Stanislavskij o dell`immedesimazione Appunti per un studio

Stanislavskij o dell’immedesimazione
Appunti per un studio
di Anna Sica
L’attore deve costantemente lavorare su se stesso, sull’auto-perfezionamento. Deve
mirare a dominare più rapidamente possibile qualsiasi personaggio e non solo il
personaggio che sta studiando in quel momento. L’arte del nostro teatro esige un
costante aggiornamento, un tenace lavoro su se stessi. Essa si basa sulla riproduzione
e la trasmissione della vita organica; non tollera forme e tradizioni statiche, per quanto
attraenti esse siano. […] Per un’arte di tal fatta occorre una tecnica speciale, non
basata su procedimenti standardizzati, ma una tecnica che miri al dominio della natura
creativa dell’attore; occorre anche la capacità di controllare questa natura, di guidarla
per essere in grado di rivelare a ogni spettacolo le proprie capacità creative, la propria
intuizione. Voglio darvi un suggerimento: tutta l’essenza del Sistema si riassume in
una decina di comandamenti che vi forniranno un approccio corretto per tutta la vita e
per tutti i ruoli. Ricordate: tutti gli attori esigenti e di valore devono tornare a studiare
a intervalli regolari, diciamo ogni quattro-cinque anni. Bisogna anche reimpostare la
voce, che col tempo subisce mutamenti, e fare pulizia della sporcizia accumulata,
intendo per esempio la civetteria e il narcisismo. Dovete allargare giornalmente i vostri
orizzonti culturali e tornare a studiare per almeno sei mesi a intervalli di tempo
regolari. Adesso è chiaro il compito che vi attende ? Lo ripeto non pensate allo
spettacolo, ma solo allo studio.
1
L’unicità del sistema Stanislavskij è indicata dal termine pereživanie
ovvero immedesimazione. L’esatta traduzione di pereživanie è riviviscenza.
Pereživanie è l’azione scenica che permette all’attore di far propria
l’emozione del personaggio.
Tre sono le fonti dalle quali Stanislavskij enuclea la sua nozione di
pereživanie: Comédien di Pierre Rémond De Sainte-Albine, La psychologie
des sentiments di Théodule-Armand Ribot, Intorno al dramma popolare
“Marfa Posadnìza” di Pogodin di Aleksandr Sergeevic Puškin.
Il primo ad utilizzare il termine immedesimazione è De Sainte-Albine nel
Comédien apparso nel 1749,
che discute dell’applicazione generale della
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1
regola oraziana sul decoro dei vari tipi e sulla raffigurazione attorica dei tipi
stessi. Lo scopo è di raggiungere la verosimiglianza e l’autenticità della
rappresentazione attraverso il gesto, il movimento e l’emissione vocale.
In Inghilterra nel 1746 Aaron Hill aveva pubblicato un Essay on the Art of
Acting e nel 1747 Samuel Foote il Treatise on the Passions. Nel 1750
François Riccoboni pubblica L’art du théatre, nello stesso anno John Hill
scrive The Actor, che è una versione del Comédien, che segue l’originale
francese, proponendo però esempi inglesi; nel 1769 l’opera, in forma
ridotta, viene ripubblicata in francese da Antonio Fabio Sticotti con il titolo
Garrick ou les acteurs anglais.
2
Denis Diderot, a cui viene richiesto di recensire il saggio di Sticotti per la
Correspondance littéraire, esprime il suo netto disaccordo con le posizioni di
Hill nel celebre Paradoxe sur le comédien, scritto intorno al 1773, ma
pubblicato nel 1830. Di fatto, Diderot unifica nel Paradoxe i principi del
Comédien e dell’Art du théatre. Se Riccoboni predilige l’attore-maschera,
erede di Arlecchino e degli altri commedianti, De Sainte-Albine annuncia un
attore nuovo, impreziosito dalla parola e dal pathos,
per controbattere
l'enfatica rappresentazione del commediante, basata sul gesto, sul corpo e
sull’improvvisazione. In Italia Goldoni aveva ormai gettato il seme della
Riforma, ed altre simili tendenze erano sorte in Francia, in Inghilterra e in
Germania, tutte concordi nell’esigere un interprete dal gesto misurato per
bandire l’attoricità strutturata delle maschere.
L’esperienza
ottocentesca
in
cui
affonda
il
Sistema
e
i
risvolti
novecenteschi del medesimo hanno invece chiarito che l’attoricità è la
tecnica primaria per rappresentare una drammaturgia.
Stanislavskij trova il modo per elaborare procedimenti attorici a partire
dalla riflessione settecentesca sull’attore, e sperimenta una serie di
procedimenti che compongono una tecnica che si distingue per la creazione
dell’effetto d’immedesimazione. La mimesis aristotelica prende forma
attraverso un atto creativo che non può avvenire in assenza di
un
allenamento mirato, che rende l’attore pronto e credibile nell’azione. Non è
un atto spontaneo immedesimarsi nel personaggio, dice Stanislavskij: per
2
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2
essere se stessi nell’altro è necessario creare esercizi che sostengano
l’attore. L’allenamento fisico trasforma il corpo in uno strumento pronto ad
accogliere le sfumature psicologiche del personaggio.
Stanislavskij cerca soluzioni moderne e trova negli studi sulla psiche la
possibilità di scoprire quali possano essere le cause pratiche che inducono il
comportamento dell’attore in scena. Nel primo capitolo di La psychologie
des sentiments (1896), intitolato La memoria dei sentimenti, Ribot formula i
concetti di memoria emotiva e di memoria sensitiva. Stanislavskij applica la
riflessione di Ribot alle esigenze dello stato interpretativo dell’attore;
successivamente nel Sistema delle Azioni Fisiche chiarisce che lavorare
soltanto sulla memoria sensitiva e sulla memoria emotiva è insufficiente per
la resa pratica della
riviviscenza. Egli spiega che i procedimenti induttivi
della memoria emotiva e della memoria sensitiva non raggiungono la
potenzialità che è latente in esse se gli si affida l’intera organizzazione
tecnica dell’immedesimazione: l’attore non deve iniziare la sua creazione
dalla memoria emotiva e dalla memoria sensitiva bensì dall’azione fisica,
facendo uso di ciascun procedimento in funzione della natura stessa del
personaggio.
La terza fonte teorica del Sistema è la poetica di Puškin, che Stanislavskij
applica alle esigenze della recitazione naturalistica e che il poeta russo illustra
nel saggio Intorno al dramma popolare "Marfa Posadnìza" di M.P. Pogodin.
Stanislavskij scrive riferendosi a Puškin:
Egli dice che da un autore drammatico si esige sincerità di passione, verosimiglianza di
sensazioni in circostanze date. Io aggiungo che è anche quello che si esige dall’attore con
la differenza che le circostanze, per l’autore ancora a discrezione, sono per l’attore già
fissate. Io comincio a ripetere in tutti i toni le parole di Puškin ‘Verità di passione,
verosimiglianza di sensazioni in circostanze date…’ Le circostanze date sono la stessa cosa
del «se» e il «se» è la stessa cosa delle circostanze date. L’una è l’ipotesi, l’altra il suo
completamento. Il «se» comincia sempre l’azione, le circostanze date la sviluppano.
Stanislavskij
3
comincia col dire che la verità delle passioni corrisponde
all’esperienza intima dell’attore, e che la verosimiglianza delle sensazioni
3
K.S.Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso, Roma-Bari, Laterza, 1990, p.67.
3
mette in campo passioni non «autentiche, il sentimento o l’esperienza, ma,
per così dire, il loro presentimento, uno stato vicino alla verità, il più simile
e perciò verosimile»4 Puškin aveva formulato questo principio per l’autore
drammatico, Stanislavskij lo traduce in forme ed azioni per il lavoro
dell’attore. Verità di passioni e verosimiglianza di sensazioni vengono
applicate al carattere della memoria emotiva e della memoria sensitiva.
Stanislavskij applica le riflessioni scientifiche di Ribot alla poetica di
Puškin, riuscendo in questo modo a formulare la prassi mancante ai
presupposti teorici di De Sainte-Albine e di Diderot.
1. «Psicotecnica» e «tecnica fisica esteriore»
Stanislavskij crea per l’attore una tecnica che gioca sull’equivoco «realtà
come finzione-finzione come realtà credibile». Il regista moscovita formula
una psicotecnica attenta alla creazione delle realtà invisibili del personaggio,
riferendosi ad un insieme di situazioni psicologiche che coincidono con
l’esperienza privata dell’attore. Il lavoro su se stesso per l’attore deve
significare l’inserimento dei procedimenti psichici nella struttura fisica. La
creazione interiore ha bisogno di solide basi fisiche per agire. Oltre alla
psicotecnica e alla parte interiore, l’attore del Sistema deve dedicarsi
all’apparato fisico e alla tecnica fisica esteriore. Psicotecnica e tecnica fisica
esteriore devono interagire per rendere visibile l’invisibile vita creativa
dell’attore. La creazione della parte interiore resta muta se non viene
governata da un apparato fisico debitamente allenato e sviluppato. La prima
fase del lavoro è quella di liberarsi di ogni tipo d’inibizione psicologica che
possa frenare la creazione, ma il superamento dell’inibizione non è
comunque raggiungibile senza il supporto di pratiche di allenamento che
coinvolgano la fisicità dell’attore. Il corpo deve essere allenato così come la
parte interiore viene fissata e analizzata. Il corpo deve essere pronto perché
la creazione interiore sia efficace. Un corpo «scordato» è il primo fattore
inibitorio da superare. L’attore ha bisogno di un costante allenamento biofisico che gli permetta di padroneggiare l’apparato muscolare e la voce;
diversamente non può lavorare sulla creazione interiore. L’attore, dice
4
+DKFGO
4
Stanislavskij, deve studiare «canto, impostazione della voce, dizione, leggi
del parlare, tempo-ritmo, plastica, danza, ginnastica, scherma, acrobazia».
L’esercizio fisico e l’allenamento aiutano l’attore ad essere pronto, cioè
«accordato» come uno strumento musicale, per rendere efficace la sua
latente natura creativa. La fisicità, come la parte interiore, ha bisogno di
una tecnica che funzioni, perché la creazione interiore possa agire sul corpo
dell’attore: Stanislavskij chiama questa prassi tecnica fisica esteriore. Se
all’interno della psicotecnica troviamo la memoria emotiva e la memoria
sensitiva quali processori della creazione interiore, nella tecnica fisica
esteriore, troviamo una serie di esercizi che consentono all’attore di
acquisire competenza soprattutto nella dizione, nell’acrobatica, nella danza.
Stanislavskij attinge da esperienze artistiche differenti per creare un
sistema di esercizi ginno-fisici. Ad esempio dal balletto prende gli esercizi
per consolidare la posizione dei piedi e delle gambe, ma preferisce rivolgersi
al lavoro di Isadora Duncan per allenare la gestualità delle mani. La
creazione interiore ha dunque bisogno di una tecnica che agisca attraverso
uno strumento, il corpo, allenato secondo una tecnica fisica esteriore in
accordo con le soluzioni dettate in parte dalla psicotecnica.
Natura interiore e allenamento fisico permettono all’attore di rendere
visibile l’invisibile. Ciò è possibile se parte interiore e fisicità interagiscono:
l’attore deve dominare, in ugual modo, psicotecnica e tecnica fisica
esteriore.
Facciamo un esempio: non sappiamo nuotare e vogliamo nuotare.
Andiamo al mare o in piscina e ci tuffiamo. Conosciamo la tecnica fisica del
galleggiamento, ma non quella della respirazione in acqua e decidiamo di
nuotare facendo uso del processo di sub-memorie, cioè di quell’apparato di
memoria che matura in noi durante il periodo fetale. Torniamo nella nostra
memoria sommersa e ci affidiamo alla conoscenza interiore dello stato
acqueo che abbiamo vissuto durante la gestazione nel liquido amniotico. Ci
concentriamo e ci immaginiamo di rivivere lo stesso stato fisico e psichico;
così preparati entriamo in acqua e affoghiamo. Niente di più semplice.
Dimentichiamo la creazione interiore e andiamo in piscina, impariamo ad
immergerci nell’acqua, senza trascurare il fatto che sappiamo istintivamente
5
galleggiare. Naturalmente la nostra nuotata è assolutamente sgraziata,
sgraziata come uno strumento scordato, e allora finalmente ci convinciamo
che dobbiamo proprio iniziare dal nostro corpo. Se siamo troppo grassi
avremo delle difficoltà, se siamo troppo magri avremo altrettante difficoltà.
Quindi alleniamo fisicamente le braccia e le gambe per prepararci alla
tecnica del nuoto. E così, giorno dopo giorno, con difficoltà riusciamo a fare
due bracciate e una respirazione a metà o tre bracciate e una respirazione
intera e così via; nuotiamo e nel frattempo memorizziamo la tecnica.
Finalmente un giorno entriamo in acqua e nuotiamo senza ricordare, cioè
senza inibizioni fisiche, e così alla seconda bracciata faccio mezzo respiro,
alla terza bracciata faccio un respiro intero. Cos’è successo? Abbiamo perso
la
memoria
della
tecnica;
nuotare
è
istintivo,
evoca
l’effetto
della
spontaneità a chi ci osserva. La tecnica è diventata fluido, parte interiore,
cioè parte della nostra memoria e del nostro privato. Questo succede
esattamente nel Sistema quando si parla di parte interiore e apparato fisico:
la creazione interiore è attiva soltanto attraverso un allenamento bio-fisico.
Nel 1938 per lo Studio su Tartufo di Molière Stanislavskij afferma che il
suo sistema è il Sistema delle Azioni Fisiche anzi delle Azioni Psico-Fisiche,
ma dice di non volerle chiamare azioni psico-fisiche per non entrare in
polemica con i filosofi. Stanislavskij ribadisce che il Sistema nasce
dall’unione alchemica dell’azione fisica con l’azione psico-fisica; pertanto
l’approccio con il personaggio deve iniziare dalle azioni fisiche e l’attore,
maestro delle azioni fisiche,5 deve far entrare il corpo fluidamente
nell’azione scenica. Stanislavskij organizzò lo Studio, l’ultimo della sua vita,
per altro rimasto incompiuto, con un gruppo ristretto di attori. Scelse il
testo di Molière perché credeva che la rivisitazione dei classici fosse un
compito di particolare attualità per il teatro sovietico e che l’interpretazione
tradizionale di Tartufo non rendesse in alcun modo giustizia al testo
molieriano. Il lavoro fu avviato con una decina di registi e altrettanti attori,
protagonisti affermati della scena sovietica che vollero rimettersi in gioco
per migliorare l’uso dei procedimenti secondo la più attenta ortodossia
stanislavskiana:
5
attori
come
Kedrov,
816QRQTMQX5VCPKUNCXUMKLCNNGRTQXGQREKVR
6
Toporkov,
Knipper
(Cechova),
Bogojavlenskaja, Bordukov. Precedentemente, nello Studio su Le anime
morte di Gogol’ del 1932, Stanislavskij aveva concentrato le sue energie
anche nella messa in pratica delle azioni fisiche, ma nel Tartufo considera le
azioni fisiche il cuore dell’intero Sistema, tanto da ritornare al testo
solamente per definire la linea delle azioni fisiche e ripartire tutti e cinque i
sensi in minute azioni fisiche da trascrivere e da utilizzare come appunti.6
L’azione fisica o azione psico-fisica per Stanislavskij è un’immagine tradotta
in gesto. L’azione fisica è «gesto dell’essere».7
Non si può dire, scrive Vasilij Toporkov, che Stanislavskij abbia introdotto
elementi completamente nuovi in Tartufo. Il concetto di azione fisica era
stato formulato in precedenza da Stanislavskij nello Studio per L’Ispettore
Generale. Per quella regia diede agli attori il testo ridotto a canovaccio,
senza battute e solamente con l’indicazione dell’entrata o dell’uscita dei vari
personaggi. Esortò gli attori a non pensare più alle battute ma di iniziare
dalle azioni fisiche. Alcuni gli chiesero come fosse possibile iniziare
dall'azione fisica, se nel testo era indicata come azione fisica soltanto
l’entrata in scena del personaggio. Allora, Stanislavskij rispose che
bisognava iniziare dal creare l’azione fisica «nell’entrare in scena»; un
attore obiettò che non c’era nessuna azione «nell’entrare in scena»,
Stanislavskij replicò che doveva attraversare l’azione seguendo il principio
del rendere «visibile l’invisibile» e pensare alla circostanza che precedeva
«l’entrare in scena».
Se in precedenza aveva concentrato in parte la sua attenzione sulle azioni
fisiche, durante lo Studio su Tartufo le azioni fisiche dominano l’allenamento
degli attori. Le azioni fisiche direzionano, governano, alimentano tutti i
singoli procedimenti che agiscono all’interno delle circostanze date, e a loro
volta vengono dominate dal ritmo. Stanislavskij dimostra come la differenza
dell’emozione
cambia
se
cambia
il
ritmo
dell’azione,
dimostrazione pratica agli attori. Così ricorda Toporkov:
+XKR
+XKRR
7
offrendo
una
Uno degli interpreti, evidentemente punto nel vivo, domandò: - E lei, Konstantin
Sergeevic, lo sa fare? Restammo di stucco. Ci aspettavamo il peggio, ma Stanislavskij
immediatamente, quasi senza pausa, replicò tranquillo: - Certo che sì. Vuole un ritmo
frenetico. Eccolo. E lì seduto sul divano, egli si trasformò all’improvviso: davanti a noi
avevamo una persona estremamente agitata, seduta come sui carboni ardenti. Tirò
fuori dal taschino l’orologio, lo guardò appena, lo rimise al suo posto; a momenti era
sul punto di balzare, poi sprofondava nuovamente nel divano, ora se ne restava
immobile, pronto al balzo in ogni istante. Compiva un’infinità di rapide azioni, ognuna
delle quali era interiormente giustificata, estremamente convincente. Lo spettacolo era
incantevole, eravamo tutti entusiasti, mentre lui, come se nulla fosse, continuò il suo
esercizio per un po’ e poi disse: - Vuole che continui con un altro ritmo? E ricominciò,
ma questa volta era una persona tranquilla, controllata che sembrava accingersi ad
andare a dormire, ma si tratteneva ancora un po’. Era molto convincente.
possiamo arrivare anche noi a fare questo? -
- Ma come
Solo con l’esercizio quotidiano. Tutto
quello che fa adesso, è corretto, ma aggiunga anche gli esercizi sul ritmo. Non potrà
dominare il metodo delle azioni fisiche, se non padroneggia il ritmo. Infatti ogni azione
fisica è indissolubilmente legata al ritmo e è da esso caratterizzata.8
Il Sistema si configura principalmente come lavoro sulla formazione
interiore dell’attore, ma è un errore pensare che Stanislavskij abbia
attribuito un’importanza secondaria alla caratterizzazione come espressione
di un lavoro fisio-tecnico. L’attore ha bisogno del Sistema nella misura in cui
riesce a disegnare un suo modo sulla base del Sistema, un modo fatto di
esercizi fisio-tecnici e di verità private che interagiscono con esigenze
private e verità collettive. A tal proposito citiamo ancora Stanislavskij
rievocato da Torpokov.
Gli artisti, per penetrare nella misteriosa anima del personaggio, senza un sistema,
brancolano. L’unica loro speranza è il caso, unica via d’uscita le incomprensibili parole
“ispirazione” e “inconscio”. Con un po’ di fortuna, il caso assumerà la forma di un
miracolo, di un dono di Apollo.9
La soluzione di Stanislavskij sta in un sistema che permetta all’attore di
utilizzare scenicamente il suo privato. Il bagaglio interiore di un attore è
sempre popolato da verità collettive. Si ama, si odia, si soffre, si gioisce, si
sorride, si piange: queste sono verità collettive; si piange in modi diversi, si
+XKRR
+XKRR
8
ride per infinite situazioni, si odia per mille ragioni, e così si ama, si soffre,
ci si emoziona e altro ancora. Un vortice minuzioso e capillare di situazioni e
di esercizi permettono all’attore di creare da una verità del singolo che
coinvolge tutti, usando del proprio corpo muscoli e anime.
Senza tecnica si galleggia o, al massimo, si riesce a nuotare in maniera
sgraziata. L’attore sulla scena, dice Stanislavskij, è come se venisse visto
attraverso una lente d’ingrandimento. Lo sguardo dello spettatore zumma
sul corpo dell’attore, ogni sonorità o movimento diventa più difficilmente
credibile; per tale ragione l’uso strutturato dell’improvvisazione agevola
l’artista. Di fatto, l’improvvisazione serve per trovare o la caratterizzazione
esteriore del personaggio o la sua verità interiore. L’improvvisazione può
rimuovere o un ostacolo fisico gestuale o un ostacolo psico-fisico. Se l’attore
non riesce a creare una credibile gestualità del personaggio, va in
improvvisazione per individuare fuori dalla battuta testuale e dentro il
contesto della circostanza dell’azione un gesto che successivamente,
riemergendo dallo stato d’improvvisazione, trascrive nella partitura scenica
del personaggio.
2.
Pirandello,
Vachtangov,
Ejzenštejn,
Pasolini:
l’attore
non
personaggio recita la parte di un personaggio in sé attore.
Il Gabbiano di Anton Čechov, metafora del «teatro nuovo», nella regia di
Stanislavskij del 1898 diventa scena ideale dell’attore in sé personaggio e
del personaggio che si fa attore.
La commedia di Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore è un
altro esempio di drammaturgia naturalistica impegnata a teorizzare forme e
testi dell’«attore nuovo». Il dramma dell’autore siciliano debutta
il 10
maggio 1921 al Teatro Valle di Roma con la compagnia di Dario Niccodemi.
L’azione scenica della commedia è ambientata all’interno di un teatro, i
personaggi sono attori e personaggi, l’interno rappresenta un contesto
verificabile o naturalistico, ma i personaggi vivono una crisi d’identità psicofisica che frantuma ogni possibile riscontro con la realtà dello spettatore.
L’effetto naturalistico è legato inequivocabilmente alla verità ambigua che lo
scrittore crea tra attori e personaggi.
9
Sei personaggi in cerca d’autore segue la scia di una drammaturgia che
denuncia un’insofferenza nei riguardi di un attore che non ha più la forza
politica
di
comunicare.
La
settima
arte,
come
Pudovkin
chiama
la
cinematografia, non ha ancora conquistato la visione naturalistica dello
spettatore, tuttavia emerge il disagio verso l’attore «clicherato», signore
della scena in quanto unico confronto realistico percepito dallo sguardo.
Siamo agli inizi dell’esperienza cinematografica, la distinzione tra cinema e
teatro si concretizzerà soltanto nel ventennio successivo. La drammaturgia
naturalistica non è ancora influenzata interiormente dalla nuova arte, e
l’attore
viene
scomposto
e
ricomposto
non
per
effetto
dell’arte
cinematografica, ma per dipendenza da una drammaturgia che si chiude a
riccio, che esige attori non estesi sulla scena ma su se stessi, dalle sonorità
che si arrestano nel gesto sussurrato.
Pirandello percepisce l’esigenza di un attore diverso, sebbene il suo teatro
nasca modellato sulle caratteristiche fisiche ed artistiche di attori dal
determinato gusto tradizionale: macchiettistico come quello di Angelo Musco
o declamatorio e gestuale come quello di Ruggero Ruggeri. Pirandello deve
il suo trionfale debutto da drammaturgo alle movenze sceniche di attori
vecchio stile. Nei Sei personaggi il duello attore-personaggio mette in
evidenza il crescente disagio del drammaturgo nei confronti dell’attore; un
disagio volutamente celato, che emerge quando autore e personaggio
firmano clandestinamente un’alleanza per combattere la sciatteria di un
attore che mostra indifferenza nei riguardi del personaggio e del poeta che
ne hanno foggiato anima e corpo. Pirandello scrive il ruolo del padre per
l’attore Ruggero Ruggeri, di cui appare inizialmente entusiasta, per la sua
distanza dagli esibizionismi di Angelo Musco.
Pirandello apprezza di Ruggeri la devozione nei riguardi delle parole
dell’autore, e a tal proposito scrive a Martoglio:
Ruggeri è entrato bene, anzi benissimo, nella parte umana e drammatica del
personaggio, ma non bene ancora nell’altra, voglio dire nella parte umoristica. Mi pare
però che capisca tutta l’importanza e che ci si sia messo con tutto l’impegno è pieno di
rispetto e devozione per me. Mi diceva ieri che l’arte mia è difficilissima non solo per il
10
pubblico ma anche per gli attori non abituati a recitare parti così dense di contenuto e
composte tutte di parole essenziali.
10
Dopo il debutto dei Sei personaggi neppure Ruggeri gli apparirà più come
l’attore giusto per le sue parti composte tutte di parole essenziali. Alcuni
sostengono che Pirandello con i Sei personaggi abbia iniziato un percorso
anti-naturalistico. E’ una ipotesi tra le tante che si affannano ad organizzare
la storia del teatro.
Pirandello non poteva rendersi conto di essere all’interno di un processo
anti-naturalistico. La novità del dramma non è quella di dibattere sul teatro,
ma di avere proposto la schisi inarrestabile tra il personaggio che non sa di
essere attore e l’attore che non sa di essere personaggio. La verità del
teatro naturalistico non vive nella drammaturgia pensosa e raggomitolata
sui pensieri dell’inconscio, che esige un attore pensoso e raggomitolato sui
propri pensieri. Il teatro naturalistico è il teatro che svela all’attore che il
personaggio contiene l’attore come l’attore trattiene in sé il personaggio.
La presenza in scena di un gruppo di attori e di un gruppo di personaggi
chiarisce la posizione teorica di Pirandello nei riguardi dell’attore e del
teatro. La recitazione assume la valenza semantica di segno e di significante
dell’opera. Le circostanze della situazione narrata dominano l’azione-nonazione dei personaggi. La rivelazione della tecnica sottesa dal personaggio,
ma rivelata dall’attore-personaggio, completa l’equilibrio scenico del testo.
La condizione dell’attore che non sa di essere personaggio si muta in quella
di personaggio in sé attore. L’atto creativo non può che accendersi
nell’incontro alchemico tra «l’attore non personaggio» e il «personaggio in
sé attore». Pirandello svela la duplice semanticità del testo quando il
personaggio - personaggio non ancora consapevole della sua doppia natura,
ossia di personaggio e, insieme, di attore – chiede all’attore – anch’egli non
ancora consapevole del suo doppio ruolo di attore-personaggio – di recitare
la sua parte. La scena sulla scena crea non una prova di verità ma di
verosimiglianza, il doppio dell’attore è il personaggio e il doppio del
personaggio è l’attore: questo è lo scambio che suggerisce un’asincronia
10
Pirandello-Martoglio, Carteggio inedito a cura di Sara Zappulla, Milano, Pan, 1980, pp.
104-105.
11
anti-naturalistica. Si tratta di un anti-naturalismo sulla base della forma e
non su quella del contenuto. Non vi è nulla di più naturalistico che mettere
in scena un attore e un personaggio che discutono delle loro verità; l’attore
si rende conto che le verità del personaggio sono le sue verità e il
personaggio finge di non capire che nelle sue verità l’autore ha astutamente
posto la verità dell’attore. Personaggio e attore risultano vittime di un
autore fuori dal «naturale» naturalismo della scena.
Nelle conferenze sulla riformulazione del sistema Evgenij Vachtangov
esplicita
le
fasi
che
permettono
all’attore
di
creare
l’effetto
d’immedesimazione attraverso la pratica di mettere in scena le proprie
verità.11
Nella prima e nella seconda conferenza Vachtangov tratta il rilassamento e
la concentrazione, da cui emerge palesemente il suo completo accordo con
Stanislavskij, ma aggiunge al rilassamento e alla concentrazione ragioni e
valenze più ampie.
Stanislavskij e Vachtangov riconoscono che la tensione può danneggiare la
creatività dell’attore; entrambi sostengono che l’attore deve raggiungere uno
stato d’animo creativo perché possa dar vita al personaggio. Sia Vachtangov
sia Stanislavskij partono dal principio comune di una pratica organizzata. La
tesi di Stanislavskij è che la tensione deve essere totalmente cancellata
perché l’attore possa raggiungere lo stato creativo ideale; Vachtangov
sostiene che l’attore deve liberarsi della propria tensione e di ogni elemento
inibitorio per raggiungere lo stato creativo, ma in alcuni casi questa tensione,
se è allenata può diventare fattore creativo. La tensione è dunque per
Vachtangov una forma di energia - una sorta di significante dell’azione
creativa dell’attore. L’attore secondo la propria individualità, sia psicologica sia
fisica, usa la tensione come forza creativa; senza l’allenamento fisico l’attore
non può dominare la tensione. Un attore sa, dice Vachtangov, come muovere
i muscoli, sì da portare energia al corpo.
Per
Vachtangov
il
metodo
non
consiste
nell’animazione
teatrale
dell’esperienza privata, ma in un montaggio strutturato di questa, organizzata
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12
dall’allenamento fisico esteriore. Il risultato è un bagaglio di strutture
psicofisiche che l’attore indossa sulla propria verità di uomo. Il teorico e
regista russo spiega così l’uso pratico della formula stanislavskiana «lavoro
dell’attore su se stesso»: il lavoro dell’attore è la pratica psicofisica che l’attore
usa su se stesso per rendere le proprie verità realtà credibili.
La tensione non è una materia che possa essere scorporata dall’attore. Un
gesto può diventare un tic attraverso cui controllare la tensione, ma perché si
possa dire che ci si trova davanti ad un atto creativo e non ad una banale
improvvisazione sul tema, la tensione deve essere allenata ed analizzata.
L’attore deve codificare la propria tensione nel gesto, pura azione scenica. Con
il tempo la pratica libera l’attore dalle inibizioni, ed è allora che la verità
dell’attore, non interprete ma coscienza, si attiva, apparentemente quasi per
istinto.
La concentrazione è invece la tensione psicologica già decodificabile
attraverso la recitazione dell’attore, che pertanto assume valore di veicolo
scenico. Vachtangov inizia dall’analisi della tensione non regolata per
approdare
allo
sfruttamento
della
tensione
stessa,
veicolata
dalla
concentrazione. L’attore punta la propria attenzione su un oggetto, ad
esempio una collana, una sigaretta o anche su un ricordo o su un odore, sì
che l’oggetto possa assorbire la tensione dell’attore, trasformando un
movimento dissociato in un’attenzione reale.
La terza conferenza tratta della giustificazione che viene divisa in tre poli:
convinzione, ingenuità e giustificazione; si fanno più distinte le innovazioni di
Vachtangov rispetto al Sistema. Per Stanislavskij l’identificazione dell’attore
con il personaggio nasce dal lavoro sulle circostanze date, prestabilite
dall’autore e dal regista, nelle quali l’attore deve lavorare sulla volontà del
personaggio. Per Vachtangov la giustificazione personale dell’attore
deve
dominare il lavoro sulle circostanze date. La giustificazione è il segreto che
guida l’attore verso la messa in pratica dell’immedesimazione: è il perché
dell’attore. La giustificazione non deve essere legata al personaggio, ma alle
ragioni
dell’attore.
Naturalmente
il
pubblico
non
deve
conoscere
la
giustificazione di un interprete; essa è il segreto dell’attore che rapporta la
giustificazione a se stesso e non al personaggio. Un attore, dice Vachtangov,
13
deve domandarsi perché sta facendo quell’azione sul palcoscenico e perché è
in scena. Le ragioni dell’attore nell’atto creativo diventano quelle del
personaggio, la giustificazione dell’attore diventa a poco a poco quella del
personaggio. La sua giustificazione personale è il suo segreto. Anche quando
un regista chiede ad un attore di mettere in scena una circostanza, egli deve
avere dentro di sé la giustificazione per quell’azione, giustificazione che non
può essere svelata a nessuno, nemmeno al regista, a meno che quest’ultimo
non suggerisca all’attore di giustificare l’azione in un certo modo. La
giustificazione assume energia creativa se non è svelata; chi va in scena è
l’attore.
Nella quarta conferenza, ovvero il cerchio di attenzione, Vachtangov
chiarisce
i
procedimenti
pratici
che
inducono
l’attore
ad
apparire
immedesimato. Il processo dell’immedesimazione si attiva attraverso tre
oggettività:
1. il fine (il motivo per cui il personaggio agisce sulla scena);
2. il desiderio (ciò che il personaggio vuole);
3. l’adattamento (la forma che l’azione assume, cioè come l’attore, per
conseguire il suo fine, deve spontaneamente modellare la sua azione in
relazione alle circostanze date indicate dal testo o determinate dal regista).
L’attore entra in contatto pelle a pelle con il personaggio riuscendo a
realizzare l’incantesimo dell’immedesimazione. Non è l’attore dunque che
entra nelle verità del personaggio, ma è piuttosto il personaggio che indossa
le verità dell’attore.
Il
cerchio
di
attenzione
dell’immedesimazione.
E’
la
è
il
momento
rivelazione
della
messa
in
dell’immedesimazione,
pratica
è
come
tecnicamente l’attore la realizza. In realtà, spiega Vachtangov, nell’arte della
riviviscenza (o concetto dell’immedesimazione) è il personaggio che entra
nell’attore. Nonostante lo spettatore veda un attore totalmente immedesimato
nel personaggio, egli non sa che in quel momento non sta guardando il
personaggio, ma l’attore che ha cucito su di sé le ragioni del personaggio.
Il fine è legato alle ragioni del personaggio, perché il personaggio, che
l’attore mette in scena, ha quella personalità e dunque agisce in un modo
invece che in un altro. Il desiderio è legato al comportamento del
14
personaggio. L’adattamento è il modo in cui l’attore indossa il personaggio,
assumendone le verità. Vachtangov svela che l’immedesimazione è un
processo
semantico
capovolto:
non
è
l’attore
che
s’immedesima
nel
personaggio, il personaggio viene indossato dall’attore, dunque è lo spettatore
l’unico a subire l’immedesimazione non per effetto ma per emozione. L’attore,
consapevole o meno, mette in scena se stesso. È sempre stato così, ma,
come ha chiarito Grotowski, Stanislavskij ha posto l’attore davanti alla verità
della sua arte, gli ha svelato una verità che da sempre fa parte della sua
natura di essere attore.
Un attore dice di avere tutti i personaggi dentro di sé, perché attinge dal
suo privato per renderli «vivi sulla scena». Un personaggio può far venir fuori
una materia imprevista, il fantasma che c’è nell’attore. Il personaggio di Nina
nel Gabbiano di Čechov recita:
In me si sono fuse le conoscenze degli uomini con gli istinti degli animali; ed io ricordo
tutto, tutto, tutto e rivivo in me da capo ogni singola vita.12
La giustificazione e il cerchio di attenzione costituiscono i due punti nodali
della riformulazione del Sistema, perché svelano l’artificio che determina il
processo d’immedesimazione.
Nella quinta e nella sesta conferenza Vachtangov affronta i procedimenti
della memoria emotiva e della memoria sensitiva, rispetto a Stanislavskij
aggiunge che un’emozione non corrisponde ad un ricordo parallelo. Per
Stanislavskij
l’emozione
deve
essere
realisticamente
corrispondente
all’azione, per Vachtangov è necessario evocare un’emozione vissuta che
possa far rivivere l’emozione richiesta sulla scena.
Nella settima conferenza il regista russo si sofferma sull’esecuzione e il
tempo di durata di un’azione. Circostanza e personaggio possiedono un
proprio tempo di esecuzione, l’alterazione in un senso o in un altro rende
grottesca l’azione.
Nell’ottava conferenza Vachtangov affronta il problema della comunicazione
tra attore e pubblico e sulla resa credibile dell’azione del personaggio. Quando
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15
ascoltiamo un oratore ci rendiamo conto che è padrone dell’argomento, se
indossa l’argomento o se lo cita. Nel primo caso l’attore crede nel suo ruolo,
nel secondo caso la sua recitazione è finta. La comunicazione tra attore e
pubblico avviene se il pubblico percepisce l’autenticità dell’azione: se l’attore
dialoga non deve dare l’impressione di fingere di dialogare, ma deve tradurre
il suo dialogo in un autentico scambio. L’attore riesce a comunicare con il
pubblico e a sollecitare una risposta emotiva, se sulla scena crea una
comunicazione credibile con il proprio partner.
Luigi Pirandello confessa che il suo testo è difficile nel contenuto ma non
nella forma e chiunque lo voglia mettere in scena lo potrà fare con successo
purché sorretto da una solida coscienza tecnica; è come se dicesse che è
consapevole della verità del teatro e dei trucchi del mestiere. Tuttavia
Pirandello ammonisce che le verità sono infinite; dentro una verità specifica
germogliano altrettante verità, verità doppie, ciascuna nella propria unicità.
Se così non fosse, l’attore lavorerebbe sul nulla, il suo compito è invece di
stare saldo sulle sabbie mobili. L’artificio vita/arte, composto dall’attore in
sé personaggio e dal personaggio in sé attore, emerge dal personaggio
pirandelliano
che
si
rivela
interprete
(forse)
inconsapevole
della
giustificazione e del cerchio d’attenzione. L’unica coscienza dell’attore è la
sua tecnica, dice Vachtangov, l’unica verità la propria giustificazione. Queste
le fonti da cui far emergere i frammenti sommersi della pratica di un attore
e del fenomeno scenico che rappresenta, ma parte delle verità testuali
dell’attore,
per
le
ragioni
espresse
da
Vachtangov,
resteranno
irrangiungibili.
Ejzenštejn
critica
il
film
La
madre
(Mat’,
1926)
di
Pudovkin
e
indirettamente dà la sua risposta a Stanislavskij. Il regista russo apprezza
l’attore del Sistema, ma sostiene che Pudovkin non lo usa nella maniera
giusta, lo critica per non aver capito che l’attore del Sistema è già un tipo,
qualcosa di simile alla maschera. Di fatto Ejzenštejn ribadisce che il tipaž è
un’elaborazione moderna della tipicizzazione della Commedia dell’Arte,
perché la tipicizzazione dell’attore cinematografico avviene attraverso la
fissità dell’attore nel personaggio, così quando lo spettatore lo vede sullo
16
schermo sa quale è il carattere del personaggio, cosa ci si può aspettare e
quale azione compirà, questo è realismo, Ejzenštejn dice:
Quale è la forma di teatro più teatralizzata? La Commedia dell’Arte. Se mettete a
confronto i principi della Commedia dell’Arte con quelli del Tipaž, vi accorgerete che si
tratta di un’unica tendenza. Se la maschera di Pantalone, o Arlecchino o qualsiasi altra
compare sulla scena, tutto diventerà chiaro per lo spettatore di un certo periodo. […]
Quando una maschera si presenta, lo spettatore sa chi e che cosa rappresenta. […]
Con il superamento spontaneo del teatro nel cinema, quello che nel teatro era
occupato dalla Commedia dell’Arte è rappresentato dal Tipaž. C’è un problema di Tipaž
anche nella preparazione delle sceneggiature. Qualsiasi film va bene per vedere come
il principio del Tipaž sia costretto nel genere del film recitato. Posso prendere un
esempio dal film La madre dove i personaggi secondari – l’artigiano, i crumiri e il resto
della folla – sono scelti da Pudovkin ottimamente dal punto di vista del Tipaž, e ciò è
del tutto corretto. Ma egli sbaglia poi quando li costringe a recitare, quando sarebbe
stato necessario mostrare quel determinato personaggio in un solo profilo, con un
unico orientamento. Sarebbe detto già tutto. Il personaggio infame il cui volto esprime
tutto, è costretto a compiere un’azione infame. Il troppo stroppia. La madre avrebbe
dovuto essere realizzato diversamente. Magnifico è in Batalov il tratto generale del
Tipaž e lo interpreta nei comportamenti. La Baranovskaja recita sotto questo aspetto
peggio di Batalov, perché risulta molto più teatrale e convenzionale. Batalov è l’ideale.
La Baranovskaja si sforza di recitare in uno stile più ortodosso, teatralizzato. Perciò i
Tipaž i di Pudovkin richiederebbero un altro tipo di film, dove sarebbero semplicemente
mostrati senza costringerli a fare nient’altro.13
Per Ejzenštejn l’attore del Sistema risulta fortemente tipicizzato in un
film,
perché
la
natura
formatrice
dell’attore
emerge
inevitabilmente
attraverso il montaggio. È il montaggio a mostrare che «il lavoro dell’attore
su se stesso» caratterizza la recitazione, rivelandone la genesi da specifici
procedimenti di allenamento. Il Sistema attribuisce indirettamente all’attore
la consapevolezza di personaggio in sé «tipo». Ejzenštejn opera una
distinzione tra naturalismo e realismo. Il regista naturalista è il regista che
prende una situazione o un personaggio e lo lascia così com’è, senza
alterarlo; il regista realista, al contrario, prende questa stessa situazione
naturalistica e la tipicizza. Se si inquadra, per esempio, un vecchio dalla
barba lunga e dal volto segnato, non è necessario che questa persona parli
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17
o agisca perché la sua presenza e la sua codificazione sono già azione. Per
Ejzenštejn l’attore del Sistema non è, come sostiene Stanislavskij, mutevole
per mood, ma è sempre uguale a se stesso; è un tipo fisso, come le
maschere della Commedia dell’Arte. È un interprete straordinario se rimane
isolato dalla parola. Ejzenštejn accusa Pudovkin di aver fatto troppo con gli
attori del Sistema perché essi sono in sé tipaži: «se l’attore è mostrato
molto bene nell’ambito di ciò che rappresenta, bisognerà indebolirne la
recitazione».14
Ejzenštejn illustra che in generale il personaggio esiste in quanto tipaž.
Egli viene riconosciuto in relazione ad una vicenda narrata. Amleto è un
tipaž, «perché ha una verità da portare avanti, l’attore invece non è
nessuno perché non ha una sola verità da portare avanti», ma verità doppie
di infinite verità: come sua «verità» egli mette in scena il suo «lavoro».
L’attore diventa qualcuno nel momento in cui diventa testo, condannato
senza appello ad una «parte» che lo magnifica.
L’attore del Sistema, pensato per un teatro dominato dalla parola e non
dalle immagini, risulta più adatto alle soluzioni cinematografiche per la sua
natura intrinseca di «tipo», nato dalla ricerca dell’azione interiore e
dell’azione esteriore.
Anche Pier Paolo Pasolini è coinvolto nel dibattito sull’attore, e a proposito
di un «attore nuovo» per un «teatro nuovo» distingue tre tipi di teatro: il
teatro della chiacchiera, il teatro dell’urlo e il teatro di parola. Per Pasolini
l’avanguardia
si
contrappone
al
teatro
borghese,
detto teatro
della
chiacchiera. Il teatro dell’urlo è invece il teatro dell’avanguardia. Pasolini
sottolinea come in realtà questi due tipi di teatro provengano da una stessa
matrice: esiste l’avanguardia perché c’è un teatro borghese da buttare giù,
quindi l’uno dipende anche dall’altro, e quando si parla d’avanguardia e di
teatro dell’urlo non si può parlare di nuovo teatro. Il nuovo teatro non è né
il teatro della chiacchiera né il teatro dell’urlo, ma è il teatro di parola.
Pasolini indica quale deve essere il lavoro del regista, dell’attore e
dell’autore nel teatro di parola: l’attore ideale discenderà dalla tradizione
stanislavskiana,
ma
sarà
rifiutata
+DKFGO
18
la
drammaturgia
di
ascendenza
naturalistica.
Pasolini
condanna,
insomma,
la
drammaturgia
del
naturalismo, ma ne salva il lavoro sull’attore, perché è l’unico a proporre
una soluzione recitativa praticabile nel teatro di parola:
Sarà dunque necessario che l’attore del teatro di parola in quanto attore cambi
natura: non dovrà più sentirsi fisicamente portatore di un verbo che trascenda la
cultura in un’idea sacrale del teatro: ma dovrà semplicemente essere un uomo di
cultura.
Egli non dovrà più dunque fondare la sua abilità sul fascino personale, come succede
all’attore (teatro borghese), o su una specie di forza isterica e medianica (teatro
antiborghese) sfruttando demagogicamente il desiderio di spettacolo dello spettatore
(teatro borghese), o prevaricando lo spettatore attraverso l’imposizione implicita del
farlo partecipare al rito sacrale (teatro antiborghese). Egli dovrà piuttosto fondare la
sua abilità sulla sua capacità di comprendere veramente il testo. E non essere
dunque interprete in quanto portatore di un messaggio (il Teatro!) che trascende il
testo: ma essere veicolo vivente del testo stesso.
Egli dovrà rendersi trasparente sul pensiero: e sarà tanto più bravo quanto più,
sentendolo dire il testo, lo spettatore capirà che egli ha capito. Cosa che fanno con
molta buona volontà e spesso con buona fede tutti gli attori seri, con deboli risultati
critici perché sono ottenebrati dall’idea tautologica del teatro che implica materiali e
stili storicamente diversi da quelli del testo preso in esame, se si tratta di un testo
anteriore a Čechov o posteriore a Ionesco.15
Pasolini sostiene che l’attore viene anche molto penalizzato dagli «ismi»
della critica e della cultura perché prima di Čechov era in un modo e dopo
Ionesco è un altro modo, una posizione che determina inevitabilmente
confusioni critiche che devono essere superate.
La creazione dell’attore in scena è per Pasolini l’unico referente del
personaggio cartaceo, vale a dire letto direttamente sul testo; l’unico
referente dell’attore diventato personaggio è lo spettatore. Lo spettatore di
Stanislavskij è uno spettatore borghese, come borghese è lo stesso
spettatore di Pirandello e dell’avanguardia. Per Pasolini muta la regia nel
teatro di parola, rispetto al naturalismo, muta la drammaturgia, ma resta
valido l’attore.
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19
Conta ciò che l’opera d’arte comunica. Il valore è nel risultato finale. Una
regia, un quadro, il gesto dell’attore vivono nell’emozione di chi li guarda.
3. La risposta di Grotowski
La genesi del lavoro di Jerzy Grotowski, per sua stessa ammissione, va
ricercata nelle pieghe del Sistema:
Prendiamo Il principe costante di Ryzszard Cieslak al Teatr Laboratorium. Prima di
incontrarsi nel lavoro sul ruolo con i suoi partner nello spettacolo, per mesi e mesi
Cieslak aveva lavorato solo con me. Niente nel suo lavoro era legato al martirio che,
nel dramma di Calderòn/Slowacki, è il tema del personaggio del Principe costante.
Tutto il fiume della vita nell’attore era legato ad un ricordo felice, alle azioni
appartenenti a quel ricordo concreto della sua vita, alle minime azioni e agli impulsi
fisici e vocali di quel momento rammemorato. Era un momento della sua vita
relativamente breve - diciamo qualche decina di minuti - il tempo dell’amore della sua
adolescenza, legato a quella no man’s land fra la sensualità e la preghiera. Il momento
di cui parlo era, dunque, immune da ogni connotazione tenebrosa, era come se questo
adolescente rammemorato si liberasse col suo corpo dal corpo stesso, come se si
liberasse - passo dopo passo - dalla pesantezza del corpo, da ogni aspetto doloroso.
Attraverso la molteplicità dei dettagli, attraverso tutti i piccoli impulsi e azioni, legati a
quel momento della sua vita, l’attore ritrovò il flusso del testo dei monologhi del
Principe Costante.
Ma il contenuto dell’opera letteraria, la logica del testo, la struttura dello spettacolo
intorno e in rapporto a lui, gli altri personaggi e gli elementi narrativi suggerivano che
fosse un prigioniero e un martire che si cerca di stroncare, e che rimane fedele alla
propria verità fino alla fine. E attraverso questa agonia del martirio egli giunge al
culmine.
Questa era la storia per lo spettatore, ma non per l’attore. Gli altri personaggi intorno
a lui, vestiti come procuratori di un tribunale militare, si collegavano alla Polonia di
quel tempo (1966). Ma evidentemente questa non era la chiave. Fondamento del
montaggio era quella narrazione che creava la storia di un martire: la messa in scena,
la struttura del testo scritto e, ciò che era di certo più importante, le azioni degli altri
attori, i quali, da parte loro, avevano propri motivi. Nessuno cercava di interpretare,
per esempio, il procuratore militare; ognuno interpretava proprie faccende, questioni
legate alla sua vita, strettamente strutturate e inserite nella forma di quella storia
secondo Calderòn/Slowacki.16
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20
Nel 1946 Grotowski, prima allievo poi attore e regista dell’Istituto
Superiore di Drammaturgia di Varsavia, decide di organizzare un corso
alternativo sulle azioni fisiche. Il regista polacco sviluppa i procedimenti
stanislavskiani, volgendoli verso il suo «modo».
Il sistema Stanislavskij entra in Polonia a partire dal 1920 con
Limanowski, seguace polacco del Sistema, che insieme al regista Leon
Schiller e con l’aiuto e il supporto pratico e teorico di alcuni attori del Teatro
d’Arte, fonda l’Istituto Superiore di Drammaturgia. Il debutto del Sistema
sulla scena polacca è legato allo spettacolo Nella piccola casa di Theodor
Rittner al Teatro Reduta nel 1920. Se dal punto di vista politico e ideologico
sono anni difficili per la Polonia, al contrario, dal punto di vista culturale, è
un periodo di grande fermento teatrale. Piccoli e grandi teatri nascono a
Varsavia e in provincia: lo stesso Istituto Superiore di Drammaturgia si
trasferisce a Vilco, un villaggio a pochi chilometri dalla capitale, per poi
ritornare nuovamente a Varsavia. L’interesse per la cultura teatrale non è
prerogativa soltanto della capitale, ma riguarda un po’ tutta la nazione
polacca; l’attenzione verso le scuole di teatro nasce prima del 1920,
determinata da una grande tradizione che ha generato figure per l’appunto
come quelle di Limanowski e di Schiller. L’incontro con il Sistema è
rivoluzionario per il teatro polacco, Leon Schiller abbandona le sue
monumentali regie e, grazie anche all’influenza di Limanowski, si converte
ad una scena essenziale dall’inequivocabile gusto stanislavskiano.
Grotowski vive la sua formazione d’attore in un contesto teatrale
fortemente dominato dal sistema Stanislavskij:
Quando ero studente della scuola d’arte drammatica, della facoltà per attori, fondai
l’intera base del mio sapere teatrale sui principi di Stanislavskij. Come attore ero
posseduto da Stanislavskij. Ero un fanatico. Ritenevo che fosse la chiave che apre tutte
le porte della creatività[…] Lavoravo molto per arrivare a sapere tutto il possibile su ciò
che aveva detto o che era stato detto su di lui.17
Sebbene Grotowski, in quasi tutte le sue conferenze, sottolinei il legame
del suo lavoro con quello di Stanislavskij, Thomas Richards, allievo di
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(CNNGVVK(KTGP\G.CECUC7UJGTRR
21
Grotowski, dichiara di vedere di continuo attori e gruppi che in pratica
dimenticano questo punto:
Tentano di arrivare a quella stessa alta qualità, saltando a piè pari la necessità di porre
le fondamenta; spiccano un balzo direttamente nell’ignoto. Per pigrizia o per desiderio
di risultati immediati, questi individui o gruppi dimenticano completamente gli
insegnamenti
di
Stanislavskij
che
evidenziano
la
necessità
di
una
struttura
coscientemente preparata: una necessità che Grotowski non ha mai dimenticato.
Stanislavskij scrive nel testo Il lavoro dell’attore sul personaggio: «Certo il turbine
dell’ispirazione può trasportare il nostro aeroplano creativo sulle nuvole, senza rullio. Il
guaio è che questi slanci non dipendono da noi e non costituiscono la norma. Nelle
nostre possibilità rientra preparare il terreno, stendere i binari, formare cioè le azioni
fisiche rinforzate dalla verità e dalla convinzione». Sono parole di Stanislavskij, ma ho
sentito molte volte Grotowski esprimere la stessa idea.18
La risposta di Grotowski a Stanislavskij è nella creazione del training che
il regista elabora a partire dal lavoro dell’attore su se stesso: se le azioni
fisiche segnano la continuità tra Stanislavskij e Grotowski, il training
testimonia la successiva indipendenza di Grotowski dal fondatore del Teatro
d’Arte di Mosca. Nel primo periodo dell’attività grotowskiana - durante i
laboratori di Opole e Wroclaw - la presenza del Sistema è predominante.
Usa con Cieslak i procedimenti della memoria emotiva e della memoria
sensitiva per la creazione scenica di Fernando, il principe. Questo episodio
non testimonia che la messinscena del dramma calderoniano viene
preparata secondo i fondamenti naturalistici del Sistema, ma che i
fondamenti del Sistema sono sottesi dal lavoro della regia sul personaggio.
Il principe costante di Pedro Calderòn de La Barca viene diretto da
Grotowski secondo l’adattamento reso dalla traduzione del poeta e
drammaturgo polacco Juliusz Slowacki, nato a Krzemieniec nel 1809 e
morto a Parigi nel 1849. Di fatto, l’interesse di Grotowski per Il principe
costante non nasce da una reale attrazione per l’opera di Calderòn o per la
drammaturgia calderoniana in generale, che pure è centrale nella storia del
teatro, quanto, appunto, per la traduzione e l’adattamento del testo eseguiti
da Slowacki. Al centro della poetica di Slowacki lievitano la sua condizione di
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22
fuoriuscito (dal 1839 vive esule a Parigi) e il problema delle colpe della
sventurata patria e delle vie che portano alla «redenzione» della Polonia,
nonché alla sua risurrezione - un problema essenziale per i fuoriusciti
polacchi. Nelle sue ultime opere, lavori in cui la Polonia occupa un posto
estremamente importante, prende corpo anche la sua cosmogonia mistica,
concepita come un cammino ascensionale della materia e dell’umanità verso
forme sempre più elevate dello spirito; la sua dottrina spiritualistica si lega
strettamente al messianismo patriottico polacco. Slowacki, insieme al poeta
Adam Mickiewicz e allo scrittore Zygmunt Krasinski, rappresenta uno dei
capisaldi del romanticismo polacco e per i suoi connazionali egli non è
soltanto un poeta e un drammaturgo, ma soprattutto una bandiera
ideologica. La poetica di Slowacki si contraddistingue per la presenza di due
sentimenti molto significativi per il suo tempo - e per ogni tempo - il
sentimento religioso, vale a dire l’uomo in sé - l’uomo dentro di sé - e il
sentimento patriottico, quindi l’altro in sé. Per i temi trattati Slowacki si
offre come autore totale, senza tempo, senza confini geografici, politici e
ideologici, ma per questo pregno di ogni tipo di confine sia esso geografico,
politico o ideologico. Slowacki traduce (impara lo spagnolo appositamente
per questa occasione) Il principe costante perché vede nel testo di Calderòn
la possibilità di lavorare su questi due sentimenti che lo coinvolgono sia
come uomo sia come intellettuale. Grotowski dice di conoscere Il principe
costante di Calderòn attraverso la traduzione di Slowacki; una dichiarazione
significativa, così come è significativo il fatto che Grotowski intervenga sul
testo tradotto e rivisto da Slowacki, creando a sua volta una propria sintesi
poetica del testo calderoniano rispetto al poeta polacco.
La regia di Grotowski de Il principe risulta dunque pregnante, ricca di
significanti ideologici, mascherati dall’attenzione sul lavoro dell’attore.
Rintracciamo gli stessi meccanismi espressivi nella regia teatrale di Anna dei
miracoli (The Miracle Worker, 1959) di Arthur Penn. Le due regie
presentano lo stesso plot registico, che, come quello drammaturgico,
contiene la citazione meta-teatrale e il riferimento alla contemporanea
situazione socio-politica. Il discorso sul teatro contiene la riflessione sul
metodo attorico; quello penniano è fedele all’ortodossia stanislavskiana,
23
quello grotowskiano è ancora legato ai procedimenti dell’immedesimazione,
ma totalmente aperto ad una necessaria indipendenza dal Sistema, grazie
alla messa in pratica della possessione. Il riferimento socio-poltico nella
regia penniana mette in evidenza l’universo ideologico del sogno americano
frantumato, ricomposto e riproposto dal personaggio dell’educatrice, Anne
(l’attrice
Anne
Bancroft);
nel
Principe
Grotowski
denuncia
l’infelice
condizione della nazione polacca. Nel 1966, anno del debutto del laboratorio
di Wroclaw, la Polonia è ancora un lager, la generazione di Grotowski porta
con sé una situazione ideologicamente e politicamente difficile, e la
memoria che quella condizione è la stessa delle generazioni precedenti. E’
un’agonia politica e sociale che, iniziata nel 1905, si conclude venticinque
anni dopo la regia de Il principe. Gli anni del laboratorio di Wroclaw
coincidono con una sofferenza che trova la strada per tessere le maglie di
una rivoluzione condotta con mezzi diversi, ma non meno efficaci delle
bombe e dei carri armati che hanno interrotto la «felice» primavera della
vicina Praga.
Il
martirio
del
principe,
così
come
viene
raccontato
nel
testo
calderoniano, fa parte della tradizione ideologica della cultura cattolica, ma
risulta ricco di riferimenti meta-teatrali: qui la risposta di Grotowski lievita,
accuratamente nascosta tra le verità della pratica di Cieslak. Il principe di
Grotowski è il Cristo condannato per non essere colpevole, per essere
rimasto fedele non alla ragione dell’uomo, ma alla verità del padre. Il Cristo
rappresenta la condizione del singolo umiliato e martoriato; quello del Cristo
è anche il martirio di una comunità, di un’intera nazione, di un’idea, di una
verità che attraverso il martirio diventa più potente delle bombe di un
nemico senza verità.
Il senso ideologico è sommerso, ma predominante in Grotowski, che
affida alla pratica di Cieslak la forza espressiva e comunicativa della sua
regia. L’attore sulla scena è estensione perché riesce a dominare l’energia
del proprio corpo. Quello di Cieslak è un dolore autentico e credibile,
costruito attraverso un esercizio saldamente giustificato da esperienze
psicofisiche. L’attore polacco racconta che riusciva ad emettere l’urlo del
principe perché veniva percosso – ma non sul serio, dichiara Cieslak - alla
24
base del collo, con lo scopo di stimolare alcune reazioni nervose: faceva
parte di un attento studio fisiologico sperimentato da Grotowski per quella
particolare circostanza di rappresentazione. Non era dunque una reale
violenza quella che induceva Cieslak ad urlare e a far credere allo spettatore
che il suo era l’urlo del principe.
Se il lavoro dell’attore su se stesso conduce Stanislavskij a formulare la
messa in pratica dell’immedesimazione, il training permette a Grotowski di
utilizzare sulla scena i rituali della possessione. Grotowski inizia dalle azioni
fisiche per elaborare un «modo», forse non alternativo a quello di
Stanislavskij, ma certamente spinto più in avanti verso la ricerca psicofisica.
Il regista polacco amplia i procedimenti delle azioni fisiche attraverso lo
studio biologico del corpo: è da qui che Grotowski prende le distanze da
Stanislavskij e formula l’autonomia del suo modo. Studia anatomia e
biologia per prevedere e successivamente governare le azioni psicofisiche
dell’attore, creando così un’unione alchemica tra il corpo che rappresenta e
il corpo che conosce se stesso. Quando Cieslak urla nella scena finale della
flagellazione, l’attore sa quale muscolo e quale parte del corpo deve
dominare tutte le altre per raggiungere un effetto sullo spettatore, già
programmato dalla regia. Grotowski sviluppa dunque l’ultima parte del
Sistema; quello su cui sente di dovere agire è la propria conoscenza,
maturata all’ombra del Sistema, ma già pronta «per andare oltre», come
Stanislavskij stesso sperava che tutti i suoi allievi e seguaci riuscissero a
fare. Il fondatore del laboratorio di Opole sostiene che Stanislavskij è
l’origine del teatro del Novecento e che nessuno può fare a meno di
confrontarsi con il Sistema. Si può essere più o meno d’accordo con le teorie
stanislavskiane, ma ciò che conta, aggiunge Grotowski, è dare la propria
risposta a Stanislavskij. Una risposta importante nasce da una conoscenza
reale e autentica del Sistema:
Ritengo che il metodo di Stanislavskij sia stato uno dei più grandi stimoli per il teatro
europeo, in particolare nella formazione dell’attore; nello stesso tempo mi sento
lontano dalla sua estetica. L’estetica di Stanislavskij era il prodotto dei suoi tempi, del
suo paese e della sua persona. Siamo tutti il prodotto dell’associazione delle nostre
tradizioni e dei nostri bisogni. Si tratta di cose che non è possibile trapiantare da un
25
luogo a un altro senza cadere negli stampi, negli stereotipi, in qualcosa che è già
morto nel momento in cui si chiama ad esistere. E lo stesso accade nel caso di
Stanislavskij, come nel nostro ed in quello di ciascun altro. In senso professionale mi
sono formato sul sistema Stanislavskij. Certe domande non hanno senso. Stanislavskij
è importante per il nuovo teatro? Non lo so. Ci sono cose nuove come le riviste di
moda. E ci sono cose nuove, ma antiche come le origini della vita. Perché domandi se
Stanislavskij è importante per il nuovo teatro? Dai la tua risposta a Stanislavskij - che
non sia basata sull’ignoranza della cosa, ma sulla sua conoscenza pratica. O sei
creativo, oppure no. Se lo sei, in qualche modo lo superi, se non lo sei, sei fedele, ma
sterile… I veri allievi non sono mai allievi. Un vero allievo di Stanislavskij era
Mejerchol’d. Egli non applicava il sistema scolasticamente. Dava una risposta sua. Era
un rivale, non un’anima buona che protesta un po’ di non essere d’accordo. Aveva
delle convinzioni, era se stesso. Del resto ne pagò il prezzo. Un vero allievo di
Stanislavskij era Vachtangov. Non si oppose a Stanislavskij. Quando tuttavia applicò il
sistema nella pratica, ciò era così personale, e così definito dai rapporti fra se stesso e
i suoi attori che i risultati furono assai diversi dagli spettacoli di Stanislavskij.19
Il principe costante è l’ultima regia di Grotowski in cui è possibile
rintracciare il Sistema. A partire da essa la ricerca teatrale del regista
polacco si allarga, e «si spella» delle soluzioni sceniche dei procedimenti
stanislavskiani. Il testo calderoniano è il crocevia per comprendere i legami
e le differenze tra immedesimazione e possessione o meglio tra l’arte
stanislavskiana e l’arte grotowskiana. La scena nodale della regia de Il
principe, che mette in luce similitudini e mutamenti rispetto al Sistema nel
lavoro sulla regia e sull’attore, è quella già citata della flagellazione del
principe. E’ una scena forte, la dominano rigore e violenza. La scena
costituisce la prima forma di fusione tra immedesimazione e possessione. La
differenza nel procedimento di lavoro sull’attore in Grotowski viene
sottolineata da un attore non immedesimato nel personaggio, ma posseduto
da esso - questa è la percezione dello spettatore, l’unica che abbia un
valore per Grotowski.
Cieslak recita muovendo ogni singolo muscolo nella più assoluta mobilità.
Rintracciamo in lui le fasi dei procedimenti stanislavskiani, ma è altrettanto
evidente come l’immedesimazione dell’attore sia diretta dalla possessione.
La flagellazione di Fernando, il principe, diventa nella regia di Grotowski la
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26
flagellazione del Cristo, metafora dell’uomo e della sua fede. E’ la verità
sommersa che emerge per allegoria. E’ la rivolta dell’individuo contro se
stesso e contro le ragioni di Stato, l’individuo flagellato nel fisico come nella
mente, una mente ridotta in macerie come l’intera nazione a cui l’individuo
appartiene. Il principe costante nel 1966 diventa il simbolo della martoriata
cultura polacca; lo spettacolo si carica di ulteriori significati che spingono
Grotowski oltre i confini dell’avanguardia. La regia del teorico polacco è un
unicum inimitabile; nessuno potrebbe fare lo stesso né tanto meno credere
di potere fare meglio. Il principe, come un diamante, lancia bagliori di luce
purissima che folgorano l’anima e la mente e avvolgono lo spettatore
nell’incantesimo di un sogno credibile.
Il principe costante di Jerzy Grotowski è un monumento della Storia del
Teatro. Quando Ryszard Cieslak recita nelle vesti di Don Fernando mette in
scena l’arte dell’immedesimazione e della possessione – dopo di lui diventa
difficile far passare per teatro qualunque altra interpretazione del Principe.
Cieslak è una forza della natura. E’ un attore che possiede il dono. Un dono
esaminato e allenato dal training. La scena del martirio è una prova ben
riuscita d’immedesimazione-possessione. L’immedesimazione in Cieslak è
andata oltre fino a raggiungere la possessione. E non pensiamo di sbagliare
quando affermiamo che oltre Cieslak ancora non si è andati; Cieslak ha
trovato una nuova soluzione recitativa, e il non essere andati oltre Cieslak
vuol dire che ancora non si è riusciti a formulare un allenamento nuovo per
la pratica d’attore. L’universo grotowskiano è un universo che si allarga con
le stesse modalità che hanno caratterizzato l’estensione del sistema
Stanislavskij.
Nel corso degli anni Grotowski subisce l’influenza di varie teorie ma
soprattutto, come afferma lo stesso regista, viene influenzato da cinque
personalità della storia del teatro del Novecento: Stanislavskij, Vachtangov,
Mejerchol’d Brecht, Dullin e Artaud. Tra questi è particolarmente importante
ricordare Antonin Artaud, perché rappresenta nel lavoro di Grotowski
l’elemento nuovo che non è presente in Stanislavskij. Artaud infatti è il dato
che pone una differenza tra Stanislavskij e Grotowski, è il coefficiente che ci
consente di verificare l’evoluzione del lavoro di Grotowski sull’attore rispetto
27
a Stanislavskij. Al paese dei Tarahumara di Artaud, pubblicato nel 1945,
affidiamo il compito di giustificare la Risposta di Grotowski.
Nel
Principe
costante
immedesimazione
e
Cieslak
possessione,
unisce,
cioè
come
azione
abbiamo
fisico-ginnica
già
detto,
e
azione
psichica. Il lavoro sull’azione fisica viene sviluppato con esercizi che
comprendono quelli tradizionali indicati da Stanislavskij come lo yoga e
quelli ideati da Grotowski in relazione alla trance. Per Grotowski la trance è
necessaria per superare i blocchi psicologici.
Nel Principe troviamo due universi da analizzare e da conoscere: il primo
è rappresentato dal sentimento religioso e patriottico di Slowacki e da qui
l’approccio di Grotowski verso la poetica romantica, il secondo è costituto
invece
dal
lavoro
di
Cieslak,
che
contiene
i
procedimenti
dell’immedesimazione e i riti della possessione. Queste le verità alla base
del lavoro di regia di Grotowski, che costruisce su di esse tre livelli di analisi
all’interno della messinscena. Il primo livello riguarda la regia sul lavoro
dell’attore, che ci consente di guardare lo spettacolo come una prova
d’attore;
il
secondo
livello
viaggia
dentro
il
sentimento
ideologico,
patriottico, legato alla società e al suo tempo, espressione di una nazione in
ginocchio e defraudata. Il terzo livello porta in superficie la ricerca del
regista. E’ un momento rivolto verso se stesso perché la ricerca parallela
sull’attore condotta da Grotowski è anche una verifica ideologica. Spesso il
regista polacco giunge a riflessioni che riconducono il teatro a puro pretesto
per affermare l’uomo che si estende in sé, direzionato dal sentimento
religioso, e l’uomo che si ritrae verso l’altro, guidato dal sentimento politico.
Il
lavoro
di
Cieslak
presenta
alcuni
elementi
di
ascendenza
stanislavskiana che ci permettono di affermare con tranquillità che il suo
modo
era quello della possessione strutturata secondo procedimenti
organizzati.
Il
rito
della
possessione
in
sé
come
manifestazione
antropologica contiene una struttura. Lo sciamano è colui che ha il dono. È il
prescelto.
Ha
un
dialogo
diretto
con
la
divinità,
ma
è
anche
un
professionista che sa utilizzare gli strumenti. È la forma strutturata di
un’arte che permette che la conoscenza diventi veicolo, affinché si possa
parlare di religione, di sentimenti, di politiche e di uomini che subiscono la
28
violenza inutile quanto banale «dei prepotenti del potere»: l’inarrestabile
ideologia del nulla che domina le verità.
L’attore bene allenato - dice Grotowskij - è colui che compie l’atto psichico con il suo
corpo, l’attore male allenato è colui che illustra l’atto psichico con il suo corpo. Il corpo
deve essere il materiale di un atto psichico, non deve fare alcuna resistenza, sicché si
possa dire che l’attore è illuminato, in una sorta di “transluminazione del corpo” (la
transluminazione indica il processo dell’immedesimazione e della possessione), cioè se
l’attore
invece
di
compiere
l’atto
psichico
si
limita
a
illustrarlo
il
processo
dell’immedesimazione non può avvenire. Quando abbiamo trovato questo abbiamo
cominciato a cercare ciò che si può chiamare la personalità dell’attore. L’allenamento
non prepara all’atto creativo, è una leggenda. L’allenamento agisce contro il tempo
quando invecchiamo, mantiene la freschezza del corpo per le reazioni, ed è quel
sentimento di resistenza a dare un senso di fiducia, in questo senso è di aiuto. Non ci
si può torturare con gli esercizi per mesi e anni e non essere mai creativi. Non bisogna
dimenticarlo, gli esercizi sono come la pulizia dei denti, è un’azione necessaria ma non
creativa. […] Molto spesso un gesto è un movimento periferico del corpo, ma dalla
periferia, le mani e la faccia, il gesto trasformato all’interno da un’intenzione, un
proposito radicato in tutto il corpo diventa un’azione fisica e non è più un gesto.20
Le parole del regista polacco ci conducono nuovamente a Stanislavskij, il
quale sostiene che l’azione fisica non è il gesto ma è la visione del gesto,
non è una ricerca della caratterizzazione gestuale del personaggio, ma
trasforma il gesto in azione evocatrice; non quello che si vede attraverso il
gesto, cioè la gestualità, ma quello che si vede attraverso un’azione fisica: il
gesto diventa visione. Per Grotowski
l’attore che compie un atto di autopenetrazione che scopre se stesso ed offre ciò che vi
è di più intimo in lui, deve essere in grado di manifestare anche i più impercettibili
impulsi psichici, deve potere esternare grazie al suono e al movimento quegli impulsi
che oscillano tra la sfera del sogno e quella della realtà, in poche parole deve poter
costruire un suo linguaggio psico-analitico di suoni e di gesti così come un grande
poeta crea un suo proprio linguaggio con le parole.21
Grotowski utilizza come metafora del teatro
e dell’essere attore nel
personaggio l’effetto che il peyotl procurava ad Antonin Artaud. L’esperienza
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+DKFGO
29
narrata da Artaud diventa per Grotowski la prova che la prassi attorica
assume valenza taumaturgica, e dunque anche ideologica, all’interno di
scansioni ritualistiche o strutture. Artaud racconta:
Restai dunque ancora un giorno o due presso i Tarahumara con lo scopo di conoscere
bene il peyotl e occorrerebbe un grosso libro per riferire tutto quello che ho visto e
provato sotto la sua influenza e tutto quel che il prete, i suoi assistenti e le loro
famiglie mi dissero ancora sull’argomento. Ma una visione avuta e che mi colpì fu
dichiarata "autentica" dal prete e dalla sua famiglia, e concerneva, sembra, quel che
dev'essere Ciguri e che è Dio. Ma non ci si giunge senza essere passati attraverso un
laceramento e un’angoscia, dopo di che ci si sente come rivoltati e riversati dall’altra
parte delle cose e non si capisce più il mondo che si è appena lasciato. Dico: riversati
dall’altra parte delle cose, e come se una forza terribile vi consentisse di essere
restituito a quel che esiste dall’altra parte. […] L’infinito e che lo si vedrà ancora
quest’infinito, ci si sente come in un’onda gassosa che sprigiona ovunque un
incessante crepitio come cose come uscite fuori da quel che era la vostra milza, il
vostro fegato, il vostro cuore o i vostri polmoni, si sprigionano instancabilmente e
scoppiano in quell’atmosfera che esita tra il gas e l’acqua ma sembra chiamare a sé le
cose e ordinar loro di riunirsi e questo mi ha ispirato un certo numero di riflessioni
sull’azione psichica del peyotl. […] Il peyotl riconduce l’io alle sue vere sorgenti, uscito
fuori da un simile stato di visione non si può più confondere come prima la menzogna
con la verità, si è visto da dove si viene e chi si è e non si dubita più di ciò che si è non
vi è più nessuna emozione né influenza esterna che possa distogliervi.22
Cieslak trasforma in pratica scenica l’effetto del peyotl descritto da
Artaud; quando l’osserviamo come se fosse il principe in carne ed ossa, egli
provoca in noi la sensazione d’essere andato oltre, dall’altra parte delle
cose, che sia riuscito ad andare lì dove non è possibile andare da vivi e
tornare; però in questo caso si torna, e si torna sapendo cosa c’è oltre e
cosa c’è dietro quell’oltre che a noi non è possibile raggiungere: non oltre
fuori di noi, ma oltre dentro di noi.23 Grotowski sostiene che le azioni
psichiche impercettibili ci danno la possibilità di entrare dentro di noi, di
conoscere noi stessi, e questo ci rende diversi, ci rende più forti e
soprattutto non ci permette di essere quello che eravamo prima, perché
adesso sappiamo quello che siamo. Ogni volta che vediamo Cieslak/principe
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30
abbiamo la sensazione di assistere ad una dichiarazione quasi fisica di
questo fatto. È uno spettacolo straordinario, non c’è una passione fine a se
stessa determinata dalla scena, c’è la rigorosa presenza del sentimento
religioso e del sentimento politico, cioè l’essere se stessi e l’essere fuori da
se stessi. Grotowski lavora su un prodotto che nasce dichiaratamente fin
dall’inizio per essere montato sullo spettatore, che deve arrivare allo
spettatore e quindi deve essere capito dallo spettatore; per ciò è necessario
che
l’interpretazione
di
Cieslak,
ovvero
la
fusione
alchemica
tra
immedesimazione e possessione, venga veicolata da un artificio.
Siamo nell’immedesimazione quando l’attore non lavora sul martirio del
principe, ma lavora su se stesso per prepararsi all’interpretazione del
personaggio:
tutto il fiume della vita nell’attore era legato a un ricordo felice, alle azioni
appartenenti a quel ricordo concreto della sua vita, alle minime azioni, agli impulsi
fisici e vocali di quel momento rammemorato.24
Cieslak lavora con Grotowski su un fatto privato della sua vita che non ha
niente a che vedere con il martirio del principe di Calderòn, però quello che
vive come sensazione psichica e fisica, sia di dolore sia di gioia, è reale:
Il tempo dell’amore della sua adolescenza legato alla sensualità e alla preghiera. Il
momento di cui parlo era dunque immune da ogni connotazione tenebrosa, era come
se questo adolescente rammemorato si liberasse con il suo corpo dal corpo stesso
come se si liberasse passo dopo passo dalla pesantezza del corpo, da ogni aspetto
doloroso.25
Qui, Grotowski è dentro e allo stesso modo oltre Stanislavskij poiché i
procedimenti
per
giungere
all’effetto
della
possessione
rivelano
che
quest’ultima è materia scenica, cioè strategie di forme e segni.
Attraverso la molteplicità dei dettagli, attraverso tutti i piccoli impulsi e azioni legate a
quel momento della sua vita l’attore lì trovò il flusso del testo, dei monologhi de Il
%HTPQVC
+DKFGO
31
principe costante. Ma il contenuto dell’opera letteraria, la logica del testo, la struttura
dello spettacolo intorno e in rapporto a lui, gli altri personaggi e gli elementi narrativi
suggerivano che fosse un prigioniero, è un martire che si cerca di stroncare e che
rimane fedele alla propria verità fino alla fine, e attraverso questa agonia del martirio
egli giunge al culmine. Questa era la storia per lo spettatore ma non per l’attore.26
Grotowski esprime due verità, la storia dell’attore e la storia del martirio
che è una storia che interessa al regista e che deve arrivare allo spettatore.
Gli attori recitano ciascuno una propria verità, l’insieme genera una costante
comune. In un certo senso il montaggio appare non sulla scena, ma nella
percezione dello spettatore. Se dimentichiamo tutto quello che sta attorno
al Principe di Calderon dal punto di vista letterario, storico e filosofico, non
abbiamo più questa percezione, abbiamo invece l’intuizione che l’attore
personaggio
è
un
martire
grazie
all’artificio
messo
in
atto
dall’immedesimazione e dalla possessione. Guardiamo la scena del martirio
e pensiamo che l’attore sia realmente posseduto dal personaggio. Questa è
la percezione che riceviamo, deliberatamente indotta dalla prassi attorica:
l’intero background fisico e psichico rende l’attore immedesimato nel
personaggio e posseduto da esso e crea così l’effetto ad uso e consumo
dello spettatore
che «Don Fernando sia lui e nessun altro». Cieslak nelle
vesti del principe è il principe e per dare alla scena un altro principe
bisognerebbe clonare Cieslak:
Sede del montaggio è la percezione dello spettatore, quello che lo spettatore captava
era il montaggio voluto, mentre quello che gli attori facevano era un’altra storia, fare il
montaggio sulla percezione dello spettatore non è compito dell’attore ma del regista,
l’attore deve piuttosto cercare di liberarsi dalla dipendenza verso lo spettatore se non
vuol perdere il seme stesso della creatività.27
Il regista deve tener conto dello spettatore e della sua percezione,
l’attore no, altrimenti la creazione dell’attore subisce un’implosione per
effetto dell’emersione dei fattori inibitori. Fare il montaggio sulla percezione
+DKFGO
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dello spettatore è dovere del regista, dice Grotowski,
ed è uno degli
elementi più importanti del suo mestiere:
Ne Il principe costante come regista ho lavorato in modo premeditato per creare questo
tipo di montaggio e perché la maggioranza degli spettatori captasse lo stesso montaggio,
la storia di un martire, di un prigioniero circondato dai suoi persecutori che cercano di
stroncarlo ma nello stesso tempo ne sono affascinati. Tutto ciò venne concepito in
maniera quasi matematica affinché questo montaggio funzionasse e si compisse nella
percezione dello spettatore.
28
Grotowski evidenzia la funzione autonoma della regia rispetto alla
creazione dell’attore, distinguendo come il regista sia detentore di un filtro
magico
che
permette
di
creare
modi
d’immedesimazione,
o
di
estraniamento o di possessione nell’attore, ma l’attore e il suo personaggio,
il regista e il suo attore agiscono in funzione della vista imprenscindibile che
li domina e che dominano, lo spettatore. Questa è anche la lezione
intrinseca delle formulazioni di Stanislavskij. Quanto al resto, il regista del
principe di Wroclaw apre il suo lungo itinerario teorico dichiarando che
Stanislavskij è stato compromesso dai suoi discepoli:
Egli è stato il primo grande creatore di un metodo di recitazione teatrale, e tutti noi
che ci interessiamo di problemi teatrali non possiamo far altro che formulare delle
risposte personali agli interrogativi che egli ha posto.
29
L’analisi del rapporto teorico tra Grotowskij e Stanislavskij, come tra
Stanislavskij e chi, tra suoi fedeli o infedeli, abbia modulato il Sistema a suo
modo, non si esaurisce con queste note che fungono da introduzione ad un
tema dagli intrecci multipli e dalle sfumature frastagliate, sul quale ci
intratterremo più diffusamente in altra sede. Il nucleo teorico dell’arte
dell’immedesimazione rimane scolpito nei testi del Sistema, ma la verità
risiede nel lavoro di chi deve fare «la sua parte».
Data di pubblicazione on-line: 19 giugno 2003
+DKFGO
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