Risorgimento italiano – Risorgimento ungherese

Péter Sárközy (Università di Roma, La Sapienza):
Risorgimento italiano – Risorgimento ungherese. Parallelismi ed incroci. 1
L’eco della lotta comune nelle letterature dei due Paesi
I. I primi contatti diretti tra l’Italia e l’Ungheria nella primavera del 1848
I rapporti storico-culturali tra l’Italia e l’Ungheria possono vantare una storia di dieci
secoli.2 Aveva ragione il Presidente dell’Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e
Letteratura Italiana, il prof. Umberto Bosco, quando nel suo discorso inaugurale del VI
Convegno sul Romanticismo, svoltosi a Budapest nel lontano 1967, ebbe a dire: Può stupire,
sebbene sia una cosa storicamente spiegabilissima, il fitto intrecciarsi di rapporti storici, di
flussi di reciproca simpatia tra i due popoli, l’ungherese e l’italiano, non vicini
geograficamente, così etnicamente diversi. Eppure da San Gherardo in poi le due storie
continuamente si intersecano per influssi spirituali.3 I rapporti culturali con l’Italia furono
sempre molto importanti, fondamentali per la cultura ungherese, mentre in Italia soltanto in
pochi – i migliori, però: Dante, Petrarca, Machiavelli – manifestarono interesse per le sorti
della “beata Ungheria”.
Questa unilateralità terminò tuttavia nel corso dell’Ottocento, quando i due popoli
lottarono come due fratelli contro lo stesso nemico, gli Asburgo. L’Italia per poter ricreare
l’unità della nazione e l’Ungheria per ottenere il riconoscimento dell’autonomia statale del
Regno d’Ungheria di Santo Stefano nel contesto dell’Impero Asburgico.
Già durante le discussioni delle sedute della dieta ungherese (le cosiddette “reformországgyűlés”) del 1832-1836 si manifestarono reazioni ai recenti avvenimenti dell’ondata
rivoluzionaria prodottasi in varie parte dell’Europa, la solidarietà per la nazione polacca divisa
tra l’Austria e la Russia e per i movimenti rivoluzionari italiani, e si deplorò che “le forze
armate ungheresi fossero state adoperate per sostenere i troni vacillanti in Italia”.4 Nello
stesso tempo lo stesso Mazzini e i suoi seguaci seguivano con grande interesse i cambiamenti
1
La prassi, diventata ormai tradizione nella vita scientifica e culturale, di commemorare certe ricorrenze
di particolare rilievo è stata il mio incentivo ad accettare l’invito a partecipare a questo convegno e tenere
una conferenza sui “parallelismi ed incroci” tra il Risorgimento italiano e il movimento nazionale
ungherese dell’Ottocento, anche se sono ben consapevole che si tratta di un terreno già approfonditamente
studiato dai migliori storici italiani e ungheresi. Basti pensare alle ricerche di Attilio Vigevano, di Jenő
Koltay Kastner e di Magda Jászay e di molti altri studiosi sulla partecipazione degli ungheresi al
Risorgomento italiano e sui rapporti politico-diplomatici tra i più grandi personaggi del Risorgimento
italiano e dell’Ungheria di Lajos Kossuth (Cfr.: M. Jászay, Studi ungheresi sul Risorgimento nell’ultimo
cinquentennio, in AA.VV., Italia e Ungheria dagli anni Trenta agli anni Ottanta, a cura di P. Sárközy,
Budapest, Universitas 1998).
Proprio per questo nella prima parte della mia conferenza riassumerò pertanto i risultati delle loro
ricerche, mentre nella seconda parte, come studioso della letteratura, vorrei aggiungere qualche
contributo originale sull’eco letteraria del Risorgimento italiano nella cultura ungherese dell’Ottocento.
2
Cfr.: AA.VV., Italia ed Ungheria. Dieci secoli di rapporti letterari, a cura di M. Horànyi e T. Klaniczay,
Budapest, Akadémiai, 1967.
3
Cfr.: AA.VV., Il Romanticismo (Atti del VI Congresso dell’AISLLI), a cura di V. Branca e T. Kardos, Budapest,
Akadémiai, 1968, p. 19.
4
M. Jászay, Italiani e ungheresi per la riscossa nazionale 1815-1866, “Il Veltro”, 5-6, 1992.
1
politici dell’Ungheria, perché un’eventuale uscita del Regno d’Ungheria dall’Impero avrebbe
indebolito le posizioni degli Asburgo anche in Italia.5
Il comune Risorgimento dei due popoli non rimase senza eco né in Italia né in
Ungheria. I giornali ungheresi dell’epoca informarono il pubblico ungherese sugli
avvenimenti rivoluzionari italiani, sull’insurrezione del popolo di Palermo, sulla rivolta di
Milano. 6 Seguendo le notizie dei giornali uno dei poeti più famosi del tempo, Sándor Petőfi,
scrisse un’ode All’Italia.7
Il poeta ispiratore della rivoluzione di Pest-Buda del 15 marzo 1848 s’infiammò
talmente alla notizia della rivoluzione siciliana da scrivere un’ode all’Italia, nella quale si
rivolgeva entusiasta e concitato al popolo italiano chiedendo aiuto per la sua lotta al “Dio
della Libertà”:
“Finalmente sono stanchi di trascinarsi per terra,
Ad uno ad uno sorgono in piedi
Dai sospiri ora nasce una tempesta
E non più le catene, ma tinniscono le spade,
Non più pallide arance, ma di rose vermiglie
Carichi or si fanno gli alberi del Sud.
Sono i tuoi sacri gloriosi soldati:
Aiutali, Iddio della libertà!”
Un mese dopo, il 15 marzo 1848, Sándor Petőfi recitò un’altra sua poesia, il Canto Nazionale,
che venne stampata e distribuita tra la folla radunata davanti al Museo Nazionale per incitarla
alla rivoluzione. Nella sua canzone nazionale ritornano non pochi motivi dell’ode scritta
all’Italia: chiede di sorgere in piedi (Talpra magyar!), ritorna il confronto tra la spada e le
catene, ma ormai chiede di giurare al Dio dei magiari di non rimanere più schiavi (A
magyarok Istenére esküszünk, esküszünk, / Rabok tovább nem leszünk):
„La spada brilla più della catena:
S’addice meglio al braccio
Noi invece portiamo catene.
A noi dunque la spada gloriosa.
Per il Dio, per il Dio dei magiari,
Giuriamo
Giuriamo
Che noi non saremo più schiavi!”
Nelle poesie di Petőfi l’azione rivoluzionaria si trasformò in vera poesia e i versi di questo
„Tirteo della libertà” aiutarono a mettere in moto e a dare coraggio al popolo ungherese, nel
1848/1849, nei momenti più difficili della sua lotta per la libertà, alla quale anch’egli prese
parte da soldato fino all’ultimo, trovando la morte sul campo di battaglia a Segesvár (oggi
Sigosoara in Romania) nel luglio del 1849.
Cfr.: G. Mazzini, Scritti, Ed. Naz., vol. III, pp. 87-19. Cfr.: M. Jászay, L’Italia e la rivoluzione ungherese
1848-1849, cit., p. 30.
6
M. Jászay, L’Italia del Quarantotto nella stampa ungherese del tempo, „Rassegna storica del
Risorgimento”, Roma, Fasc. II, 1968; Id., La lotta della libertà ungherese 1848-49 vista dagli italiani, in
AA.VV., Il Romanticismo, Atti del VI Congresso dell’AISLLI, Budapest, Akadémiai 1968.
7
Gy. Illyés, Petőfi, Milano, Feltrinelli 1960.
5
2
La morte del poeta rivoluzionario sul campo di battaglia ebbe grande eco in tutta l’Europa,
così anche in Italia. Per primo Aleardo Aleardi gli dedicò un commosso ricordo nel nono
canto del suo poema I sette soldati (1861):
“E tu, Sándor, perivi,
Dei carmi favorito e de la spada
Mentre l’arco degli anni e di fortuna
Poetando salivi.
...
Quivi periva. A immagine del forte
Paladino ferito in su le arene
Fatali di Pirene
Forse egli pria de la solinga morte
Chiedendo aita, il corno
Disperato sonò, ma non l’udia
La esamine Ungheria.”
In seguito Giosuè Carducci innalzò un vero e proprio monumento al poeta
ungherese nel suo saggio scritto sul Mameli (1872), in cui lo definì “il Tirteo della Libertà”.
Grazie a questo culto, Petőfi divenne ben presto uno dei poeti stranieri più tradotti in Italia
negli anni Settanta e Ottanta; in Sicilia si formò una scuola petőfiana8 e perfino il giovane
Pascoli scrisse una “canzon selvaggia” in suo onore.9
II. Italia e Ungheria nel periodo 1848/1861. La legione italiana in Ungheria,
partecipazione degli ungheresi alle lotte del Risorgimento italiano
I rapporti tra l’Italia e l’Ungheria divennero molto intensi in seguito all’epoca della
primavera dei popoli e nell’epoca delle successive lotte d’indipendenza in Italia e in Ungheria
nel corso del 1848/49. Sotto l’influsso delle rivoluzioni di Vienna e di Pest del 13 e del 15
marzo 1848, l’imperatore Ferdinando I, re d’Ungheria, riconobbe l’autonomia giuridicostatale del Regno d’Ungheria, firmò le leggi delle riforme sociali (abolendo le leggi feudali
sulla servitù della gleba, introducendo l’uguaglianza davanti alla legge e al fisco ecc.) e
nominò un governo autonomo ungherese, nominando come primo ministro il conte Lajos
Batthyány. In settembre però, dopo le prime vittorie militari in Italia del generale Radetzky, il
nuovo, giovane imperatore Francesco Giuseppe, salito al trono con un complotto di corte,
volle subito ritirare tali concessioni. A tale scopo dapprima aizzò contro gli ungheresi i croati
e i serbi, i quali diedero avvio a una vera campagna militare contro l’Ungheria, e
successivamente, in seguito alla clamorosa sconfitta di Jelačić, bano della Croazia (regno
associato della corona ungherese dal 1101 al 1918), in ottobre dichiarò l’annullamento delle
leggi sull’autonomia ungherese e inviò le truppe di Windischgrätz in Ungheria per annientare
L. De Cupis, La fortuna di Petőfi in Italia, Roma, La Sapienza, 1967/68, L. Pálinkás, Avviamento allo studio
della lingua e letteratura ungherese in Italia, Napoli, Cymba, 1970, pp. 31-35, 69-71; H. Meltz, La scuola
petőfiana in Sicilia, Kolozsvár, 1879; A. Cottignoli, Petőfi in Italia, „Rivista di Studi Ungheresi”, 7-1992; R.
Ruspanti, L’immagine romantica di Petőfi in Italia, „Rivista di Studi Ungheresi”, 13-1998, pp. 11-26.
9
„Pagine sparse”, Bologna, 15-10-1877, p. 97.
8
3
l’autonomia statale del Paese. In quel momento ebbe inizio la “guerra d’indipendenza”
ungherese (szabadságharc), che nel corso della primavera condusse a grandi vittorie per
l’esercito magiaro (guidato dai generali polacchi Dembinsky e Josef Bem), la riconquista
della capitale Buda e la cacciata delle truppe austriache dal territorio dello Stato ungherese.
Il governo del Piemonte si decise a quel punto di non appoggiare più la cosidetta
“autodeterminazione” dei popoli danubiani (cioè il separatismo dei romeni, serbi e croati dal
Regno d’Ungheria), e scelse di sostenere il governo ungherese, guidato da Lajos Kossuth,
ormai in guerra con l’Austria. Gioberti mandò in Ungheria il suo agente, il tenente-colonnello
bresciano Alessandro Monti, per preparare un’alleanza italo-ungherese contro gli Asburgo.10
Le vittorie dell’esercito ungherese e la liberazione della capitale Buda, indussero il giovane
imperatore a chiedere, con un gesto clamoroso di baciamano, l’intervento dello zar russo che
diede inizio alla seconda fase della guerra d’indipendenza ungherese, quando, accanto
all’esercito del generale Haynau, un intero esercito russo formato da duecentomila cosacchi
attraversò il confine polacco-ungherese.
Finita la stagione delle trattative diplomatiche, il colonnello Monti formò una legione italiana,
composta dai soldati italiani che avevano disertato dai reggimenti austriaci, la quale prese
parte attiva alla lotta per la libertà dell’Ungheria fino alla resa dell’esercito ungherese davanti
all’esercito russo, avvenuta l’11 agosto del 1849.11 Monti ed i soldati della legione italiana,
insieme al governatore Lajos Kossuth e a molti capi della rivoluzione ungherese, si
rifugiarono prima in Turchia, poi in Italia, per sfuggire alla vendetta di Haynau (il boia di
Brescia), che fece fucilare 13 generali ungheresi insieme al primo Primo ministro del governo
nominato dallo stesso imperatore, il conte Batthyány.12
Nello stesso momento in cui si formava la legione italiana in Ungheria, nella primavera
del 1849 in Piemonte e in Venezia si costituirono anche due piccole legioni ungheresi,
comprendenti militari fuggiti dai reggimenti di Radetzky. La legione ungherese di Piemonte
contava su 110 soldati con il comandante, il colonnello István Türr, mentre nella Repubblica
Veneziana fu organizzata una piccola brigata di 60 soldati ungheresi sotto il comando del
tenente Lajos Winkler. Quando le rivoluzioni furono sconfitte in tutta Europa, una parte di
questi militari chiese l’arruolamento nell’esercito reale piemontese, altri invece lasciarono
l’Italia, andarono in Inghilterra, in Francia o addirittura in America. (Il colonnello István Türr
con altri due ufficiali ungheresi, prese parte alla guerra di Crimea come ufficiale dell’esercito
inglese, venne catturato dagli austriaci, fatto liberare dagli inglesi, infine tornò in Italia e
divenne colonnello poi generale dell’esercito piemontese13).
Dieci anni più tardi, grazie a questi ufficiali ungheresi rimasti in Piemonte - ai quali si
erano riuniti anche i capi della rivoluzione ungherese, il governatore Lajos Kossuth, ed alcuni
ex-generali dell’esercito ungherese del 1849 - nel 1859, alla vigilia del conflitto tra Piemonte
10
Cfr.: V. Gioberti, Epistolario, Ed. Naz., vol. VIII, 1936, pp. 328-332; N. Bianchi, Storia documentata della
diplomazia italiana in Europa, Torino, 1865-72, vol. VI, p. 121.
11
Sulla missione Monti cfr.: F. Bettoni-Cazzago, Gli italiani nella guerra d’Ungheria, 1848-1849, Milano,
1888; A. Pierantoni, Il colonnello A. Monti e la Legione italiana in Ungheria, Roma, 1903; László Pete,
Alessandro Monti e la legione italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino 2002.
12
Un capitolo particolare del Risorgimento dei due popoli riguarda il rapporto tra il Mazzini e Lajos Kossuth
negli anni Cinquanta, quando essi erano i capi del movimento democratico-liberale europeo. La questione è stata
studiata approfonditamente da Jenő Koltay Kastner: Mazzini e Kossuth, Firenze, Le Monnier 1928; Id., Iratok a
Kossuth emigráció történetéhez (Documenti relativi alla storia dell’emigrazione di Kossuth, Szeged, 1949); Id.,
A Kossuth-emigráció Olaszországban (L’emigrazione kossuthiana in Italia); Scritti di Lajos Kossuth sull’Italia, a
cura di M. Jászay, Cosenza, Periferia 1996.
13
Pasquale Fornaro, Stefano Türr. Una biografia politica, Soveria Monnelli, Rubbettino 2004. Id., István Türr e
la „sua” Italia, „Rivista di Studi Ungheresi”, (XXV), 10-2011 (Numero speciale: Ungheresi nel Risorgimento
italiano. Studi in onore del 150 anniversario dell’Unità d’Italia), pp. 18-46.
4
e Austria, fu organizzata una legione ungherese vera e propria – in base all’accordo tra Luigi
Kossuth e il conte di Cavour – formata dai soldati fuggiti dai reggimenti imperiali, guidati
dagli ufficiali dell’emigrazione ungherese sotto la guida del generale György Klapka. Altri
ufficiali ungheresi (come Sándor Teleki, István Türr, Lajos Winkler ecc.) nella battaglia di
Solferino prestarono servizio nella brigata alpina del Garibaldi. La legione ungherese fu
chiamata „Magyar Sereg Olaszhonban” (Esercito Ungherese dell’Italia) ed ebbe un organico
di 3.200 soldati (ussari e fanti). Dopo la battaglia di Solferino e la pace di Villafranca la
legione ungherese fu sciolta. Fu grande la delusione di Kossuth e dei soldati ungheresi, che
Vittorio Emanuele e Napoleone III si accontentarono dell’annessione della Lombardia e, non
volevano continuare la guerra contro l’Austria. Lajos Kossuth riuscì almeno ad ottenere che,
nel trattato di pace ci fosse una clausola secondo la quale i soldati ungheresi potevano tornare
in patria senza nessuna ritorsione o conseguenza legale per la loro desertazione e
partecipazione alla guerra contro l’Austria.
Molti ufficiali ungheresi ed alcuni soldati rimasero però in Italia nella speranza che,
dopo la sconfitta dell’Austria e dopo l’unificazione della penisola italiana, l’ondata della
liberazione sarebbe arrivata a coinvolgere anche l’area dell’Europa Centrale. Molti di loro si
trasferirono inizialmente a Modena per aiutare l’annessione dell’Italia Centrale. Tale legione
ungherese era di stanza a Piacenza (gli „ussari di Piacenza”) e, in parte, a Parma, con un
organico di 750 soldati, guidati dal colonnello Gergely Bethlen, ma venne sciolta anch’essa in
seguito all’annessione pacifica dell’Italia Centrale tramite plebiscito.
Tra i „Mille” di Garibaldi, nel momento della partenza dal porto di Quarto, c’erano
solo 4 ungheresi (il colonnello István Türr, il tenente-colonnello Lajos Tüköry, il caporale
Antal Goldberg e il fante Vencel Lajoski) ma, dopo lo sbarco a Marsala, ne arrivarono altri
con le navi successive, in numero sufficiente a poter formare una piccola legione ungherese.
Con questo organico gli ungheresi erano i più numerosi (ca. 362) tra i soldati stranieri del
Garibaldi al momento della battaglia presso il Volturno, mentre altri ufficiali ungheresi (come
i maggiori Mihály Csudaffy e Fülöp Figyelmessy, i colonnelli István Dunyov, Lajos Winkler,
Károly Éberhardt, Gusztáv Frigyesy, il conte Sándor Teleki e il generale Nándor Éber o il
maggiore Mogyoródi) furono nominati da Garibaldi al comando dei vari battaglioni italiani.
Oltre al numero abbastanza grande degli ungheresi che parteciparono alle diverse battaglie da
Marsala fino al Volturno, era molto importante il ruolo svolto dagli ufficiali ungheresi tanto
nelle battaglie, quanto nei raporti con il governo di Piemonte. Loro nello stesso tempo erano
ufficiali dell’esercito piemontese e volontari stranieri del Garibaldi. In queso modo offrirono
la garanzia dell’equilibrio tra i garibaldini e tra la monarchia sabauda, un contributo
importante all’unificazione pacifica dei due regni in uno Stato unitario italiano.
Mentre la legione ungherese del 1859 fu organizzata dalla direzione del Consiglio
Nazionale Ungherese in esilio, guidato da Lajos Kossuth, nel corso del 1860 la partecipazione
degli ungheresi alla missione militare del Garibaldi, era indipendente, qualche volta anche
contro la volontà del ex governatore ungherese. Era una iniziativa autonoma degli ufficiali
ungheresi (incoraggiata anche dal governo piemontese, che aveva dei dubbi nei confronti
Kossuth a causa dei suoi legami precedenti con il Mazzini). Questi soldati e ufficiali
ungheresi dal 1849 custodivano il desiderio di partecipare alla liberazione prima dell’Italia e
poi, se fosse possibile, anche dell’Ungheria. Non solo Garibaldi tenne molto importante il
ruolo dei „suoi ungheresi” alla liberazione della Sicilia e del Regno di Napoli, ma anche
Vittorio Emanuele, il quale accolse quasi tutti gli ufficiali ungheresi all’esercito reale con gli
stessi gradi militari che ricevettero dal Garibaldi. 14 Il generale István Türr divenne il primo
14
Sull’emigrazione ungherese in Italia e sui soldati ungheresi che parteciparono alle lotte del
Risorgimento italiano cfr.: A. Vigevano, La legione Ungherese in Italia, Roma, 1924; Jenő Koltay Kastner,
Il contributo ungherese nella guerra del 1859, Firenze, 1934; Id., A Kossuth-emigráció Olaszországban
(L’emigrazione Kossuth in Italia), Budapest, Akadémiai 1960; Lajos Lukács, Garibaldi magyar önkéntesei
5
governatore militare della Sicilia liberata e, in seguito, il primo prefetto militare di Napoli.
Dopo l’unificazione d’Italia egli continuò ancora la sua carriera militare come generale
dell’esercito reale e grazie al suo matrimonio con una cugina di Napoleone III, divenne una
influente personalità della vita politica dell’Italia unita.15
L’unità d’Italia fu proclamata nel 1861 in seguito alla spedizione gloriosa dei Mille
di Garibaldi. I garibaldini italiani si prepararono alla liberazione di Roma, mentre gli
ungheresi e i polacchi alla liberazione delle loro patrie. Nei garibaldini ungheresi, e nello
stesso Kossuth si nutriva la speranza di poter vedere rinnovare, con una fulminea irresistibile
irruzione in Ungheria, il “miracolo dei Mille”. Ma le grandi potenze europee fermarono i moti
rivoluzionari e, di conseguenza, i progetti di Lajos Kossuth per una spedizione militare
guidata da Garibaldi e dal generale Klapka nei Balcani vennero cancellati, così come lo stesso
Garibaldi fu fermato dalle forze piemontesi in Aspromonte.
Mentre la lotta per l’unità d’Italia, grazie all’esistenza di un piccolo ma autonomo
regno italiano e all’appoggio di due grandi imperi (Francia e Inghilterra) fu vittoriosa e si
arrivò così nel 1861 alla proclamazione del nuovo Regno unitario (e nel 1870 alla vittoria di
Porta Pia e all’annessione dello Stato Pontificio), in Ungheria, in seguito alla sconfitta militare
di luglio del 1849, non rimase nessuna possibilità di continuare la lotta armata. Di
conseguenza la nobiltà ungherese potè ricorrere soltanto alla resistenza passiva contro
l’oppressione illegale della corte di Vienna nei confronti dell’autonomia statale dell’Ungheria
(dal 1527 regno autonomo nel contesto dell’Impero). Dopo lunghe trattative politiche, che
durarono quasi dieci anni, nel 1867 fu sottoscritto il compromesso storico con gli Asburgo
(“Ausgleich”) e fondato uno stato dualistico, la Monarchia Austro-Ungarica, con il
riconoscimento totale dell’autonomia politico-giuridica del Regno d’Ungheria nel contesto di
una monarchia dualistica (due stati in una monarchia con un re-imperatore). In seguito alla
riconciliazione tornarono in Ungheria anche i capi dell’emigrazione politica e alcuni di essi
(come József Eötvös) divennero ministri del nuovo governo autonomo ungherese guidato dal
conte Gyula Andrássy (nel 1849 condannato a morte in contumacia). Anche István Türr tornò
diverse volte in Ungheria, dove fu accolto con grande solennità al Parlamento ungherese, e
anche Francesco Giuseppe, incoronato re d’Ungheria, lo accolse in un ricevimento privato.
L’unica eccezione fu il governatore Lajos Kossuth, il quale rimase fino alla morte (avvenuta
nel 1894) per trentaquattro anni nel suo esilio, ormai volontario, torinese (a Collegno).
és Kossuth 1860-61-ben (I volontari ungheresi di Garibaldi nel 1860-61), Budapest, Akadémiai 1962; A magyar
garibaldisták útja Marsalától a Porta Piáig (La via dei garibaldini ungheresi da Marsala fino alla Porta Pia),
Budapest, Kossuth 1971; Magda Jászay, L’Italia e la rivoluzione ungherese 1848-1849, Budapest, 1948; Id., Il
Risorgimento vissuto dagli ungheresi, Soveria Manelli, Rubbettino 2002; Pasquale Fornaro, Risorgimento
italiano e la questione ungherese, ivi, 1995. Sugli ungheresi dei Mille, e sulla morte eroica del maggiore
Lajos Tüköry durante l’assedio di Palermo, parla con grande affetto Cesare Abba nel suo famoso libro
Dal Quarto al Volturno.
15
Carlo Pecorini-Manzoni, Storia della 15a divisione Türr nella campagna del 1860 in Sicilia e Napoli, Firenze,
1876; F. Cuniberti, Storia militare della Spedizione dei Mille, Torino, 1893; Türr István emlékezete (In memoria
di I. Türr), Budapest, 1909; L’opera di Stefano Türr nel Risorgimento italiano, descritta dalla figlia, Roma,
1930; Pasquale Fornaro, Stefano Türr. Una biografia politica, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004; László Pete,
Ungheresi tra i Mille, „Rivisa di Studi Ungheresi”, (XXV), 15-2011, pp. 8-17.
6
III. L’eco del Risorgimento italiano nell’opinione pubblica e nella letteratura ungherese
del tempo
Poiché in Ungheria la lotta concreta per la libertà era impossibile, le azioni militari
vennero sostituite da una lotta virtuale sulle pagine dei giornali e dei libri.
Dopo la sconfitta dell’Austria a Solferino e successivamente alla gloriosa avventura dei
Mille in Sicilia - in cui svolsero un ruolo di rilievo anche gli ufficiali ungheresi - il
Risorgimento italiano divenne una questione sentimentale per gli Ungheresi.
Negli anni Sessanta Garibaldi divenne una figura mitica in Ungheria, non soltanto
nell’opinione politica ma anche nella fantasia popolare. Non possiamo dimenticare che, grazie
alla pace di Villafranca, i circa tremila soldati della Legione ungherese poterono tornare in
patria portando con sé le notizie dell’emigrazione ungherese: notizie su Lajos Kossuth e sulla
partecipazione eroica degli ungheresi alla spedizione di Garibaldi. E gli ungheresi sognavano
e speravano che, dopo la liberazione dell’Italia, Kossuth e Garibaldi avrebbero liberato anche
l’Ungheria dall’oppressione austriaca.
Una dopo l’altra nacquero in questo periodo canzoni popolari che sognano il ritorno in
Ungheria di Kossuth al fianco di Garibaldi (chiamato anche, “dialettalmente”, Galabardi) e
con il generale Klapka:
“Garibaldi csárdás kiskalapja
Nemzetiszín szalag vagyon rajta
Nemzetiszín szalag vagyon rajta
Kossuth Lajos neve ragyog rajta”
(Sul cappello alla „csárda” di Garibaldi c’è un nastro tricolore. Su quel nastro tricolore
splende il nome di Lajos Kossuth)
„Kossuth, Klapka, Türr
Mind be fognak jönni
Gyerünk a hazáért
Fegyverrel harcolni,
Éljen Garibaldi!”
(Kossuth, Klapka e Türr ritorneranno. Andiamo anche noi a combattere per la patria con le
armi. Evviva Garibaldi!)16
Negli anni Sessanta, anche per aiutare la lotta politica finalizzata a ottenere il
riconoscimento delle leggi di autonomia statale (firmate dal precedente imperatore nell’aprile
del 1848), per dare forza al pubblico dei lettori con gli esempi storici, non pochi scrittori
ungheresi rievocarono nelle loro opere le lotte politiche della prima metà dell’Ottocento, la
cosiddetta “epoca delle riforme”, e cominciarono a presentare anche le lotte del Risorgimento
italiano cui avevano preso parte anche alcuni ungheresi a partire dal 1849.
Cfr.: R. Ruspanti, L’eco e il mito del Risorgimento italiano in alcuni scritti e canti popolari ungheresi,
„Rassegna Storica del Risorgimento”, 1980, pp. 149-152.
16
7
Il maggiore narratore delle lotte del Risorgimento ungherese risultò Mór Jókai
(1823-1902), grande romanziere del Romanticismo ungherese, il quale in una serie di romanzi
raccontò la storia del Paese nella prima metà dell’Ottocento, i vari avvenimenti del grande
movimento risorgimentale magiaro (Egy magyar nábob, 1854, Eppur si muove, 1857), le
rivoluzioni del 1848 e la successiva guerra d’indipendenza nazionale (Kőszívű ember fiai,
1867 – in italiano: I Baradlay). In questi romanzi di Jókai possiamo trovare molti riferimenti
anche alla storia italiana dell’epoca: già in Eppur si muove, per esempio, il giovane Kálmán
Jenőy, viaggiando nell’Italia degli anni Trenta, riceve aiuto dai carbonari italiani.17
Nel romanzo I diamanti neri (Fekete gyémántok, 1870), scritto e pubblicato
nell’anno della presa di Roma, sullo sfondo della storia romantica della lotta tra un
imprenditore “nazionale” contro le compagnie multinazionali che vogliono impadronirsi di
tutte le miniere e di tutte le ferrovie ungheresi, barando alla borsa, l’abate Samuele
(modellato dallo scrittore sulla figura di János Danielik, personaggio discusso della Chiesa
cattolica ungherese, grande sostenitore dell’ingresso delle banche francesi in Ungheria)
segue le notizie che arrivano dall’Italia, dove le truppe reali proprio in quel momento si
stanno preparando all’assedio di Roma per “chiudere il papa tra le mura del Vaticano”; egli
stesso e i suoi amici banchieri raccolgono dalle vedove cattoliche fondi per il papa e arruolano
volontari da mandare allo Stato Pontificio per lottare contro Garibaldi.
In un episodio del romanzo, un giovane pianista ungherese non vuole dare alcun
concerto a sostegno dell’arruolamento di zuavi pontifici, porta la camicia rossa e si rifiuta di
suonare contro Garibaldi: io non vado contro Garibaldi!... no, no! – s’infocava il ragazzo. E
per meglio avvalorare il diniego, aprì i due petti del suo panciotto. – Vedete questo? - Portate
la camicia rossa… … Árpád riprese il suo cappello e disse ad Evelina: - Cantate pure
insieme col signor Mérode e con le compagnie di zuavi; poi con Garibaldi, li suoneremo
noi!” 18 (La camicia rossa ritornerà anche nel famoso romanzo per l’infanzia di Ferenc
Molnár, I ragazzi di via Pál (1907), in cui i ragazzi guidati di Feri Ács, che si vestono in
camicia rossa, vogliono occupare il ground come i garibaldini avevano occupato la Sicilia.)
Nella scena più romantica e, se vogliamo, più grottesca del romanzo di Mór Jókai,
nel capitolo Immacolata, l’abate Samuele prova a convincere la giovane cantante a diventare
amante di un ricco banchiere, che con il suo denaro potrebbe ancora salvare il papa. Per
convincere la giovane donna al peccato carnale, nel romanzo di Jókai (di fede protestante
calvinista) nell’estate del 1870 il prete ragiona così:
Pensate che il raggiungimento di sì alto scopo dipende solo dalla Vostra parola.
Lascereste andare in rovina la Santa Sede, su Castel Sant’Angelo sventolare la bandiera
degli atei in luogo della Croce, e abbattere le statue sacre, per un capriccio di donna?
La giovane cantante tuttavia non diventerà l’amante del vecchio banchiere, perché
confessa al suo strano confessore di essere ancora “illibata”. Allora: L’abate emise un grande
sospiro. Sentiva svanire come nebbia tutta la sua gloria, tutta la sua grandezza davanti a
quella semplice affermazione. Ella impersonava un concetto ben più alto di Castel
Sant’Angelo. Una donna col “talon rouge” sotto ai piedi e la fronda di mirto sulla testa.
Cortigiana e immacolata!... Neanche Saulo era stato meglio convertito dal fulmine. ... E si
allontanò di là. Acquistò un biglietto ferroviario e partì per andare a rinchiudersi nel suo
tranquillo monastero. Il mondo non sentì mai più parlare di lui.19
17
I romanzi di Mór Jókai sono stati tradotti in tutte le lingue europee. In Italia sono stati pubblicati 25 titoli del
grande scrittore ungherese a partire dalle prime traduzioni degli anni Ottanta dell’Ottocento. Cfr.: L. Pálinkás,
Avviamento allo studio della lingua e leteratura ungherese (Bibliografia italiana), Napoli, Cymba, 1970.
18
Maurus Jókai, Diamanti neri (trad. Elisabetta Magrini), Milano, Sonzogno, 1939, pp. 504-506.
19
Ibid., pp. 514-516. Nella figura del banchiere Felix Kaufman lo scrittore presenta il „Marcinkus”
dell’Ottocento, il banchiere belga di papa Pio IX, Langrand-Dumunceau, che finanziava il „panama delle
nuove ferrovie” in Ungheria. L’impresa bancaria internazionale dell’Anker-Vindobona ebbe un crollo
catastrofico nel 1872, in seguito alla sconfitta dei progetti di politica internazionale. Langrand-Dumunceau
8
Jókai, come tanti intellettuali ungheresi, seguiva con grande interesse e con
profonda simpatia i moti politici dell’Italia e nei suoi romanzi inserì anche più tardi scene di
questo genere, familiari al suo pubblico, rendendo più colorito e più romantico il racconto.
Tra i romanzi storici “italiani” del Jókai possiamo annoverare anche Egy az Isten
(1877), tradotto in italiano nel 1888 col titolo Quelli che amano una volta, la cui prima parte è
ambientata nella Roma all’epoca di Pio IX e di Pellegrino Rossi. Le avventure d’amore dei
due protagonisti ungheresi si svolgono sul sottofondo storico dei moti rivoluzionari di Roma,
che poi trova continuità nelle scene di guerra in Transilvania del secondo volume, mentre il
romanzo finisce con la grande battaglia di Solferino, cui prende parte anche il protagonista
principale della storia. Manassé Adorján è un nobile transilvano appartenente alla piccola
chiesa protestante degli unitari (antitrinitari); dopo la sconfitta della guerra d’indipendenza
ungherese viene costretto ad arruolarsi nell’esercito austriaco, dove deve combattere nella
battaglia di Solferino contro i suoi fratelli italiani. Ed egli combatte senza ferir di spada, senza
sparare un colpo, come vuole la sua fede religiosa; catturato dai suoi connazionali della
legione ungherese che combatte accanto ai piemontesi per la causa italiana, viene accolto
festosamente e nominato maggiore dell’esercito piemontese. A quel punto finisce per
disobbedire alla sua fede, che gli proibisce di uccidere, e prende parte attiva alla lotta per la
libertà.
La fantasia del grande narratore romantico ci offre un’immagine romantica del
Risorgimento dei due popoli “fratelli”, mentre in un altro capolavoro della letteratura
ungherese della seconda metà dell’Ottocento, il romanzo in versi di László Arany L’eroe dei
miraggi (A délibábok hőse, 1872), si dipinge un quadro realistico, anzi: abbastanza
deprimente, dello stesso movimento, visto da un autore che appartiene alla generazione degli
scapigliati ungheresi.
László Arany, figlio del grande poeta nazionale János Arany (amico e compagno di
lotta di Sándor Petőfi), finì i suoi studi universitari (giuridici) nel 1866, divenne economista e
poi banchiere. Cominciò la sua carriera di scrittore – sulla scia del padre – alla fine degli anni
Sessanta, pubblicando una grande raccolta di fiabe popolari e scrivendo poesie e saggi
letterari. Nella sua opera “oneghiniana”, nel poema A délibábok hőse (L’eroe dei miraggi)
descrive la vita e la sorte della generazione dei grandi sognatori dell’ultimo periodo del
Risorgimento, destinati a diventare i grandi delusi. Nel racconto l’autore porta il suo eroe in
Italia, dove Balázs Hűbele (Biagio Testacalda), seguendo i suoi miraggi di libertà, prende
parte allo sbarco in Sicilia dei Mille di Garibaldi e segue l’eroe dai cappelli brizzolati (ősz
vezér) fino alla tragica avventura di Aspromomonte e poi all’isola di Caprera. Balázs Hűbele
lotta per nobili cause, ivi compresa l’unità d’Italia, ma ognuna di esse finisce per deluderlo.
Dopo le esperienze italiane si reca in Inghilterra per vedere e imparare la democrazia
moderna; tornato in patria vuole realizzare le riforme viste in Inghilterra ma viene deriso da
tutti, e le sue iniziative falliscono. Alla fine Balázs si rassegna, rinuncia ai grandi ideali e si
apparta a vivere nel suo piccolo, sperduto podere nella noiosa e fangosa provincia ungherese.
László Arany è l’ultimo degli scrittori ungheresi dell’Ottocento che conservarono
l’eredità della grande generazione del 1848-1849, senza però l’esperienza diretta della
fuggì in Brasile come Felix Kaufman nel romanzo, due anni prima degli eventi reali. Cfr.: Jacque Myns,
Langrand-Dumunceau promoteur d’une puissance financière catholique, Brucxelles, 1960; Fekete Gyémántok,
ed. critica, a cura di M. Nagy e J. Nacsády Budapest, Akadémiai 1964, I, pp. 286-302 (Il fondo storico del
romanzo. Gli avvenimenti e i personaggi).
9
rivluzione.20 Scrisse il suo capolavoro nel 1872, press’a poco nello stesso momento del
romanzo di Jókai, cronologia che comporta una certa comunanza delle fonti ideologiche cui
attinsero ambedue - le memorie degli esuli che avevano partecipato alle lotte per l’unità
italiana, scritte dopo il loro ritorno in Ungheria; per es. quelle del conte Sándor Teleki, amico
di Garibaldi, cui si devono alcuni parti del racconto dello Jókai21 - e un’analogia
nell’atmosfera di disillusione di cui recano la traccia.22 László Arany però, che leggeva e
giudicava molto criticamente gli scritti di Kossuth e degli esiliati ungheresi, pur rifacendosi
all’aneddotica del conte Teleki la supera, creando nel terzo canto del suo poema, composto in
bellissime ottave, una visione integrale e realistica delle vicende storiche italiane durante e
dopo la spedizione garibaldina.
Il protagonista principale del suo romanzo in versi è un vero eroe dei miraggi, è
una figura rappresentativa di tutta la generazione ungherese dei decenni che seguirono la
sconfitta della rivoluzione e della guerra d’indipendenza del 1848-1849. Personaggio
caratteristico, dotato di buone intenzioni e di alti intenti civili che però, non trovando posto
nell’arretrata società ungherese e costretto a ricercare nuove strade e vie di uscita e di
evasione a causa del clima sociale e morale del paese, in cui soffoca, passa per delusioni
sempre più funeste per via di concezioni inveterate e per mancanza volontà, sino alla
decadenza totale.
Nel terzo canto del poema vengono presentati un paesaggio meraviglioso, un
clima di suggestiva primavera della libertà da conquistare: la figura del vecchio Garibaldi e
l’entusiasmo della gioventù, la partenza del Lombardo e del Piemonte, lo sbarco a Marsala e
le vicende della spedizione rivivono, serrate in ottave perfettamente tornite, in una di serie di
immagini che, pur seguendo i fatti, trasfigurano la cronaca in un drammatico processo della
coscienza tanto del personaggio quanto dell’autore stesso, il quale segue con animo sospeso le
svolte decisive del Risorgimento italiano sino a Caprera, provando poi la più amara delle
delusioni. La delusione nasce dalla critica di un ungherese che vide troncata la sua rivoluzione
nel 1849 e ora teme la stessa fine per il Risorgimento italiano. Teme la “conquista regia” del
Mezzogiorno, teme il parlamento piemontese e il Cavour stesso (filisteo: in ungherese filiszter
G. B. Németh, Introduzione a Arany László Válogatott művei, Budapest, Szépirodalmi, 1960, pp. 7-109; G.
Cavaglià, Gli eroi dei Miraggi. La parabola del romanzo ungherese dal Millennio alla Repubblica dei Consigli,
Bologna, Cappelli 1987.
21
E’ interessante che Jókai inserisca nel suo romanzo anche l’idea, davvero strana, di Lajos Kossuth, che
in una lettera del 2 dicembre del 1859 proponeva a Garibaldi e all’intero popolo italiano di „convertirsi”
al protestantesimo, per far sì che i papi non potessero più manovrare i credenti contro l’unità d’Italia. Nel
secondo capitolo del romanzo Quelli che amano una volta, Manassé Adorján scherza con l’avvocato che
vuole ottenere l’annullamento del matrimonio della sua bella cliente, proponendole di cambiare religione:
„ - che cosa deve fare la principessa per non essere seppellita ancora in vita? – Questo non è che l’uovo di
Colombo! Si faccia protestante, e poi la Corte Papale non ha più nulla da comandarle.” (p. 26). La lettera
del Kossuth viene molto sarcasticamente commentata dallo stesso László Arany nel suo saggio
sull’emigrazione politica ungherese. Cfr.: L. Arany, A magyar emigráció mozgalmai, in Arany László
Válogatott Művei, a cura di B. G. Németh, Budapest, Szépirodalmi 1960, pp. 299-356. Cfr.: Kossuth Lajos,
Irataim az emigrációból, Budapest, Atheneum, 1881, II, p. 328.
22
La figura del personaggio principale del poema fu modellato da László Arany in base alla vita di
Gusztáv Frigyesy, il quale all’età di 14 anni si arruolò come volontario tra i honvéd di Kossuth, poi fu
arruolato con forza dagli austriaci nel battaglione Don Miguel, e nel 1859, prima di Solferino desertando
divenne ufficiale degli alpini del Garibaldi, poi seguiva il suo vecchio capo in Sicilia e anche dopo fino alle
ultime imprese. Fu lui come tenente ad espugnare la fotezza di Milazzo, e dopo la sua eroica
partecipazione alla battaglia di Volturno fu nominato maggiore da Garibaldi. Nel 1862 era con Garibaldi
in Aspromonte, fu carcerato. Nel 1867 di nuovo fu accanto Garibaldi a Monterondo e Mentana, e per
questo subì di nuovo delle persecuzioni politiche. Ma rimaneva in Italia dove descrisse le sue memorie
sulle campagne militari. Morí in un manicomio a Milano nel 1878. Cfr.: Pietro Delecchio, La colonna
Frigyessy e la campagna romana del 1867, Torino, 1867; Gustavo Frigyesy, L’Italia nel 1867, Firenze, 1868.
Cfr.: Lajos Pásztor, Lo storico Ungherese del Risorgimento Italiano. Gustavo Frigyesi e il suo carteggio con
Garibaldi, „Janus Pannonius”, Roma, 1948.
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in rima con miniszter), è in pensiero per le sorti del Risorgimento perché “potrà rimanere il
vetusto giogo al popolo e svanirà il dolce sogno degli esaltati.”
L’immagine del Risorgimento italiano presentata da László Arany non è certo
quella dei romantici. E’ una rappresentazione realistica degli avvenimenti, addirittura spietata
nella sua analisi politica. E’ il riconoscimento amaro che si è giunti al punto che alle iniziative
popolari succedono quelle dei capi di stato e di governo, i quali tengono in considerazione
prima di tutto le connessioni internazionali, le opportunità politiche soltanto e non gli interessi
del loro popolo. Secondo lo studioso József Szauder: La preoccupazione di László Arany per
le sorti, per l’esito del Risorgimento italiano fu dettata dall’animo di un intellettuale
ungherese che, anelando alla libertà, nonostante il fallimento delle speranze, desidera
salvare dal pericolo almeno la fortuna del popolo italiano. E con questo il giovane Arany
volle richiamare l’attenzione sulla necessità che questi ideali non venissero malmenati o
manomessi.23
Accanto a Mór Jókai e László Arany è lungo l’elenco degli scrittori ungheresi che
rievocarono le immagini del Risorgimento italiano nelle loro opere, basti pensare alla novella
del grande narratore di fine secolo Kálmán Mikszáth sulle bottiglie di vino che il vecchio
Garibaldi avrebbe mandato a un calzolaio di provincia ungherese in cambio di un paio di
stivali ungheresi (Garibaldi butéliái)24, ma ci fermiamo al romanzo ungherese più conosciuto
in Italia, I ragazzi di via Pál di Ferenc Molnár, che, a suo modo, è una vera e propria
riscrittura delle comuni lotte del Risorgimento italiano e ungherese. I ragazzi di via Pál, che
vogliono difendere la loro terra fino alla morte, sono senz’altro gli eredi dei soldati di Lajos
Kossuth, mentre i ragazzi del Giardino Botanico (Füvészkert), guidati da Ács Feri, si vestono
alla maniera dei garibaldini, in camicia rossa, e vogliono occupare la loro “Sicilia”, il ground
di via Pál. In fondo ha ragione Ferenc Molnár: noi italiani e ungheresi siamo tutti figli di
Garibaldi e di Kossuth, con i loro vizi e con le loro virtù.
Péter Sárközy
Ordinario di Lingua e Letteratura Ungherese
Università di Roma, La Sapienza
[email protected]
J. Szauder, Immagini del Risorgimento italiano nella narrativa ungherese del secondo Ottocento, “La cultura
nel Mondo” (XIX), l-3, 1975, pp. 17-24.
24
George Bisztray, Motivi e personaggi italiani nella prosa di Kálmán Mikszáth, „Rivista di Studi Ungheresi” 61991, pp. 5-18.
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