi-mecati, vouchers, contracting out, ecc.). Entrambi i modelli però
rimangono entro l’orizzonte del modello Principale-Agente. Nel caso
del New Public Management, come della creazione di quasi-mercati e
dell’esternalizzazione dei servizi, l’unica differenza sostanziale è che
i programmi decisi dall’alto vengono realizzati, non direttamente da
una amministrazione pubblica, bensì da manager pubblici (spesso però
scelti per vicinanza politica) e da erogatori privati o di privato sociale
(anch’essi spesso scelti per vicinanza con i partiti politici e le amministrazioni pubbliche). Il programma di Policy è suddiviso in sotto-programmi, più semplici e più facilmente valutabili, così da poter essere
più agevolmente rendicontabili. Nella realtà, però, accade spesso che il
risultato sia esattamente il contrario di quello sperato. Perché? Spesso i
problemi da affrontare sono così complessi e radicati nei contesti che la
distinzione tra “progetto” ed “esecuzione” diventa difficile da realizzare. Da ciò consegue una confusione completa tra il principale, che spesso non conosce veramente il problema, e gli agenti che acquisiscono
sul “campo” poteri non legittimi. Inoltre la specificazione dei compiti
in sotto-problemi fa sì che spesso ogni unità operativa debba realizzare
solo la sua parte, senza alcuna capacità di riflettere sulle conseguenze
che il suo operare avrà sulle altre unità. Il risultato è un sistema irriflessivo e confusivo! La soluzione dal basso, la democrazia partecipativa
(ma anche in parte quella deliberativa), soffre di limiti simili. Ipotizza
17 In realtà se si pone come principale il popolo sovrano, allora ogni altro attore del
sistema politico è un agente: il Parlamento degli eletti, il governo, il sistema dei partiti,
l’amministrazione pubblica ecc.
17
che gli attori della società civile e i cittadini conoscano meglio di altri
le soluzioni ai problemi, mentre spesso non è vero e piuttosto si ritirano
verso i loro micro-interessi senza riuscire a vedere il bene comune. Ma
è più in generale che il modello Principale-Agente e le sue soluzioni
affini non reggono più. Almeno per dieci buoni motivi strutturali (non
contingenti): 1) il principale dovrebbe sapere ciò che vuole in anticipo,
in modo chiaro e dettagliato, per prevenire l’arbitrarietà degli agenti.
In realtà non lo può sapere perché la contingenza è pervasiva. Sempre
più spesso i decisori istituzionali, quando debbono scegliere, delegano la decisione a organizzazioni di stakeholder esperte del tema. Lo
debbono fare perché: non hanno conoscenza dei problemi; sanno che
la scelta della norma da applicare è contestuale; la complessità richiede di implementare norme che sono a cavallo tra legislazioni diverse;
2) si presuppone che il principale sappia regolare gli agenti indicando
loro compiti precisi e definiti: in realtà deve coordinare più agenti che,
inter-agendo, fanno emergere conseguenze inattese dal progetto; 3) la
distinzione tra i fini (enacted dal principale: law making; policy making) e i mezzi (enforced dagli agenti: law application) non è chiara
né materialmente (spesso si individuano i veri problemi e si trovano le
soluzioni, proprio mentre si opera), né temporalmente (non è dato per
scontato che, prima, si riescano a porre gli obiettivi e, poi, si scelgano i
mezzi adatti), né socialmente (non si riescono a delimitare bene i compiti per ogni attore); 4) il contesto sociale e le sue problematiche sono
talmente cangianti che non è più possibile progettare beni e servizi “una
volta per tutte” o soltanto anche per periodi di tempo medio-lunghi; 5)
spesso i servizi – e sempre più anche i beni – sono co-prodotti insieme
agli utenti-clienti-cittadini, per cui la distinzione tra professionisti-attivi
e cittadini-passivi, non regge più; 6) non è possibile fornire norme così
semplici da non necessitare di interpretazione. La norma è sempre troppo generale e perciò richiede interpretazione. Se si segue la “lettera”
della legge, se ne perde il senso (oppure si introduce discrezionalità per
trovarlo); se si segue il “senso” si introduce il conflitto delle interpretazioni. Il sistema di welfare è intriso di riflessività che diventa sempre
più pervasiva, anche se non ben governata; 7) è sempre più necessario
che principali ed agenti si riconfigurino come reti di ricerca e di intervento che non tollerano più la gerarchia con una catena di comandoe-controllo semplice; 8) gli agenti che dovrebbero realizzare le scelte
dei principali, spesso cercano il loro interesse e non quello dei cittadini
18
(corsa alla “contrattualizzazione”); 9) sovente i meccanismi di accreditamento degli agenti sono inadatti a selezionare i migliori e richiedono
competenze che non sono utili alla implementazione corretta dei servizi
(per esempio il “prezzo più basso”, oppure tutto il problema della paper
compliance); 10) Il modello Principale-Agente si basa sull’idea che la
sovranità appartiene ad organi rappresentativi del popolo (che è coinvolto dalle decisioni), ma in realtà sempre di più le persone coinvolte
e toccate dai regolamenti sono fuori da precisi confini politicamente
stabiliti18.
È l’intero contesto sociale ad essere realmente cambiato rispetto al
XX Secolo e a rendere obsoleti i programmi di welfare tradizionali basati su assicurazioni standard, calcolate su base attuariale e per un tipo
di cittadino lavoratore, maschio, capace di lavorare per un massimo di
quaranta anni, dopo un breve periodo di ricerca del lavoro, in una stessa
occupazione per tutta la vita, con una carriera interrotta solo per incidenti come la malattia oppure la disoccupazione (che però era correlata
ai cicli economici)19. Molte categorie di persone che nella Modernità
erano escluse da mercato del lavoro – donne, disabili, anziani, madri
sole – sono ora invece in una posizione centrale, mentre altre che erano
concepite come incluse sono sempre più escluse come per esempio i
giovani20. Sono cambiate anche le modalità di fare carriera, è cambiato
il ciclo economico, sono cambiate le competenze necessarie per lavorare, sono cambiate le forme familiari, ecc.21.
Per questi e per molti altri motivi, il valore della solidarietà sociale
che nel vecchio welfare era espresso dal patto generazionale tacito,
tra lavoratori e pensionati e che si basava su meccanismi redistributivi, sta radicalmente cambiando. Sempre di più i rischi che debbono
18 Sul tema dei confini politici dei diritti, si veda: H. Lindhal, The Boundaries of
Post-National Legal Orders: Constitutionalism and the Politics of A-Legality, Oxford,
Oxford University Press, 2012; A-legality: Postnationalism and the Question of Legal
Boundaries, in «The Modern Law Review» vol. 73 (2010)1.
19 Sulla contingenza come valore della Modernità, si veda: N. Luhmann,
Osservazioni sul moderno, Roma, Armando, 1995.
20 Su questo tema, si vedano: C. Annesley, Lisbon and Social Europe: Towards
a European “Adult Worker Model” Welfare System, in «Journal of European Social
Policy», vol. 17, 2007, 4, pp. 195-205; R. Prandini, “Framing Europe”: l’emergere
di un welfare state attivo “mother friendly” e le sue conseguenze per la famiglia, in
«Sociologia e Politiche sociali», vol. 9, 2006, 1, pp. 69-108.
21 Su questi temi si veda: C.F. Sabel, J. Cohen, Fexicurity, «Pathways», Spring
2009.
19
essere coperti non sono attuariali: sono così imprevedibili che è impossibile dire chi e quanto si dovrebbe pagare per creare una massa di
assicurazioni tale da indennizzare chi incorre davvero nelle perdite. E
soprattutto emergono “nuovi rischi” sociali estremamente “individualizzati” che spingono verso l’erogazione di servizi personalizzati22. Il
cambiamento è fondamentale poiché invece che della compensazione
per i rischi (la vecchia assistenza sociale) si parla di capacitazione
di persone. Quando l’aggregazione dei rischi fallisce, allora occorre
aiutare gli individui e le famiglie ad auto-assicurarsi contro di essi,
rendendoli capaci di acquisire le capacità di cui hanno bisogno per
affrontare i problemi. Al cuore di questa nuova consapevolezza sta
un più ampio cambiamento di frame, laddove il bene pubblico non è
più generabile in modo redistributivo per contrastare i limiti del capitalismo, e neppure mediante l’erogazione di servizi standardizzati. Il
nuovo orizzonte è quello dei beni comuni, beni che necessitano di relazioni sociali coesive per essere prodotti e goduti. Il bene comune necessita di cittadini impegnati per la coesione sociale; per trasformare
gli individui in cittadini impegnati servono servizi personalizzati che
vadano a stimolare la crescita del capitale umano e sociale di ciascuno
e che contrastino la trappola della dipendenza, dell’isolamento sociale
e della de-responsabilizzazione o peggio della depressione (con erosione del capitale umano)23.
Questa nuova filosofia dei servizi personalizzati non può funzionare
con la vecchia idea compartimentale dell’organizzazione pubblica dei
servizi. È infatti sempre più evidente che i problemi non possono essere
affrontati e risolti “a pezzi” – lavorando a compartimenti stagni – ma
debbono essere posti in un ordine relato: ecco perché occorre sviluppare “fasci o pacchetti” di servizi personalizzati: per esempio politiche attive del lavoro e servizi per la relazione familiare, per la salute
e l’istruzione. Nasce così il tema dei dispositivi di politica sociale (da
disponere: dis – distribuzione; ponere – porre; porre in modo ordinato,
secondo un certo obiettivo o disegno: ordinare, collocare delle parti in
un tutto), cioè di un nuovo modo di organizzare fasci policontesturali
22 Il tema dei servizi personalizzati sta letteralmente esplodendo. Rimando solo a:
AA.VV., Il Welfare che verrà, in «Communitas», vol. 24, 2008.
23 Il tema è elaborato in: C.F. Sabel, Globalisation, New Public Services, Local
Democracy. What’s the Connection?, in OECD, Local Governance and the Drivers of
Growth, Paris, 2005, pp. 111-131 (trad. in questo volume).
20
di servizi capaci sia di personalizzazione, sia di inter-allacciare diverse
competenze in modo da elaborare vere e proprie pratiche di accomodamento (ad – a; commodare – adattare; da commodus, opportuno) del
valore del servizio alla specificità della persona e del suo contesto24.
L’efficacia dei servizi personalizzati non è infatti indipendente dalla risposta dell’utente. I nuovi servizi necessitano delle risposte adeguate e
responsabili degli utenti che debbono attivarsi personalmente per fiorire25. I servizi devono essere sempre più capaci di far fronte e lavorare
con le idiosincrasie per adattarsi a problemi molto peculiari ed essere
pronti ad apprendere (Fig. 1). Si pensi, come esempio, alla cura per i
diabetici che ora non consiste solo nella somministrazione di insulina,
bensì comprende piani personalizzati che connettono cure mediche, una
dieta, un programma di attività psico-fisica, ecc.
Fig. 1. Le caratteristiche dei servizi personalizzati e capacitanti
24
Da tempo ho provato a sviluppare questo tema in: R. Prandini, Servizi relazionali sussidiari e (meta) riflessività. Il caso di Giocoamico di Parma, in R. Prandini, L.
Martignani (a cura di), Cultura riflessiva e politiche sociali, Milano, Franco Angeli,
2008, pp. 143-167.
25 Sul valore sociale aggiunto si veda: P. Donati, I. Colozzi (a cura di), Il valore
aggiunto delle relazioni sociali, in «Sociologia e politica sociale», vol. 14, n. 1, 2011,
21
3.2. La logica dello Sperimentalismo democratico come poliarchia direttamente deliberativa
Esistono almeno due modi di innesco di questi servizi sociali sperimentalisti. Il primo è quello che Sabel chiama “diretto” o naturale e
che inizia dall’interno della cultura professionale degli operatori del
sociale. Sfrutta l’autonomia degli operatori sul territorio e la potenzia
mediante riforme di decentramento dell’amministrazione pubblica. Potremmo dire che rappresenta la versione bottom-up del sistema. Questo
percorso interviene sul punto debole del sistema tradizionale che dipende dalla valutazione individuale (arbitrio?) degli operatori. Mettendoli
in team ed esponendoli alla peer review, riesce a de-individualizzare
la valutazione e a renderla maggiormente accountable. Il punto debole
di questo sentiero di sviluppo sta nel fatto che i professionisti possono
rappresentare una cerchia chiusa che si coalizza per sfruttare a proprio
vantaggio le riforme. Il secondo sentiero, invece, inizia con tentativi
di ricostruzione di servizi pubblici totalmente fallimentari. È il caso
degli USA dove, negli anni Sessanta, burocrazie enormi, gerarchiche
e ultra-formalizzate, si svilupparono in risposta alla paura dei partiti di
destra che gli operatori di base fossero poco professionali e troppo compassionevoli con i poveri e, della sinistra, che lo fossero troppo poco.
Dopo numerosi tentativi, tutti falliti, di regolare i servizi si cominciò a
pensare di sfruttare l’autonomia professionale, ma obbligando gli operatori a usare bene la loro libertà, rendicontandone l’uso davanti a pari.
È la versione top-down della riforma. Anche questo modello ha il suo
punto debole. È infatti molto difficile che essa inizi, vista l’inerzia delle
macchine burocratiche. Come punto di forza, invece, ha che aumenta
moltissimo la riflessività esplicita del sistema. In realtà entrambi i sentieri producono una sorta di feed-back di una parte sull’altra, andando a
generare un modello generalizzato unificato che ha molte somiglianze
con il sistema di produzione toyotista, dove la scoperta di errori locali
porta alla revisione del sistema globale26.
Nel dispositivo proposto da Sabel invece – che nel tempo ha risposto
al nome di sperimentalismo democratico, governance sperimentalista,
poliarchia direttamente deliberativa, regimi contestualizzanti – le isti26 C.F. Sabel, J. Cohen, Neither Modularity or Relational Contracting: Inter-Firm
Collaboration in the New Economy. A Critique of Langlois and Lamoreaux, Raff, and
Temin, in «Enterprise and Society» vol. 5, n. 3, 2004.
22
tuzioni centrali attribuiscono autonomia a quelle locali per perseguire
scopi generali espliciti. Il centro monitora le prestazioni locali, colleziona informazioni di tipo comparativo e crea pressioni e opportunità
per un miglioramento continuo a tutti i livelli. Il dispositivo è vincente
proprio perché riesce ad adattarsi meglio a contesti, come quelli sociali,
che sono connotati dall’incertezza e da contingenze che non possono essere calcolati in termini attuariali. Esso implica: 1) la decentralizzazione delle azioni e il coordinamento centralizzato della loro valutazione;
2) la piena considerazione dei segnali di deviazione dalla norme perché
le anomalie e le devianze sono concepite come sintomi di problemi e
come opportunità per migliorare il sistema. La funzione di questo processo non è il controllo, ma rendere trasparente il funzionamento del
sistema; 3) la partecipazione degli stakeholder non è obbligata normativamente, bensì libera e basata sull’impegno a risolvere un problema
comune. I vantaggi del modello, di cui una variante è rappresentata dai
“regimi contestualizzanti” (contextualizing regimes)27, sono molteplici:
1) stimola a individuare e rispondere ai deboli segnali di errore, con
prassi di diagnosi e correzione condivisa. Le diverse unità operative
sono spinte a gareggiare verso il meglio, col fine di acquisire reputazione intersistemica; 2) riduce notevolmente la massa di informazioni
che il centro dovrebbe avere per costruire la norma o la procedura di
riferimento. Questo potere è infatti attribuito agli attori locali; 3) stimola comportamenti autonomi e creativi, mentre chiede rendicontabilità
e trasparenza; 4) produce una messe di cambiamenti amministrativi e
regolativi che possono circolare tra le unità, arricchendole; 5) induce
una riflessione a diversi livelli del sistema (nelle unità operative, tra
di loro, a livello centrale); 6) stimola l’apprendimento e la correzione
reciproca; 7) si basa su processi di impegno collaborativo, riducendo i
rischi di opportunismo.
Il dispositivo, che per ragione di sintesi chiamiano di sperimentalismo democratico, può essere così disegnato (Fig. 2).
27 C.F. Sabel, W. Simon, Contextualizing Regimes. Institutionalization as a
Response to the Limits of Interpretation and Policy Engineering, in «The Michigan
Law Review», vol. 110, n. 7, 2012.
23
Fig. 2. Lo sperimentalismo democratico come struttura di poliarchia
direttamente deliberativa
3.3. Due esempi di sperimentalismo democratico:
la sfida della riflessività multilivello
Possiamo capire a cosa porta questo nuovo modello di governance,
presentando due studi di caso. Il primo è quello che riguarda i servizi
per l’infanzia a rischio, erogati in Alabama e nello Utah28. Le problematiche dell’infanzia a rischio sono estremamente difficili da trattare
con i principi della Rule of Law, vista la vaghezza e la difficoltà di
operazionalizzare il concetto di rischio. La storia di questi servizi è
molto istruttiva. I problemi con i vecchi metodi comando-e-controllo
o con le nuove misure di performace derivate dal New Public Mana28 C.F. Sabel, K. Noonan, W. Simon, Legal Accountability in the Service-based
Welfare State: Lessons from Child Welfare Reform, in «Law and Social Inquiry», vol.
34, Issue 3, 2009.
24
gement non funzionarono a causa dei noti paradossi della “previsione
dell’imprevedibile” e della “programmazione dell’improgrammabile”
che si srotolano in questo modo tipico e deprimente (come sanno bene
gli assistenti sociali): 1) si comincia con attribuire una eccessiva enfasi alla misurazione quantitativa delle performance, a scapito di suoi
aspetti non calcolabili e intangibili, con la conseguenza di doverli ricomprendere in modo assolutamente non quantificabile (alla fine quello
che “conta” è ciò che non è “contabilizzabile”); 2) si prosegue lasciando capire agli operatori sociali che le linee guida sono in realtà delle
check list da spuntare in maniera formalistica; 3) a quel punto esplode
la cosiddetta paper compliance; 4) la rendicontazione di “carta” diventa
uno dei compiti principali dell’operatore, che però lo considera come
alieno dalle sue competenze; 5) i valori a cui sono socializzati gli operatori nei loro percorsi formativi (fare rete, la cura personale del caso,
l’interazione costante con l’utente, ecc., tutta la retorica del care), non
vengono assolutamente considerati; 6) ciò aumenta la disillusione nel
proprio compito sociale e anche la tendenza a concepire la valutazione
del proprio operato in termini di controllo da parte di terze parti, su
aspetti inessenziali del lavoro (vedi punto 1); 7) i criteri di valutazione
utilizzati, sempre più analitici e specifici, rendono impossibile adeguarsi al contesto del caso, in modo flessible e creativo (proprio quello di
cui si avrebbe bisogno); 8) i cambiamenti in itinere di cui ci sarebbe
bisogno per adeguarsi al caso, debbono essere autorizzati dal superiore
che è inesperto e perciò, spesso, neppure vengono richiesti; 9) a furia di deviare dagli standard e dalle regole, per poter operare in modo
personalizzato, si entra in una zona grigia di a-legalità e, cercando di
prevedere l’imprevedibile, non ci si focalizza più sul senso del servizio;
10) un vero monitoraggio richiede informazioni sugli scopi (raggiunti
o meno) e sui problemi che sono sorti nel processo, ma quasi sempre
queste informazioni o arrivano troppo tardi o non indicano dove stanno
davvero le cause profonde del problema. Vengono infatti selezionati
i problemi e i guasti che già si presume possano essere compresi dal
sistema e non quelli veri.
Il nuovo modello sperimentato negli Stati dell’Alabama e dello
Utah, si sostanzia invece nel cosiddetto Quality Service Review (QSR).
Il QSR è un meccanismo di monitoraggio diagnostico che unisce decisioni contestualizzate con una rendicontazione sistemica; dove i giudici e gli avvocati contribuiscono alla elaborazione di diritti sociali di
25
welfare, rispondendo alle critiche e correggendo in itinere gli standard
utilizzati; e dove ci si basa sulle capacità e conoscenze degli operatori
sociali, spostando la loro attenzione dal sapere tacito e informale verso pratiche che combinano la personalizzazione dei servizi con la sua
esplicitazione in standard che possono essere misurati. Il modello del
dispositivo è quello ormai noto: 1) si stabiliscono – dal centro – dei
valori di base molto generali per poi considerare le regole come lineeguida da specificare, cambiare e riconsiderare, mediante l’azione sul
campo; 2) il centro del sistema elabora scopi generali, dà sostegno agli
operatori, monitora le azioni. Gli operatori, cioè le sotto-unità periferiche, hanno discrezionalità nell’applicare i principi al contesto, potendo
utilizzare risorse che vengono attribuite alla periferia; 3) tutte le Contee
partecipano a una prima ondata di riforma, creando reti di attori. Quelle
vincenti si mettono a disposizione per insegnare alle altre le loro “buone prassi”. Dal punto di vista pratico, questo processo dà sostegno a tre
grandi scelte di policy making: 1) personalizzazione dei servizi; 2) decisioni collaborative; 3) monitoraggio diagnostico e apprendimento dai
peer. Entro questo dispositivo sperimentalista il QSR ha tre funzioni
basilari29. 1) È un training clinico per gli operatori e per i loro supervisori. Obbliga infatti a presentare dei casi, rivederli criticamente insieme
a pari, valutarli in team. È perciò un modo collaborativo e propositivo,
per apprendere mediante monitoraggio (learning by monitoring). 2) È
una forma di revisione e rielaborazione normativa, attraverso la prassi
del peer review. Quando la procedura arriva al livello nazionale e poi
a quello federale, occorre rendere coerenti le diverse procedure locali,
anche agevolati da professionisti esterni. Il governo federale agevola gli
Stati con risorse di vario tipo, anche tecniche e informative. 3) Funziona come misurazione di prestazioni e di diagnostiche. I risultati possono essere comparati nel tempo e nello spazio e sono sempre combinati
con valutazioni qualitative che compensano la “quantofrenia”. Tutto il
dispositivo è basato sulla trasparenza e sulla rendicontabilità rispetto
agli organi amministrativi pubblici, agli stakeholder e sulla capacità di
auto-corregersi.
Un secondo esempio dei servizi sperimentali è quello relativo alla
29 Sul tema, molto interessante anche il documento scritto da Sabel insieme a R.
Post e W. Simon, The National Healthcare Quality Act: A Legislative Proposal (draft
for SEIU, 2008), che si può trovare sul sito di Sabel.
26
istruzione speciale in Finlandia30. Alla base del servizio vi è la necessità
di aumentare l’occupabilità e quindi di potenziare il capitale umano delle persone. Occorre capacitare le persone a meta-apprendere, apprendere a cooperare, e soprattutto a farlo in contesti lavorativi diversi. Si è
sempre più convinti che una interruzione nel processo di apprendimento porta i bambini ad accomulare deficit ed handicap che ne limiteranno
a lungo le opportunità di vita e che ciò avrà effetti aggregati a livello
nazionale con ingenti perdite di competitività. L’istruzione, quindi, va
massimamente personalizzata, così come le diagnosi di deficit di apprendimento che vanno anticipate il più possibile. Cambia anche lo
scopo dell’apprendere, non più dedicato alla acquisizione di pacchetti
di informazioni, bensì allo stimolare massimamente la riflessività personale combinando creatività e abilità apprese con nuove esperienze,
cosicché ognuno sia capace di capire come utilizzare il sapere nel contesto lavorativo. Istruire significa quindi: personalizzare la pedagogia
per ogni alunno.
In sintesi il servizio dell’educazione speciale segue questa filiera: il
Parlamento formula la legge sull’istruzione; il Ministero dell’Istruzione
stabilisce gli obiettivi nazionali e il numero di ore per materia; il FNBE
(Finnish National Board of Education) fornisce un curriculum di base
e le linee guida dell’insegnamento; i Comuni, mediante i Gruppi di programmazione educativa e le scuole, sono liberi di creare curricula che
riflettono contesti locali, di costruire nuove scuole e di contrattualizzare
nuovi insegnanti che, a loro volta, sono piuttosto liberi di organizzare il
loro insegnamento. Questa filiera rappresenta il passaggio da una cultura del controllo a quella della fiducia. L’educazione speciale riguarda
la scuola primaria e secondaria e interviene su studenti con particolari
problemi (forti impedimenti cognitivi; bisogni di istruzione part-time,
disordini dell’apprendimento, ecc.). Si comincia, prima della scuola obbligatoria, con una diagnosi molto precoce dei bambini che è svolta in
collaborazione con i servizi sanitari e sociali comunali in contatto con
il sistema educativo. Il riconoscimento precoce di difficoltà è uno dei
valori basilari del sistema. La finalità del servizio è quella di erogare un
Piano personalizzato di istruzione per bambini in difficoltà. Gli insegnanti specializzati (che possono svolgere questo tipo di istruzione solo
30 C.F. Sabel, A.L. Saxenian, R. Miettinen, P.H. Kristensen, J. Hautamäki,
Individualized Service Provision as the key to the New Welfare State. Lessons from
Special Education in Finland, SITRA, 2011.
27
se dopo la laurea quinquennale, si specializzano per un altro anno) sono
gli operatori di base del servizio che, in consultazione con altri esperti,
stilano piani personalizzati di studio per ogni studente che ne abbisogna. La peer review è realizzata dal SWG (Student welfare group) che
include il Preside della scuola, lo psicologo, l’assistente scolastico, gli
insegnanti speciali e, in certi casi, un rappresentante dei servizi di welfare, del Comune e degli studenti. Questo gruppo si riunisce un paio di
volte al mese e valuta i progressi degli studenti e delle singole classi decidendo se alcuni di essi hanno bisogno di una istruzione speciale. Se i
primi sostegni non sono sufficienti, e dopo aver parlato con la famiglia,
si procede con il piano personalizzato speciale. A questo punto SWG
controlla il piano personalizzato (il cosiddetto piano di organizzazione
dell’istruzione personale) e lo corregge laddove non è ritenuto adatto. Il
piano personalizzato include: 1) una descrizione precisa della capacità
di apprendimento dello studente; 2) i suoi bisogni specifici; 3) i cambiamenti necessari al contesto scolastico per operare sul bambino; 4) obiettivi a breve e medio termine; 5) il numero di ore settimanali rienute necessarie al servizio; 6) la lista di materie su cui lavorare; 7) i principi per
controllare i progressi nell’apprendimento; 8) la descrizione dei metodi
di insegnamento, individuale e di gruppo; 9) le persone che partecipano
al piano e i servizi di sostegno; 10) i sistemi di monitoraggio di tutto il
processo. Il piano è rivisto e firmato dallo studente, dall’insegnante e
dai genitori, cosicché lo si possa rivedere nel tempo e rendere tutti consapevoli di quello che accade. Il NBE (National Board of Education),
un settore autonomo del Ministero dell’Istruzione, sostiene il sistema
scolastico con risorse di ogni tipo e stimolandolo alla auto-riflessione;
partecipa annualmente alla valutazione di un campione di studenti e dà
i fondi per la preparazione degli insegnanti e per la costruzione degli
strumenti diagnostici. In pratica il NBE è il responsabile dell’implementazione regionale delle riforme e presenta i risultati (anche se ufficialmente è il Ministero a farlo) al Parlamento per le revisioni del caso.
Gli strumenti diagnostici e per l’insegnamento speciale sono elaborati attraverso una rete nazionale di specialisti (professori universitari,
esperti di rendicontazione, ecc.) che lavorano insieme agli insegnanti
per riconoscere, nominare e definire i problemi di apprendimento. La
rete comprende anche editori e produttori di software specializzati, associazioni locali per la disabilità, attori della società civile.
28
4. Lo sperimentalismo oltre il livello statale-nazionale: l’Unione
europea come Poliarchia direttamente deliberativa
Forse il punto più interessante, per noi cittadini della “vecchia Europa” è che Sabel, qui soprattutto insieme a Oliver Gerstenberg e Jonathan Zeitlin, individua nell’Unione europea un esempio paradigmantico
di organizzazione democratica sperimentale. Certo non si tratta di un
esempio definitivo, bensì in fieri e potenzialmente fallibile (come i fatti
del luglio-gennaio 2011/12 mostrano). La Ue è un caso eccezionale di
contemporanea riuscita e/o fallimento potenziale del modello di una
nuova polity sperimentalista. È infatti evidente che l’Ue presenta impressionanti problemi di governance, se paragonata a uno Stato-nazione31. In primo luogo l’Ue manca di un demos unitario, omogeneo e
definito da un mito-storia comune. In seconda istanza e per come è stata
costruita, l’Ue genera tensioni tra le decisioni (e le norme) prese dalla
Commissione, dal Parlamento, dal Consiglio dei Ministri, dalla Corte
europea di giustizia, ecc. e quelle prese a livello nazionale dagli Stati
membri. Infine gli osservatori euroscettici criticano la polity europea
perché comunque con i suoi interventi influisce sulla vita dei cittadini
degli Stati membri, senza che esista nessuna vera capacità di compensazione né di legittimazione diretta. In sintesi, la malattia della Ue sarebbe
la mancanza cronica di legittimazione popolare democratica, espressa
con il nome di “eurocrazia tecnocratica”. Il punto è che, per Sabel e i
suoi colleghi, sono proprio queste caratteristiche istituzionali a rendere
possibile la definizione della Ue come una poliarchia direttamente deliberativa e democratica, ma non basata sul principio della rappresentanza. Questa nuova visione viene elaborata in modo definitivo, durante
la fine degli anni Novanta insieme a Joshua Cohen e soprattutto Oliver
Gerstenberg (per l’Europa)32. Nel saggio del 2002 Sabel, nel proporre
con Gerstenberg un ideale costituzionalizzazione per l’Europa, vuole
liberarsi delle false dicotomie e delle conseguenti soluzioni fallimen31
La letteratura sull’Unione europea come strana polity è semplicemente immensa,
transdisciplinare, ma di facile consultazione. Non ci riferiremo perciò ad essa, ma la
terremo sempre nel sottofondo delle argomentazioni.
32 C.F. Sabel, J. Cohen, Directly-Deliberative Polyarchy, in «European Law
Journal», vol. 3, n. 4, 1997, pp. 313-340; C.F. Sabel, O. Gerstenberg, Directly
Deliberative Polyarchy. An Institutional Ideal for Europe?, in C. Joerges, R. Dehousse
(eds.), Good Governance in Europe’s Integrated Market, Oxford, Oxford University
Press, 2002, pp. 289-341.
29
tari, dell’ala liberale-mercantile e di quella statale e socialdemocratica
della cultura politica europea. Per i liberali, occorre separare l’idea di
Costituzione da quella di democrazia, mentre per i socialdemocratici la
democrazia è possibile solo entro lo stato nazione. I liberali vogliono
una Costituzione di tipo legalistico, che serva solo a proteggere i diritti
individuali dei cittadini, in primis quelli del libero mercato. In pratica
la Ue deve proteggere la cittadinanza di mercato. I socialdemocratici,
invece, temono che l’Ue si autonomizzi troppo dagli Stati, intesi come
gli unici possibili contenitori di diritti, soprattutto di welfare. La democrazia redistributiva necessita di confini politici netti così da proteggere
gli inclusi dalle minacce esterne ed interne. Senza una identità collettiva non è possibile questa definizione. C’è chi ha proposto una sorta di
mix tra le due tradizioni politiche, con una divisione del lavoro tra un
livello sovranazionale, che protegge i diritti umani, e uno statale che
protegge i legami sociali. Ma questa soluzione non pare molto convincente perché non fa che riproporre il modello Principale-Agente, già
così fortemente criticato (i principali sarebbero gli Stati e la Ue sarebbe
l’agente delegato). La proposta di Sabel, dopo aver analizzato e criticato quelle di Habermas, Dworkin e Michelman, è del tutto “internalista”
(non cerca soluzioni esterne come la “personificazione” della polity in
uno Stato, oppure procedure argomentative universalizzabili, o la ricerca di un destino comune, o un nebbioso patriottismo costituzionale) e
capace di farsi carico dell’ambiguità europea e della sua Costituzione
multi-livello. Si tratta di rendere il processo costituzionale europeo una
esperienza, sperimentale e a più voci, di nuova governance poliarchica
e direttamente deliberativa, capace di rigenerare circuiti democratici: è
direttamente deliberativa, perché – come vedremo – emerge dalle interazioni degli attori locali, ed è poliarchica perché il potere emergente
(costituente) mette in squilibrio il centro del sistema, pluralizzandone
le voci33.
La grande sfida di Sabel è di considerare l’esplosione di libertà che
il mercato comune europeo ha portato, non come la prima fase di un
processo di depoliticizzazione dell’Europa, bensì come un processo che
si ri-politicizza a partire da logiche costituzionali diverse da quelle moderne. Il processo è già in atto e si configura, per esempio, nella famosa
33 Questi temi sono sviluppati in: C.F. Sabel, J. Cohen, Sovereignty and Solidarity:
EU and US, in K.H. Ladeur (ed.), Public Governance in the Age of Globalization,
Ashgate Publishing, 2004, pp. 157-175 (tradotto in questo volume).
30
comitology, la rete di comitati, presieduti da rappresentanti della Commissione, che l’assistono nella implementazione delle legislazioni comunitarie: «questi comitati sono variamente composti da rappresentanti
degli Stati membri, gruppi di interessi economici, esperti scientifici e
gruppi di difesa di diversa specie. Chiariscono e scrutinano interessi
e vocabolari eterogenei – riguardanti i pubblici nazionali, governativi,
settoriali, tecnici o auto-dichiarati. Sono progettati non per riflettere e
aggregare interessi particolari, ma piuttosto per usare le prospettive inizialmente settoriali e ristrette così da agevolare un apprendimento reciproco ed eventualmente la trasformazione delle preferenze come parte
dell’elaborazione di interpretazioni condivise. In questa nuova architettura istituzionale, l’innovazione – la rielaborazione dei quadri concettuali basilari e delle linee di conflitto politico che danno forma alla
discussione iniziale – diventa una condizione di successo burocratico
e politico»34. È nel processo sperimentale di discussione che le ragioni
e i confini, i diritti e le identità, i principi e le pratiche, si trasformano
reciprocamente e si “educano“, come scrive Sabel, alla luce delle nuove esperienze. Si tratta di un processo di osservazione multipla, condivisa, critica e capace di apprendimento che, da un lato, decostruisce
oggetti “irrelati/definiti” mentre, dall’altro, ricostruisce nuovi oggetti,
emergenti da relazioni di reciproca collaborazione35. Sabel descrive il
processo in questo modo: «relativamente a particolari aree di policy,
la comitologia stabilisce un quadro che abilita la discussione di visioni
contrastanti di oggetti comuni, e che a sua volta ne viene trasformato
(relativamente ai risultati che continuano ad essere esplorati ed elaborati) dalla stessa discussione. L’oggetto comune ricercato è tipicamente,
come abbiamo visto, una regolazione […] che rispetta sia l’integrità del
mercato comune sia l’interesse pubblico, laddove esso riflette le diverse
tradizioni nazionali riguardanti i compiti che lo Stato, il mercato e i cittadini devono assumersi. Le visioni discordanti concernono le diverse
proposte di regolazione europea che emergono dalle differenti tradizioni nazionali. Nell’assogettare queste proposte a un test comune […] la
comitologia rende espliciti – e perciò accentua – i diversi stili nazionali di regolazione. Ma nel farlo, permette anche una ricombinazione
34
C.F. Sabel, O. Gerstenberg, Directly Deliberative Polyarchy. An Institutional
Ideal for Europe?, in C. Joerges, R. Dehousse (eds.), 2002, op. cit., pp. 289-341.
35 C.F. Sabel, W. Simon, Destabilization Rights: How Public Law Litigation
Succeeds, in «Harvard Law Review», vol. 117, n. 4, 2004, pp.1015-1101.
31
degli elementi e dei tropi di queste tradizioni, suggerendo possibilità
nascoste dall’assunto implicito che le differenze date (cioè tradizionali)
siano una prova della loro radicale incommensurabilità. In sintesi, nella
comitologia così come nella semiotica, la differenza è il motore della
comprensione. Il risultato della comitologia non è una regola fissa […]
quanto piuttosto una cornice innovativa per la continua rivalutazione –
entro nuovi confini – di una soluzione provvisoria»36. In buona sostanza
questo processo giusgenerativo somiglia molto al processo di traduzione tra due linguaggi, descritto dalla semiotica, laddove al posto del
linguaggio possiamo trovare norme, servizi, ecc. Il processo di generazione di un oggetto relazionale va inquadrato entro l’architettura dei
dispositivi sperimentalisti (Fig. 3). Gli attori locali o di livello inferiore
(Stati membri, Regioni, autonomie, Provincie, Comuni, altri attori non
amministrativi, ecc.) hanno il diritto di sperimentare soluzioni autonome ai problemi che vengono identificati a livello superiore, ma hanno
anche l’obbligo di rispettare procedure democratiche, di rendicontare
e dare ragione delle loro scelte, confrontandole con quelle degli altri,
in modo critico e esponendosi alla osservazione reciproca. I risultati
di questi round di peer review possono poi dare vita a nuovi obiettivi,
nuove modalità di raggiungerli e di controllarne i risultati, ecc.
Fig. 3. I processi di costituzione di un oggetto relazionale
36
32
C.F. Sabel, O. Gerstenberg, Directly Deliberative Polyarchy, cit.
È con Jonathan Zeitlin che Sabel esplicita definitivamente la sua
visione di Ue come modello di governance sperimentalista37. Paradossalmente, è proprio la distanza dai partiti nazionali, dai Parlamenti e dai
referenda, che sta proteggendo la Ue dalle contingenze della politica
nazionale e che ha creato una sorta di “bozzolo” sperimentale capace
di rappresentare un forerunner riformista. Le condizioni di possibilità
per il modello di governance europea sono abbastanza chiare: 1) la presenza di una incertezza strategica, cioè l’impossibilità per gli Stati di
prendere decisioni definitive di tipo aut-aut (per esempio la scelta tra
“più stato o più mercato“ che poi si risolve sempre in un loro mix); 2)
la mancanza di informazioni e di capacità di comprendere e risolvere i
problemi in modo isolato dagli altri Paesi membri; 3) una distribuzione
sempre più multipolare del potere, in cui nessun attore può decidere
per gli altri e senza gli altri. Queste caratteristiche del campo europeo
non permettono più una politica semplicemente negoziata, ma richiedono vere pratiche di collaborazione. È proprio questo insieme di novità
che rende l’Europa un esperimento innovativo di democrazia. Secondo
Sabel, le caratteristiche della governance europea, invece che essere
dificitarie come moltissimi critici continuano ad affermare, andrebbero
ben definite, preservate ed elaborate ulteriormente, per riproporle in un
secondo round di istituzionalizzazione, che includa anche temi meno
battuti sinora come il welfare. L’Ue «sta creando un mercato comune,
mentre al contempo costituisce un quadro nel quale gli Stati membri
possono proteggere la salute e la sicurezza pubblica in modi che nascono dalle loro stesse tradizioni […] Allo stesso modo incoraggia gli
Stati membri a riconfigurare i loro sistemi di protezione sociale e li
obbliga ad apprendere, gli uni dagli altri, come mantenere al meglio la
loro forma di solidarietà distintiva in un contesto radicalmente nuovo.
Questi passi verso la direzione di una “Europa sociale” sono ancora più
importanti perché avvengono anche quando gli Stati membri aprono i
mercati per la fornitura dei servizi sociali e adeguano la portabilità crescente delle pretese ai servizi di welfare»38.
37 C.F. Sabel, J. Zeitlin, Learning from Difference: The New Architecture of
Experimentalist Governance in the EU, in «European Law Journal», vol. 14, n. 3, 2008,
pp. 271-327; C.F. Sabel, J. Zeitlin (eds.), Experimentalist Governance in the European
Union. Towards A New Architechure, New York, Oxford University Press, 2010.
38 C.F. Sabel, J. Zeitlin, Learning from Difference, cit., p. 272.
33
La novità è resa possibile perché le decisioni di questa strana polity
non statale sono prese in modo deliberativo: «le preferenze iniziali degli
attori sono trasformate, mediante la discussione, dalla forza del miglior
argomento. La deliberazione, a sua volta, dipende dalla socializzazione dei decisori (funzionari pubblici, esperti scientifici, rappresentanti
di gruppi di interesse) entro comunità epistemiche e attraverso la loro
partecipazione in comitati “comitologici“: comitati di esperti e rappresentanti degli Stati membri che consigliano la Commissione Europea
rispetto a nuove regolazioni e revisionano le sue eventuali proposte di
regolazione»39. La deliberazione non ha come scopo né un consenso
definitivo né un equilibrio riflessivo (cioè statico). Contano invece la
differenza tra i punti di vista e tra gli interessi e la loro comparazione,
quindi il trovare un consenso sempre contingente e rivedibile40. L’assenza di una gerarchia formale aiuta ad allontanarsi dalle vecchie logiche della concertazione verticale e del consociativismo, ma protegge
anche dal pericolo della tecnocrazia. La divisione del lavoro è infatti
molto chiara e semplice, ma fortemente interattiva: il livello superiore
pone gli obiettivi generali e le unità provano a realizzarli, ma con l’obbligo della rendicontazione. Non è una tecnocrazia perché le procedure
richiedono trasparenza, peer review, critica in pubblico, ecc. L’architettura multi-livello è invece una poliarchia direttamente deliberativa.
Essa promuove una forma di rendicontazione che non è quella tipica
della democrazia rappresentativa, ma che comunque elabora la sostanza
della democrazia: chi obbedisce alle leggi deve esserne anche l’autore
(diretto o indiretto). La PDD europea è qualificata da quattro elementi
base: 1) vengono selezionati degli obiettivi-quadro e, simultaneamente, le misure per calibrare come raggiungerli in modo condiviso dagli
Stati membri e dalle istituzioni dell’Ue; 2) alle unità di livello inferiore
(Ministeri nazionali, authority regolative ed altri stakeholder), è attribuita la libertà di implementare questi obiettivi. Qui opera il Principio
di sussidiarietà, sia verticale che orizzontale, nel senso che le unità possono anche proporre cambiamenti agli obiettivi quadro e alle misure
per realizzarli; 3) come contropartita a questa autonomia, le unità devono rendicontare regolarmente sulle loro prestazioni – specialmente
39
C.F. Sabel, J. Zeitlin, 2008, op. cit., p. 272.
Su questo tema si veda anche: C.F. Sabel, R. Scott, R. Gilson, Braiding.The
Interaction of Formal and Informal Contracting, in Theory Practice and Doctrine, in
«Columbia Law Review», vol. 110, Issue 6, October 2010.
40
34
in relazione agli indicatori utilizzati per misurarle – e partecipare alla
peer review attraverso cui i risultati e i mezzi per perseguirli vengono
comparati con quelli di altri; 4) infine gli obiettivi quadro, le metriche
e le procedure sono riviste periodicamente da tutti gli attori che inizialmente li avevano scelti.
5. Costituzionalizzare la globalizzazione: lo sperimentalismo
democratico e l’emergere di un nuovo demos globale
Lo sperimentalismo democratico può essere utilizzato anche a livello globale, dove forse troviamo la sfida più affascinante per la proposta
di Sabel e dei suoi colleghi41. A quel livello non è davvero possibile
parlare di uno Stato mondiale con una sovranità unitaria capace di prendere decisioni per tutti, ma neppure di una polity come la Ue. Neppure
è possibile, secondo Sabel, aspettarsi che si inneschino processi quasi
automatici di costituzionalizzazione globale. Il punto d’attacco di Sabel è del miglior realismo. Mentre i dibattiti sulla democrazia, sulla
Costituzione e sulla regolazione del globo procedono, nei fatti esiste
già una proto-regolazione globale: 1) processi di giuridificazione non
elaborati dallo Stato esistono già da tempo; 2) le norme prodotte, pur
non implementate e sanzionate statalmente, sono effettive ed influenti
anche a livello della vita quotidiana; 3) ormai una ampia parte della
società, quella coinvolta, ne dà per scontata la loro realtà e le utilizza; 4) gli Stati rimangono attori fondamentali a livello planetario, ma
nel campo della regolazione e della sua applicazione, è evidente una
emergenza di regimi giuridici globali che, anche laddove sostenuti dagli Stati, acquisiscono una loro autonomia; 5) moltissime persone sono
ormai coinvolte in quelle regolazioni (in modo volontario o meno) che
41
Per questo tema i saggi di riferimento sono: C.F. Sabel, J. Cohen, Extra
Republicam, Nulla Justitia, in «Philosophy & Public Affairs», vol. 34, n. 2, pp. 147175; C.F. Sabel, J. Cohen, Global Democracy?, in «NYU Journal of International
Law and Politics», vol. 37, n. 4, 2005, pp. 763-797 (tradotto in questo volume); C.
F. Sabel, J. Zeitlin, Experimentalist Governance, in D. Levi-Faur (ed.), The Oxford
Handbook of Governance, Oxford, Oxford University Press, 2012 (traduzione in questo volume); C.F. Sabel, J. Zeitlin, Experimentalism in Transnational Governance:
Emergent Pathways and Diffusion Mechanism, paper presented at the panel on Global
Governance in Transition, annual conference of the International Studies Association,
Montreal, March 16-19, 2011 (tradotto in questo volume).
35
hanno effetti tangibili sulle loro condotte di vita e sul loro benessere;
6) la forza di quelle norme sta, in molti casi, nel fatto che non seguirle significherebbe venire esclusi dalla possibilità di operare in reti; 7)
movimenti, lobbies, NGO, ecc., spesso contestano questi regimi globali
di diritto e regolazione, andando così a creare uno spazio pubblico idealmente globale e un tipo di ragione che, poco a poco, auto-seleziona
i criteri normativi condivisi da sempre più cittadini. In buona sostanza
lo spazio dell’Amministrazione globale e dei regimi di regolazione globale, è uno spazio dove fattualità e validità sono compresenti in modi
sconosciuti alla Modernità.
L’esempio proposto da Cohen e Sabel è quello del WTO comparato
alla Ue42. Come la Ue, anche il WTO deve cercare di adattare le sue
autonomie normative concernenti la regolazione degli scambi commerciali (il suo scopo), con le normative presenti negli Stati membri. Come
la Ue, anche il WTO permette agli Stati membri di creare legislazioni
nazionali che limitano il commercio a condizione che esse riflettano
adeguatamente gli standard regionali o internazionali rilevanti. Gli Stati
possono usare gli standard del WTO, oppure dimostrare che le loro norme ne rappresentano una ragionevole deviazione, spiegando il perché.
Come per l’Ue l’adesione al regime del WTO obbliga gli Stati soltanto
ad adattare le loro regole, tenendo conto riflessivamente di quanto fanno anche gli altri membri, per conciliare le proprie legislazioni con gli
standard generali che sono attenti agli interessi di tutti. In questi due
casi, come in molti altri, si potrebbe dunque ipotizzare una medesima
logica. 1) In primo luogo si costituisce un gruppo basato su particolari
interessi e/o identità (per esempio: l’Ue, il WTO, l’ICANN, ecc.). 2)
L’inclusione dei membri nel gruppo dipende dall’interesse ad entrarvi
e richiede ad essi di operare in un modo regolato e disciplinato. 3) Così
nasce un “Noi”, una collettività sociale ben identificabile che può avere diverse modalità di esistenza43. 4) Questo “Noi” che ha uno scopo
preciso (la sua ragion d’essere), che condivide mezzi e strumenti per
operare e che comincia a elaborare una propria identità riconoscibile,
ha l’interesse non solo a regolare le sue relazioni interne, ma a proporre
42
C.F. Sabel, J. Cohen, Extra Republicam, Nulla Justitia, cit.
Sull’emergere del Noi, rimando a: R. Prandini, Soggettività sociali riflessive. La
costituzione di un “noi” riflessivo, in P. Donati, M.S. Archer (a cura di), Riflessività
modernizzazione e società civile, in «Sociologia e politiche sociali», vol. 13, n. 1, 2010,
pp. 79-111.
43
36
anche ad altri attori (tra cui per esempio gli Stati) un regime giuridico
autonomo che possa agevolarne l’inclusione. 5) Se nuovi attori vogliono entrare nel regime, dovranno accettare le sue regole, i suoi mezzi, la
sua identità emergente e i suoi obiettivi, ma potranno anche proporne
dei nuovi a cui dedicarsi, mediante processi di deliberazione comune.
6) Man mano che il regime si arricchirà di nuovi attori, le sue regolazioni avranno un impatto su popolazioni sempre più estese di individui
(non membri) che si organizzeranno per controllarne la legittimità. 7)
Nasceranno così nuove sfere pubbliche che criticheranno le regole in
atto e che vorranno avere voce nella regolazione. In casi evidenti di non
rispetto dei diritti fondamentali, potranno intervenire gli Stati o le Corti
internazionali. Ciò che conta è il processo direttamente deliberativo che
elabora identità e che la sottopone a rendicontazione rispetto a pubblici
interni ed esterni44.
È però con la risposta a un famoso intervento di Thomas Nagel che
Sabel, insieme a Cohen, estende il modello della democrazia sperimentale alla globalizzazione45. La posizione di Nagel è molto chiara: al
di fuori dello Stato, non è possibile alcuna giustizia. Si tratta di una
posizione fortemente hobbesiana, che Sabel identifica con il concetto
di “statalismo forte”. Non è che Nagel non veda che il globo sta giuridificandosi mediante regimi regolativi non statali, che le nuove relazioni
di interdipendenza globale sono giusgenerative o che stia emergendo un
nuovo umanitarismo sostenuto da una sorta di religione civile dei diritti
umani: semplicemente crede che senza apparati di potere statale capaci
di sanzionare negativamente le infrazioni, tutte queste norme morali (e
non solo), non possano realmente essere implementate, enforced. La
strategia di Nagel richiede di pazientare provando a costruire uno Stato
globale, piuttosto che dare credito, nel presente, a quell’insieme di regimi non statali troppo deboli per essere effettivi. A fondamento di questa
posizione, sta il seguente ragionamento: la giustizia si applica solo a
persone che stanno in una certa relazione reciproca, in specifico, quella
dell’essere membri di uno Stato, cioè soggetti a determinate norme coercitive e responsabili verso di esse. In sintesi l’idea e la pratica di giu44 Molto interessante sul tema della protezione dei diritti al lavoro è: A. Fung, D.
O’Rourke, C.F. Sabel, Can We Put an End to Sweatshops?, Boston, MA, Beacon Press,
2001.
45 T. Nagel, The Problem of Global Justice, in «Philosophy & Public Affairs», vol.
33, 2005, pp. 113-147.
37
stizia sono sostenute da una relazione comune di cittadinanza. È dunque
la relazione tra i membri di un “Noi”, cioè di una polity, a rendere possibile l’idea stessa di giustizia. Lo Stato è la Terza parte necessaria che fa
rispettare le leggi, cioè quelle norme che sono: 1) volute; 2) autorizzate;
3) e obbedite, dai cittadini, cioè quando l’esercizio di una autorità coercitiva necessita della volontà (dell’assenso) di coloro che vincola. Siamo
nel cuore del concetto moderno di Stato democratico: solo esso è il rappresentante diretto della volontà generale: perciò ogni altra forma di regolazione globale non può che essere mediata dagli Stati, in quanto non
può rappresentare direttamente la volontà dei cittadini. Con le parole di
Sabel e Cohen: «la pretesa dello Stato di parlare in nome di una volontà
generale che genera legge – di trattare tutti i soggetti della sua regolazione come suoi co-autori – genera i nuovi standard normativi con cui
le leggi e le istituzioni devono conformarsi. In breve, la giustizia egualitaria è la moralità interna delle associazioni di eguali che è formata da
un ordine legale nel quale i soggetti della legge sono rappresentati come
suoi autori»46. Come è possibile rispondere a questa argomentazione
statalista? Sabel e Cohen riprendono l’idea della relazione costitutiva
della giustizia. È vero che una idea e una pratica di giustizia necessitano
di una relazione costitutiva di un certo legame. Quel legame però, non
deve per forza essere quello di una cittadinanza statale47. Per Sabel la
nuova configurazione globale della società di fatto implica tutti e tre gli
assunti dell’istituzionalismo, cooperazionismo e interdipendenza forti.
Istituzionalismo forte: l’esistenza di una istituzione con responsabilità
per la erogazione di un bene particolare (educazione, sanità, reddito
e condizioni di lavoro decente, ecc.) è sufficiente per poter chiedere
all’istituzione di far fronte all’obbligo di adempiere alle sue responsabilità. Cooperativismo forte: l’esistenza di un conseguente schema di
cooperazione organizzata, reciprocamente benefica e regolata (entro un
regime) è sufficiente per innescare una premura simile. Interdipendenza
forte: la premura è richiesta ogniqualvolta il destino delle persone che
vivono in un dato luogo dipende sostanzialmente dalle decisioni collettive prese da persone che vivono in un altro luogo e il destino di queste
46
C.F. Sabel, J. Cohen, Extra Republicam, Nulla Justitia, cit., p. 161.
Sul tema della giustizia, rimando a: R. Prandini, Re-vealing (vs Un-veiling)
Justice. Riflessioni sull’enigma della giustizia trans-immanente, in G.P. Calliess, A.
Fischer-Lescano, D. Wielsch, P. Zumbansen, Soziologische Jurisprudenz. Festschift
fuer Gunther Teubner, Berlin, De Gruyter, 2009, pp. 131-148.
47
38
ultime dipende sostanzialmente dalle decisoni collettive delle persone
che vivono nel primo»48. Questi tre assunti sono sufficienti per costituire una polity non statale, ma capace di generare norme vincolanti per
tutti i suoi stakeholder, decisori e coinvolti. Secondo Sabel, esistono
almeno due pietre d’inciampo nell’argomentazione di Nagel: 1) il presupposto che la giustizia e la sua legittimità dipendano dal contenuto
prettamente egualitario delle norme; 2) il presupposto che una norma
per essere legittima debba essere voluta allo stesso modo da tutti gli
individui indipendentemente dal loro status. Rispetto al primo punto, è
possibile argomentare che può esistere una giustizia di tipo non egalitario. Ciò serve per eludere il problema dei membri di una polity concepiti come individui identici. Così, per esempio, un regime cooperativo
può essere considerato ingiusto quando «i bisogni davvero urgenti di
alcune persone rimangono senza risposta, anche quando potrebbero essere considerati senza grandi costi da altre persone le cui circostanze
stanno migliorando in modo copioso […] la premura espressa da questa
variante del cooperativismo forte non riguarda il fallimento nel trattare
tutti come eguali, cioè come aventi il diritto a un eguale interesse, status
e opportunità, bensì ha a che vedere con l’inclusione»49. In quei casi, talune persone sono trattate come se non contassero nulla, come se il loro
bene non contasse affatto per gli altri con cui sono di fatto in relazione.
Per rimediare a questa indecenza non è affatto necessaria una norma di
giustiza egualitaria: basta una norma di giustizia relazionale. Rispetto
al secondo punto, occorre dimostrare che non è davvero necessario lo
stesso e identico impegno delle volontà, tra chi decide delle norme e chi
decide di obbedirvi. L’idea della identità delle volontà, su cui si basa la
democrazia rappresentativa, spazza via tutti i casi in cui un gruppo di
legislatori opera intendendo servire gli interessi dei coinvolti, anche se
questi non partecipano direttamente alla creazione della legge (il che –
a dire il vero – rileverebbe anche all’interno di uno Stato, almeno nella
maggioranza dei casi!).
Sabel fa qui un esempio molto interessante riferito al WTO. Dato
che il suo scopo è di agevolare il commercio globale mediante riforme
alle barriere commerciali, esso può richiedere agli Stati che vi aderiscono di adattare e rivedere continuamente le loro norme e leggi agli
48
49
C.F. Sabel, J. Cohen, Extra Rempublicam, Nulla Justitia, cit., p. 163.
Ivi, p. 154.
39
standard internazionali che produce. La volontà degli Stati di adattarsi
agli standard del WTO diventa la condizione di possibilità di rimanere
nel WTO stesso: il criterio di inclusione. Quella che viene solitamente
osservata come deregolazione economica del globo è invece un immenso processo di ri-regolazione politica dell’economia. Tutti i processi
di discussione, di critica, di revisione sulla validità degli standard, dei
modi di adattamento dei diversi Stati ad essi, ecc. – processi che seguono il modello della democrazia sperimentale – sono decisivi per l’argomentazione di Sabel in quanto presuppongono «che i decisori (rule
makers) si considerano obbligati a dare un qualche peso alle premure
ragionevoli dei coinvolti (rule takers) (che si assume siano a loro volta
responsabili nel dover mostrare premura per gli interessi dei loro concittadini), e che i coinvolti, che sono soggetti a regole globali, si concepiscono come intitolati di un potere di critica nello stabilire quali regole
saranno istituite (anche se la forma precisa di questo diritto e l’attore
autorizzato a fornirlo sono contestati). Consideriamo questa combinazione di obbligazione e intitolazioni nella formulazione del commercio globale, come espressiva di una norma di inclusione: nell’unirsi al
WTO, per partecipare nel modo più completo possibile alla economia
globale, gli Stati membri non sono d’accordo nel sostituire le regole
domestiche che hanno stabilito, con quelle universali del commercio
efficiente. Piuttosto sono d’accordo nel rifare le loro regole, passo dopo
passo, alla luce degli sforzi di tutti gli altri attori, registrati nei regimi
degli standard internazionali, di conciliare le regolazioni domestiche
specifiche con standard generali che sono anche attenti agli interessi di
altri in altri luoghi»50. Lo stesso ragionamento può essere fatto riguardo
ai diritti umani, la seconda gamba dei processi di costituzionalizzazione
globale che affianca quella della auto-regolazione dei processi globali.
Secondo Sabel, bisogna considerarli come richieste per l’inclusione in
una società politica che opera sul terreno globale e che può essere resa
rendicontabile da altri che operano sul quel terreno per assicurare le
condizioni di inclusione. Da questo punto di vista, i diritti umani «non
sono confinati in diritti negativi che possono essere specificati al di fuori delle istituzioni, ma dovrebbero includere pretese per beni e opportunità istituzionalmente definiti e necessari per l’inclusione o la membership in una società organizzata politicamente. Qui la membership è
50
40
Ivi, p. 172.
una idea normativa e una persona è trattata come membro soltanto se ai
beni della persona viene attribuita la dovuta considerazione nel diritto
e nella società. Di conseguenza, i dibattiti sul contenuto e la portata
dei diritti umani possono essere compresi come disaccordi sui requisiti dell’inclusione: su cosa significhi per una società politica trattare le
persone come membri, su quale tipo di considerazione sia loro dovuta,
e su quali siano gli attori meglio posizionati per assicurare che questi
diritti siano assicurati»51.
Il risultato di questi processi globali non è prevedibile, ma certamente l’umanità sta entrando in una nuova fase della sua storia. Come
Sabel sottolinea, per sostenere l’emergere di una nuova identità umana
globale, occorre riattivare in tutta la sua forza la potenza dell’ideazione
e della capacità di immaginazione creativa: «se tale comune identità
dovesse emergere – non come risultato degli atti di una autorità politica
convenzionale e come contesto per controllarla, o come effetto di una
solidarietà etno-nazionale o costituzionale esistente ed esclusiva – allora avremmo un demos globale: un demos assai originale, una comunità
immaginata che richiederebbe un nuovo tipo di immaginazione, tra cui
una re-immaginazione delle distinte comunità la cui immaginaria necessarietà è oggi il maggiore ostacolo a quella fantasia politica da cui
qualunque demos può emergere. Per quanto insolito o anomalo, tuttavia, questo demos possiederebbe un numero sufficiente delle caratteristiche di un popolo – suddito e sovrano insieme di un mondo sottoposto
a regole globali – da rendere sensato un discorso di una democrazia
globale priva di Stato globale»52.
51
52
Ivi, p. 173.
C.F. Sabel, J. Cohen, Global Democracy, cit., p. 797.
41
Prefazione all’edizione italiana
CHARLES F. SABEL
La pubblicazione di questi saggi, scelti con cura da Riccardo
Prandini, coincide con il mio rinnovato impegno e interesse, dopo una
lunga assenza, nel dibattito italiano. Poiché mi sono rifamiliarizzato con
un Paese che un tempo conoscevo abbastanza bene e alla cui incessante
creatività e ingenuità, nel bene e nel male, non sono stato più capace di
resistere come moltissimi altri, lasciatemi cogliere l’occasione di spiegare perché un libro che riguarda nuovi modi di organizzare l’apprendimento e la rendicontazione, nella Pubblica Amministrazione e nel
welfare state, collegati mediante i confini nazionali all’Ue, possa essere
importante per affrontare i problemi che stanno di fronte all’Italia.
Quando negli anni Ottanta e per tutta la metà dei Novanta, arrivai
a conoscere l’Italia, il Paese era caratterizzato da un importante settore di grandi aziende. La FIAT competeva davvero con la Volkswagen.
A fianco di queste grandi imprese, i distretti industriali – brulicanti di
artigiani in costellazioni cangianti di imprese piccole e medio-piccole
– producevano componenti, beni capitali per grandi imprese manifatturiere e il flusso scintillante di beni di consumo irresistibili che facevano
del “made in Italy” il sinonimo del buon gusto. La vitalità economica
dei distretti industriali era eguagliata da quella politica e istituzionale: I
governi provinciali e regionali rendevano disponibili quei beni pubblici
(locali) che le imprese non potevano creare da se stesse, e davano ampia
prova che le istituzioni pubbliche potevano servire simultaneamente i
bisogni dei cittadini e dell’economia generando una specie di solidarietà
produttiva. Dopo tutto, l’Italia era l’Italia – indiscutibilmente un Paese
unico nonostante le sue forti disparità e differenze. La “terza Italia” dei
43
distretti industriali rappresentava un ulteriore aspetto, la espressione di
un potenziale peculiare di tutta l’Italia e di tutti gli italiani, e non una
regione separata (anche se, o proprio perché, ogni distretto aveva la sua
storia e il suo radicamento specifico).
Tantissimo è cambiato! Le grandi imprese sono andate o stanno andandosene. La FIAT potrebbe soppravvivere in partnership con
Chrysler, e potrebbe anche continuare ad essere una presenza importante in Italia, ma ci vorrà molto tempo prima che torni ad essere, come
era, una seria competitrice della Volkswagen per un posto dominante
nel mercato europeo. I distretti industriali sono ancora là (Prato è l’eccezione). Ma la rete locale di imprese è sempre più organizzata intorno
ai bisogni di grandi organizzazioni leader, come le multinazionali tascabili Geox e Luxottica. Queste aziende leader hanno molti altri partner
strategici in luoghi lontani, e il loro impegno locale è perciò non più
inequivocabile. La vitalità istituzionale della terza Italia dei distretti
non è più così evidente. Bologna, al cuore dell’economia artigianale,
si è mostrata incapace di auto-governarsi e per un lungo periodo è stata
sotto la tutela di un Commissario straordinario. Il governo regionale
non è più uno sprone ovvio per l’innovazione nazionale e un rimedio
parziale per i suoi limiti. Agli occhi di qualcuno è solo un’altra componente dell’esorbitante “costo della politica”.
E l’Italia? Quello che la Lega ha detto per anni ad alta voce, troppo
spesso con sgradevoli accenti xenofobici, è ora sussurrato con tristezza e senza alcuna traccia di razzismo, a Milano e Torino da persone
che ammiro: l’Italia non è un Paese unito e non lo è mai stato; l’unità
nazionale fu un accidente storico e non un destino; i confini regionali
stanno perdendo di significato nel Nord del Paese e la macro-regione
che ne risulta è in effetti un Paese, o almeno una economia (e molto
ricca) servita meglio in associazione con i suoi pari sia attraverso una
integrazione intensa con l’Ue che da impegni nazionali profondi; la vocazione del Sud è nel Mediterraneo e va lasciato che trovi da solo la
sua strada. La suggestione espressa a denti stretti è che senza i vincoli
di collaborazione con il Sud e forse con l’aiuto della relazione con altre
macro regioni dinamiche, la Padania del Nord supererà le sue difficoltà
(se davvero ha problemi oltre a quelli dovuti alla sua accidentale filiazione nazionale).
44
Anche se, dopo il lungo sonno dovuto alla mia assenza, mi sono
risvegliato nebbiosamente nella nuova realtà questo modo di fare i conti con tutti i cambiamenti emersi nella corrente crisi mi colpise con
sospetto. I fallimenti dell’amministrazione pubblica nella terza Italia
sono davvero un segno notevole di un fallimento generale nel riformare
le istituzioni pubbliche, nel Nord così come nel Sud. L’incapacità di
pianificare e realizzare grandi progetti infrastrutturali necessari; le prestazioni mediocri delle scuole statali (meglio nel Nord che nel Sud, ma
tutte troppo spesso inadeguate ai bisogni della economia anche laddove
il livello generale non è catastrofico); il vecchio e limitato sistema di
formazione professionale; l’erogazione sempre più scarsa di diversi tipi
di servizi sociali e di welfare per gli anziani e per molti altri gruppi –
sono tutti problemi che debbono essere risolti se si vuole equipaggiare
i cittadini per entrare nell’economia e adeguarsi, nelle forme della vita
familiare moderna – ai suoi costanti cambiamenti. E, dati i fallimenti
delle iniziative istituzionali locali, le riforme dovranno essere il frutto
di un qualche miscela coordinata di misure top-down e bottom-up –
nel Nord così come nel Sud e più probabilmente entrambe insieme.
Dovrà emergere una nuova visione di un welfare state e di una Pubblica
Amministrazione che possano simultaneamente apprendere dagli errori
e generalizzare i successi e così adattarsi ai cambiamenti nelle domande
che gli vengono poste, con i progressi dell’uno che aiutano ad orientare
i miglioramenti dell’altro.
Ogni sforzo di riforma verrà certamente complicato dalle usali peculiarità della situazione italiana. Ma si consideri – come invito alla
riflessione se non alla consolazione – che in un modo o nell’altro tutte le economie avanzate si scontrano con problemi simili di riforma,
almeno in alcuni settori chiave: la Finlandia ha un sistema di scuola
pubblica meraviglioso, ma un sistema povero per l’educazione continua
degli adulti, mentre in Danimarca, un’altra isola di felicità, la situazione
era fino a poco tempo fa, l’opposta – e ogni Paese ha le sue peculiarità. L’Italia gode di maggiore compagnia rispetto a questi problemi di
quanto la discussione corrente, basata sulla mia veloce lettura, permetta. O, in altri termini, anche se solo consapevole a metà della situazione
italiana, sembra ragionevole assumere che sarà impossibile affrontare
i problemi più urgenti e cospicui dell’Italia – un sistema dei partiti disfunzionale, corruzione e mafia – senza indirizzarsi ai problemi fonda45
mentali della ricostruzione del settore pubblico (e con esso della idea
stessa di welfare state) e viceversa.
Se queste idee vi sembrano affascinanti come complemento o sostituto per il tacito progetto padano, ma volete convincervi che costituiscono una speranza realistica e non un ulteriore nobile sogno senza
speranza, questo libro è per voi.
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