Report LasciateCIEntrare - CAS Lamezia e Feroleto

LasciateCIEntrare entra ed incontra i migranti nei CAS di Lamezia Terme (ex CIE)
e di Feroleto - Calabria
20 febbraio 2015
Delegazione composta da
Yasmine Accardo (Associazione Garibaldi 101),
Emilia Corea e Fofana Mouctar (Associazione “La Kasbah”)
Là dove c’era un CIE ora c’è un CAS, una delle tante strutture istituite da pochi mesi per l’accoglienza
“straordinaria” a richiedenti asilo. Siamo a Lamezia Terme ed alcuni referenti della campagna
LasciateCIEntrare, che da anni si occupa di fare luce e informazione e pressione politica sulle “storture”
del sistema, visitano il 20 febbraio una delle centinaia, forse migliaia (il Ministero dell’Interno non ha una
mappatura “ufficiale”) strutture nelle quali - dietro stipula di una convenzione con la prefettura locale - il
gestore si impegna ad erogare un servizio di accoglienza, a fronte di un compenso di 35 euro quotidiane
per ciascun migrante.
Secondo il decreto di assegnazione delle convenzioni CAS poco conta che chi si occuperà dell’accoglienza
non abbia alcun tipo di esperienza in questo ambito. Nel caso dell’affido alla cooperativa “Malgrado Tutto”
possiamo stare tranquilli, l’esperienza c’è tutta! L’esperienza derivante dall’avere gestito dal 1999 fino
alla fine del 2012 il CIE di Lamezia Terme quello che è stato definito da più parti il CIE peggiore d’Italia.
Quello era uno dei cie con il più alto numero di suicidi e di atti autolesionistici. Quello nel quale a un
ragazzo di 18 anni è stato spezzato il midollo osseo provocando la paralisi totale e permanente degli arti
superiori e inferiori.
La struttura che la Malgrado Tutto gestisce è isolato su una collina, circondata dagli ulivi, a diversi
chilometri dal centro di Lamezia Terme. Non ci sono più le sbarre alte 10 metri, le gabbie nelle quali
venivano rinchiuse le persone (quelle apparse nelle foto di un noto mensile pochi mesi prima della
chiusura del CIE) sono vuote. Vuoto è anche il posto di polizia. Ma l’aria che si respira è sempre la stessa.
Camminare all’interno del recinto nel quale fino a qualche anno fa venivano rinchiusi i migranti come
animali allo zoo, provoca una strana sensazione. E le richieste accorate di aiuto che pervengono da parte
dei migranti presenti nella struttura sono pressoché le stesse di qualche anno fa. Si sentono abbandonati a
se stessi i trecento migranti “ospiti” della struttura, sono “parcheggiati” lì dentro da oltre un anno.
La struttura, della capienza di 80 posti, ne ospita attualmente all’incirca trecento. Le stanze, le ex celle in
cui i migranti venivano rinchiusi fino a qualche anno fa, contengono 8, a volte 9 letti. I bagni sono sporchi,
non c’è acqua calda né riscaldamenti. Il cibo è di pessima qualità, ci riferiscono.
Molti dei ragazzi indossano solo una felpa e un paio di ciabatte. Gli stessi abiti che avevano addosso nel
momento in cui sono arrivati in Italia.
Troviamo alcuni di loro visibilmente influenzati e febbricitanti, eppure nessun farmaco è stato fornito
loro, secondo quanto ci riferiscono.
A volte con i soldi del pocket-money provvedono da soli a comprare qualcosa da mangiare.
Quello che più o meno chiedono insistentemente tutti è perché a distanza di sei mesi non sia stato loro
notificato il diniego dello status da parte della Questura, perché non possano usufruire di nessun tipo di
assistenza sanitaria, perché la sensazione è che siano “sprovvisti” e gli sia negato ogni diritto.
La maggior parte delle persone ascoltate racconta di essere stata reclutata da parte del gestore della
struttura, Raffaello Conte, per lavorare all’interno della cooperativa nel servizio di pulizia e manutenzione
urbana. Dieci euro al giorno per un totale di dodici ore di lavoro è il compenso che gli è stato proposto e
che loro hanno accettato.
Ci chiediamo come si possa arrivare a livelli di sfruttamento di questo genere, ci chiediamo e cercheremo
di sapere se la Malgrado Tutto percepisce compensi e importi o finanziamenti pubblici per la fornitura di
questo “servizio”. Se le amministrazioni pubbliche hanno per caso mai vigilato ed effettuato controlli sulla
“legalità” dei servizi prestati e sulla garanzia di qualsiasi diritto, a partire da quelli della tutela del lavoro.
Questo “lauto” compenso inoltre non viene corrisposto da oltre quattro mesi, raccontano i ragazzi
intervistati.
E’ difficile restare calmi in una situazione del genere, il senso di impotenza e di rabbia di fronte alla
sopraffazione, alla riduzione delle persone a numeri, alla privazione di ogni diritto ci accompagna per
tutto il tragitto che da Piano del Duca porta a Feroleto, dove sorge un altro CAS.
Il centro di accoglienza “Ahmed Moammud” è composto da due palazzoni che si affacciano direttamente
sulla superstrada.
“Ospiti” all’interno di ogni struttura 150 persone per un totale di 300 uomini e alcuni minori non
accompagnati. Qui la situazione è ancora più angosciosa! Nessuno dei ragazzi con i quali abbiamo parlato
possiede la tessera sanitaria, nessuno di loro è iscritto al S.S.N. Nessuno di loro sa che per usufruire dei
farmaci di cui avrebbero bisogno basterebbe recarsi dal medico e farseli prescrivere. Qui la panacea di
tutti i mali è l’OKI che i migranti ricevono dagli operatori della struttura. Di medici nemmeno l’ombra. I
ragazzi riferiscono che gli operatori sono tre in tutto. Nessun mediatore linguistico culturale. Eppure sono
diverse le nazionalità presenti e non tutti parlano o capiscono l’italiano.
Di notte nonostante la presenza di minori non accompagnati, nessun operatore rimane con loro all’interno
delle strutture. Eppure, secondo quanto stabilito dalla normativa vigente le strutture dovrebbero
garantire ai minori la custodia in un luogo sicuro (art. 403 c.c.), nel quale ritrovare un calore e un
ambiente di crescita “a misura di minore”, troppo spesso perduti con la migrazione.
A tal fine la normativa italiana relativa alle strutture di permanenza dei minori è volta a fissare alcuni
requisiti che possano assicurare la riproduzione di un ambiente “familiare” (art.2, L184/1983), in cui il
minore possa sentirsi accolto e rispettato. Le strutture di accoglienza hanno l’obbligo di garantire i livelli
standard di tutela dei diritti fondamentali: accesso ai beni essenziali, servizi socio-sanitari in condizioni di
parità con i minori cittadini italiani, assistenza legale gratuita, accesso all’istruzione di base diritto a
ricevere informazioni sul loro status, possibilità di esprimersi in una lingua a loro comprensibile tramite la
presenza di apposite figure professionali di mediazione linguistico culturale e, soprattutto, protezione da
ogni forma di abbandono, abuso, violenza e sfruttamento. Nel centro di malaccoglienza di Feroleto
nessuno di questi standard è garantito. I ragazzi ospitati all’interno si recano due volte a settimana in una
chiesa vicina dove un prete tiene un corso di italiano.
Il pocket-money, riferiscono, fino a qualche tempo fa si aggirava intorno ai 60 euro al mese, in seguito
sono stati loro erogati 50 euro al mese ma è da tre mesi ormai che non lo ricevono. Il tutto è ridotto al
minimo: sedie e letti consunti, muri sporchi e ingialliti, il cibo scadente.
Solitudine e abbandono. Quasi tutti hanno già fatto l’audizione presso la Commissione per il
Riconoscimento dello Status di Rifugiato. C’è un solo avvocato, ci dicono, che si occupa dei loro ricorsi. Uno
solo per trecento persone. Ma ignorano come si chiami né hanno il suo numero di telefono. Dopo averlo
incontrato una sola volta e avere firmato un paio di fogli non lo hanno più visto. Non sanno, quindi, se il
ricorso sia stato effettivamente presentato .
Ci chiediamo anche in che modo siano stati scritti i ricorsi se l’avvocato non ha parlato con i singoli per
conoscerne la storia personale, i percorsi affrontati per giungere in Italia ed in Europa, le rotte ed i paesi di
transito. Molti dei ragazzi con i quali abbiamo parlato raccontano di essere nel centro da oltre un anno. In
un limbo perpetuo, senza più energie per porsi domande. Tutte le forze ridotte all’attesa e alla delusione
profonda che scava i volti. Nessuna strada davanti.
Fatta eccezione per quella lastricata di facili guadagni per chi gestisce questi luoghi. La stessa strada sulla
quale muoiono tutte le speranze di una vita dignitosa. Accogliere i migranti? Basta disporre di quattro
pareti e qualche branda. Tanto chi controlla? Sulla strada del ritorno ci accompagnano le parole
pronunciate da uno dei giovanissimi ragazzi del centro: “siete le uniche persone con le quali parliamo da
tempo, nessuno viene mai qui a chiederci come stiamo, cosa vogliamo, ci sentiamo come se fossimo
spazzatura scaricata in questo posto. E tra poco, quando sarete andati via saremo nuovamente
soli, abbandonati e dimenticati dal resto del mondo”.
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