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Editoriale
Hanno fine qui l’osservazione e l’indagine condotte attorno a Poesia e teatro, teatro di poesia: il numero
viene a mettere gli anelli ultimi del percorso iniziato dallo scorso “L’Ulisse” (il numero nove), ed è di
nuovo nel centro il “calcolo” attorno ad una (eventuale) parola seconda (per palingenesi e/o per azione di
pressione, urto ecc., e nei confronti dell’altra parola in verso…) che ponga in campo l’esistenza di un
“teatro di poesia”: è nel centro la sua immissione in scena.
Con “La Voce di Ulisse” Italo Testa mette in analisi il tema de “Il teatro di poesia e il campo delle
metamorfosi”, ciò fa partendo dai due termini e «modelli usuali, consolidati, del rapporto tra poesia e
teatro»: «reviviscenza» (che «si risolve nella messa in scena del testo, in una trasposizione») e
«performance» (che «non si limita a far rivivere un testo dato, pregresso, ma è intesa come atto
autoriale»). E sarà «sullo sfondo dell’analogia, della somiglianza come trasmutazione» che andrà
ricollocato il «nesso tra testo poetico e azione scenica»: «in una relazione più ampia di somiglianza, che
stringe il corpo della nostra immaginazione e la struttura del reale».
Predispone alcune imprescindibili coordinate la prima sezione di “Saggi e incursioni”, excursus e sguardo
d’assieme, che idealmente prosegue lo studio dei momenti di Novecento – di quelli esemplari, costitutivi
delle evenienze e dei sommovimenti che ne hanno percorso la parola poetico-teatrale – iniziato su queste
pagine nello scorso ottobre: con i testi di Franco Buffoni (attorno al lavoro di Wystan Hugh Auden), di
Sarah Bernasconi (sull’opera teatrale di Mario Luzi), di Sandro Montalto (per la voce di Edoardo
Sanguineti), di Fabio Doplicher, di Luigi Nacci (che tocca la figura di Fabio Doplicher), di Giuliano Scabia,
di Franco Acquaviva (che rintraccia ed esamina il percorso dello stesso Scabia) e di Andrea Dalla Zanna
(in margine al lavoro di Stanislavskij). È “Un panorama del Novecento”, che vogliamo dedicare alla
memoria di Fabio Doplicher, alla cui importante opera nel campo del teatro di poesia questo numero
rende omaggio con diversi contributi.
Per “Fuochi teorici” ospitiamo due testi: un saggio di Nevio Gambula ed uno scritto di Plinio Perilli.
Ne “La poesia in scena” se da un canto proseguono individuazione, disamina ed indagine sull’esperienza
di compagnie, di registi e di attori – Federico Tiezzi, Giovanni Agosti e Oliviero Ponte di Pino (per
Magazzini Criminali), Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande (per Motus), Andrea Ponso (per Societas
Raffaello Sanzio), Gianni Celati, Marco Martinelli con Ermanna Montanari, e Nevio Spadoni (per Teatro
delle Albe), Fiorenza Menni (per Teatrino Clandestino), Massimo Munaro, Maria Dolores Pesce (per Teatro
del Lemming) –, dall’altro si propongono testi di poeti e di scrittori che ragionano sulla loro esperienza di
messa in scena della propria opera o sul loro lavoro in campo performativo: sono Fabiano Alborghetti,
Chiara Daino, Maura Del Serra, Roberta De Ponticelli, Alessandro Raveggi, Davide Rondoni, Massimo
Sannelli e Marco Simonelli.
Conclude il numero la parte antologica de “Gli Autori”. La sottosezione “Il teatro dei poeti” ripropone lo
schema pensato nello scorso numero, si uniscono attorno alla funzione teatrale e all’esperienza recitativa
scritti per la scena, testi performativi e di poesia intesa per il teatro e per la scena. Sono pagine di: Sonia
Antinori, Luigi Ballerini, Corrado Costa, Maura Del Serra, Fabio Doplicher, Gabriela Fantato, Fluxus,
Federica Fracassi, Vincenzo Frungillo, Chiara Guarducci, Rosaria Lo Russo, Mario Luzi, Laura Pugno, Paolo
Puppa, Alessandro Raveggi, Ludovica Ripa di Meana, Giuliano Scabia, Nevio Spadoni e Vitaliano Trevisan.
Ne “I tradotti” è la consueta porzione di autori dalle varie tradizioni linguistiche: Daniel Chirom (in
traduzione di Emilio Coco), Kurt Drawert (tradotto da Anna Maria Carpi), Elfriede Jelinek (per la versione
di Riccarda Novello), Linh Dinh e Kate Greenstreet (tradotti da Marco Giovenale), Susan Stewart (tradotta
da Maria Cristina Bigio), Nathalie Quintane (tradotto da Andrea Inglese), Eugene Ionesco (per la cura di
Davide Astori), Nicolai Kantchev (tradotta da Giuseppe Macor) ed Andrea Cote Botero (tradotta da Giulia
De Sarlo). Infine, “Letture” propone lavori per lo più di Silvio Aman, Alberto Bertoni, Matteo Fantuzzi,
Umberto Fiori, Fabio Franzin, Marcello Frixione, Francesca Genti, Adriano Padua, Giovanni Turra e Adam
Vaccaro.
Stefano Salvi
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La voce di Ulisse: Italo Testa
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Il TEATRO DI POESIA E IL CAMPO DELLE METAMORFOSI
Mutazione radicale. Due sono i modelli usuali, consolidati, del rapporto tra poesia e teatro. Da un lato la
reviviscenza si risolve nella messa in scena del testo, in una trasposizione che lo fa rivivere nell’azione
scenica, con un atto verbalizzante, attraverso un’esecuzione che privilegia la prosodia della lingua
comune e assume la recitazione dell’epoca come metro di riferimento. Nel modello della performance,
invece, la recitazione non si limita a far rivivere un testo dato, pregresso, ma è intesa come atto
autoriale, capace di produrre da sé senso e di darsi un metro autonomo. La parola è intesa nella sua
fisicità come corpo sonoro e l’attore da interprete diventa performer. Un teatro che cerca di fondare
un’idea nuova di recitazione, il cui protagonista è l’attore-poeta. Ma il teatro di poesia non si lascia ridurre
a queste alternative. Il Manifesto per il nuovo teatro di Pasolini faceva corpo con questa inesauribilità(1).
Il problema di un teatro nuovo rispondeva ad un’esigenza di mutamento radicale: il bisogno di un pratica
che travalicasse le nostre attese, la gabbia del reale sull’irreale, e con ciò la stessa idea di teatro che si è
formata a partire dalla tradizione e dal regime del quotidiano. Invocando una novità nuova – così
Ferdinando Tartaglia(2) –una novazione che deformi la partitura dell’ordinario, il manifesto chiamava dal
futuro quel «disordine poetico» della realtà cui Federico Tiezzi avrebbe intonato il suo appello per un
teatro di poesia(3). Il teatro della chiacchiera e il teatro dell’urlo cui Pier Paolo Pasolini opponeva la sua
novitazione, possono così essere ben visti come le premesse dei due modelli consolidati del rapporto tra
poesia e teatro. Il modello della reviviscenza è una conseguenza dell’abuso perpetuato dal teatro della
chiacchiera sulla poesia. La parola è sostituita dalla prosodia della chiacchiera quotidiana, assunta a
sfondo della trasposizione scenica del testo. Analogamente il modello della performance può essere visto
come la prosecuzione con mezzi poetici del teatro dell’urlo, in cui la parola è dissacrata a favore della
presenza fisica pura, della voce nella sua nudità e nella sua corporeità sociale e rituale.
Veicoli viventi. Vi è però un rapporto tra poesia e teatro che si sottrae pure alla via di fuga pasoliniana,
condensata della formula del teatro di parola: una formula che non soddisfa quell’idea di teatro di poesia
che pure il tentativo di Pasolini avrebbe evocato. Il teatro di parola, come teatro senza azione, in cui la
messa in scena è totalmente abolita, diventa teatro di dibattito, scambio di idee. Nella crisi della
rappresentazione, cui già il teatro di poesia inglese del secondo novecento voleva rispondere(4), si
incuneava Pasolini, con la sua esigenza di tenere le distanze dal naturalismo della chiacchiera e dalla
spogliazione di senso dell’urlo: eppure il suo teatro di parola, facendosi veicolo vivente del testo a prezzo
di una rinuncia a tutti i mezzi teatrali e alle loro potenzialità trasformative, finiva per ricadere nel raggio
del testualismo della reviviscenza, e della riduzione avanguardistica della poesia a questione di
linguaggio. Del Manifesto di Pasolini rimane allora l’eredità della novazione, della spinta a una mutazione
radicale, piuttosto che una fattispecie esemplare, compiuta, del teatro di poesia. Così come l’idea del
teatro come veicolo vivente del testo può sopravvivere solo se ciò non viene demandato alla parola sola,
ma all’integralità dei mezzi teatrali, visti come costituitivi del testo e del suo metro.
Corpo metamorfico. Il problema del teatro di poesia ci chiama allora ad una diversa relazione tra parola,
testo, esecuzione, azione scenica. E l’elemento poetico andrà colto su un piano ulteriore: sullo sfondo
dell’analogia, della somiglianza come trasmutazione. Il nesso tra testo poetico e azione scenica va così
reinquadrato in una relazione più ampia di somiglianza, che stringe il corpo della nostra immaginazione e
la struttura del reale. Questa gamma di somiglianze si lascia vedere nel fascio di luce dell’idea di poesia
come metafora espressa Wallace Stevens: «ciò che crea somiglianza attraverso l’immaginazione»(5). La
produzione di analogie non è però semplicemente l’opera dell’immaginazione soggettiva del poeta, ma è
parte della struttura del reale. Talmente vasto è il corpo ovidiano della metamorfosi poetica. Il reale, per
la sconfinata gamma di rassomiglianze che contiene, è un processo analogizzante, una trama di finzioni,
e la poesia è uno degli effetti prodotti da tale gioco analogico. Un’analogia che, tracciando la somiglianza
tra le cose, ne identifica e fonda la realtà particolare, individuata. Questa intensificazione attraverso
l’analogia e la somiglianza porta nella luce l’individualità e la determina: è l’effetto metamorfico
dell’immaginazione come struttura del reale. Soddisfacendo il desiderio di somiglianza che è nelle cose, la
funzione poetica le trasfigura, e in questo processo metaforico le lascia essere nella loro individualità. La
figura di Dioniso-Zagreus può così tornare nell’Orfeo di Rilke, il cantore tracio della metamorfosi, capace
di dare voce alla melodia individuata delle cose caduche.
Una vita più vasta. Su questo livello ontologico è possibile tornare a comprendere il rapporto che si
stabilisce tra la poesia e le arti. Una relazione che non va intesa a partire dal testo poetico come
contenuto dato, ma dall’idea della poesia come dimensione della somiglianza metamorfica, di cui la parola
è solo un effetto. È in virtù di essa che noi possiamo cogliere l’elemento poetico di un quadro, la profonda
affinità tra una poesia e una rappresentazione pittorica, un brano musicale. Anche il teatro di poesia è un
effetto analogico determinato, un insieme di relazioni che si generano attraverso l’intensificazione e la
determinazione dei termini – testo, azione, corpo dell’attore, musica. Nello stesso tempo il teatro di
poesia è un campo delle metamorfosi che si manifesta, azione e veicolo vivente della trasformazione
ontologica dei termini. L’idea di mutazione radicale dice dell’attesa di quell’opera d’arte totale che
fonderebbe nell’azione scenica elemento teatrale, filmico, testuale, visivo, sonoro, installativo,
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performativo. E questa opera rifletterebbe insieme l’idea di poesia come campo della metamorfosi, ove gli
elementi sono relati attraverso la metamorfosi reciproca, la compenetrazione e trasmutazione della
parola nel suono, del suono nell’immagine, dell’immagine nell’azione scenica. Tale campo di
trasformazioni analogiche investe sia la struttura del reale – dei regni minerali, vegetali e animali – sia
l’azione umana che vi s’inscrive. Vastissimo è il campionario di queste trasformazioni nel campo teatrale
della metamorfosi: dell’animale nel vegetale e minerale, dell’uomo nell’animale e nella pianta, ma anche
del suono nel suono, del suono nella voce, del suono nel testo: di suono, parola e testo nell’azione
scenica del corpo in movimento, e quindi della lingua nelle lingue. Con la trasmutazione della lingua il
processo analogizzante tocca il suo apice, attraverso l’atto ontologicamente estremo di metamorfosi in cui
consiste, come aveva visto Walter Benjamin, la traduzione(6). Proprio per ciò l’elemento verbale della
poesia sarà sempre necessario, e mai sufficiente, per poter afferrare l’idea della poesia – e del suo teatro
– che solo può essere ripresa in quella vita più vasta che è la poesia come trasformazione analogica.
Italo Testa
Note.
(1) PIER PAOLO PASOLINI, Manifesto per un nuovo teatro, «Nuovi argomenti», 9, gennaio-marzo 1968.
(2) Cfr. FERDINANDO TARTAGLIA, Tesi per la fine del problema di Dio, Milano, Adelphi 2002.
(3) FEDERICO TIEZZI, Per un disordine poetico della realtà, «Patalogo» 5-6, Ubulibri, Milano 1983, pp. 176-179.
(4) Cfr. FRANCO BUFFONI, Mid Atlantic. Teatro e poesia nel Novecento di lingua inglese, Effigie edizioni, Milano 2007,
cap. 3.
(5) WALLACE STEVENS, Effetti dell’analogia, in Id., L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, SE;
Milano 200, pp. 95-113.
(6) WALTER BENJAMIN; Il compito del traduttore, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1982, pp.
32-52.
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SAGGI E INCURSIONI
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Un panorama del Novecento
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IL TEATRO DI POESIA E LA CRISI DELLA RAPPRESENTAZIONE. W. H. AUDEN.
Volgendo all'ambito psicologistico-filosofico la definizione di 'rappresentazione', si potrebbe pervenire a
configurare tale atto come uno stimolo in ragione del quale l'individuo riproduce in sé un oggetto esterno
o uno stato d'animo. In altri termini, come il ri-presentarsi alla mente di una percezione o di una
sensazione in assenza dell'oggetto che le ha originate. Più semplicemente, come un'immagine mentale,
una sorta di conoscenza intermedia tra la pura sensazione e il concetto.
Poi che di 'crisi' anche si parla nell'enunciato, saremmo propensi (anche foneticamente,
etimologicamente: krisis, krinein) a concentrarci epocalmente su un lasso di tempo acuminato e stretto,
un vertice appuntito. Se nei tardi anni Venti, la tentazione per Auden era stata quella di volgere, come
scrive Isherwood, "every play into a cross between grand opera and high mass", (1) con una concezione
estetico-decadente della rappresentazione, a metà degli anni Trenta la tentazione divenne quella di
legare, attraverso l'attività del Group Theatre, le idee sociali del marxismo alle esperienze espressioniste.
Un tentativo fallito perché, non riuscendo egli a provocare un vero e proprio mutamento nelle strutture
del Group, l'operazione finì con lo scontentare tutti, conservatori, progressisti e sedicenti marxisti.
Tuttavia, a quell'epoca, con Auden (e anche per quanto concerne i testi letterariamente più compiuti,
come The Dog Beneath the Skin), si assiste al fallimento della rappresentazione (fallimento della pièce e
della mise-en scène), che è cosa ben diversa dalla 'crisi' della stessa.
In sostanza il Group Theatre, con la sua acquisita ideologia, i suoi testi e le sue rappresentazioni fallisce,
come era fallito il sogno yeatsiano del piccolo grande teatro docente irlandese. Fallisce cioè il teatro
didattico, quello - potremmo dire - sprovvisto di capacità negativa.
“Anche una favola, Generale, acquista importanza, quando è presa per vera da svariati milioni di indigeni
sia al di qua che al di là della frontiera.”
Pare ispirata da Anselmo di Canterbury la verità profonda di quest’opera, anticipando solo di qualche
anno il disperato bisogno audeniano di agganciare la propria presenza nel mondo a verità ultime di
impianto metafisico preferibilmente medievale. Ma se riteniamo che per il 1936 - anno di pubblicazione di
quest’ultima opera composta a quattro mani con Isherwood – ancora non siano appropriati per Auden i
riferimenti teologici, allora l’ancoraggio può limitarsi al periodo tardo vittoriano, precisamente al racconto
“The Dreadful Dragon of Hay Hill” (1897) di Max Beerbohm, magari con un antecedente primo
settecentesco nei Vizi privati e pubblici vantaggi di Bernard De Mandeville.
Se il drago non esiste occorre inventarlo, ciò che conta è che la gente creda nella sua esistenza al punto
da condizionare ad essa i propri comportamenti. E in The Ascent of F 6 i nativi credono che l’uomo bianco
che riuscirà a scalare la vetta dominerà per mille anni con la sua discendenza l’intera regione.
L’importante è che lo credano.
Le tematiche legate al colonialismo sono qui tutte facilmente sceverabili, dal fardello dell’uomo bianco di
Kipling al grido di orrore di Conrad, ma sono anche preconizzate quelle del post-colonialismo
contemporaneo. Che altro è un capolavoro letterario se non uno specchio rivolto ai posteri? Per esempio
ai vincitori costretti a piangere i morti di continue successive imboscate; quei figli – come dice Mrs A –
che cadono per il nostro orgoglio.
E vi sono Marx e Freud. Il primo, certo più audeniano che isherwoodiano, a ricordarci - in quel “coro” sui
generis costituito dai dialoghi tra Mrs A e il marito - come la piccola borghesia sappia bene di essere
manipolata dai politicanti imbonitori (i fabbricanti di favole) ma sia anche convinta che essere
consumatori di favole sia in fondo il male minore.
E Freud in quella corrispondenza con la saga familiare del poeta: addirittura con il fratello alpinista
dedicatario dell’opera a ricomporre il binomio tra i due gemelli sulla scena, Michael e James. Con la loro
mamma che alla fine persino trasfigura in una madonna incaica consustanziata alla montagna.
Ma vi è anche – e mi sorprende che nessuno dei critici consultati, da Hoggart a Hazard, lo abbia fatto
notare – il grande amore romantico di Auden, dedicatario della più entusiasmante partitura metrica del
poeta: la famosa Letter to Lord Byron. Qui presente non è però il Byron disincantato e algido di Don Juan
bensì quello ancora gloomy and dark di Manfred. E non ci riferiamo tanto agli ambiti dell’alpinismo, della
magia e del superomismo (ovviamente ante litteram in Byron), quanto alla figura dell’Abate, che come
nel terzo atto del capolavoro romantico, anche qui assume una essenziale funzione interlocutoria
conducendo il protagonista, in una atmosfera hessiana alla Glasperlenspiel (il “cristallo” dell’Abate), alla
svolta psicologica conclusiva.
Ma in quest’opera così straordinariamente ricca sul piano della evocazione di varie epoche e generi
letterari (ancora sono tracce di black novel nelle scene ambientate in abbazia; di “azione parallela” nella
mockery all’alta borghesia e alla piccola nobiltà quando si incontrano coi vertici militari) ritroviamo lo
specifico del teatro da camera inglese degli anni Trenta-Quaranta. Uno specifico che inevitabilmente porta
a Eliot: ma più che alle “tentazioni” di Tommaso di Canterbury il pensiero va alla Celia di Cocktail Party,
perché in quest’altra opera eliotiana il tema della donazione sacrificale di se stessi è innervato al
fenomeno missionario e quindi molto più collegato a The Ascent of F 6 per via della questione coloniale.
Uno specifico che raggiungerà il proprio vertice grazie a Auden (da solo) negli anni Quaranta, a
conversione avvenuta e a trasferimento negli States effettuato, in The Age of Anxiety. In quella fase tutte
le lezioni saranno state apprese e metabolizzate: e non pensiamo solo a Eliot ma anche e soprattutto a
Isherwood, il cui apporto alla complessiva maturazione drammaturgica di Auden non va affatto
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sottovalutato. Basta pensare a come una palese indeterminatezza negli schemi di confezione testuale del
plot ancora presente, per esempio, in The Dog Beneath the Skin scompaia quasi per incanto (grazie agli
apporti in prosa di Isherwood) in questa opera, e poi svanisca per sempre, rimanendo il suo contrario
patrimonio esclusivo dell’Auden di The Age of Anxiety. Molti sono gli esempi che si potrebbero portare a
riguardo: ne citiamo uno solo, relativo all’annunciatore radiofonico che appare tanto all’inizio quanto alla
fine di The Ascent of F 6: un device tipicamente isherwoodiano al quale Auden farà disinvolto ricorso negli
stessi termini e modi all’inizio e nella parte centrale di The Age of Anxiety.
Nel 1946-7 Auden non teme più i fallimenti teatrali: soffre - proprio nel senso acuminato, da vertice
appuntito - la crisi della mancanza di strumenti, anche intellettuali, anzi, principalmente intellettuali, con
cui fronteggiare la minaccia atomica che - egli intuisce - avrebbe inevitabilmente mutato i rapporti tra gli
stati, e quindi tra gli uomini. In questa luce si configura anche per Emble e Quant, e soprattutto per Malin
(palese proiezione dell'autore sulla scena di The Age of Anxiety), l'abbandono del marxismo - sentito
ormai come una filosofia ottocentesca e non più come il metodo di conoscenza e di rapporto col reale -, e
l'abbraccio al cristianesimo di Reinhold Niebuhr. (2) Ma nella piena consapevolezza della inadeguatezza
della nuova scelta: in un periodo di crisi, avrebbe affermato poi Auden cercando di giustificare l'incapacità
parenetica della sua 'conversione', si possono dare solo risposte personali e soggettive senza alcuna
garanzia della loro validità per gli altri. (3)
Da tale crisi hanno origine i personaggi di The Age of Anxiety: già condannati in partenza ad un
ancoraggio ideologico (e quindi rappresentativo) che, al più, a detta dello stesso loro creatore, poteva
avere una validità consolatoria strettamente personale e momentanea. (4)
Come l'ecloga barocca si sviluppa, i quattro personaggi divengono infatti sempre meno 'persone', finche è
palese che il solo a 'parlare' è il poeta. Essi appaiono via via niente altro che l'espressione di uno stato
d'animo di generale catastrofe, le voci di una unica ansia: non sono più in grado di darsi una identità, di
svolgere un ruolo. Ne è un chiaro esempio il dialogo in cui Rosetta afferma che permetterà a Emble di
essere l'eroe, e questi replica che sarà eroe per lei, per amore; dove è evidente che nessuno dei due
rispetterà quel ruolo: recitano. E grande è la capacità di Auden di tracciare le possibilità di pensiero, le
tecniche di riflessione, le isotopie linguistiche dei propri personaggi-amebe. (5)
Rosetta, la donna non più giovane, nel luogo pubblico in cerca di un compagno, alla fine appare quasi
come un ambiguo strumento di salvezza del popolo eletto, o quanto meno l'essere che ne sopporta tutto
il pesante fardello storico: l' 'ignaro' che attende il suo mondo a venire. Ma proprio qui sta il punto della
crisi della rappresentazione: questa non è più Rosetta; è la risposta poetica di Auden all'ebraismo.
Emble e Quant, scolpiti nel prologo come personaggi antitetici per età, aspirazioni, esperienze, col
linguaggio, le immagini, i racconti che poi propongono, giungono infine ad assomigliarsi sempre di più, a
fondersi quasi in un unico character, una specie di everyman onnicomprensivo. Essi raccontano, pensano,
e dalle loro parole cogliamo l'eco di storie dei cercatori d'oro, frasi e ritmi di ballate popolari del distretto
di Fen, frammenti di antiche letture bibliche e mitologiche: essi, in teoria, dovrebbero rappresentare il
senso etico dell'epoca in cui il caso storico li ha posti ad agire, e soprattutto a subire eventi e istanze di
cui solo istintivamente sono in grado di cogliere il significato. In pratica, invece, non rappresentano che la
capacità audeniana di manipolare le citazioni.
La vera rappresentazione, la rappresentazione-regina nel senso psicologistico-filosofico anzidefinito, per
l'Auden degli anni Quaranta sarebbe stata quella di Anselmo di Canterbury, con l'affermazione che, se Dio
è l'essere di cui nulla si può concepire di più grande, non può esistere soltanto nella mente, in quanto gli
mancherebbe qualcosa, l'esistenza altresì oggettiva. Con la sola, desolantemente critica differenza, che,
se la fede cristiana dell'XI secolo poteva ben configurarsi nella fondamentale dimostrabilità dell'esistenza
di Dio, tale "sana" certezza, nel secolo di Auden, era ormai stata definitivamente strappata alla ragione
teoretica. (Usiamo l'aggettivo sana con palese riferimento alla medievale Sane City che, solida e fissa, si
erge, aliena dall'insicurezza della sfera mobile, nella revery audeniana).
Ecco dunque l'autore volgere all'ansia la tematica fondamentale da rappresentare: l'ansia dell'uomo per
se stesso in rapporto al proprio passato, al proprio futuro reale e a quello teleologico. (6) Ma Auden, il
poeta "of the greed and fear of freedom", nella efferata sintesi ducheniana, (7) tenta di andare oltre,
malgrado tutto, creando un personaggio-protagonista, Malin, dalle caratteristiche anagrafiche e
temperamentali simili alle proprie.
Con Malin, quella crisi di rappresentazione che il teatro di poesia praticamente produce già nella sua
stessa costituzione, diviene esplicita. Ne è testimonianza il commento che, nell'epilogo, accompagna il
suo ritorno in caserma: "Facing another long 'day of servitude to wilful authority and blind accident,
creation lay in pain and earnest, once more reprieved from self-destruction, its adoption, as usual,
postponed".
L'autore, con Malin, non può più permettersi di dare e togliere la vita, come Eliot con Celia in Cocktail
Party: Malin è, e basta, senza possibilità di plot. E non può permettersi di rappresentare il nulla atomico
e/o relazionale (Ionesco, Beckett). Può solo rappresentare la crisi. Anche quella del pudore ideologico, se
si vuole, in ragione della quale al greco Nikos Kazantzakis è concesso di rappresentare un dramma sulla
passione (Cristo di nuovo in croce) in cui gli attori, di fronte al comportamento dei sacerdoti e alla
raccolta di sventurati profughi, cominciano a immedesimarsi nei loro ruoli (apostoli e Cristo) e vengono
essi stessi percorsi e crocefissi. All'anglosassone Auden, no.
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La soluzione poteva allora consistere nel teatro da camera. Ma Yeats aveva potuto fare del teatro da
camera perche ancora un preciso fine lo attraeva; Auden - fallita l'esperienza del Group - che teatro da
camera avrebbe più potuto mettere in scena? Per quali camerati?
E allora si finge il teatro, si finge la rappresentazione, si fingono i personaggi. Perché non si può fingere la
crisi.
Così le età sono sette, le fasi sono sette; e il motivo per cui lo sono è teleologico, teatrale e dimostrabile.
Basti pensare a quel capolavoro di crisi della rappresentazione che è il monologo di Jaques sulle sette età
in As You Like it (11, 7) per giustificare la presenza, in The Age of Anxiety, della sezione "The Seven
Ages". Ma perché dall'opera potesse discendere un 'messaggio' di tipo eversivo, con possibilità didattiche
in chiave rappresentativa, occorreva volgere a una ipotetica audience un richiamo teatrale molto meno
inficiato di raffinati lessemi poetici anglosassoni. È per questo – crediamo - che Auden fece ricorso al
termine 'sezione', così specifico del lessico relativo alle sillogi poetiche. Perché la crisi della
rappresentazione, in Auden, trova sbocco e sublimazione: The Age of Anxiety resta nella memoria
soprattutto come una raccolta di versi. E il tentativo di comprimere la poesia in una pièce sortisce l'effetto
di esaltare, a fronte della crisi della rappresentazione, la forza estetica del verso.
In definitiva è il poeta onnisciente che, all'insulto ineluttabile del corpo addormentato di Emble, (8)
replica: "Make your home / With some glowing girl; forget with her what / Happens also / ... / Dream,
dear one. 1'll be dressed when you wake / To get coffee" (9). Con versi splendidi, che tuttavia non
rappresentano se non l'eco d'uno dei vertici - la lullaby - della poesia audeniana.
Franco Buffoni
[Testo estratto da: Franco Buffoni, MID ATLANTIC, effigiedizioni, 2008. Per gentile concessione.]
Note.
(1) Cfr. Christopher Isherwood, "Some Notes on Auden's Early Poetry", in Auden. A Collection of Critical Essays, ed.
Monroe K. Spears, Englewood Cliffs, N.J., 1964, p. 10.
(2) Tale fu l'influenza su Auden del pensatore americano che, come rileva Richard Hoggart (W.H. Auden, London U.P.
1957, p. 26), "some of his poetry of the forties are like versified paragraphs of Niebuhr".
(3) E l'atto è tanto più provocatorio quanto più semplice e pura è la fede che si pretende di manifestare. Ricorda
Stephen Spender che nel 1950, quando Auden, "together with other intellectuals, answered a questionnaire about his
religious beliefs, he alone of all those who answered seemed to experience no difficulty in accepting the strictest
dogmas of the Christian faith". Cfr. "W.H. Auden and His Poetry", in Atlantic Monthly, CXCII, 1953, pp. 74-9.
(4) "Recent history is showing [...] that man cannot live without a sense of the Unconditional: if he does not
consciously wa1k in fear of the Lord, then his unconscious sees to it that he has something else, airplanes or secret
police, to walk in fear of”. Cfr. W.H. Auden, "Tract for the Times", in The Nation, 152, l, 4 gennaio 1941, p. 25.
(5) Applicando ai quattro personaggi le quattro facoltà indicate dal t'ai chi t'u junghiano, "Malin represents Thinking,
Rosetta represents Feeling" (e queste sono "the rational, evaluative faculties"); "Quant represents Intuition, Emble
represents Sensation" (e queste sono "the irrational perceptive faculties"). Cfr., a riguardo, JOHN FULLER, W.H.
Auden, London U.P. 1970, p. 189.
(6) Si veda a riguardo, Alessandro Serpieri, "Auden, lo specchio e il caos", in Il Ponte, XXIII, 6, giugno 1967, p. 775.
(Saggio poi apparso, in parte rielaborato, in Hopkins-Eliot-Auden. Saggi sul parallelismo poetico, Bologna 1969).
(7) Cfr. François Duchene, The Case of the Helmeted Airman. A Study of W.H. Auden's Poetry, London U.P. 1972, p.
212.
(8) Con riferimento al termine 'emblema', riportiamo quanto appare nello studio di Edward Callan ("Allegory in Auden's
The Age of Anxiety”, in Twentieth Century Literature, Jan. 1965) circa l'etimologia del nome proprio Emble: "Emble,
from emblem, which make concepts manifest to the senses (as in emblem books, characteristics of baroque
literature)". E The Age of Anxiety porta come sottotitolo A Baroque Eclogue, quasi che Emble, il giovane dalla bellezza
comune - e per questo non raggiungibile ("He wants me to want what he would refuse", considera Malin nella III parte
dell'opera) - fosse un'ecloga barocca.
(9) Cfr. The Age of Anxiety, Parte V.
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TRA CIELO E TERRA NEL TEATRO DI MARIO LUZI
1.1. I poemi drammatici: la nuova veste della poetica luziana
Nel 1972 viene pubblicata la pièce teatrale luziana, Spazia(1). L’interesse del poeta per il teatro si era
manifestato già nel corso degli anni Sessanta con la traduzione di classici moderni come Racine e
Shakespeare(2). L’approdo di Luzi al teatro in quanto autore costituisce in ogni caso quasi un passaggio
obbligato della sua arte, avendo essa fatte proprie, a partire da Nel magma, quella dialogicità e quella
coralità caratteristiche del teatro(3). I drammi, comunque, scritti in versi(4), non si discostano troppo,
sul piano espressivo, dalla poesia: Luzi stesso li definisce poemi drammatici(5), o testi poematici(6).
Quella utilizzata è una modalità di versificazione specificamente luziana: “Essa consiste
fondamentalmente in un sistema ritmico che include la metrica ma non le obbedisce e solo in certi punti
speciali la formalizza”(7). I testi si avvicinano per contenuti alla tragedia, in essi il dramma non si
sviluppa tuttavia mai sino in fondo, non “scoppia” veramente: l’azione dolorosa è quasi sempre assunta,
fatta propria, in ultimo voluta: affermazione della vita nella morte ad esempio, oppure sofferenza come
premessa per un dopo migliore(8). Quelli luziani sono dunque drammi moderni. Essi assumono in ogni
caso a tratti caratteristiche classiche: i cori talvolta, talvolta gli atti – di numero tuttavia mutevole –,
talvolta il rispetto delle unità classiche di luogo, tempo e azione. Quanto ai discorsi sui valori – alle
riflessioni filosofico-esistenziali, come pure a quelle sul ruolo e sul potere del linguaggio artistico – le
opere teatrali luziane seguono lo sviluppo dei libri di poesia. Dalla fine degli anni Settanta la presenza del
teatro accanto alla poesia diviene costante. Essa perdura, e anzi domina, anche nell’ultima produzione,
nella quale i due generi a tratti si confondono(9).
1.2. Ipazia: la morte per la vita
Il Libro di Ipazia viene pubblicato nel 1978(10). È costituito di due pièce, ideate in due diversi momenti.
La prima è Ipazia, la seconda Il messaggero. Sebbene i due testi siano intimamente collegati, in essi vi
sono sguardi sull’esistenza umana e sul potere della parola differenti, identificabili con quelli dei libri
poetici dei rispettivi periodi. A Ipazia Luzi lavora attorno al 1970, l’opera viene realizzata negli studi
radiofonici della Rai di Torino con la regia di Marco Visconti nel 1971, e nel 1972 pubblicata(11). Sul
fronte della poesia Luzi pubblica in questo periodo, nel 1971, Su fondamenti invisibili. La pièce Il
messaggero viene scritta più tardi, nel 1976, e pubblicata nel 1977(12). Il suo periodo, e quello
dell’intero Libro di Spazia(13), è quello di Al fuoco della controversia, opera poetica apparsa nel 1978.
Lo sfondo di Ipazia sono i conflitti culturali e politici di Alessandria a cavallo del IV e del V secolo. C’è
Atene, il mondo antico ormai alla fine, e c’è Roma, l’Impero e con esso il cristianesimo che mette radici.
Filosofia versus religione, ragione versus fede(14). Ipazia, filosofa neoplatonica – personaggio realmente
esistito trasformatosi in figura mitica(15) – di fronte al proprio mondo che si sgretola cerca di difendere e
di affermare sino all’ultimo il pensiero ellenico, gli ideali imperniati sulla conoscenza e sulla ragione. In
nome di questi ideali arriverà a morire, a fare sacrificio di sé, ad andare verso la folla che nella chiesa di
Cristo la truciderà(16). Dichiara Ipazia: “Gettiamo questo seme nella bufera, / in questa taverna
turbolente che è Alessandria / giochiamo questa partita a dadi con la storia del mondo!”(17). Quello di
Ipazia è un martirio. Esplicito il parallelismo con il sacrificio di Gesù Cristo, sebbene Ipazia appartenga
agli “avversari” del cristianesimo(18). Dice Gregorio dopo aver saputo della morte di Ipazia: “Cristo…
l’agnello… Sfigurato, con artigli di tigre”””(19). Ipazia, come Cristo, diventa figura esemplare. Con la
propria morte, afferma la vita sulla terra, getta il seme per la continuità nel tempo dei propri ideali. È un
essere attivo, come i personaggi e l’io delle poesie luziane di questo periodo, che perpetuando il proprio
pensiero e aderendo pienamente al mondo partecipa alla creazione dell’universo, alla metamorfosi del
tutto.
Ma c’è di più: Ipazia non è solo un esempio di difesa attiva fino all’ultimo di ciò in cui si crede. La filosofa
viene uccisa mentre “parlava nell’agorà a molta gente. / Parlava di Dio presente”(20). Nel primo teatro
di Luzi ritroviamo la visione filosofico-esistenziale delle opere poetiche degli anni Sessanta-Settanta: la
“trascendenza nell’immanenza”, il divino nell’uomo. Spetta addirittura all’essere umano – comprende
Ipazia dialogando con una voce, quella di una sorta di deus ex machina, della divinità stessa –
attualizzare Dio:
UNA VOCE
Sono colui che è dovunque. E sempre.
Non vengo. Sono qui come sono in ogni parte.
[…]
L’avverso, il negativo,
i ciechi, gli ignoranti, i barbari
non solo, ma anche la loro opera:
tutto ciò che devi combattere
devi anche portare su di te,
accoglierlo nel tuo cuore e lì dentro vincerlo.
10
Perché io sono anche là.
[…]
IPAZIA
Anche in ciò che ti nega e ti offende?
Anche in ciò che ostacola il tuo pieno risplendere?
[…]
Che fare allora senza ferirti?
UNA VOCE
Feriscimi in quella parte, ma con più amore.
IPAZIA
Sei imperfetto, dunque, questo vuoi dirmi?
UNA VOCE
Sono infermo. Infermo nella mia fermezza.
IPAZIA
E non sei il medico di te stesso?
UNA VOCE
Non posso esserlo senza la vostra opera.
Non posso essere quieto senza la vostra agitazione.(21)
Senza l’essere umano Dio non esiste. L’uomo è creatore della divinità. E la parola d’ordine è “amore”.
Amore con il quale appropriarsi del bene ma anche del male, del tutto(22). È in questo momento, nel
dialogo con la divinità, quasi un alter ego, che Ipazia acquista una visione totalizzante, il vero sapere:
capisce che non bisogna solo lottare per i propri ideali, ma appropriarsi dell’intero creato, anche dell’altro
da sé: non solo della ragione in questo caso, ma anche della fede(23). È necessario “bruciare”
attivamente alla compresenza del tutto; conclude Ipazia: “Molte cose sono contro di noi, infatti. / Ma è
nel fuoco che bisogna ardere”(24). Ipazia è donna che detiene un sapere superiore, come numerose
altre donne delle opere luziane, ma è anche donna nella sua fisicità e passionalità, come le figure
femminili delle poesie di questo periodo. Di lei si appassiona Sinesio, suo amico, pure filosofo, che era
stato spinto dal prefetto di Alessandria a dissuaderla dal creare ulteriori tensioni nella società affermando
la propria verità, ma che aveva capito e accettato la scelta della donna: “Il sogno della ragione greca
cerca una più alta concordia, / punta là dove mutamento e persistenza sono una legge unica; / dove nulla
nasce e nulla muore”(25).
Ipazia non detiene un sapere superiore solo sull’esistenza, ma anche sulla parola: sul valore e sul ruolo
della parola. Parola che configura quella poetica, letteraria. È una donna, ancora una volta, a portare alla
riflessione metaletteraria. La parola, come l’esistenza umana, deve ardere, consumarsi fino in fondo nella
realtà terrena, nel bene e nel male. A Sinesio, che afferma “La nostra parola è pura, ma cade in uno
stagno torbido, / in una immensa Mareotide, piena di batraci occhiuti. / Tutto marcisce qui e i soprassalti
di vita / sono impulsi disordinati, appetiti fanatici”, Ipazia risponde: “Il pensiero senza parola è niente, /
la verità non comunicata s’inaridisce e si corrompe”(26). E poi: “Niente si addice alla parola più che la
temperatura del fuoco”(27). Non siamo ancora giunti all’epoca di Al fuoco della controversia, della
sfiducia nell’essere umano e nella sua parola. La parola – anche quella poetica e teatrale – ha ancora
valore: permette l’attualizzazione del pensiero, è creatrice essa stessa, portatrice di verità, di sapere; è
una parola immersa nel mondo dell’uomo (tanto più importante quanto il mondo è sconquassato da
scontri e forze negative), che all’“essere nel mondo” attribuisce a sua volta valore, che anzi perpetua a
sua volta la vita sulla terra(28).
1.3. Il messaggero: la sfiducia nella realtà terrena
Con Il messaggero i tempi sono cambiati, non sono più quelli fiduciosi di Ipazia, di Su fondamenti
invisibili. Emergono dubbi, interrogativi, inquietudini, una sfiducia nel genere umano analoga a quella che
troviamo nelle liriche di Al fuoco della controversia: i versi sono pervasi da una sorta di pessimismo
storico, da una sfiducia nell’uomo nella storia(29). Il dramma è ambientato a Cirene, diversi anni dopo la
morte di Ipazia. Al centro di esso c’è Sinesio, colui che in Ipazia aveva seguito e capito il gesto finale
della donna, ora vescovo – cristiano dunque – della città(30). A Sinesio viene annunciato che un
messaggero del re berbero è in viaggio verso di lui. Egli, nonostante i timori del proprio segretario Dionigi
per un’eventuale reazione negativa del potere imperiale o dei cristiani stessi, decide di accogliere il
messaggero. Dionigi di fronte a tale scelta si sente obbligato a intervenire, prima chiedendo aiuto al
prefetto di Cirene Porfirio – che tuttavia non teme la venuta del messaggero – poi imprigionando Sinesio
e facendo uccidere l’inviato del re berbero. I berberi reagiscono marciando su Cirene. Sinesio decide di
andare loro incontro ripetendo il gesto finale di Ipazia, facendo sacrificio di sé. Nonostante il parallelismo
finale e nonostante nelle prime righe del dramma Sinesio dimostri di detenere il sapere sul valore della
vita sulla terra, sul senso della vita umana trasmessogli da Ipazia (“Eppure quale realtà è più reale in sé /
che nella sua trasformazione in altro – potrei quasi ripetere a memoria. / E non è altro, è la sua
profondità medesima – anche questo non devo impararlo”(31)), la visione filosofico-esistenziale da lui
incarnata è un’altra. Sinesio perde l’idealismo appreso da Ipazia, non vive aderendo passionalmente al
mondo. È lontano dalla vita (dice Dionigi: “Da qualche tempo Sinesio quasi non appartiene al mondo.
11
Guarda forse lontano, ma estraniato dal presente”(32)), è lontano anche dall’esperienza di Ipazia (“Ma
che sopravvive di quel tempo? Solo un cocente brulichio / e, sopra, una domanda, un enigma”(33)).
Appaiono i dubbi, il mistero, l’irrequietezza: “C’è un grumo di oscurità che la più alta ragione non
rischiara”(34). Sarà una donna, Irene – a cui egli in passato aveva rinunciato, rinunciando con essa
all’amore – a fargli capire il suo errore:
IRENE
Non tormentarti, non cedere a rimpianti. Io non ne ho.
Solo come hai potuto non pensare
che Ipazia dovesse rinascere
(e non alla sua vita soltanto ma alla tua)
in altre creature che ne rinnovano l’incanto,
in altro amore e in altra volontà di esistere.
Tutto lì, tutto finito in un rosso d’assassinio
tra il senso di una morta causa
e il dubbio di un’altra che irreparabilmente ti sfugge?
Una donna muore per la vita, non per la morte.
Non l’hai davvero amata, tu, Ipazia.
Un luogo, alto, dove annidare la mente,
questo fu per te Ipazia e nient’altro.
E ora quel luogo si confonde. Ora quel luogo si perde.
SINESIO
Eri tu che dovevi dirmelo… E in età così tarda!
Forse temevo oscuramente questo, ti evitavo per questo.(35)
Sarà solo dopo aver acquisito questo sapere, il valore del vivere fino in fondo e del generare altra vita,
che Sinesio potrà fare sacrificio di sé(36). Il dramma, come Ipazia e come le poesie degli anni SessantaSettanta, postula ancora il valore della vita umana e della contribuzione da parte dell’uomo alla genesi
del cosmo. Sinesio tuttavia, abbiamo visto, non è Ipazia. Ipazia non dubitava, Sinesio è scoraggiato,
sfiduciato(37). E il gesto finale non convince, sembra essere un tributo a Ipazia, agli ideali passati,
dimenticati negli anni seppure ricordati nel presente, lontani. O addirittura un atto di rassegnazione, un
piegarsi alla controversia del mondo. Prigioniero di Dionigi, Sinesio esprime la propria disillusione:
È uno strano, costoso spettacolo la storia, dobbiamo ammetterlo:
richiede i suoi stupidi e mirabili perdenti
reclutati molto in alto
anche più dei vincitori in veste, questi, di vittime.
Non c’è in natura dispendio paragonabile.
È uno spreco tutto umano, una rappresentazione tutta nostra
e il Figlio dell’uomo ne fu anche lui un interprete,
l’interprete anzi, e vi mise il suo suggello.(38)
Pure il verso finale di Gregorio, una conoscenza di Sinesio legata ancora all’Alessandria di Ipazia, “E
adesso attendere. Ancora una volta attendere”(39), più che speranza sembra esprimere sfinitezza,
disillusione.
La sfiducia nel genere umano tocca anche la parola dell’uomo, la sua capacità di comunicazione. Il
messaggero viene ucciso prima di poter riferire il messaggio. La comunicazione non si attua. Rimane il
silenzio, o il monologo, che è a sua volta una sorta di silenzio, assenza di comunicazione. Sinesio: “Quale
parola mi portava che vogliono troncargli? / Non credo riuscirò a saperla: una fonte interrata, / una vena
istruita: questo è il grande peccato”(40). E poi: “Ma, ecco, da tempo / mi rafforzo nell’arte malinconica
del monologo, / misura infallibile del proprio fallimento…”(41). E Gregorio: “Qualcuno / ha violato il
diritto delle genti / e insieme quello dell’uomo. / Qualcuno ha fatto sì che il messaggero non arrivasse / e
la sua lingua tacesse”(42). Irene prima che Sinesio si incammini verso i berberi gli chiede una parola che
resti a testimoniarlo. Sinesio parte senza lasciargliela. A rischiare di fallire, in un mondo violento, sordo,
controverso come quello di Sinesio del V secolo e come quello di Luzi degli anni Settanta, è la stessa
comunicazione teatrale, poetica, l’arte. È un rischio, questo, espresso anche dalle liriche di Al fuoco della
controversia. Il rischio che essa non sia più intesa, che divenga inascoltata testimonianza.
Ad aprire e chiudere il Libro di Ipazia ci sono un prologo e un epilogo, scritti, sembrerebbe, dopo Il
messaggero. Nel prologo c’è una riflessione autonoma sulla “forza di significazione”(43) racchiusa come
potenziale in alcuni nomi (come quelli di Ipazia e di Sinesio), forza di significazione che va oltre gli esseri
che portarono tali nomi, che lascia intravedere oltre il “tenace enigma”(44). I nomi annunciano la “forse
accecante onnipresenza”(45). Sebbene con ciò venga dato un certo valore al mondo terreno, dal testo
emerge tuttavia anche, con forza, il dubbio, la difficoltà umana di raggiungere il sapere. Abbondano
termini che esprimono incertezza (“può darsi”, “non sai”, “non indovini”, “forse”). Luzi scrive che se il
prologo fosse stato una poesia autonoma l’avrebbe intitolato Rovello: “Il suo tono è come il suo tema,
brancolante”(46). Ai nomi, alla parola allora, non la comunicazione piena – mancando l’interlocutore
12
capace di captarla, essendo la lingua umana di per sé lontana dalla parola prima, piena – ma l’allusione,
la rivelazione. Ci stiamo incamminando verso quello che sarà il valore attribuito alla parola poetica in Per
il battesimo dei nostri frammenti. Quanto all’epilogo, esso si conclude affermando che “il fuoco è
presente, e questo è già tutto”(47). La frase finale, come il gesto finale di Sinesio, non convince. La
verità del testo sembra essere un’altra: a dominare, di nuovo, sono l’incertezza, l’impossibilità di
accedere al sapere:
ma il seme irraggiungibile, il mai bene e il mai tutto affiorato del messaggio…”
Non so di nessuna chirurgia del cuore
che possa metterlo a nudo, decifrarne il senso – mi dico:
la grazia, forse (penso spesso a lei,
non me ne viene molta pace) ma troppo raramente
anch’essa, e istantanea, nel controluce di lampo.(48)
Il messaggio non affiora pienamente, il senso non si lascia cogliere. Rimane l’enigma, il fuoco presente –
che è però fuoco della “controversia” – nel quale ardere. Con rassegnazione. Anche Dio è lontano, non è
più nell’uomo, e non sembrerebbe neppure pronto a sostenerlo: l’idea della grazia – l’aiuto che Dio
concede all’uomo perché questi possa fare il bene e vincere il male – non rassicura, non dà pace. Non
ancora.
1.4. Rosales: la (ri)scoperta dell’amore-caritas
Nel 1983 viene pubblicata la pièce Rosales(49). Juan Rosales – un Don Giovanni del Ventesimo secolo –
viene chiamato a Huelva, in Messico, da Ester, una donna che egli aveva amato ma poi profondamente
ferito intrattenendo una relazione amorosa con sua figlia Anna. Scopo di Ester, che nel frattempo si è
data alla causa politica, e del suo gruppo, è usare Rosales per arrivare al rifugio dell’esiliato Markoff –
figura di Trotzkij, antica conoscenza di Rosales – e per assassinarlo. Lo sfondo storico-politico è quello
dello scontro fra Trotzkij e Stalin (qui Kirkieff), conclusosi con l’uccisione del primo. Rosales tuttavia non
ci sta, viene rapito, il suo nome viene comunque usato per assassinare Trotzkij, e infine a sua volta viene
ammazzato. Questa la trama. Le tensioni politiche e la violenza delle relazioni mostrano ancora una volta
un mondo corrotto. Lo sguardo sulla realtà umana è cupo, disilluso. I tempi – nella produzione e nello
sviluppo della poetica luziana – sono quelli di Per il battesimo dei nostri frammenti, opera dominata da
quella visione sfiduciata nell’azione umana già apparsa in Al fuoco della controversia (e in Il messaggero).
Lo stesso concetto di mutamento, di metamorfosi dell’universo – visto nel periodo di Nell’opera del
mondo, fino a Su fondamenti invisibili, positivamente: l’uomo era creatore, ingranaggio essenziale nella
trasformazione del tutto – ha ora una connotazione negativa. L’essere umano è in balia degli eventi, è
incapace di gestirli. Afferma Vicente, vecchio saggio, padre di Ester:
Una ben dura partita si prepara
[…] Dicono l’imprevedibile. Dov’è l’imprevedibile?
Strano è solo che il prevedibile così puntualmente si verifichi,
così puntualmente si ripeta.
Com’è terrificante questo irreparabile
appuntamento della cosa con il suo accadere.(50)
La lotta umana – la cui importanza era emersa con forza in Su fondamenti invisibili – ora è vana.
Rosales: “L’azione è lotta, / e la lotta si estingue… Che resta? Niente”(51). Nell’attuale fase della poetica
luziana è ancora presente l’idea della vita che genera altra vita. È Vicente a ricordarlo: “Forse / la sola
verità importante / è la trasmissione della vita”(52). Tale idea tuttavia non consola. Anzi, aggiunge
tragicità alla tragicità dei tempi. Constata Rosales: “Di che gran quantità di vittime / c’è occorrenza,
pensaci, / per alimentare un’epoca – e la nostra è più famelica”(53). Riappaiono l’enigma, l’incertezza, il
non sapere, e con essi la rassegnazione. Dice Rosales: “Non è in nostro potere misurare il mutamento. /
E questa ignoranza non mi offende”(54).
Non tutto però è perduto. Torna in quest’opera, come in Per il battesimo dei nostri frammenti, la figura di
Dio: non più divinità tra gli esseri umani, ma padre destinatore celeste, nel quale riporre la speranza.
Valore nella vita, nell’attesa del tempo divino, può e deve allora essere la carità, l’amore nel dolore,
l’unione compassionevole. La carità, l’amore per Dio è proprio la grande scoperta di Rosales e di Markoff
nel secondo atto del dramma, scoperta grazie alla quale i due uomini potranno, nel terzo atto, andare
dignitosamente incontro alla morte(55). Nel secondo atto i due protagonisti si mostrano trasformati. In
Rosales avviene addirittura una conversione. Così afferma:
Mi sovviene ora un nome,
non di persona questo – di che cosa? – un nome
mai detto prima perché non si nomina
ciò che nemmeno si suppone.
Ecco un nome nuovo nella mia nomenclatura…
13
Charis, no, al tempo, Charitas, carità.
E se dico questo nome vuol dire che afferro la sostanza?(56)
Non più nomi di donne, ma una delle virtù teologali: l’amore di Dio come bene supremo e del prossimo
per amore di Dio(57). Rosales, privato del corpo, tenuto prigioniero da Ester, ritrova la propria anima.
Markoff, dal canto suo, rivela al compagno di esilio Smirkoff:
Eh, io sono ebreo. Solo uno di noi
che non volle più esserlo
ebbe chiaro il problema fino in fondo,
dico Paolo Apostolo. “Ci chiamano pazzi.
Sì, siamo pazzi, pazzi di Dio…”. Correggete
se vi pare questi termini, compagno,
ma quella è la rivoluzione, quella soltanto.(58)
Le passioni umane – qui amore sessuale e ideologia – portano solo dolore e distruzione. La caritas
permette invece di vivere con dignità, fraternizzando, nell’attesa del dopo. Siamo lontani dal tempo di Su
fondamenti invisibili, in cui il senso stava anche nell’unione amorosa e sessuale tra gli esseri. Nel terzo
atto, nella sua cattività, Rosales è visitato da Alba, figlia sua e di Anna. Alla scoperta della paternità
corrisponde in Rosales la scoperta di Dio, dell’essenza delle cose, e la rinascita:
[…] Strano
per un uomo come me portato all’avventura
c’è spesso alla sommità del desiderio
un attimo che tutti li annulla e tutti li riassume
per trasfonderli in un quid supremo ancora irraggiungibile.
Per me è venuto, quell’attimo, solo adesso
e coincide con la fine. Tuttavia
questa fine non è la morte, non ci trovo
alcuna somiglianza – e questo
è un enigma. E non c’è tempo per scioglierlo.(59)
Per Rosales rimane l’enigma. Il lettore però sa – lo aveva annunciato il secondo Intermezzo, e lo dice
altrove Rosales stesso – che la morte non è realmente fine, perché accesso alle “città alte e lontane”,
rinascita. Quello di Rosales diviene un vero e proprio sacrificio cristiano. Dichiara: “è mia questa croce. /
Mia perché non rifiuto di portarla, / la assumo, la prendo su di me / come tramite per uscire dalla mia
buccia”(60). Alba, come dice il nome, è luce. È anzi un lampo, un bagliore. L’incontro con Alba prelude
all’unione con il mondo di Dio. Siamo entrati in quella fase della poetica luziana nella quale il sapere si
manifesta per rivelazioni, epifanie.
Anche in questo testo teatrale vi è una riflessione metaletteraria sul ruolo della parola poetica. In questo
teatro, come nella poesia di quest’epoca, la parola umana non è più in grado di comunicare. Rimangono il
soliloquio, l’incomprensione, il silenzio. Il vecchio Vicente: “Così non dico niente e se parlo non so
esprimermi, / non sono creduto, e soffro in silenzio”(61). E ancora: “Così il mondo cammina poco. / Non
c’è accumulo di esperienza, enorme è lo spreco. / Ma quanta malinconia. Essa cala tutta nel soliloquio / in
mancanza di uditorio…”(62). E Alvaro, personaggio impegnato politicamente, dice su un incontro
avvenuto tra le varie fazioni: “disaccordo completo, confusione delle lingue”(63). La comunicazione
poetica non può e non deve più fare propri il linguaggio e i contenuti del linguaggio umano. Il testo è
esplicito: non spetta al poeta, come nemmeno più agli esseri umani tutti, farsi creatori, fermare il tempo,
portare l’eterno nel mondo. Così Rosales:
Quando penso agli uomini memorabili
o a quanti credettero che si potesse esserlo –
i poeti per esempio o meglio i poetucoli
nella loro moltitudine, con la loro frenesia
di trasformare il momento e renderlo durevole
al pari, beninteso, di se medesimi…
Pensali, pensali per un attimo
quei poveri diavoli che escono dalla trafila
e tentano un balzo o almeno uno scarto
dalla mera successione biologica
delle generazioni per stilare il loro detto
o meglio lacrimevole verdetto sul mondo
a memoria di sé, per una traccia del vissuto
che presto rende tutto uguale proliferando.(64)
14
È un altro il compito del poeta: rivelare, farsi profeta del dopo, portare la parola sacra, che dice attesa,
espiazione, futura salvazione.
1.5. Hystrio: la salvezza in cielo
L’anno di Hystrio è il 1987: nel 1987 il dramma viene pubblicato e rappresentato per la prima volta(65).
Il clima, sebbene l’opera sia di due anni posteriore, è ancora quello di Per il battesimo dei nostri
frammenti. In scena c’è un mondo umano violento, corrotto, pregno di tensioni. Hystrio è un
commediante famoso che nel suo portare sul palco i vari personaggi ridà loro la vita, li svela a tratti nella
loro essenza, mostrando che esiste una realtà più profonda di quella superficiale degli esseri che lo
circondano. Egli viene coinvolto suo malgrado in un complotto che Sergio, il braccio destro di Berek,
capo-tiranno del paese, assieme ad altri collaboratori intende attuare ai danni di quest’ultimo: l’idea è di
portare sul palco con Hystrio il dramma di Tiberio, principe incompreso in un’epoca corrotta – per il quale
per altro Berek prova simpatia, riconoscendovisi – in modo da screditare Berek, di sminuirlo agli occhi del
popolo. Ciò permetterebbe di screditare pure l’attore Hystrio, personaggio scomodo per il suo rivelare la
verità (primo tempo). Accanto al programma di Sergio ce n’è però un altro, quello di Giulia, figlia di Berek
corteggiata da Sergio, che vuole liberarsi della vita ovattata e falsa in cui è stata cresciuta. Giulia
persegue il proprio obiettivo avvicinandosi a Hystrio, l’uomo che rivela sprazzi di verità, di cui essa si
innamora, ricambiata(66). Hystrio intanto scopre il complotto nel quale vogliono coinvolgerlo e si rifiuta
di parteciparvi (secondo tempo). Per Hystrio Giulia rappresenta a sua volta una rivelazione, con lei arriva
a percepire la felicità (terzo tempo). I due capiscono però che i tempi non permettono di raggiungere
l’essenza, la pienezza nella vita: Giulia intende fuggire, la separazione è inevitabile. Berek intanto rivela a
Sergio di sapere del complotto e dell’unione tra Giulia e Hystrio. Sergio decide allora di far uccidere
Hystrio dalla polizia politica. Tra gli agenti e Hystrio si frappone tuttavia Giulia, che si sacrifica per il
commediante. Alla morte della donna farà seguito quella, per suicidio, di Sergio (quarto tempo).
In Hystrio riappare l’amore tra uomo e donna, amore quale strada per raggiungere il sapere, per
percepire l’“autentico”, amore che – in un mondo umano dominato dalle menzogne, dalla falsità, mondo
che è unicamente rappresentazione – permette di accedere a un attimo di felicità “frivola e
celestiale”(67). Siamo tuttavia lontani dai tempi di Su fondamenti invisibili, di Il pensiero fluttuante della
felicità. La pienezza, la vera natura non sta nella vita, ma fuori di essa, in un mondo altro, trascendente,
nel mondo del dopo-vita, nel mondo delle origini. L’amore tra Hystrio e Giulia – non fisico, tra l’altro, ma
piuttosto dell’anima – si realizza solamente nella separazione, nel sacrificio, nella morte della donna. La
felicità appartiene al mondo altro. Così Hystrio:
Dove andrai? Il solo pensiero mi distrugge.
Questo amore che afferma se stesso con la separazione;
che sventa l’agguato e si difende con il suicidio…
non sono più così forte da sopportare il colpo.
Questa felicità baluginata e tolta mi farà impazzire.(68)
L’incontro tra l’uomo e la donna nel terzo tempo è una sorta di rito, un battesimo dei frammenti
umani(69). Dice Hystrio a Giulia:
Che hai in quelle mani? Nella loro struggente
e infantile positura che quasi mi fa piangere
d’amore e di letizia. Come se trattenessero
un’acqua preziosissima che dovremo bere insieme:
la nostra sorte? la nostra rigenerazione?(70)
Nelle parole di Hystrio c’è la prefigurazione di una nuova nascita. Tale nascita non avviene tuttavia nella
vita, ma nel dopo-vita, in un mondo puro, delle origini, nel mondo di Dio(71). La morte non è inutile, è lo
stesso Hystrio a dirlo al padre di Giulia nelle ultime battute del dramma:
BEREK
[…]
Dal nulla al nulla quanto sangue, quanto
macchinoso sperpero e inutile fracasso.
HYSTRIO
Come puoi dirlo? Pensa ancora
a Giulia. Pensaci veramente.(72)
La morte di Giulia rappresenta la salvezza. Salvezza che non sta più nella lotta nel magma dell’umano,
nell’assunzione fino in fondo del mondo, ma fuori del mondo degli esseri umani, in quello di Dio(73). Il
sacrificio è conquista del mondo divino, riscatto di quello umano.
In Hystrio è particolarmente presente la riflessione metateatrale, metapoetica. L’arte di Hystrio, figura di
quella poetica di Luzi, non porta alla pienezza, alla completezza, alla verità nel mondo, come faceva la
15
poesia degli anni Sessanta; essa annuncia la pienezza del dopo. È un’arte, come tutta l’arte luziana di
questi anni, che svela, che rivela, che si fa profezia. Essa non è più creatrice, ma sostenitrice dell’essere
umano nel suo cammino verso il mondo di Dio. “Dio mio, è solo sulla creatura umana / che lavorano i
poeti. Non sulla creazione”(74). Il “totale è un’incognita”(75), come dice Hystrio, e rimane tale per
l’essere umano; l’arte tuttavia illumina, offre degli sprazzi di luce. Suo compito è portare immagini del
mondo puro ultraterreno, che si contrappone a quello controverso dell’uomo, e con esse la speranza di
salvezza. Afferma Giulia: “Penso talvolta / che al suo culmine un’arte si distrugga, / annulli ogni sua
regola, sprigioni sapienza / e profezia”(76). L’arte deve rendere l’umanità cosciente dell’esistenza del
“sacro” e del “santo”; dice Hystrio al pubblico in un momento di “delirio”:
[…] Come lo misconoscono
il sacro e il santo
che erompono tra le costole
del vero e puro attore. Come
ignorano lo spirito
e il fuoco di cui siamo strumento
e non giocattolo o zimbello…
Apparenza sollevata a essenza – vi piace
questa formula? Importa
poco che vi piaccia o no. Brucia
in noi attori questo divino paradosso, sappiatelo,
sappiatelo tutti.[…](77)
La necessità del riconoscimento del divino da parte degli esseri umani era già espressa nel prologo(78).
Una vecchia maestra propone ai propri bambini il canto di un salmo, di una preghiera:
Non si usa dire preghiere,
non si levano inni di lode
e di ringraziamento
nelle nostre scuole.
[…]
Semplicemente è dimenticato.
Tuttavia oggi lo faremo.
Perché? Non so dirvi perché.
Qualcosa mi ripete: è bene che i bambini cantino
e cantino al Signore...(79)
Il salmo scelto dalla maestra è il trentasette. In esso è contenuto il finale e il senso dell’opera teatrale:
““La salvezza dei giusti viene dal Signore, / loro presidio nei tempi di sventura… / Li soccorre, il Signore,
li libera, / dai malvagi li libera e li salva. Riparano essi nel suo seno.””(80). L’opera – con il suo
messaggio – diviene essa stessa preghiera e invito alla preghiera. L’arte non crea, non interviene sulla
creatura, essa ha comunque un ruolo importante, quello di portare la verità: in un mondo che è
menzogna, rappresentazione, la rappresentazione sul palco svela, toglie la maschera alle cose(81). Un
attore, Filippo, annuncia già nel primo tempo: “Il teatro è questo numero / illimitato di finzioni. / Finzioni,
ho detto? Cose / possibili, piuttosto, / e dunque veritiere che altrove non si registrano”(82). L’incontro
tra Hystrio e Giulia è da un lato un incontro tra un uomo e una donna quasi angelo, un po’ bambina, un
po’ madre, essere vicino alla sostanza, elemento del mondo puro, delle origini che al mondo puro fa
ritorno(83); dall’altro un incontro tra una donna e la poesia rivelatrice, di cui essa è figura.
Il dramma pone infine un’altra importante questione, che non poteva non emergere in questa fase della
poetica luziana. Se la pienezza, l’essenza stanno fuori del mondo dell’uomo, se Dio è un’entità
trascendente, quanto è concesso agli esseri umani? Quale è la loro possibilità di scegliere, di decidere? È
la questione del libero arbitrio, che viene introdotta con il coro. Tre sono gli interventi delle due voci del
coro: nel primo – prima del primo tempo –, che non a caso è intitolato Sì e no, una delle due voci afferma
che il mondo è solo rappresentazione di una scrittura già scritta, che la sorte è segnata. L’altra voce
sostiene invece la posizione contraria: “nulla / è fuori dall’avvenimento”(84), “ciascuna cosa / rinasce
dalla sua immagine, / è unica, e comincia da sé”(85). Nel secondo intervento – prima del terzo tempo –
le due voci parlano all’unisono e si interrogano: la fascinazione reciproca di Hystrio e Giulia è solo
rappresentazione o è vita? Quanto sanno essi? O è solo chi sta in alto a sapere?(86). Il dubbio sul libero
arbitrio rimane. Le voci intervengono però ancora una volta, all’unisono – nel mezzo del terzo tempo –, a
commentare un dialogo tra due uomini del potere, che si era concluso con l’affermazione “Dormiamo noi
sotto la coltre della nostra ipocrisia. Solo il tarlo lavora”(87). Intervengono con un giudizio severo: “Il
resto vi viene risparmiato. / La spicciola viltà, la miserevole bugia / non sono rappresentabili. / Questo vi
dice il coro / offeso in dignità”(88). Per l’essere umano c’è dunque possibilità di scelta: vivere
rettamente, cercare di essere giusti. Nell’attesa – siamo lontani dalla poesia degli anni Sessanta e
dell’inizio degli anni Settanta, che attribuiva agli esseri umani un totale libero arbitrio, che li considerava
creatori nella metamorfosi del tutto – della salvezza, del mondo divino. Con l’affermazione dell’esistenza
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di un Dio trascendente – esplicita nei cori e nel prologo – e con la considerazione della vita umana
funzionale ad essa, il teatro luziano si avvicina a quella che è la poetica di Frasi e incisi di un canto
salutare, alla definitiva visione della vita quale itinerarium ad deum.
1.6. Corale della città di Palermo per Santa Rosalia: la necessità umana del padre destinatore
trascendente
Al centro di Corale della città di Palermo per Santa Rosalia(89) – opera che segue di due anni Rosales –
c’è il ritrovamento del divino, del divino trascendente. Spiega Luzi:
“Era il ritrovamento del divino occultato nell’oblio, perduto nelle oscurità della coscienza come le spoglie
di Rosalia nella roccia della montagna: e ciò accadeva nel momento del grande pericolo, da uno stato di
grande e generale sofferenza.” (90)
Siamo a Palermo, nel 1625. La città è colpita dalla peste. Una peste dei corpi, ma anche delle anime,
come indica nel testo un vecchio prelato(91). La realtà terrena è violenta, la storia “Dolorosa, come
sempre”(92). L’arcivescovo vede la necessità di richiamare la diocesi, per rafforzare pietà e devozione da
parte della popolazione, al culto e allo studio dei santi e delle sante vergini, come Rosalia, originari della
regione. Rosalia, nel bel mezzo della pestilenza, appare in sogno a una donna dicendo che le proprie
reliquie sono tra le rocce del monte Pellegrino. La voce si diffonde, i cavatori scavano, e durante una
processione, mentre i credenti invocano Rosalia, nel monte vengono trovati un cranio e delle ossa
frantumate. Il popolo è da subito convinto che i resti siano quelli della Santa. Il culto cresce, le guarigioni
attribuite a Rosalia aumentano. La perizia scientifica chiesta dal clero non può però riconoscere
l’appartenenza delle ossa, nemmeno identificare se appartengano a un essere umano o a un animale. Il
culto è tuttavia talmente sentito dalla popolazione, che gli scienziati cedono e redigono un rescritto “che
non delude la gente”(93). Le ossa infrante vengono riconosciute, viene stilato un inventario, i miracoli
contati, le reliquie proclamate tali. La vita riprende, la pestilenza, nel frattempo, si arresta. E la Santa
acquista definitivamente un posto nel cuore della popolazione.
Il credere nel divino, nel caso specifico nella Santa, è un bisogno – afferma il testo – per gli esseri umani.
Spiega un diacono:
Ha bisogno del divino
l’uomo: lo ha in sé
e per questo se lo crea
così come sa farlo
nella sua propria misura.
Questo bisogno d’Incarnazione!
Pensateci, non è misero,
non è superstizioso paganesimo,
come alcuni erroneamente credono.
È piuttosto il fondamento
della nostra viva fede.(94)
Luzi esplicita così le basi della visione filosofico-esistenziale e del cristianesimo raggiunti: si tratta di un
cristianesimo che giustifica la fede partendo da un riconoscimento del bisogno umano di Dio. “Credono a
ciò che vedono, / vedono ciò a cui credono” gli esseri umani, dice una santa nel prologo(95). E l’Angelos,
rivolgendosi al coro: “Nasce Rosalia, nasce da sé medesima / o dall’attesa degli uomini…”(96).
Commenta, infine, il coro – valorizzando il bisogno di fede – lo sconforto degli uomini di scienza per
l’“ignoranza del popolo”(97): “Nessuno sente / la forza originaria, / nessuno la potenza / di quella fede
erompente? / Viene dal profondo, / è marina e sotterranea / quella forza d’amore / che avvampa per
Rosalia”(98). Lo stesso viceré, rappresentante del potere temporale, riconosce la necessità e
l’importanza del divino; egli constata come “un comune desiderio di votarsi / a una celeste protezione
abbia trionfato / su ogni discordia e divisione”(99). Rosalia è “[…] anche nostra amante / con cui
vogliamo far festa”(100), dichiara ancora il coro. L’amore non ha però ora nulla di fisico: è un atto di
fede, è unione fiduciosa con il mondo celeste. Nell’epilogo i santi parlano di “sposalizio / di cielo e
terra”(101). Siamo tuttavia lontani dal ripiegamento del cielo sulla terra della lirica degli anni Sessanta e
dell’inizio degli anni Settanta. Viene ora mostrata una dedizione totale al divino, gli esseri umani si
consacrano al mondo celeste: ciò che ha luogo è una sorta di ripiegamento della terra sul cielo, un
ripiegamento consolatorio nell’attesa della pienezza futura. Così un infermo:
Tu sei santa Rosalia! Non deliro,
ti ho conosciuta. Sei venuta
a liberarmi con la tua liberazione.
Dai macigni e dall’oblio, tu.
Ed io… dalla vita o dalla malattia.
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Non importa, tu sorridi.(102)
L’amore affermato dal testo è un amore comunitario, dell’intera collettività. È la comunità, per mezzo
dell’amore, che ha fatto rinascere Santa Rosalia, che le ha dato vita. Gli esseri umani, attualizzando la
divinità, vengono considerati creatori. Lo dice in più parti il testo:
CORO
Solo ora nasce davvero,
nasce perché è nostra.
ANGELOS
Presunzione
presunzione umana!
CORO
No, amore soltanto,
amore forte, creante.(103)
Non creano però più, come facevano un tempo, l’universo, non partecipano più alla metamorfosi del
cosmo. Creano la loro stessa consolazione, la speranza.
Al lettore è chiesto, pure con un atto di fede, con amore fiducioso, di aderire al testo, di assumerlo.
Risponde l’Angelos – angelo annunciatore, portatore di sapere –, subito dopo il prologo, al coro che gli
chiede di raccontare la storia della scoperta delle reliquie di Santa Rosalia: “Lo farò come posso, / la
storia la conosco, / è vero, ma solo in parte / e il resto è congettura. / Ma il senso della storia / lo inventa
il nostro amore, / lo riassume la coscienza”(104). Il testo nuovamente – come la Santa – non porta la
pienezza, la felicità. Porta la speranza, la consolazione, la forza per affrontare nuove durezze della vita.
Invita alla preghiera, nell’attesa del dopo(105).
1.7. Il Purgatorio. La notte lava la mente: il primo itinerarium ad Deum
Nel 1990, quattro anni prima dell’itinerarium ad Deum poetico costituito dal Viaggio terrestre e celeste di
Simone Martini, Luzi pubblica un altro viaggio, un primo viaggio verso il divino, Il Purgatorio. La notte
lava la mente(106). È l’itinerarium ad Deum per eccellenza, una messa in scena del Purgatorio di Dante.
Come suggerisce il titolo stesso, l’attenzione è posta sull’aspetto del lavacro, della purificazione. In
funzione del mondo altro. Spiega Luzi, interpretando l’opera di Dante, alla fine del testo teatrale: “Tutto
Dante è un dramma che cerca di ricomporsi in una suprema catarsi e in una raggiunta armonia: forse lo
sapevo già, ma allora era divenuto evidente”(107). Il dramma si compone di tre parti – Antipurgatorio,
Purgatorio e Paradiso terrestre – nelle quali sono riportati passaggi del Purgatorio dantesco. Ad essi è
intercalata la voce di un coro di anime. Predominante nell’intera opera è l’elemento del tempo:
l’Antipurgatorio – sequenza A1 – è caratterizzato da un tempo umano, irrequieto. Chiede il coro di anime:
“Esiste il tempo?”. “Sì, ed esiste il travaglio”, gli risponde una voce fuori campo, con tono grave(108).
Significative, nel dramma, sono anche le indicazioni appartenenti al paratesto: il sottotitolo Antipurgatorio
è seguito dalla specificazione: “Stasi di spaesamento, incertezza, dubbio”(109). Nel Purgatorio –
sequenza A2 – ha luogo un avvicinamento al tempo eterno, divino. La voce fuori campo incita sin
dall’inizio a salire la montagna, perché “Salendo la montagna il tempo si riduce, / il tempo si annulla e si
distrugge / più prossimo all’eternità imperante. / I luoghi e le memorie si unificano / in un punto solo, / in
un punto onnipresente”(110). Il Paradiso terrestre – macrosequenza B (dove Dante viene abbandonato
da Virgilio e ritrova Beatrice) – è infine il luogo del tempo eterno. In esso appare il concetto di felicità:
“Come degnasti d’accedere al monte? / non sapei tu che qui è l’uom felice?(111), dice Beatrice a Dante
spingendolo a pentirsi per i suoi peccati. Tale felicità non ha però nulla a che vedere con quella terrena
oggetto di indagine in Su fondamenti invisibili; costituisce anzi un tutt’uno con la condizione divina. Anche
l’unione con la donna è un’unione prettamente dell’anima, celeste: Beatrice è donna-angelo, elemento del
mondo trascendente, ritratta nella sua rettitudine morale, non nella sua fisicità. La realtà degli esseri
umani rimane il luogo della barbarie, dei peccatori, a sua volta una sorta di purgatorio. Il luogo della
negatività deve comunque essere percorso affinché la purificazione e l’accesso al mondo altro possano
avere luogo. Qui sta il senso del testo. “Esiste il tempo?”, “Sì, ed esiste il travaglio”. “La notte lava la
mente”(112); il messaggio del testo, dell’adattamento teatrale del Purgatorio dantesco di Luzi, stava già
nelle prime battute: la vita, il male in essa, è un passaggio obbligato – di penitenza, di espiazione – verso
il mondo delle origini, verso il mondo di Dio. Riappare – anche in quest’opera trasformata da altro, come
in tutte le opere luziane di questo periodo – il concetto di attesa: di attesa umana del mondo della
pienezza, della giustezza di Dio. Scrive Luzi giustificando la scelta del Purgatorio dantesco:
“Il Purgatorio è l’unico regno e l’unica cantica in cui il tempo vige: e vige nel suo doppio potere di
nostalgica rammemorazione del passato e di tormentosa remora all’eterno, su cui il desiderio, in forma di
attesa sempre più bruciante, si sposta. Tempo che divide dal mondo e tempo che divide da Dio. Su
questa scala trovano la loro giustezza sia gli strappi e le rare consolazioni degli affetti non recisi, sia
l’agro e dolce senso della penitenza, via al Paradiso. È un filo che unisce pena, pazienza e attesa […].”
(113)
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Dante autore viene citato da Luzi più volte come modello lungo il proprio percorso letterario. Il rapporto
di Luzi con l’opera di Dante non rimane tuttavia sempre uguale nel tempo: muta nelle diverse fasi
poetiche. Negli anni Cinquanta-Sessanta la Divina Commedia rappresentava la spinta e la legittimazione
per indagare il senso dell’esistenza a partire dalla pluralità del vivente. Negli anni Ottanta-Novanta al
centro dell’attenzione nelle opere di Luzi non c’è più il mondo terreno, ma quello divino(114). La verità,
la pienezza non sono sulla terra – sconquassata dalla barbarie umana – ma nel mondo delle origini.
Dante è allora colui che ha scritto del viaggio umano – tra penitenze e purificazione – per
approdarvi(115).
Nel testo teatrale di Luzi elaborato dalla seconda cantica della Divina Commedia vi è infine una riflessione
metaletteraria. Dante-personaggio e Dante-narratore sono distinti: le terzine in cui è Dante-personaggio
a parlare sono espresse sempre da un Dante-personaggio, quelle in cui è Dante-narratore a commentare
vengono attribuite a un personaggio chiamato Poema. Spiega Luzi che gli era nata l’idea
“di definire il poema come entità e anzi come personaggio guida che agisce superiormente per ricondurre
a visione universa ciò che si era scisso in evidenze e testimonianze episodiche.” (116)
Il Poema è così figura del testo luziano stesso. È guida il Poema ed è guida l’opera luziana: al lettore
viene rivelata ancora una volta la strada da percorrere, di penitenza e purificazione, in attesa della
redenzione.
1.8. Io, Paola, la commediante: un sorriso compassionevole al mondo dell’uomo
Nel 1992 viene pubblicata Io, Paola, la commediante(117). Si tratta di un’opera ad personam, richiesta a
Luzi dall’attrice Paola Borboni per accomiatarsi dal teatro(118). Scopo dell’opera – esplicitato nel prologo
in un dialogo tra un tecnico di teatro e due inservienti –, è la celebrazione di Paola, il coronamento della
sua carriera: non tuttavia esaltando l’attrice, ma togliendole la maschera, mostrandola nella sua essenza.
Il personaggio Paola è invitato da un comitato di signore, a recitare parlando di sé, senza testo, a ruota
libera. Lo fa presentandosi, appunto, senza maschera: racconta della propria anche triste esistenza, della
solitudine, della dedizione totale al teatro, quindi dell’amore per Bruno, attore e poeta molto più giovane
di lei con il quale ha assaporato la pienezza. Paola ricorda però anche come tale pienezza si sia subito
rivelata un’illusione, cancellata da un incidente automobilistico nel quale l’uomo è morto. Dice poi del
conseguente pieno ritorno al teatro, nei confronti del quale qualcosa si è tuttavia spezzato: “Tutto si
ripropose. / Ma io ero mutata. L’illusione / mi aveva tradito; il tradimento / mi dava più disperazione / e
insieme una più intima riserva; / c’era un’incrinatura nella mia fede teatrale…”(119). Infine il trionfo, che
però arriva “quando è tardi”(120). Dopo il racconto, quando Paola personaggio ha espresso tutta la
propria disillusione, appare una Maschera, figura del teatro stesso, che afferma di avere un debito con
l’attrice: perché essa ha dato molto al teatro, “alla sua continuità, / alla sua eterna finzione / che tutti ci
trascende”(121). Paola si emoziona, invoca Bruno, gli chiede un aiuto per sorridere del mondo(122).
Nell’opera vi è una riflessione sull’esistenza umana e sull’arte. Impossibile, ancora una volta – come in
tutte le opere di questo periodo –, raggiungere la pienezza, la completezza nella vita: l’unione nell’amore
si può solo assaporare, non vivere. La Maschera – figura del teatro in generale, come dell’opera luziana
stessa – permette però a Paola di distanziarsi dalla propria esistenza e di riconciliarsi con il teatro, con la
vita, con Bruno, di ritrovare un senso: se nella vita terrena non esiste la pienezza, del mondo si può
comunque sorridere, con compassione. Sintomatico è il fatto che per sorridere del mondo Paola chieda
aiuto a Bruno, un essere del mondo altro, del mondo che nelle opere di questo periodo racchiude in sé la
pienezza.
L’opera, dal canto suo, non vuole essere uno spettacolo, ma un non-spettacolo, come si dice sin dal
prologo: un dramma che, rappresentando, mettendo le maschere, toglie le maschere della vita, svela
l’essenza(123). All’arte viene nuovamente attribuito il compito di rivelare, di portare il sapere. E non è
un caso che Paola, invocando Bruno, sottolinei proprio quella che fu la professione dell’uomo: scrivere
poesie(124).
1.9. Felicità turbate: con l’arte epifanie del divino
Nel 1994 era apparso il libro di poesie Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, che tratta dell’ultimo
viaggio del pittore e scultore senese del primo Trecento. Nel 1995, con Felicità turbate(125), un altro
pittore – questa volta del Cinquecento – è al centro dell’attenzione: il Pontormo(126). L’occasione è il
quinto centenario dalla nascita dell’artista. Numerose sono le analogie tra le due opere, una la visione
sull’esistenza umana e sull’arte. Con Felicità turbate Luzi – spiega egli stesso – intende esprimere quel
“sentimento nuovo e inquieto che si stava insinuando nella presunta armonia rinascimentale ed è rimasto
nella nostra psiche: un allarme, un rimorso, un turbamento nella troppo ostentata serenità”(127).
Al centro del dramma, viene detto esplicitamente dal personaggio-Memoria nel Prologo, vi è “un grande
di una grande epoca / ma inquieta e malinconica”(128). Triste dunque, ancora una volta, la storia
umana lacerata, imperfetta, lontana dall’essenza. Afferma Jacopo Nardi, personaggio cinquecentesco: “Si
crede / talora alla semplicità e alla naturalezza / poi ci si avvede che la complessità è dovunque”(129);
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“E proprio questo ci confonde: l’imprendibile / ambiguità delle figure umane / nonché degli altri oggetti
della reminiscenza”(130), gli risponde la Memoria. Una voce canta intanto: “… l’un secol dopo l’altro al
mondo viene / e muta il bene in male, e il male in bene”(131). Pontormo è specchio di questa realtà
lacerata, viene descritto da coloro che lo conoscevano e dalla Memoria come un essere malinconico,
turbato, che soffre per l’imperfezione umana. Egli, con la sua arte, è però capace di andare oltre, di
portare barlumi del mondo divino: “luce e libertà / mirabilmente fervevano in quel capo”(132). A
Carmignano e a Santa Felicita, ad esempio, compì miracoli; ricorda la Memoria: “Quale combustione /
separò la materia da se stessa? Presero il volo i suoi colori / in una nuova incandescenza”(133). L’arte
del Pontormo va verso la luce, porta l’essenza, rivela la pienezza. La conoscenza in vita – seppur a
sprazzi, per rivelazioni –, conferma la Memoria, è possibile: “L’alchimia dei tempi è continua / e quella
degli uomini le è pari, / lo so. Pure non è un ostacolo / alla conoscenza, credetemi”(134). Il Pontormo
invecchia e la presenza della luce nella sua arte – come in quella del Simone Martini che si avvicina alla
fine del viaggio – aumenta, è egli stesso a constatarlo: negli ultimi dipinti, a San Lorenzo in particolare,
“Si sono fatti sempre più chiari e soffici i miei colori, / come a contrastare quello scuro che ho dentro di
me / e a sfidarlo. Chiaro, chiaro quasi trasparente il giallo nell’incontro con il sole […]”(135). In un
dialogo con una donna, di fronte al corpo femminile, il Pontormo giunge addirittura a percepire un
incanto, una sorta di perfezione originaria, e ne rimane stregato. In Pontormo accanto alla luce –
proveniente da un mondo altro – anche le ombre però crescono, i turbamenti: è il mondo umano che per
contrasto appare ancora più tragico. L’artista “assetato di perfezione”(136) delira. In fin di vita, al
proprio medico, rivelerà però che “[s]ono gli altri che non capiscono, sono loro gli infermi / che sono da
curare perché crescano in giudizio e in conoscenza”(137). Qui, nelle ultime parole dell’artista, il sapere
testuale, il messaggio dell’opera. Messaggio che viene espresso anche in un ultimo dialogo, che ha luogo
dopo la morte del pittore, tra il Bronzino, artista e amico del Pontormo, e il Vasari(138). Il Vasari, non
troppo convinto, ricorda come già Michelangelo avesse affermato del Pontormo ragazzo: “questo giovane
porterà quest’arte in cielo”(139). Per il Bronzino quanto aveva previsto Michelangelo si è realizzato: “Non
erano ghiribizzi quelli che così tu chiami, / ma altre immagini e altre epifanie del vero che lo
incantavano”(140). L’arte del Pontormo si tuffa dunque in cielo e porta in terra, seppur a sprazzi, a
intermittenze, fra tristezze e turbamenti, rivelazioni del vero trascendente. Assieme alla luce essa
esprime tuttavia anche il dolore per il mondo umano. Tale dolore è comunque necessario: perché
“imprevedibile espiazione”(141), “purgatorio della nostra arte italiana”(142), aggiunge il Bronzino.
L’espiazione e l’attesa purgatoriale sono essenziali per approdare un giorno alla luce.
Implicita una riflessione metaletteraria nel testo. Ancora una volta, esattamente come nel Viaggio
terrestre e celeste di Simone Martini, la pittura è figura della poesia, del teatro, dell’arte luziana: i quadri
con la luce divina e le ombre terrestri rappresentano un’arte che svela l’essenza, la purezza, la forma;
che svelando consola (“solo la pittura e il suo gran paragone / lo guariva dalla malinconia”(143)); che
spinge a far proprio il dolore e permette di sopportarlo nell’attesa del dopo.
1.10. Ceneri e ardori: il ritorno della fede in Dio
Nel 1997 appare Ceneri e ardori(144). La pièce, sebbene preceda di due soli anni il grande salto nella
poetica luziana che sarà costituito dall’opera poetica Sotto specie umana, si inserisce ancora nel solco
tracciato dalla raccolta Frasi nella luce nascente e dal teatro della stessa epoca. Al centro del dramma,
nuovamente, vi è un personaggio che si trova sul limitare della propria esistenza, che proprio in quel
momento vive un’importante trasformazione e che acquisisce un sapere funzionale al dopo-vita. Il
personaggio – come già altrove, una figura storica – è Benjamin Constant(145). L’inquadramento è
fornito dall’opera stessa:
“Siamo nel 1830, agli ultimi giorni di vita di Benjamin Constant. Tutto il suo passato di scrittore, di
studioso e di politico e tutto il suo prestigio sono in gioco, gli sembra, ora che deve in un atteso discorso
di fronte alla Camera esporre il suo credo e il suo programma politico. La monarchia di luglio lo ha
riportato in auge. Ma pochi sono gli amici e i compagni sopravvissuti alla falcidia del tempo e dei
mutamenti traumatici della storia […]. Benjamin si sente solo, soprattutto gli manca, sparita ormai da più
di un decennio, Germaine de Staël che lo aveva a lungo affascinato e dominato. Madame Récamier,
infelice passione e mite amicizia degli anni più tardi, è ancora viva e il suo salon funziona ancora da
centrale politica per quanto i suoi frequentatori non siano più né Chateaubriand né la Staël ma ben altri
attori. Benjamin è chiamato a un atto quasi di palingenesi nazionale quando il suo mondo è defunto.
Charlotte, la moglie fedele e infine intimamente ritrovata lo rincuora nei suoi vacillamenti.” (146)
La questione politica in sé – l’apparire di nuovi politici, di nuovi meccanismi che non sono più quelli di un
tempo basati meramente sugli ideali – non è tuttavia il perno attorno al quale ruota la riflessione
dell’opera. Al centro dell’attenzione vi è piuttosto un tormento esistenziale che assale Benjamin Constant
proprio nelle ultime ore della sua vita, un tormento suscitato sì da una disillusione politica, ma più in
generale da una sfiducia nelle capacità umane, dal riemergere del proprio passato dissipato tra razionalità
politica e passioni amorose, dall’incombere del dopo-vita, da un riconoscimento dell’assenza di senso
nelle esistenze umane.
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La prima parte del testo (che costituisce la sequenza A1) è interamente ambientata nell’appartamento di
Constant, la notte precedente il suo discorso alla nazione. La moglie ripercorre con alcuni conoscenti e
un’amica gli amori passati del marito e i propri tormenti. “la nostra personale agitazione / non ha, ve lo
assicuro, molto peso”(147), rivela tuttavia in conclusione. “La tragedia è l’uomo, la sua storia, / il suo
disaccordo col divino”(148). Constant, ritirato nel proprio studio, riflette a lungo su quelle che sono state
le proprie passioni: le relazioni amorose e la politica. Prova da un lato rimorsi, sensi di colpa, è dall’altro
disilluso, “Santo cielo, / come pericolosamente si assomigliano / le facce del potere”(149). I suoi
destinatori di una vita improvvisamente gli vengono a mancare, non danno più senso alle cose, sono
divenuti “cenere”. La colpa sua e degli esseri umani tutti – arriva a concludere – è però una sola: “essere
vivi, / vivi e pavidi, vivi e irresoluti, / vivi e cupidi, vivi e smaniosi / in un tempo temerario”(150). Nella
seconda parte del testo (che costituisce la sequenza A2), Constant cerca un senso all’esistenza, un nuovo
destinatore per poter parlare davanti alla Camera, ma soprattutto per legittimare il proprio stare al
mondo: “la mia vita / cerca un senso, il suo senso, non / può attendere oltre. Senza di esso / non può
avere la giustifica / zione che ora mi bisogna / per tollerarmi nel presente…”(151). È mattina, Constant
si appella dapprima alla moglie. Con essa ritrova una sorta di unione, unione non passionale e fisica però,
piuttosto dell’anima, all’insegna di un amore-pietas. Charlotte sa quale deve essere il vero destinatore
degli esseri umani: “[…] ricordati di quando / rimettevi tutte le tue ambagi / al volere del Padre […] / Ciò
che allora pregavi / e occultavi come fosse pusillanime / deve ora ritornare in veste di saggezza /
definitiva”(152). “Non si è mai rescisso / dall’anima quel tempo / di fede”(153), le risponde Constant,
che comunque si fida poco, non ripone più grandi speranze nel mondo dell’aldilà, in Dio: pensa alle vite
spezzate, ai “destini tragici che si sono consumati / sfiorandoci dappresso o in mezzo a noi”(154). Ma
Charlotte ancora una volta ne sa di più: Constant è “in difetto / di misericordia e di speranza”(155). Una
trasformazione in Benjamin Constant è in ogni caso avvenuta, se ne è accorto l’amico Ballanche, che lo
rivela agli altri frequentatori del club: “il nostro Benjamin / ha voltato le spalle alla politica. / “De la
religion” ha avuto su di lui la meglio”(156). Anche in Juliette, la proprietaria del salon, Constant cerca un
sostegno. E pure con lei trova un’unione, non quella passionale cui aspirava un tempo, ma, di nuovo,
dell’anima(157). Nell’incontro Constant acquisisce inoltre un sapere: “Tutto deve finire in armonia / e in
luce. Così è, mi pare. Al sacrificio / sono pronto. E, strano, proprio questo / mi ravviva…”(158). Ed ecco,
dopo la cenere, l’“ardore”. Juliette, come Charlotte, detiene un sapere superiore, aveva detto poco prima
all’uomo: “è lo stesso sacrificio del seme / gettato nel solco dove marcisce / per la spiga di domani.
Rifletti, / non è una ragione nuova e antica / di bene agonizzare?”(159); e poi: “non hai da conseguire /
altra vittoria che quella su te stesso / […] Tu e ciascun altro / ci scontriamo infine con il nostro / limite. Il
resto, allora conta poco / sia esso pure di gran peso…”(160). Che le due donne siano esseri più vicini alla
divinità, alla purezza originaria, lo percepisce pure Constant: “angelo mio, aiutami con la tua pazienza, /
rischiarami la mente”(161), aveva detto a Charlotte, che aveva infine definito “Dolce e santa”(162).
Juliette, a sua volta, è “Saggia / e santa”(163). Charlotte, alla fine della seconda parte, afferma il senso
della vita, senso che sta anche nei tormenti e nelle angosce che attanagliano le esistenze umane: l’agonia
ha valore; non è vero – come sostiene Constant – che è “dramma / senza fuoco, senza catarsi”(164),
l’agonia è “il battesimo e la purificazione”(165). Torna una visione già più volte espressa nei testi poetici
e teatrali di questi anni. L’idea della necessità di far proprio anche il male. Tale idea era in verità già stata
tematizzata nelle opere poetiche degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta e in Ipazia. Allora lo
scopo era però quello di raggiungere la pienezza nella vita. Ora invece lo sguardo è rivolto al dopo-vita, al
mondo di Dio, al mondo nel quale in questa fase della poetica luziana viene identificato il sacro.
L’assunzione del male costituisce un atto di purificazione funzionale a tale mondo.
Nell’ultima parte del testo (che costituisce la macrosequenza B) Constant, proprio prima di iniziare il
discorso alla Camera, muore. Egli lascia una scritta su un telo: ““Spero ancora che un raggio splenderà
per voi alla fine, / proviene dalla verità, se l’avete detta””(166). Il politico non arriva dunque a leggere il
proprio discorso, con la propria morte e la scritta lasciata sul telo compie tuttavia quell’atto di palingenesi
nazionale – più da essere umano che da politico – che da lui era atteso: afferma l’esistenza di un potere
superiore, divino (configurato nella luce), e offre delle “regole comportamentali” da seguire in vita:
affermare la verità, vivere rettamente, e avere misericordia (come egli stesso fa nei confronti della
Camera). La morte assume la fisionomia del sacrificio, Constant sembra aver appreso la lezione
impartitagli dalle sue due donne: ha vissuto fino in fondo l’agonia.
Prima di ogni sequenza narrativa interviene un coro, nel quale si intercalano voci di Strofe e di Antistrofe.
Negli interventi del coro è anticipato il sapere raggiunto ed espresso dagli attanti nelle varie sequenze del
testo, vi è una sorta di “concentrato” di sapere testuale. In essi inoltre, accanto alla riflessione
esistenziale, ve ne è una metaletteraria, sul senso della parola artistica. Le Strofe chiedono inizialmente
di potersi spegnere, di non dover più parlare del mondo, di poter stare lontane dal tempo e dal travaglio.
Le Antistrofe, come le due donne, detengono però un sapere superiore: sanno che le Strofe hanno il
compito di “Entrare nella storia a concimare la memoria umana, / con i vostri esempi”(167) (A1). Le
Strofe tuttavia dubitano, non vogliono tornare, puntano il dito contro l’uso del linguaggio che fanno gli
esseri umani: “come ci trasformano / le parole vostre, cioè in briciole, / in frantumi, retrocedendo dalla
sintesi”(168) (A2). Nell’ultimo coro, a racconto sulla vicenda di Constant quasi ultimato, le Antistrofe
svelano tuttavia il senso e il valore del raccontare. Dicono alle Strofe: “Ma forse non è vano supplizio
quello che voi soffrite. / […] Pensiamo che con pena / abbiate fatto in voi opera di suprema
assoluzione”(169) (B). In loro stesse, ma soprattutto nel lettore: compito della parola artistica è portare
21
esempi di comportamento da fare propri in vita, l’idea dell’assunzione del male quale atto purificatore in
funzione del dopo, l’importanza della fede nel mondo divino, il conforto e la speranza del perdono (“Non
consideri / il lato più importante, tu tralasci / l’opera della grazia”(170), aveva detto Charlotte – figura
del sapere testuale e dunque dell’opera teatrale stessa – a Constant disilluso, e poi: “Solo / è dato
sperare ci siano / rimessi i nostri debiti”(171)).
1.11. La Passione. Via Crucis al Colosseo: la seconda ribellione a Dio
Dopo una serie di sacrifici espiativi in funzione della realtà divina, viene messo in scena nel teatro luziano
il sacrificio per antonomasia, la crocifissione di Gesù Cristo. Per la Pasqua del 1999 Luzi scrive La
Passione. Via Crucis al Colosseo(172). I tempi, quanto alla visione filosofico-esistenziale,
paradossalmente stanno però cambiando. Lo sguardo, il discorso del testo, più che sul mondo del dopo,
sulla risurrezione, è incentrato sulla realtà umana, sui sentimenti, sulle sofferenze dell’uomo. Luzi
definisce l’opera come “una progressione dolorosa al ricongiungimento con il padre e come un cammino
mortale verso la Resurrezione”(173). L’accento va tuttavia posto sugli aggettivi “dolorosa” e “mortale”. È
Luzi a spiegare di aver voluto
“puntare sulla Resurrezione, tutto questo dolore, questa infamia è per la Resurrezione. Però anche lì è
una volontà, o meglio un’aspirazione. Ma il peso certamente è tutto da questa parte della sofferenza che
lui [Cristo] s’è appuntato addosso, e della morte che ha accettato di visitare con la paura, con lo
sgomento, anche nella sua divinità, di questo passo. Quindi effettivamente … c’è più crocifissione che
resurrezione.” (174)
Il Cristo di La Passione è sì figlio di Dio, egli stesso divinità; in primo luogo egli è però un essere umano,
emblema dell’intera umanità. È fragile, umile, un anti-eroe. Ed è in conflitto con Dio: dubita del Padre, si
ribella alla sofferenza, dubita della propria missione stessa sulla terra.
Il testo è composto di 14 scene (“sequenze narrative”, ognuna formata da un estratto da una Scrittura e
da uno o due brani di Luzi), corrispondenti alle tappe nella processione al Colosseo. Ad aprire e chiudere
la rappresentazione ci sono un’introduzione e un coro-preghiera. Nell’introduzione e nelle prime 12
sequenze (che a livello discorsivo rappresentano la macrosequenza A), è il Cristo stesso a parlare, da
subito angosciato, in conflitto con il Padre: “Quanto è lontana da te l’angoscia che mi opprime”(175);
“Tutto ti è comprensibile: anche questo; / eppure dubito talora / che questa sofferenza non ti
arrivi”(176); “Il tempo lo conosci, ma non lo condividi. / Io dal fondo del tempo ti dico: la tristezza / del
tempo è forte nell’uomo, invincibile”(177). Nell’Orto degli Ulivi Cristo chiede al Padre di rimuovere la
tragedia. Dopo che nel sinedrio viene decisa la crocifissione, si interroga sul perché l’incarnazione sia
avvenuta tra gli uomini, “perduta specie”(178), e non in un’altra specie. Perdura la distanza tra Cristo e
il Padre: “Li guardo Padre [i sommi sacerdoti] come tu li guardi / ma il tuo ed il mio sguardo non sono
comparabili”(179). E nel pretorio, quando gli caricano sulle spalle la croce:
Ancora padre ti chiedo se questa ignominia è necessaria.
Tutto è scritto, lo so, ma nulla è revocabile?
“Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà” – questo ho insegnato a dirti.
“Come in cielo così in terra” ho aggiunto.
Il tuo regno non è venuto ancora.
Ecco, mi addossano una croce da portare
Tra sputi e contumelie. Oh Padre,
non vedo venire a me nessuno dei tuoi angeli.(180)
Cristo si sente abbandonato, solo. Quella della solitudine è una condizione condivisa dall’intera umanità:
“Com’è solo l’uomo. Come può esserlo! / Tu sei dovunque / ma dovunque non ti trova. Ci sono luoghi
dove tu sembri assente / e allora geme perché si sente deserto e abbandonato. Così sono io,
comprendimi”(181). Ha paura della morte, teme di aver fallito: “Mi prende e mi tormenta il dubbio / che
il mio insegnamento sia fallito. / La mia permanenza sulla terra è stata vana?”(182). Dubita del futuro
dell’umanità: “Piango anche io, Signore, vedo / i miei fratelli afflitti che rifaranno questa via / nei secoli,
nei millenni”(183). Sente addirittura “venirgli meno / l’amore per gli uomini. Sarebbe la sconfitta più
penosa, / fa’ che questo non accada”(184). Prima di morire Cristo sembra riconciliarsi con Dio: “Il cuore
umano è pieno di contraddizioni / ma neppure un istante mi sono allontanato da te”(185); e poi: “Padre,
non giudicarlo / questo mio parlarti umano quasi delirante, / accoglilo come un desiderio d’amore, / non
guardare alla sua insensatezza”(186). La presenza del Cristo vivo nel testo si conclude tuttavia con
parole che riaffermano una disgiunzione, una distanza tra Padre e Figlio: “Il debito dell’iniquità è pagato
all’iniquità. / Ma tu sai questo mistero. Tu solo”(187).
Alla voce del Cristo, dopo la crocifissione, subentra quella di un io narrante, una sorta di narratore
onnisciente con funzione autoriale, “testimone della passione” come si definisce egli stesso. È lui a riferire
i fatti nelle ultime due scene (che assieme al coro-preghiera finale rappresentano la macrosequenza B). È
lui a rivelare che il Figlio ha dubitato sino all’ultimo: ““Perché Padre mi hai abbandonato?”. / È il suo
ultimo grido umano. / È di uomo infatti l’estremo pensiero del Figlio dell’uomo sulla terra”(188). L’unione
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tra Padre e Figlio ha dunque avuto luogo solo nel dopo-vita. Al racconto della morte segue quello della
risurrezione. Interviene quindi il coro che si rivolge al Cristo e parla di inizio di “un’era nuova: / l’uomo
riconciliato nella nuova / alleanza sancita dal tuo sangue / ha dinanzi a sé la via”(189). Se alla fine, a
livello dell’enunciato, è l’unione con il Padre a prevalere, se l’opera si conclude con la resurrezione – che
conferma l’importanza dell’espiazione in funzione del mondo altro tematizzata nelle opere degli anni
Ottanta-Novanta –, per il lettore è un altro il discorso del testo: emergono la necessità di dialogo
dell’essere umano, dubbi e addirittura paure su Dio e sul dopo-vita, la necessità dell’affermazione di sé in
vita. La promessa del mondo trascendente, della salvezza non consola più. Sintomatico del cambiamento
di prospettiva in atto – dal cielo alla terra – è il fatto che nella macrosequenza B, quella della risurrezione
e dunque del divino, il pensiero dell’abbandono già espresso da Gesù Cristo venga reiterato (tra l’altro su
un piano differente, non più da un attante ma dal narratore con funzione autoriale, figura dell’istanza
enunciante del testo). In La passione. Via Crucis al Colosseo il personaggio principale è nuovamente un
essere attivo, che resiste, che non si piega. Significativo è poi che Cristo appaia, l’ultima volta nel testo –
così indicato dal narratore – come “Figlio dell’uomo”(190), non più di Dio. Proprio nell’opera al cui centro
c’è la tematica religiosa, lo sguardo sull’esistenza umana è di nuovo rivolto verso la terra: è in atto una
ricerca del senso della vita, del sacro, della divinità nella vita stessa, non più in cielo.
1.12. Opus florentinum: l’essere umano “costruttore” per le generazioni future
Nel 2002 esce Opus florentinum(191), azione drammatica in due parti, come specifica il sottotitolo della
pièce. Il nucleo del testo, in verità, era apparso con il titolo Fiore nostro fiorisci ancora(192) nel 1999,
anno della pubblicazione di Sotto specie umana. Al centro del dramma vi sono l’ideazione, la costruzione
e i settecento anni di storia della basilica di Santa Maria del Fiore di Firenze. Lo spunto fu dato proprio dal
settimo centenario della fondazione della basilica e dall’imminenza del Giubileo(193). Il Novecento era
poi il secolo del cinquecentesimo della cupola del Brunelleschi. Sebbene a fare da sfondo a Opus
florentinum vi sia uno scenario religioso, il discorso del testo si iscrive pienamente nella poetica di Sotto
specie umana: Luzi, assimilatolo, si è lasciato alle spalle il tempo del “trittico celeste” nel quale tutto era
tensione verso la divinità trascendente; al centro dell’attenzione c’è ora, definitivamente, il mondo
dell’uomo. È indagato, ancora una volta, il senso dell’esistenza umana. Tale senso non viene tuttavia più
identificato nella dolorosa purificazione, nell’espiazione della colpa originaria – come in numerosi testi
poetici e teatrali degli anni Ottanta e Novanta – ma nel lavoro, nella costruzione, nell’edificazione per le
generazioni future. L’uomo torna a essere egli stesso creatore e portatore del divino. La distinzione tra
trascendente e immanente, come in Sotto specie umana, perde ragione di essere.
Opus florentinum è costituto di due parti, suddivise a loro volta in scene, quattro la prima(194) e sette la
seconda(195), che ripercorrono cronologicamente la storia della basilica, dalla sua progettazione sino ai
nostri giorni. La prima parte, macrosequenza A, è quella dell’esordio: la notizia del progetto della basilica
si diffonde, la popolazione si raduna nello spiazzo nel quale sorgerà la cattedrale, il vescovo di Firenze dà
il via all’opera offrendo l’edificio alla Madonna e posando la prima pietra. Il sapere testuale viene già
espresso qui, per la prima volta. È nelle parole del vescovo alla fine del rito di fondazione: “Allietiamoci,
esultiamo. Seminare, / edificare è la più grande offerta / dell’uomo all’uomo, del tempo al suo domani / e
insieme la più umile / testimonianza / del divino che in lui uomo cova ed è”(196). L’innalzamento della
chiesa rappresenta l’opera umana per eccellenza, diviene simbolo del fare creativo umano. La seconda
parte, macrosequenza B, è quella della creazione vera e propria(197), creazione che continua nei secoli,
che va oltre le singole esistenze, che non si conclude. L’opera è collettiva: l’intera popolazione, chi con le
mani, chi spiritualmente, partecipa all’innalzamento dell’edificio. La seconda parte si apre con la Parlata
operaia, nucleo originario, assieme alla scena finale, del dramma(198). Dice un operaio: “sono parte di
questa fabbrica che cresce; e questo mi basta”(199), e più avanti, a un collega: “Va’ là che anche tu lo
senti questo raro privilegio di operare dentro un’opera che viene da lontano e va molto lontano, più
grande di noi e della nostra generazione”(200). Il valore e il potere della creazione umana vengono
reiterati, per bocca questa volta, significativamente, non più del vescovo ma di un personaggio umile,
semplice. L’atto del creare è prerogativa dell’umanità tutta. Luzi, con il dramma, ci presenta il mondo
umano, le generazioni di uomini e donne, come una continuità. Continuità che, in quanto tale, è eterna.
Si annulla, allora, la distinzione tra tempo dell’uomo, effimero, e tempo di Dio, eterno. “Passano e si
trasformano / le cose del mondo”(201), constatano nella macrosequenza B gli Angeli coristi e Santa
Reparata, la santa a cui era dedicata l’antica chiesa su cui viene eretta quella nuova, e: “le epoche […]
sono molte”(202), ma: “uno è il tempo / e quasi privo di temporalità, / affine all’eterno che si dice / sia il
suo contrario, lo si dice stoltamente”(203). Aggiungono gli Angeli:
Siamo nella continuità dell’uomo.
Cristo l’ha suscitata
dalla sua antica inerzia, l’ha segnata
con il rosso del suo sangue.
Tuttavia non l’ha interrotta, l’ha affidata
a ciascuno di noi
e a tutto il corpo mistico e carnale
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della sua universa chiesa.(204)
La cupola di Filippo Brunelleschi e i muri della basilica si ergeranno al cielo; il cielo, come in Sotto specie
umana, sembra tuttavia essersi ripiegato sulla terra, essere divenuto un tutt’uno con essa, perché,
afferma l’opera, il divino è nell’uomo, l’uomo è creatore. Ad affascinare particolarmente Luzi, nell’intera
vicenda della costruzione della basilica, è l’erezione della cupola, cupola che di fronte alla perizia
architettonica odierna rappresenta ancora un mistero. Così la definisce:
“Una scommessa di quel genio che fu Brunelleschi: andò oltre le leggi della sua arte. Sfidò se stesso,
forse per eccesso di razionalità, di fiducia nella ragione. Ho sentito questo come un momento che
trascende l’uomo: le cose che l’uomo fa vengono assimilate in un ordine che va al di là della sua persona,
nel senso della collettività, della durata”. (206)
L’uomo supera se stesso, i propri limiti, intellettuali, fisici, temporali. Il mondo è ancora fatto di bene e di
male, non è però più quest’ultimo a prevalere(206). Ai canonici che dubitano dell’azione umana,
risponde una voce: “No, / la città non è blasfema, / le sue operazioni / di vita e di prosperità / non sono
empie. / L’empietà / è perfidia / d’intenti. Essa non manca, / è vero, ma non è la regola”(207). Torna
nella poetica luziana la fiducia nell’umanità. Quella fede di cui postulavano la necessità le opere degli anni
Ottanta e Novanta non scompare, tuttavia invece che al mondo di Dio si rivolge qui a quello dell’uomo.
Nell’ultima scena del dramma è la basilica stessa a parlare. Essa, personificata, assume il ruolo di
narratore e si rivolge a un voi-narratario, che è l’intero popolo. Santa Maria del Fiore detiene e offre il
sapere testuale sul senso dell’esistenza umana(208). Si rivela essere al tempo stesso figura dell’opera
luziana (il “voi” conseguentemente dei lettori). Siamo ai giorni nostri, alle soglie del giubileo. La basilica,
come il testo di Luzi, ripercorre, in pochi versi, la propria storia. Quindi divinità terrena, madre, parla ai
propri figli, all’umanità, e li incita – rivolgendo l’invito anche a se stessa – a crescere, a migliorarsi.
L’innalzamento della basilica, il lavoro di edificazione, è una metafora, che si svela qui nel suo significato:
è simbolo di quell’azione costruttrice che deve avere luogo prima di tutto nei singoli individui, non perché
essi possano essere all’altezza del mondo del dopo-vita – come veniva postulato nei testi degli anni
Ottanta e Novanta – ma perché possano migliorare la realtà umana, lasciare ai posteri un mondo
migliore:
Vorrei fossimo uniti tutti insieme, figli miei, per essere una roccia
su cui possa posare il piede
chi arriva
e prendere slancio per il volo.
Perché questo ci è chiesto,
figli miei, di crescere
nel tempo: questo ci giustifica.(209)
La basilica – divinità, madre, figura dell’umanità tutta e Chiesa per eccellenza – dopo aver espresso il
Sapere, mette in atto essa stessa il proprio insegnamento. Alle soglie del nuovo millennio, guardando al
tempo che viene, chiede perdono per gli errori commessi nella storia in suo nome:
Quella che si dispone al rito festoso del ricominciamento,
figli, è una chiesa penitenziale. Molti hanno operato in me
e in nome mio, non onesta
ma anzi perfida e maliziosa gente.
In molti hanno abusato del mio limpido sigillo,
e io chiesa materna mi affliggo di tutte le magagne.
Perdono, chiediamo a mani giunte.(210)
La Chiesa con il proprio mea culpa compie un atto di crescita. Ciò che corrisponde – nell’iter della sua
edificazione – alla propria realizzazione. La basilica – exemplum per l’umanità – compie l’atto che la
giustifica.
Importante è nel testo la riflessione sul valore e sul compito del teatro, della letteratura, dell’arte, del
dramma stesso. L’ultima scena, quella dell’intervento della basilica, ripercorrendo i settecento anni di
storia e offrendo il sapere testuale, costituisce una mise en abyme del dramma luziano. La basilica, opus
florentinum, è figura dell’opera teatrale di Luzi: entrambi sono frutto della creazione umana, entrambi più
duraturi della esistenze dei loro creatori, entrambi tesi a edificare per l’avvenire dell’umanità. Proprio
quello dell’edificazione è il ruolo attribuito in questa fase della poetica luziana all’arte. Lontana l’epoca
della profezia, della comunicazione per “barlumi” del divino. Ma c’è di più. L’opera luziana inneggia sì alla
creazione umana, creazione che – si pensi alla cupola del Brunelleschi – supera talvolta l’immaginabile,
supera i propri creatori, il loro tempo. Tuttavia dell’umano, della creazione del singolo, e dunque di se
stessa, l’opera teatrale riconosce anche i limiti. Afferma la basilica personificata:
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O secolo che vieni
sii un secolo nostro
nell’ordine della cristiana previsione
di fede e di certezza. Per tutti i secoli dei secoli
per omnia saecula saeculorum:
ma siilo veramente, siilo frescamente
con ogni umiltà di desiderio, di pena, di grazia e di speranza;
e, prego, non crederti definitivo;
l’omega sconosciuto e certo
splenda nel suo mistero
sopra di noi come sempre.(211)
Opus florentinum è un omaggio all’essere umano, creatore e portatore in sé del divino, ma è anche un
profondo atto di umiltà, un richiamo alla misura.
1.13. Il fiore del dolore: la salvezza in terra.
Il 2003 è l’anno di Il fiore del dolore(212). Il dramma è costruito su un fatto di cronaca: l’uccisione nel
1993 a Palermo da parte della mafia di don Pino Puglisi, parroco della chiesa di San Gaetano del quartiere
di Brancaccio(213). Luzi usa la vicenda storica come punto di partenza per sviluppare nuovamente una
propria riflessione sull’esistenza umana. Nonostante l’ambientazione sia religiosa – accanto al sacerdote
appaiono autorità ecclesiastiche, una monaca, alcuni fedeli – l’attenzione dell’opera è rivolta al mondo
terreno. L’uccisione di don Puglisi viene vista come un martirio: il parroco attendeva il proprio sicario,
quando questi è arrivato si è lasciato colpire sorridendo. Tale martirio non è tuttavia funzionale al mondo
del dopo, a una salvazione nell’aldilà; è piuttosto un martirio “immanente”(214). La morte di don Puglisi
è addirittura un gesto che ridà vita: attraverso di essa – e attraverso il perdono – il parroco riscatta il
proprio sicario. Nella prima scena del testo, nel prologo, è don Puglisi a parlare (unico suo intervento in
tutto il dramma)(215), offrendo il sapere del testo. Egli si interroga sul senso delle esistenze dei singoli
individui, esistenze che – constata – appartengono alla comunità, alla vita universa: “Cos`è una vita /
una vita nella vita / immensa incommensurabile. La mia ha preso senso / dal non essere più, dall’essermi
/ stata tolta… / ma non era mia, / era del mondo, era della vita”(216). Si rivolge quindi al Signore, al
quale chiede un sostegno: per coloro che in vita si degradano, ma soprattutto per le vittime di questi
uomini-animali, perché siano in grado di perdonare(217). Il sicario, costituitosi alla giustizia, appare tre
volte nel dramma, dalla sua cella in carcere: prova dapprima vergogna ricordando il sorriso di don Puglisi
di fronte al proprio braccio alzato contro la sua persona. Fa quindi appello a un “giudice” supremo perché
lo aiuti a provare dolore. Nel terzo intervento (che costituisce l’ultima scena del dramma) il sicario ha
acquisito un sapere, che è anche il sapere testuale: sa che il giudice
Pulizia, farà pulito di questa schifosa sgoratura di uomo
perché tale sono stato.
Chissà, pianterà un fiore al suo posto: il fiore del dolore.
E odorerò quel fiore,
allora ci sarà dolore anche per me.
Rinascerò in quel dolore.(218)
Dopo queste riflessioni il giudice appare. È don Puglisi, con il suo ultimo sorriso in vita, che porta
l’assoluzione, la salvezza: “Eccolo è qui, è venuto, / da dove siete entrato? Non vi ho veduto entrare /
eppure siete qui. Siete voi, padre Giuseppe, voi col vostro ultimo sorriso”(219). Se nei testi degli anni
Ottanta-Novanta la redenzione aveva luogo nel mondo di Dio, lontano da quel mondo perso che era la
realtà malvagia e controversa dell’uomo, ora la salvezza è terrena: per l’uomo esiste il perdono, gli esseri
umani grazie ai propri simili possono riscattarsi. Ancora in vita. Sottesa a Il fiore del dolore, sintomatica
della nuova fase a cui è approdata la poetica luziana, è una profonda fiducia nell’uomo.
Il male esiste, in “grandi quantità” anche – ed esemplare è l’uccisione da parte della mafia di un uomo,
per giunta semplice, della chiesa –, ma ha un suo valore. Dice un maestro parlando dell’assassinio di don
Puglisi: “Il male è il grande enigma del mondo / eppure il male ci fa uomini”. Aggiunge un secondo
maestro: “Ci dà la dignità dei nostri errori, è vero. / Ci rende responsabili come non lo sono gli
animali”(220). E rileva il vescovo, proprio prima dell’incontro finale tra il sicario e don Puglisi:
Ma guardiamo nel panorama umano che prodigiosa simmetria:
dove è più nero l’abominio sorgere l’astro più radioso
d’amore e costanza, rampollare timide
e poi più vigorose le sorgenti di sublimità
dai più putridi e fangosi ristagni del pantano, il genio e la energia della testimonianza,
prorompere dal più deietto stato dell’umanità perseguitata:
[…]
Dobbiamo avere occhi
25
per questa visuale che si offre alla nostra mediazione,
se apriamo le finestre del presente:
il quale tutto è, tutto contiene.(221)
Il male è parte integrante ed essenziale della realtà umana: da esso a sua volta scaturisce il bene.
Quanto al bene, al perdono, esso non viene più calato dall’alto, dal mondo di Dio, ma è offerto dall’uomo
all’uomo. Don Puglisi nella sua invocazione iniziale chiedeva un aiuto perché l’uomo-vittima fosse in grado
di perdonare. L’uomo torna definitivamente ad essere considerato – come nella raccolta poetica Sotto
specie umana e nei drammi La Passione. Via Crucis al Colosseo e Opus florentinum – un essere attivo.
Nel bene e nel male: sua la responsabilità del male, suo il merito di assolvere i propri “assassini”, di
portare il bene. Palermo diviene allora il mondo intero: fa da sfondo a una vicenda che è espressione
della natura umana(222).
Anche in questo testo c’è un’importante riflessione metaletteraria. Le scene sono tutte (tranne l’ultima)
caratterizzate dalla presenza di un opinionista, che si reca a Palermo per fare la cronaca e cercare di
capire l’accaduto. Nella prima scena egli è a colloquio con il proprio direttore, che gli attribuisce il compito
di sondare le reazioni nella città. Appare come maestro, maître à penser. Mestiere del giornalista è
l’interpretazione, viene detto. Nella seconda scena l’opinionista è solo e riflette sul compito assegnatogli:
egli non vuole tuttavia essere interprete, ma ascoltatore della realtà; dice nella sua mente al direttore:
Il pudore riguardo alla semplicità
irrefutabile dell’accadere delle cose:
il loro mistero elementare è più forte di me,
vince. Mi trasformerò, se vuoi,
per non restare in debito, in un tarlo che rode il silenzio
e l’omertà e fa parlare gli altri e li ascolta.
La maestà dell’accaduto e la pochezza del commento
rimangono, ma non sono offensivi.
Sì, talora la migliore opinione è non averne
né crederla possibile – questo l’avevo altre volte sospettato…(223)
L’opinionista decide di ridursi “a semplice presenza mediatica”(224). E da semplice presenza mediatica –
a partire dalla terza scena – si cala nei dialoghi dei cittadini di Palermo, assumendo il ruolo di narratore
con funzione autoriale, per raccogliere le interpretazioni date all’assassinio di don Puglisi: sente e
introduce le voci degli avvocati, dei magistrati, dei devoti, del vicario. A un certo punto tuttavia, proprio
ascoltando il vicario (che contrapponendo alla ricostruzione processuale laica una ricostruzione religiosa –
corrispondente alla lettura che il testo fa della vicenda – afferma che l’assassinio di don Puglisi non va
letto come un semplice assassinio ma come un martirio), non resiste a rimanere osservatore esterno
delle interpretazioni e interviene nella trama, aderisce alla realtà, prende parte egli stesso ai dialoghi.
Rivela in una delle scene finali:
È inutile, mi accorgo,
che voglia tenermi al di fuori del problema,
la mia presenza mediatica è solo astratta illusione.
Che altro faccio in verità se non
andare di luogo in luogo
chiedendo l’elemosina di un segno
convincente a interpretare il tempo? (225)
Nell’opinionista ha dunque luogo una trasformazione: inizialmente nutre sfiducia nella capacità
interpretativa umana, nei commenti, nelle parole riportate sui giornali. È una sfiducia che ricorda quella
delle poesie di Al fuoco della controversia, del trittico celeste, delle opere teatrali degli anni OttantaNovanta. L’opinionista capisce però che la parola umana può ed anzi deve raccontare, interpretare. Deve
farlo scavando in profondità, andando al di là della semplice sfera delle relazioni pragmatiche, sondando
le anime, entrando nella sfera religiosa. Non esiste un’arte che sia semplice presenza mediatica. Anche
perché non interpretare vorrebbe dire stare fuori del mondo, lontano dall’essenza delle cose.
L’opinionista-scrittore nell’ultima scena del testo sparisce, a intervenire è solo il sicario: è “il racconto
stesso a raccontarsi”(226), è l’arte di Luzi che si concede totalmente al mondo. Sono lontani,
decisamente superati, i tempi della poesia e del teatro come profezia, del testo come barlume del divino,
del poeta come scriba. Il fiore del dolore costituisce una dichiarazione di poetica: afferma il definitivo
ritorno dell’arte luziana al mondo e con esso, tra l’altro, l’autonomia dell’opera dal proprio autore. Il
dramma contiene un messaggio anche per il lettore. L’opinionista è figura del lettore: ascolta inizialmente
i commenti della città in modo distaccato. Poi a questo tipo di ascolto ne sostituisce un altro, fatto sì di
momenti di distacco, ma anche di momenti di adesione, di partecipazione. È solo il secondo tipo di
ascolto, attivo, passionale e riflessivo al tempo stesso, che permette di raggiungere il senso, il
sapere(227). Sulla vita, nel caso del lettore di Il fiore del dolore, e sull’arte.
26
1.14. Dalla terra al cielo, all’annullamento della distinzione fra trascendente e immanente
Con Ipazia, il dramma che dà il via alla serie di testi teatrali luziani, siamo ancora nel clima delle poesie di
Nell’opera del mondo, della concezione filosofico-esistenziale di quel periodo: Ipazia è un essere attivo,
che getta i semi per la continuità dei propri ideali, che partecipa alla creazione dell’universo, che afferma
la presenza della divinità, del sacro, nel mondo terreno, la trascendenza nell’immanenza. Anche per
quanto riguarda la concezione della letteratura, la poetica è la stessa: la parola, afferma Ipazia – figura
del sapere testuale –, deve consumarsi nella realtà dell’uomo, perpetuare a sua volta la vita sulla terra.
Dopo Ipazia, come dopo Su fondamenti invisibili, ha luogo un cambiamento: con Il messaggero –
dramma di poco anteriore al libro Al fuoco della controversia, con cui presenta analogie – subentra una
sfiducia nel genere umano, nella storia umana. Tale sfiducia tocca pure la comunicazione, anche quella
letteraria, che rischia di farsi inascoltata testimonianza. L’unica salvezza per la parola poetica – viene
indicato nel prologo del Libro di Ipazia, che unisce Ipazia e Il messaggero – è farsi rivelazione del mondo
altro, trascendente, delle origini, del dopo-vita. Una visione dell’arte, questa, che verrà pienamente
espressa dal libro di poesie Per il battesimo dei nostri frammenti. Proprio al periodo di Per il battesimo
appartiene Rosales, nel quale la figura di Dio padre, destinatore celeste, viene definitivamente riabilitata.
Con Rosales tornano anche la speranza e la caritas, valori propri della prima produzione poetica luziana
con i quali l’uomo può e deve vivere nell’attesa della redenzione, del passaggio al mondo di Dio. Quanto
alla concezione dell’arte, i drammi e la poesia vengono ora considerati come profezia del dopo, come
mezzo per portare in terra la parola sacra, sprazzi di luce divina, consolazione nell’attesa della salvezza.
Così anche in Hystrio e in Corale della città di Palermo per Santa Rosalia – drammi entrambi che si
situano tra Per il battesimo dei nostri frammenti e Frasi e incisi di un canto salutare, in pieno “trittico
celeste” dunque –, e così nei testi teatrali degli anni Novanta. In Hystrio la pienezza, la purezza si
trovano nel mondo altro; in Corale della città di Palermo per Santa Rosalia è la riconquista stessa del
divino a venir messa in scena, con il ritrovamento di Santa Rosalia da parte della popolazione di Palermo.
Il Purgatorio. La notte lava la mente, anticipando il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, l’ultima
opera del “trittico celeste”, interpreta l’esistenza come itinerarium ad Deum: viaggio di espiazione, di
purificazione in funzione del mondo di Dio. Tale visione torna nelle opere seguenti, in Felicità turbate, in
Ceneri e ardori. Il mondo umano è imperfetto, impregnato di dolore; il male e l’agonia vanno però fatti
propri, vissuti fino in fondo quale battesimo in funzione del dopo. Il sacrificio ravviva. La parola poetica a
sua volta, portando immagini divine, dice di far proprio il dolore e consola nell’attesa della perfezione.
Con La passione. Via crucis al Colosseo, che mette in scena il sacrificio cristiano per eccellenza, la
crocifissione di Cristo, la poetica luziana subisce una virata. Siamo nel 1999, esattamente nell’anno della
pubblicazione di Sotto specie umana. È l’essere umano ora al centro dell’attenzione, non più il mondo di
Dio. È un Cristo tutto umano quello raffigurato, che si sente abbandonato dal Padre, che vuole affermarsi
in vita. È un essere attivo che resiste. Il testo dubita di Dio. E il senso della vita torna a essere cercato in
terra. Anche in Opus florentinum – nonostante la pièce ruoti attorno alla costruzione di una basilica – il
senso sta nella realtà terrena, ora connotata anche positivamente: non più nell’espiazione della colpa
originaria in funzione del mondo dell’aldilà, ma nella costruzione per le generazioni future. Il male esiste
ancora, fa parte della realtà umana; all’umanità l’opera dà però fiducia. La divinità non viene negata, ma
appartiene definitivamente – come in Sotto specie umana – al mondo dell’uomo: realtà dell’uomo e realtà
divina sono un tutt’uno. Il teatro, l’arte – elementi della realtà umana (e anzi prodotto dell’uomo, non più
di uno scriba ispirato dall’alto) – hanno il compito anch’essi di edificare, di indicare la strada da seguire in
vita, di lasciare un segno per le generazioni future. Al tempo stesso l’arte – quella luziana in primis –
ricorda all’uomo i suoi limiti, richiama alla modestia, alla misura. Come Sotto specie umana, gli ultimi
drammi luziani non sono opere anti-religiose, ma anti-mistiche: il sacro esiste – con esso i valori –, è
nelle cose tutte, nella vita universa. Attraverso la vicenda di un prete e del suo assassino assoldato dalla
mafia, Il fiore del dolore postula definitivamente la possibilità di salvezza terrena: in terra esiste il
perdono, che riscatta, che ridà vita. Il bene non viene più dall’alto, ma è offerto dall’uomo all’uomo.
Quanto al male, esso responsabilizza gli esseri umani di fronte ai propri simili. Il fiore del dolore,
ripercorrendo l’iter effettuato dalla poetica luziana a partire dal “trittico celeste” quanto alla concezione
del ruolo dell’arte, offre una dichiarazione di poetica: mostra inizialmente una sfiducia nella capacità
interpretativa umana; sostituisce quindi a tale idea quella della necessità dell’interpretazione umana,
della partecipazione ai fatti del mondo, della lettura degli avvenimenti. Tale lettura deve essere effettuata
aderendo alle cose, andando in profondità, cercando le ragioni recondite dell’agire umano, la religiosità
delle creature, non fermandosi alle apparenze. Con Il fiore del dolore l’arte luziana torna a rivolgersi al
lettore: gli insegna come avvicinarsi all’opera, come leggerla: con adesione e passione intercalate a
distacco, riflessione.
Dal teatro luziano e dall’iter della poetica insita in esso – rivolta alla terra all’inizio degli anni Settanta,
indirizzata verso il cielo nella seconda metà degli anni Settanta e negli anni Ottanta e Novanta, che
annulla la distinzione tra immanente e trascendente alla fine del secolo – giunge una conferma di quello
che è lo sviluppo della visione filosofico-esistenziale dell’arte di Luzi riscontrato nei libri di poesia.
Sviluppo che, ancora una volta, altro non è che mutamento di prospettiva sul senso dell’esistenza umana,
sul valore della vita sulla terra(228). Anche il teatro luziano contiene poi riflessioni sul ruolo e sul potere
della comunicazione letteraria, ruolo e potere che si trasformano parallelamente al valore attribuito dalle
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opere all’esistenza umana: il teatro, l’arte sono, dapprima, voce e valorizzazione del mondo degli esseri
umani; quindi profezia del dopo; per ultimo espressione e affermazione della sacralità dell’universo.
Sarah Bernasconi
[Testo estratto da SARAH BERNASCONI, Tra cielo e terra. La metamorfosi del sacro nella poesia e nel
teatro di Mario Luzi, Firenze, Ed. Franco Cesati Editore - 2005. Per gentile concessione.]
Note.
(1) Ipazia è la prima di una lunga serie, ininterrotta, di pièce luziane; essa non è tuttavia il primo testo teatrale di
Luzi: Luzi aveva già scritto un’opera teatrale in gioventù, nel 1946, Pietra oscura (si veda il capitolo 2.2., nota 118).
Informazioni sulla stesura dei drammi luziani, sulla loro messa in scena e sulle edizioni, sono offerte da Maria Modesti
in M. Luzi, Il fiore del dolore, pp. 60-63.
(2) La pubblicazione della traduzione dell’Andromaca di Racine è del 1960, quella del Riccardo II di Shakespeare del
1966 (la traduzione risale al 1965).
(3) Dice Luzi in Colloquio, p. 198: “Fino ad allora io non avevo mai concepito alcuna ambizione teatrale, a un certo
momento all’intreccio stesso della poesia, una certa tensione, una certa morfologia drammaturgica erano venute fuori,
quindi era quasi inevitabile che il discorso prendesse quella direzione”.
(4) La scelta di utilizzare il verso per le proprie opere teatrali venne anche dall’esperienza delle traduzioni. Spiega Luzi
nella ristampa del 1990 della propria traduzione del Riccardo II di Shakespeare, p. 164: la pièce tradotta “piacque
anche agli attori che in genere temono il verso: anzi confessarono di essere stati, proprio dal verso, avvantaggiati. E
questa ammissione mi fu preziosa in seguito”.
(5) Si veda la prefazione di Luzi a L. Gajeri, Ipazia: un mito letterario, p. 9 (ad essere definita dal suo autore “poema
drammatico” è la pièce Libro di Ipazia).
(6) Si veda la premessa a La Passione. Via Crucis al Colosseo, p. 5.
(7) È Luzi stesso a spiegare la propria modalità di versificazione teatrale nella premessa a La Passione. Via Crucis al
Colosseo, pp. 5-6. Dove aggiunge che “gli attori in genere prediligono questo sistema libero e obbligante allo stesso
tempo”.
(8) Dice tra l’altro Luzi sui drammi moderni, in Colloquio, p. 225: “Io avevo già scritto, a proposito di Racine, che il
dramma, la tragedia nel senso paradigmatico della classicità, aveva perduto di probabilità nel nostro tempo, perché le
forze in conflitto non sono esplicite. La nostra epoca è troppo complicata e troppo corrosa internamente e quindi
troppo menzognera, troppo dissimulata, per esporre i fattori principali dei suoi contrasti, del suo contrasto di fondo.
Quindi quella lotta fra necessità e libertà, fra sogno e realtà, tra desiderio e adempimento che genera il tragico
primario, nella nostra epoca era improbabile”.
(9) Si pensi, ad esempio, a La Passione. Via Crucis al Colosseo, a Fiore nostro fiorisci ancora, entrambi del 1999, o ai
monologhi in versi di Parlate, del 2003. Il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, apparso nel 1994 come libro di
poesie, era stato inizialmente pensato come opera teatrale.
(10) Milano, Rizzoli. Poi in M. Luzi, Teatro (da cui cito).
(11) Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro.
(12) Il messaggero uscì su “L’approdo letterario”, XXIII (1977), 77-78, pp. 18-50.
(13) Il Libro di Ipazia venne rappresentato per la prima volta – secondo quanto si legge in M. Luzi, Teatro, p. 6 – a
San Miniato, nel luglio del 1979, sotto la regia di Orazio Costa (Guido Davico Bonino – in “Rosales” o il privilegio della
metamorfosi, in M. Luzi, Rosales, Genova, pp. 69-75, p. 71 – indica tuttavia che la prima rappresentazione ebbe luogo
a Firenze nel giugno del 1978).
(14) L’epoca scelta da Luzi ha un significato simbolico. Nota Fulvio Bianchi in Il libro di Ipazia. Mario Luzi e il dramma
di una crisi epocale, in “Resine”, n. s., XXI (1999), 80, p. 24 che il IV secolo dopo Cristo può essere considerato
“l’archetipo dell’età di transizione, di trasformazione ma anche di radicale rivolgimento d’un mondo in un altro […].
Alcuni avvenimenti cronologicamente ravvicinati, verificatisi tra la sua conclusione e l’avvio del secolo V, hanno infatti
un valore che travalica il senso proprio e circoscritto dell’evento in sé, per attingere valenza quasi simbolica,
assumendo la sgomentante natura di frattura della Storia”. Specifica Luzi a proposito dei personaggi di Ipazia e della
loro vicenda, in Moderni? Contemporanei?, in Discorso naturale, 1984, pp. 9-19, pp. 18-19 (il saggio era apparso, con
il titolo Il poeta tra modernità e contemporaneità, in Discorso naturale, 1980, pp. 11-22, pp. 21-22): “Mi ero
innamorato di queste figure e sentivo che avevano un senso. Era una cosa accaduta ma immessa nella eventualità
continua del mondo e per me non era finita col suo essere accaduta. […] nel mondo si sono consumate delle cose, si
sono manifestate delle cose che persistono e che sono nel divenire del mondo e possono intuitivamente riaffiorare
sotto varie specie. […] Ma forse si può fare l’ipotesi che il tempo della poesia, il tempo della lingua della poesia, è un
tempo in cui si incidono senza tempo le cose che sono sempre accadute e che sono sempre eventuali ed accadibili”.
(15) Sul mito di Ipazia si veda E. Gajeri, Ipazia: un mito letterario. Informazioni sul personaggio storico alle pp. 15-27.
(16) Ipazia personaggio storico venne uccisa nel 415 d.C.
(17) M. Luzi, Teatro, p. 41.
(18) Luzi in Moderni? Contemporanei?, in Discorso naturale, 1984, p. 18, definisce Ipazia una “martire laica”.
(19) Ibidem, p. 48.
(20) Ivi.
(21) Ibidem, pp. 34-37.
(22) L’“onnipresenza” della divinità veniva già annunciata nell’ultimo verso del prologo del Libro di Ipazia, p. 8.
(23) Si legge a proposito dell’Ipazia luziana in E. Gajeri Ipazia: un mito letterario, p. 140: “Ipazia, in Luzi, può dirsi
compiuta soltanto dopo questa rivelazione, allorquando percepisce la necessità di travalicare i limiti stessi della
ragione”. Rileva Anna Panicali nel Saggio su Mario Luzi, p. 212, riferendosi a Ipazia: “Nel percorso poetico luziano il
teatro non fa che sviluppare la sostanza dialogica del conoscere. Rappresenta l’intima necessità del pensiero di
confrontarsi con l’altro; di varcare – attraverso il contrasto e la domanda – la soglia dell’identico, per pensare la
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diversità”. Il poema drammatico è costituito di un solo atto, diviso in quattro scene: i dialoghi con la voce della
divinità-alter ego e con Sinesio hanno luogo nella terza scena. Scena dopo la quale è individuabile una cesura: qui la
divisione tra la macrosequenza A e quella B del testo. Solo grazie alla conoscenza acquisita nel dialogo con la voce
(macrosequenza A), Ipazia potrà fare il fatidico passo, potrà andare verso la morte, e al tempo stesso unirsi
simbolicamente all’intera umanità, anche alla parte “nemica”, facendola propria mentre viene uccisa da essa
(macrosequenza B). Anche la disgiunzione nella relazione con Sinesio che caratterizza le prime tre scene – Sinesio
deve dissuadere la donna, il colloquio si conclude con un addio – si trasforma nell’ultima scena in una congiunzione,
non fisica, ma dell’“anima”: Sinesio capisce che Ipazia ha ragione, che in passato avevano peccato, non avevano
ascoltato il popolo, portando i propri ideali nel mondo senza realmente aderire ad esso. In entrambi i personaggi tra A
e B ha luogo una trasformazione. I piani spaziale e attanziale contribuiscono a segnare il cambiamento: con un ritorno
in B alla casa di Sinesio (unico luogo che si ripete nella pièce) e con una riapparizione in B di personaggi intervenuti
separatamente nelle diverse scene di A.
(24) M. Luzi, Teatro, p. 39. A proposito dell’importanza del “bruciare”, dice Luzi in Colloquio, p. 203: “Il fuoco è proprio
l’elemento su cui si esercita l’azione degli alchimisti o per meglio dire, l’alchimia, la trasformazione, la ricerca della
riduzione a un unum […]. Prevale questo senso metamorfico della realtà che tende verso l’essere pieno, unico,
unificato”.
(25) Ibidem, p. 31. Afferma Luzi in Colloquio, p. 206, a proposito di Ipazia e delle altre donne che appaiono nell’intero
Libro di Ipazia: “Questa femminilità nelle sue sfaccettature e nelle sue incarnazioni, […] è un assoluto sempre, è
indivisa non è mediata, non è pattuita l’immagine del mondo che loro ti propongono e non è pattuita la volontà di
rimanere fedeli a questa immagine, di agire secondo questi convincimenti. Ecco, l’uomo è invece più mescolato alle
condizioni, è più condizionato […]. Tutti questi personaggi sono immersi in una catena di relatività che impedisce […]
l’accoglienza piena dell’offerta della donna, come offerta simbolica ma anche vitale ed esistenziale”.
(26) M. Luzi, Teatro, pp. 38-39.
(27) Ibidem, p. 40.
(28) Così si legge a proposito di Ipazia in A. Panicali, Saggio su Mario Luzi, p. 213: “Il teatro luziano non è che la
scena in cui s’intesse la storia del linguaggio: come un rito che celebra il sogno della parola poetica di trattenere in sé
grumi di vita, di trasmetterli e continuare a vivere oltre la morte del soggetto”.
(29) Nota Luigi Baldacci sui personaggi del dramma, in Una testimonianza sul “Libro di Ipazia”, in Mario Luzi. Atti del
convegno di studi, Siena, 9-10 maggio 1981, a cura di A. Serrao, p. 56: “Si servono di una cultura che parte dal Logos
per tornare al Logos, che ha come oggetto il Sommo Bene: e invece la rete delle loro parole s’invischia fatalmente nel
male della storia, che è la nuova dimensione nella quale ormai l’uomo si muove da quando il Verbo si è fatto Carne”. E
a proposito dell’intero dramma, Ibidem, p. 57: “È una meditazione che trae la propria forza dalla capacità di
coinvolgere tutta la storia, di svelarne la dolorosa e ferrea necessità e quasi vorremmo dire – se questo ossimoro non
sembrerà troppo forte – l’inutile necessità”. Sul pessimismo di Il messaggero si veda la nota 247 nel capitolo 4.1. su Al
fuoco della controversia.
(30) Anche Sinesio è un personaggio storico. Suo un Epistolario di lettere a Ipazia, di cui fu allievo. Fu proprio il
vescovo nativo di Cirene a gettare i primi semi per la creazione del mito letterario di Ipazia. La sopravvivenza di
Sinesio a Ipazia è un’invenzione luziana. Informazioni sul personaggio storico e sul suo Epistolario si trovano in E.
Gajeri, Ipazia: un mito letterario, pp. 22-33.
(31) M. Luzi, Teatro, p. 54.
(32) Ibidem, p. 70
(33) Ibidem, p. 74. “Enigma” appare ed è anzi parola-chiave anche in Al fuoco della controversia.
(34) Ibidem, p. 75.
(35) Ibidem, pp. 75-76.
(36) Il messaggero è costituito di sette scene. Nelle prime sei – la macrosequenza A del testo – ha luogo la
trasformazione di Sinesio: lontano dal mondo, viene riportato nel mondo da Irene, e grazie a lei viene a conoscenza
dei propri errori, riapprende la lezione di Ipazia. Nell’ultima scena – che costituisce la macrosequenza B – Sinesio
grazie al sapere acquisito fa sacrificio di sé. A livello discorsivo nella macrosequenza B emerge però la profonda
disillusione quanto alla vita sulla terra, la sfiducia nel genere umano. Il panorama, per quanto riguarda l’effettivo
potere dell’azione umana, rispetto alla macrosequenza B di Ipazia è completamente mutato.
(37) Afferma Luzi, in Colloquio, p. 205, a proposito del Sinesio del dopo Ipazia: “È un uomo che sente di essere in un
certo modo sopravvissuto, non a se stesso, ma al tempo della sua ragione di vita, al tempo della sua accensione
intellettuale, della sua speranza d’interpretazione del mondo insomma. Quindi è un personaggio disancorato,
potremmo dire”.
(38) M. Luzi, Teatro, pp. 86-87.
(39) Ibidem, p. 95.
(40) Ibidem, p. 87.
(41) Ivi.
(42) Ibidem, p. 93.
(43) M. Luzi, Fu così che, Ibidem, p. 100.
(44) Ibidem, p. 7.
(45) Ibidem, p. 8.
(46) M. Luzi, Fu così che, Ibidem, p. 100.
(47) Ibidem, p. 96.
(48) Ivi.
(49) Contemporaneamente: Milano, Rizzoli, e Genova, Edizioni del Teatro di Genova. Poi in M. Luzi, Teatro (da cui
cito). Il dramma venne rappresentato per la prima volta il 2 maggio 1983 a Firenze, nell’ambito del 46º Maggio
Musicale Fiorentino.
(50) M. Luzi, Teatro, p. 121.
(51) Ibidem, p. 110.
(52) Ibidem, p. 123.
(53) Ibidem, p. 192.
(54) Ivi.
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(55) Il dramma è costituito complessivamente di tre atti, separati da due Intermezzi. I primi due atti possono essere
considerati le sequenze A1 e A2, il terzo atto la macrosequenza B. Tra A1 e A2, per quanto riguarda i due principali
attori, Rosales e Markoff, c’è una trasformazione: in A2 appaiono mutati rispetto a quella che è l’immagine quasi
stereotipata delle loro vite: non più eroi rispettivamente di rapporti amorosi e di un’ideologia, ma uomini che sanno di
aver sbagliato e che scoprono il giusto comportamento nella vita. La scoperta (che avviene – si noti – ancora una volta
nell’incontro con due donne: rispettivamente Anna, la figlia di Ester amata da Rosales, morta al momento dell’incontro
ma da Ester ricordata; e una suora) permetterà ai due di andare a testa alta verso la morte, che ha luogo in B, verso il
mondo di Dio. La morte rappresenta una rinascita, una sorta di battesimo alla luce del nuovo sapere. I due Intermezzi,
come i cori del teatro greco, sono luoghi del testo nel quale appare il sapere testuale. In essi c’è una prefigurazione del
contenuto degli atti che li seguono. In entrambi fa la propria apparizione Dio. Nel primo Intermezzo la divinità si
aggira, è presente, a disagio, nella stanza in cui stanno un Rosales irrequieto che guarda ancora al passato e una Ester
che “arroventa” la tragedia (p. 152). Due modi “sbagliati”, dice il testo al lettore, di comportamento. Nel secondo
Intermezzo al mondo umano, nel quale lo spirito è assente, nel quale i corpi sono solo sostanza, viene contrapposto un
mondo altro, “città altre e lontane”, il mondo di Dio (p. 174).
(56) M. Luzi, Teatro, p. 155.
(57) Spiega Luzi in Colloquio, p. 212: “Io ho sentito sulla scia della insoddisfazione, della vecchiaia, della stanchezza
anche, ho sentito che nasceva un percorso in cui Eros si trasforma […] in senso cristiano, in carità. Ecco, questa è la
scoperta della carità; Don Giovanni deve riaccumulare le sue amarezza, le sue sconfitte, i suoi veleni, ma per arrivare
a questa rivelazione, che in fondo all’eros può esserci la trasfigurazione in carità”.
(58) M. Luzi, Teatro, p. 167. Sulla presenza di San Paolo nell’opera luziana degli anni Ottanta e della prima metà degli
anni Novanta si veda il capitolo 4.2. (su Per il battesimo dei nostri frammenti), pp. 101-02. Si veda anche M. Luzi, Sul
discorso paolino, in San Paolo, Le lettere, a cura di C. Carena, p. XI.
(59) M. Luzi, Teatro, p. 194.
(60) Ibidem, p. 191.
(61) Ibidem, p. 121.
(62) Ibidem, p. 122.
(63) Ibidem, p. 131.
(64) Ibidem, p. 110-11.
(65) Milano, Rizzoli. Poi in M. Luzi, Teatro (da cui cito). La prima rappresentazione ebbe luogo l’8 settembre 1987 a
Siracusa, nel Teatro dell’Ara di Ierone.
(66) La trama rimanda sul piano referenziale – hanno notato diversi esegeti – alla vicenda che coinvolse il dittatore
bulgaro Todor Zhivkov (sua figlia gli si ribellò). Zhivkov rimase al potere dal 1954 al 1989. Luzi indica però, in
Colloquio, pp. 218-19, che egli aveva un po’ anticipato un tema “su una realtà che poi ho riscoperto quasi tale e quale
in Bulgaria. […] Mi sono anche ricordato di certe atmosfere da jeunesse dorée del regime fascista di Edda Ciano e,
diciamo, di tutti i contorni della dittatura e li ho poi, in un certo senso, proiettati in una realtà analoga, anche se
contraria, in un paese tirannico”.
(67) M. Luzi, Teatro, p. 277.
(68) Ibidem, p. 294.
(69) Il testo è costituito di quattro tempi (atti): i primi due formano la sequenza A1. In essa vengono messi in atto i
due programmi, quello di Sergio e quello di Giulia. Il terzo tempo è A2, la sequenza del rito, del battesimo,
dell’acquisizione del sapere necessario perché la morte-sacrificio possa avere luogo e senso. Il quarto tempo
corrisponde alla macrosequenza B. In essa vi è la realizzazione del programma di Giulia: la liberazione –
paradossalmente nella morte – da una vita-non vita, la salvezza da un mondo falso e corrotto.
(70) M. Luzi, Teatro, p. 277.
(71) Nel testo appare in tre momenti un dialogo tra due voci, che fungono da coro. Spesso nelle riflessioni del coro è
contenuto il sapere testuale. Prima del terzo tempo, quello del battesimo, le due voci parlano all’unisono, preludendo a
quella che sarà la scoperta da parte di Hystrio e Giulia del mondo altro, puro e intatto, introducendo la divinità
onnisciente, trascendente. Dicono a proposito della coppia, Ibidem, p. 262: “Sanno essi già, / ciascuno nella sua
prescienza – / o non è vero sapere, quello, / è solo inarrestabile / deflusso di vita / e di volontà? / Verso la foce? Verso
la luce? Sanno essi già / o solo chi li osserva / dall’alto del suo ponte, solo costui sa?”.
(72) Ibidem, p. 310.
(73) Osserva Giorgio Mazzanti in Hystrio: la tragedia della ripetizione, in Pensiero e poesia nell’opera di Mario Luzi, a
cura di S. Mecatti, pp. 103-06: “Luzi, che teorizzava di dover immergersi, coinvolgendovisi, nel magma della vita, di
tuffare la poesia nella storia, nel fuoco della controversia, giunge ora a trovare la salvezza fuori della storia. […] Qui
approda il “cristianesimo” di Luzi, il segreto lievito del suo dramma. Senza pesanti apologie il poeta legge nella vicenda
di Cristo la parola e il Fatto decisivi per l’intero dramma della storia umana. Pur dentro il tempo dell’attesa, pur dentro
una storia che sembra procedere ignara del Sacrificio, il Sacrificio rimane, e Giulia in esso. […] Luzi vede nel sacrificio,
nel dono della vita, nello spargimento del sangue la forma suprema dell’amore. La morte del giusto salva la storia”. Il
parallelismo tra Cristo e Giulia è tra l’altro esplicito nel testo, nella scelta del dramma incentrato su Tiberio da far
recitare a Hystrio. Dicono due personaggi sulla congiura di Sergio, M. Luzi, Teatro, p. 280: “MARTIN Immaginiamolo,
Berek, in quella augusta veste… / Tiberio, il riabilitato principe, / la sua umile / e sovrumana dedizione / allo Stato ed
al popolo che lo esecra / e lo diffama… Oh santo uomo…! RADIK Sotto cui volle / soffrire la sua passione Cristo…”.
L’imperatore romano Tiberio era al potere quando Cristo morì in croce.
(74) Ibidem, p. 307.
(75) Ibidem, p. 306.
(76) Ibidem, p. 293.
(77) Ibidem, p. 243.
(78) Il prologo contiene una prefigurazione di quello che è il senso del testo, senso a cui il lettore approda solo nella
macrosequenza B (quarto tempo). La segmentazione del testo potrebbe essere rivista considerando il prologo la
macrosequenza A, il resto dell’opera la B, suddivisa poi al suo interno come è già stato proposto.
(79) M. Luzi, Teatro, p. 203.
(80) Ibidem, p. 204.
(81) L’idea del “teatro del mondo”, dell’inversione dei ruoli tra realtà e finzione, e del “teatro nel teatro” ha una sua
lunga tradizione: con De Unamuno in Spagna, con Pirandello in Italia solo per citare due grandi esempi. È proprio con
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Pirandello, con il suo Sei personaggi in cerca d’autore, che il “teatro nel teatro” diviene uno dei tratti distintivi del
dramma moderno. Luzi riprende qui la “tecnica”, utilizzandola per sviluppare il proprio discorso sul senso dell’esistenza
umana. Nota Giorgio Mazzanti, in Hystrio dramma della salvezza, in “Città di vita”, XLV (1990), 3, p. 227:
“Avvicinando Hystrio […] si può credere che l’autore abbia sentito l’esigenza di riflettere sulla creazione artistica,
sull’organizzazione dell’opera drammatica, sul teatro e sui ruoli del drammaturgo e dell’attore. Qualcuno può anche
pensare ad una impostazione pirandelliana: Luzi cerca di pervenire all’autentico nucleo della personalità umana
smarrita sotto tante maschere, in tante parti recitative della vita. Ma l’intenzione profonda sembra essere quella di
voler riflettere sul destino dell’uomo nell’intrico dei suoi problemi affrontando quegli elementi storici e sociali di cui è
intessuta la trama dell’esistenza”.
(82) M. Luzi, Teatro, p. 219.
(83) Giorgio Mazzanti in Hystrio dramma della salvezza, in “Città di vita”, XLV (1990), 3, p. 230, vede Giulia come
“pienezza e spontaneità di vita”, “vera epifania del “divino””: “È il luogo del divino, dell’amore e della verità”.
(84) M. Luzi, Teatro, p. 206.
(85) Ivi.
(86) Ibidem, p. 262.
(87) Ibidem, p. 282.
(88) Ibidem, p. 284.
(89) Genova, S. Marco dei Giustiniani, 1989. Poi in M. Luzi, Teatro (da cui cito). Come Rosales, Corale della città di
Palermo per Santa Rosalia si situa tra le opere poetiche Per il battesimo dei nostri frammenti e Frasi e incisi di un
canto salutare. La pièce venne rappresentata per la prima volta a Palermo il 4 luglio 1989.
(90) M. Luzi, Come e quando, in Teatro, p. 385.
(91) “Sempre portano le pestilenze questo sfacelo / nei corpi, nella volontà, negli animi, / sempre alterano le usanze
e le regole. / Talora distruggono i più elementari sensi / di affetto e di pietà, perfino paterni, perfino filiali. / Le
pestilenze incombono sempre o molto spesso, / le pestilenze sono sempre presenti / come minaccia oscura o come
palese malattia / dell’anima e del corpo, e più ancora della mente”, Ibidem, p. 323.
(92) Ibidem, p. 380.
(93) Ibidem, p. 365.
(94) Ibidem, p. 320.
(95) Ibidem, p. 316.
(96) Ibidem, p. 317.
(97) Ibidem, p. 350.
(98) Ivi.
(99) Ibidem, p. 355.
(100) Ibidem, p. 317.
(101) Ibidem, p. 380.
(102) Ibidem, p. 353.
(103) Ibidem, p. 376.
(104) Ibidem, p. 318.
(105) Spiega il cardinale nell’ultima scena del testo, prima dell’epilogo, parlando alla comunità del senso di quanto
avvenuto, Ibidem, pp. 378-79: “il tesoro era già in voi. / […] E ora l’avete dissepolto, / scavato nel macigno / del
cuore e nella notte della mente. / Così era con voi l’incontro. / E la ricongiunzione / era con voi, con il divino in voi. /
Santa Rosalia era il trionfo / della riconciliazione, / della guarigione / dalla pestilenza di oggi / e da ogni altra malattia.
/ Questo vi dice il vostro vescovo / perché lo ricordiate. Perché il male / non è vinto, è solo sconfitto, dunque / il male
ritornerà. Pregate Rosalia, / se davvero la pregherete / sarete già guariti. Rosalia vincerà”.
(106) Genova, Costa & Nolan. Poi in M. Luzi, Teatro. Il dramma venne rappresentato per la prima volta il 2 marzo
1990 a Prato.
(107) M. Luzi, Notizia, in Teatro, pp. 491-92.
(108) Ibidem, p. 419.
(109) Ivi.
(110) Ibidem, p. 439.
(111) Ibidem, p. 486.
(112) Ibidem, pp. 419-20. Quest’ultimo verso e quelli che lo seguono – “La notte lava la mente. / Poco dopo si è qui
come sai bene, / file d’anime lungo la cornice, / chi pronto al balzo, chi quasi in catene. / Qualcuno sulla pagina del
mare / traccia un segno di vita, figge un punto. / Raramente qualche gabbiano appare” – appartengono a una poesia
di Onore del vero, in M. Luzi, Tutte le poesie, 1998, p. 254; in M. Luzi, L’opera poetica, p. 252. Più precisamente
all’ultima poesia di Onore del vero, l’ultima dell’intera raccolta Il giusto della vita. Il clima era purgatoriale; la poesia
cita persino il Purgatorio di Dante, canto XI, v. 29: “e lasse su per la prima cornice”. Allora tale focalizzazione nei testi
del “purgatorio dell’esistenza umana” era un passo verso le raccolte seguenti, verso Nell’opera del mondo: era una
prima attribuzione di attenzione e di valore (di onore) alla misera e tragica esistenza umana. Ora, in Il Purgatorio. La
notte lava la mente lo sguardo non è più proiettato verso la terra, ma verso il cielo: è sottolineata la necessità
dell’espiazione in funzione del dopo.
(113) M. Luzi, Notizia, in Teatro, p. 492.
(114) Sintomatica la scelta del Purgatorio per la messa in scena della Divina Commedia: è nella cantica del Purgatorio
che nella Divina commedia vi è il passaggio vero e proprio, con l’approdo al Paradiso terrestre e l’incontro con
Beatrice, al mondo divino.
(115) Aveva spiegato Luzi nel 1987 in L’esilio, Dante, la poesia, ora in M. Luzi, Scritti, pp. 175-82, p. 182; e in M. Luzi,
Naturalezza del poeta, pp. 200-08, p. 207: “La parte della Commedia che esprime più direttamente questa
fondamentale struttura concettuale e metafisica dell’esilio è pour cause il Purgatorio. Nel Purgatorio si attuano per
coincidenza le due condizioni essenziali: quella della perdita e del rimpianto e quella dell’esclusione dal sommo gaudio.
Progressivamente le anime si spostano dalla prima alla seconda, il primo senso di sradicamento cede al desiderio e
all’attesa; l’allora è offuscato e cancellato dal non ancora”.
(116) M. Luzi, Notizia, in Teatro, p. 493.
(117) Milano, Garzanti. Poi in M. Luzi, Teatro (da cui cito).
31
(118) La pièce venne rappresentata per la prima volta solo nel 1996, a un anno dalla morte di Paola Borboni, a Borgio
Verezzi. Sull’incontro tra Mario Luzi e Paola Borboni e sulla genesi del dramma si veda M. Luzi, Per un omaggio,
Ibidem, pp. 411-14.
(119) Ibidem, p. 404.
(120) Ivi.
(121) Ibidem, p. 407.
(122) Ibidem, p. 408.
(123) Il prologo, che esplicita lo scopo dell’opera – coronare la carriera di Paola Borboni – e il compito del dramma e
del teatro in generale – portare l’essenza, svelare (in questo caso svelare l’atteggiamento da assumere nei confronti
dell’esistenza umana) –, costituisce la macrosequanza A. Esso anticipa il sapere a cui approderanno Paola personaggio
e il lettore alla fine del dramma (nella sequenza B2). La recita-non recita di Paola personaggio costituisce la sequenza
B1. L’apparizione della Maschera-teatro – che rivela il ruolo e il potere del teatro, di trascendere le esistenze umane –
e l’acquisizione di sapere da parte di Paola sull’atteggiamento da assumere nei confronti della vita – sorridere con
compassione al mondo – costituiscono la sequenza B2.
(124) M. Luzi, Teatro, p. 108.
(125) Milano, Garzanti. La prima rappresentazione ebbe luogo nell’ambito del 58° Maggio Musicale Fiorentino, il 6
giugno 1995, a Firenze.
(126) Jacopo Carrucci di Pontorme, Empoli, 1494-1556.
(127) M. Luzi, Felicità turbate, p. 9.
(128) Ibidem, p. 15.
(129) Ibidem, pp. 22-23.
(130) Ibidem, p. 23.
(131) Ibidem, p. 20.
(132) Ibidem, pp. 27-28.
(133) Ibidem, p. 29.
(134) Ibidem, p. 30.
(135) Ibidem, pp. 50-51.
(136) Ibidem, p. 63.
(137) Ibidem, p. 57.
(138) A livello discorsivo il prologo costituisce la macrosequenza A, in essa vengono introdotti il personaggio e il
momento storico: grandioso e inquietante al tempo stesso. Il resto del testo costituisce la macrosequenza B. La
sequenza B1 è formata dalla parte in cui la Memoria e personaggi cinquecenteschi parlano dell’artista e da quella in cui
è lo stesso Pontormo ad apparire in scena (viene percorsa l’intera vita del personaggio, da quando era una ragazzo alla
vecchiaia; il passare del tempo è poi accompagnato da una trasformazione, da un intensificarsi della luminosità nelle
opere); la sequenza B2 contiene il dialogo tra il Bronzino e il Vasari, che rende esplicito il sapere testuale: la
necessaria assunzione della vita quale espiazione in funzione del mondo del dopo.
(139) M. Luzi, Felicità turbate, p. 66.
(140) Ibidem, pp. 66-67.
(141) Ibidem, p. 70.
(142) Ivi.
(143) Ibidem, p. 23.
(144) Milano, Garzanti.
(145) Henri-Benjamin Constant de Rebecque nacque nel 1767 a Losanna e morì nel 1830 a Parigi.
(146) M. Luzi, Ceneri e ardori, p. 7.
(147) Ibidem, p. 29.
(148) Ivi.
(149) Ibidem, p. 35.
(150) Ibidem, p. 37.
(151) Ibidem, p. 49. Si veda il commento di Luzi in Il sacro nell’epoca della modernità, in Il sacro nella poesia
contemporanea, a cura di G. Ladolfi e M. Merlin, pp. 11-12.
(152) Ibidem, pp. 49-50.
(153) Ibidem, p. 50.
(154) Ivi.
(155) Ibidem, p. 51.
(156) Ibidem, p. 58. Tra il 1824 e il 1831 di Benjamin Constant personaggio storico vengono pubblicati cinque volumi
di un’opera che si intitola De la religion.
(157) Afferma Juliette: “Benjamin, non ti sembri una sciocchezza / né una futilità. Ti amo veramente / e totalmente
per la prima volta”, in M. Luzi, Ceneri e ardori, p. 73.
(158) Ivi.
(159) Ivi.
(160) Ibidem, pp. 73-74.
(161) Ibidem, p. 50.
(162) Ibidem, p. 53.
(163) Ibidem, p. 74. Sulla figura femminile in Ceneri e ardori dice Luzi, in Colloquio, pp. 293-94: la donna “è anche
appunto la natura, la natura nella sua profonda accezione che si contrappone, o si confronta, comunque, con la storia,
perché quella di Benjamin Constant è un’esistenza proprio tipicamente storica […]. È un uomo che ha vissuto il suo
tempo e l’ha vissuto essendoci dentro, fino in fondo. E questo universo femminile l’ha accompagnato, l’ha protetto
anche, ne ha protetto il senso, il senso universale”. Torna così la figura della donna-madre, comprensiva, che sa
attendere e sperare, più vicina alle origini, che insegna a vivere con carità l’attesa, già presente nelle liriche di La
barca.
(164) M. Luzi, Ceneri e ardori, p. 75.
(165) Ivi.
(166) Ibidem, p. 79.
(167) Ibidem, p. 10.
32
(168) Ibidem, p. 41.
(169) Ibidem, p. 77.
(170) Ibidem, p. 52.
(171) Ibidem, p. 53.
(172) Milano, Garzanti, 1999. L’opera venne rappresentata il Venerdì Santo del 1999.
(173) Ibidem, p. 6.
(174) M. Luzi, Colloquio, p. 289. In Colloquio c’è un altro passaggio a questo proposito, p. 148: “Mi commuove la
Resurrezione, però mi convince più ancora questa croce, questa incarnazione della sofferenza del cosmo che si
riassume sinteticamente in un uomo, in un organismo umano, e simbolicamente e anche forse esistenzialmente
nell’abbandono, nel dolore”.
(175) M. Luzi, La Passione. Via Crucis al Colosseo, p. 11.
(176) Ivi.
(177) Ivi.
(178) Ibidem, p. 23.
(179) Ivi.
(180) Ibidem, p. 28.
(181) Ibidem, p. 32.
(182) Ibidem, pp. 35-36.
(183) Ibidem, p. 36.
(184) Ibidem, p. 51
(185) Ibidem, p. 59.
(186) Ibidem, p. 60.
(187) Ivi.
(188) Ibidem, p. 65.
(189) Ibidem, p. 75.
(190) Ibidem, p. 65.
(191) Locarno, Dadò. La prima rappresentazione ebbe luogo nella basilica al centro del dramma, Santa Maria del Fiore,
a Firenze, il 26 settembre 2002.
(192) Firenze, Passigli. La rappresentazione ebbe luogo nel duomo di Firenze il 2 ottobre 1999.
(193) M. Luzi, Opus florentinum, p. 5.
(194) 1. Camminata verso casa, 2. Nel grande spiazzo, 3. Rito di fondazione, 4. In loco.
(195) 1. Parlata operaia, 2. Preludio battesimale, 3. Tra santa Reparata e santa Maria del Fiore, 4. Nel silenzio dei
canonici, 5. Tra due monache, 6. Parlata di mercanti, 7. Fiore della fede.
(196) M. Luzi, Opus florentinum, p. 27.
(197) Dal punto di vista narratologico si può dire che nella prima parte si ha la fase virtuale della costruzione, nella
seconda la costruzione viene attualizzata e, con l’ultima scena, realizzata.
(198) Di queste due scene è costituito Fiore nostro fiorisci ancora. La Parlata operaia è però addirittura il primo
elemento dell’opera ideato da Luzi (apparve nel 1997 in M. Luzi, Mari e monti). Spiega Luzi in Opus florentinum, p. 5:
“Un giorno […] trasognato immaginai di ascoltare un dialogo tra due operai del cantiere sotto la cupola brunelleschiana
in costruzione. Bastarono quel brio calibrato e quel battibecco assennato a ravvivare una storia intera nel grande corpo
che l’aveva nutrita e n’era a sua volta stato nutrito: e soprattutto nell’anima che l’aveva abitata fino dalla sua nascita”.
La Parlata operaia è l’unica scena in prosa del testo (il passaggio dai versi alla prosa conferma la cesura, sul piano
discorsivo, già indicata nel testo con la suddivisione in due parti, tra macrosequenza A e B).
(199) M. Luzi, Ibidem, p. 38.
(200) Ivi.
(201) Ibidem, p. 49.
(202) Ivi.
(203) Ivi.
(204) Ivi.
(205) Luzi fece queste dichiarazioni in occasione della presentazione dell’opera. Si veda S. Bernasconi, E. Spoerl, Nella
cattedrale la Storia, in laRegioneTicino, 11.7.2002, p. 2.
(206) Dice Luzi a proposito della cupola del Brunelleschi in M. Luzi, R. Cassigoli, Frammenti di Novecento, p. 72: “È
una sfida. Una sfida al tempo, alle bassezze umane, alla parte negativa dell’uomo”.
(207) M. Luzi, Opus florentinum, pp. 51-52.
(208) Luzi nell’Introduzione a Opus florentinum, p. 5: “Quella che parla per tutti ed è stessa ab antiquo, aperta però a
tutto il dopo, è la voce di Santa Maria del Fiore, la madre di tutte le chiese fiorentine, la sede eletta dell’anima e della
coscienza della irrequieta città, nonché della confusa umanità che cerca la sua via”.
(209) Ibidem, p. 66.
(210) Ibidem, p. 68.
(211) Ivi.
(212) Firenze, Edizioni della Meridiana. La prima rappresentazione ebbe luogo nel marzo del 2003 a Palermo. L’opera
venne commissionata dal Teatro Biondo della città.
(213) Don Pino Puglisi venne assassinato con un colpo di pistola alla nuca il 15 settembre 1993. Per il parroco è oggi in
corso un processo di beatificazione. Ulteriori informazioni sulla vicenda reale in R. Ricchi, Il dolore e la penitenza di don
Pino Puglisi, in “Città di vita”, LVI (2001), 2, pp. 171-72.
(214) Affermano alcuni anziani dopo la morte del parroco in M. Luzi, Il fiore del dolore, p. 29: “E del martirio non
sappiamo niente…/ Molti cadono per amore, per la causa, per il servizio. / Chi è martire? Non pareva che padre Puglisi
si fermasse / su queste sovrannaturali dignità”.
(215) Il prologo è ispirato a una delle ultime omelie del parroco.
(216) M. Luzi, Il fiore del dolore, p. 9.
(217) Ivi.
(218) Ibidem, p. 58.
(219) Ibidem, p. 59. Il prologo costituisce la macrosequenza A (in esso è già contenuto il sapere testuale), il resto del
testo – le seguenti tredici scene – costituisce la macrosequenza B. Macrosequenza che è a sua volta suddivisa in B1 (le
33
prime dodici scene) e B2 (l’ultima scena, nella quale il sicario grazie all’intervento di padre Puglisi subisce una
trasformazione, riesce a provare quel dolore che gli permette di rinascere alla vita. Il perdono e il pentimento
rappresentano la realizzazione di quelle che erano le quête rispettivamente del prete e del suo assassino: il primo
intendeva aiutare il proprio uccisore, il secondo potersi pentire).
(220) Ibidem, p. 37.
(221) Ibidem, pp. 56-57.
(222) Afferma Luzi in R. Ricchi, Il dolore e la penitenza di don Pino Puglisi, in “Città di vita”, LVI (2001), 2, p. 172:
“Sull’episodio in sé il mio dramma non torna: l’ho dato come un assoluto della storia cittadina di Palermo,
naturalmente con un significato più che palermitano, cioè universale”.
(223) M. Luzi, Il fiore del dolore, p. 15.
(224) Ibidem, p. 16.
(225) Ibidem, p. 55.
(226) Ibidem, p. 38. Il sapere testuale sul “raccontare” e sul ruolo dell’autore è contenuto nel commento di un
maestro alla dichiarazione di un ragazzo di aver condotto il sicario da don Puglisi: “Se anche lo avesse raccontato per
filo e per segno / non sarebbe il suo racconto / ma il racconto stesso a raccontarsi. Come sempre”.
(227) “Il tempo di Palermo è quello dell’uomo?” arriva a concludere l’opinionista nel suo ultimo intervento, con una
domanda che vuole lasciare l’interpretazione aperta ma che al tempo stesso vuole anche essere affermazione, Ibidem,
p. 55.
(228) Il teatro luziano mette più volte in scena il martirio, il sacrificio di sé, l’assunzione della morte da parte dei
protagonisti. La critica di tipo tematico, nella quale si annoverano numerosi esegeti di Luzi, si limiterebbe a questa
constatazione e alla considerazione del “gesto” quale filo rosso dell’opera teatrale. La critica di tipo semiotico insegna
invece a considerare un testo come un insieme completo portatore di un proprio preciso significato. Il sacrificio assume
allora un valore differente a dipendenza del testo in cui si trova e del discorso in esso condotto: è morte come
affermazione sino all’ultimo della vita quello di Ipazia, atto di fede nel mondo di Dio quello di Rosales, agonia vissuta
sino in fondo quale azione espiativa in funzione dell’aldilà quello di Constant. Il sacrificio stesso per antonomasia,
quello del Cristo, rappresentato in La Passione. Via Crucis al Colosseo, non va letto come gesto dovuto al Padre, come
azione funzionale alla resurrezione, ma nel discorso condotto dal testo: che è affermazione e difesa dell’esistenza
umana, ricerca di un senso in terra, addirittura conflitto con il Padre, da cui Cristo si sente abbandonato.
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IL REALISMO ALLEGORICO: NOTE SUL TEATRO DI EDOARDO SANGUINETI
Premessa
Queste brevi note non intendono certo esaurire la complessa esperienza teatrale di Edoardo Sanguineti,
la quale ha assorbito e generato molteplici influssi, che necessiterebbero di uno studio capillare e
disinibito. Interessa piuttosto tirare le somme e valutare cosa di questa esperienza possa tornare utile
alle nuove generazioni di scrittori.
La produzione sanguinetiana di testi per il teatro si può dividere il quattro tipologie: testi originali, testi
per musica, traduzioni e “travestimenti” (vedremo tra poco cosa si intende con questo termine). È
necessario sottolineare che lo spazio che daremo alle varie opere non è proporzionale a quello che
secondo noi è il loro valore, ma solo funzionale al tipo di discorso che vogliamo fare, concentrato su una
idea di teatro di poesia(1).
Note generali
I personaggi, i quali (è un luogo comune, ormai, eppure chi scrive per il teatro sa che in parte è vero)
prendono vita e dettano all’autore la loro parte reclamando identità e spazio, sono coinvolti in una fitta e
stretta polifonia. I personaggi dicono sovente cose che l’autore non avrebbe immaginato, così come un
poeta inizia una poesia senza sapere come andrà a finire, diversamente sarà ben difficile avere un buon
testo. Non difendiamo l’idea di scrittura come trance, anzi, siccome la scrittura deve essere un continuo
intreccio di razionale e irrazionale che si tengono a bada a vicenda; diciamo solo che la spinta irrazionale,
ingovernabile e soprattutto non pianificabile, ha parte importante in letteratura. Peraltro questa
inconsapevolezza dello snodarsi della vicenda (il cosa e il come sono incerti, ma ovviamente non è
esclusa una pianificazione del lavoro, una mappatura grezza) garantisce circa la presenza di un vero testo
teatrale e non di una drammatizzazione a tesi.
È esperienza di chiunque che l’esistenza è caratterizzata dalla complessità e non dalla complicazione (una
partita a scacchi, seppur difficile, è solo complicata perché c’è un enorme numero di possibilità ma sullo
stesso livello, mentre la musica novecentesca è complessa perché coinvolge diversi livelli di interazione,
storie, etc.), dunque un testo teatrale per quanto sia sperimentale (usiamo questo termine troppo
generico) non può esimersi dal rappresentare questa complessità. Ne deriva che i drammi complicati con
molti personaggi che paiono tutto sommato agire su binari autonomi e al massimo asintotici, ed i quali
non si influenzano realmente a vicenda, non sono un buon esempio di teatro.
Nel teatro davvero utile (alla presa di coscienza umana, ossia complessità, senso civile, psicoanalisi,
anche restituzione della dignità e della originaria non compromissione alle emozioni) nessun personaggio
rappresenta appieno l’autore, i suoi sentimenti e le sue idee: ne deriva che il teatro è il luogo in cui viene
rappresentata la frantumazione dell’Io, le voci parlano a se stesse quali parti di un mosaico ma allo stesso
tempo non vi è autoreferenzialità né vacuo loop siccome queste voci radicalizzano con il loro solo esistere
il concetto di pluralità. Lo indagano esistendo, lo mettono alla prova e mostrano una alterità che l’uomo
non può eludere. L’autore è dunque tutti i personaggi, e non può identificarsi del tutto con uno.
Potremmo dire che siamo al cospetto di una proliferazione di quel Doppio (Doppelgänger) di cui molta
letteratura e psicoanalisi hanno parlato.
D’altra parte già la tragedia greca non identificava i suoi valori sull’eroe tragico come vorrebbero certe
facili interpretazioni critiche: Eschilo ad esempio fa come fanno i più avveduti di noi, a lui interessa
l’azione (il coro che dialoga con l’eroe, il dipanarsi della vicenda nel suo stesso farsi) e non solo l’assunto
o la conclusione, catartica o meno. Così Le Baccanti, che Sanguineti ha tradotto: Euripide non ha una
idea che poi contraddice o di cui si pente, ma gli interessa rappresentare i moti della ragione e del
sentimento, e dire che forse non c’è soluzione ai grandi bivi dell’esistenza come apollineo/dionisiaco.
Alla base dell’opera di Sanguineti sta una nozione di realismo.
Ecco allora che i suoi studi su Moravia rimandano all’interesse verso i meccanismi che portano un
personaggio interno alla borghesia, e che esercita una partecipazione negativa esemplificata con la
pratica realista, a sviluppare forti istanze critiche nei confronti della sua realtà; ed ecco, soprattutto, che
questi interessi si riflettono sugli studi danteschi (ad esempio Il realismo di Dante(2)): Dante permette di
postulare un’idea di realismo che si misura concretamente ed immediatamente col terreno del linguaggio
in quanto forza ideologica e realistica insieme (ovvio il rimando al celebre volume Ideologia e linguaggio).
La grande arte, insomma, sarebbe sempre realista, in questa particolare accezione. Ciò che ha guidato
invece gli interessi sanguinetiani verso Gozzano, sviluppati in molte tappe sfociate nel volume Guido
Gozzano. Indagini e lettureG(3), è la constatazione che egli è stato il primo poeta a far cozzare l’aulico
con il prosaico, autenticamente anti-dannunziano e pre-montaliano, e perciò finalmente moderno.
Gozzano per primo seppe efficacemente rendere conto (realisticamente) della consapevolezza della
povertà del linguaggio, in quanto forma determinatasi storicamente nell’evoluzione della società
borghese, smascherando l’impotenza dell’aulicità dannunziana.
Diventa allora facile osservare come Sanguineti fin da Laborintus capisca di essere forse l’ultimo ribelle
della poesia novecentesca, e la sua opera l’ultima vera grande “poesia negativa”, il tutto guidato dai
principi moraviani, danteschi e gozzaniani appena esposti. Sono palesi e ben sviluppate dalla critica
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anche le influenze pittoriche sentite dal giovane poeta, mentre appaiono ancora piuttosto vaghe e rozze
quelle musicali – è sterile limitarsi a fare i nomi di Cage e Webern, ben difficili da accostare -, forse
convinte di poter campare su quelle che furono in seguito le collaborazioni dell’autore con vari
compositori.
Al realismo sopra detto, infine, si lega la poetica del “piccolo fatto vero” derivata da Stendhal, e da
Sanguineti esplicitata nella poesia 49 di Postkarten mirante a proporre un’idea di poesia come risveglio
dell’attenzione di chi legge, ossia richiamo (non manca ovviamente la nota gramsciana e brechtiana).
Un aspetto fondamentale dell’attività teatrale di Sanguineti è poi la committenza: le occasioni di lavoro
con Berio, Squarzina, Ronconi, Tiezzi o Liberovici (per citare solo i casi maggiori) hanno generato una
collaborazione che ha permesso all’autore di impostare il lavoro in un certo modo, si trovare ingegnose
soluzioni imposte dalle costrizioni e, infine, sviluppare e testare una autentica idea di teatro. Secondo
Sanguineti stesso se manca la committenza che si concretizzi in istituzioni concrete, manca una idea di
teatro.
Nella complessità che opere come quella sanguinetiana sempre ripropongono c’è, stando al teatro, una
questione fondamentale: chi opera oggi a teatro è sia post-artaudiano sia post-brechtiano. Il paradigma
della crudeltà di Artaud e lo straniamento di Brecht vengono a convivere molto spesso nelle migliori
espressioni del teatro novecentesco e oltre, prendendo ciò che c’è di meglio nella partecipazione a suo
modo anche rituale come nello straniamento quale distacco critico dello spettatore. Come sia importante
la riflessione brechtiana in Sanguineti lo vedremo; quanto ad Artaud, ricordiamo come fin da Laborintus
(sezione 3) si citi quel «sens de l’anarchie» che rimanda a Eliogabalo e soprattutto a «un certo
atteggiamento programmatico, ribadito poi nella sez. 7 con il “noi stessi i santi anarchici”» che dà il titolo
anche a un articolo di quarant’anni dopo nel quale l’autore specifica l’importanza della pulsione anarchica
nel pensiero sia creativo sia critico(4).
Comunque, come Sanguineti stesso dice, già nell’Orlando furioso venendo a mancare ogni separazione
tra lo spazio dell’attore e quello del pubblico (spazio di fruizione e di rappresentazione) si arrivava a un
rito collettivo che costringeva gli spettatori a una partecipazione anche fisica; ma nello stesso tempo
attraverso la simultaneità delle scene, in virtù della quale nessuno spettatore poteva cogliere appieno
tutta la vicenda, costringeva il pubblico a una estraniazione e all’esercizio di un senso critico(5).
Proprio per andare oltre Brecht, Sanguineti punta sulla corporeità e sul sogno richiamando così in causa
Artaud; il travestimento è dunque un concetto che si avvale dell’esperienza come autore e librettista ma
anche come assiduo critico teatrale per i quotidiani, e che mira – proviamo a sintetizzare così – non a
rivisitare, a manipolare o a attualizzare un testo (un buon testo, è ovvio, è sempre in qualche modo
attuale) bensì a cavare da esso ciò che in esso è già contenuto ma fatica ad uscire allo scoperto (un buon
esempio è il sottotema dell’incesto nei Sei personaggi di Pirandello, evidenziato e come vedremo
smascherato con Sei personaggi.com). Per Sanguineti la ricetta è andare oltre la figura del regista per
scoprire la figura del “Dramaturg”, ossia qualcosa di diverso dall’autore teatrale: piuttosto un individuo la
cui professionalità si concentra sulla parte letteraria della drammaturgia (propria o altrui) occupandosi di
cosa dell’aspetto letterario può suggerire il successivo aspetto della messa in scena. È insomma un
individuo che lavora principalmente sul testo, ma con l’intento di non confezionare un prodotto letterario
bensì un testo con una precisa e concreta idea scenica.
Testi originali
Partiamo da un testo che fa parte dei testi originali. Storie naturali vede la luce editoriale nel 1971,
presso Feltrinelli, in una edizione la cui nota di copertina anonima (ma probabilmente dell’autore stesso)
si affretta a definire il testo non una serie di storie ma una «serie di materiali per un allestimento
teatrale»(6). Meglio, quattro serie da rappresentare contemporaneamente (è chiaro il parallelo con la
sperimentata simultaneità delle situazioni nel celebre Orlando Furioso dall’autore riscritto per
Ronconi(7)). La nota continuava ricordando l’esiguità scenica da riempire con una cognizione precisa dei
sensi: il tatto e l’udito, ed ovviamente soprattutto la voce, avevano la centralità, mentre i personaggi
venivano affidati nella loro gestualità alla loro «alienazione fisica». Insomma l’idea di
recitazione/mistificazione con il corpo veniva sostituita con una centralità concreta e personale di ogni
corpo che andava ad allestire il testo.
Il testo vuole anche aprire squarci importanti sull’esistenza psichica, rifiutando ogni preconfezionata
consequenzialità cosiddetta logica e dando spazio a pulsioni che andranno ad infrangere tabù. Assistiamo
dunque a discese infernali e visioni ultratombali tutto sommato molto terrene e quotidiane: Sanguineti
non a caso è l’autore che esordì in poesia con la «palus putredinis» di Laborintus(8). Tra richiami ludici e
pulsioni sessuali l’autore consegna uno dei testi più eversivi apparso all’orizzonte degli anni Sessanta
italiani. Rintracciare i derivati e le influenze di questi testi sulla produzione teatrale e non solo,
precedente e seguente, del Nostro sarebbe troppo laborioso e qui fuori luogo.
Basti piuttosto osservare ad esempio come da K del 1959 a L’orologio astronomico del 2002(9)
permangano nelle varie sfaccettature i temi della spersonalizzazione e delle scissioni dell’Io: fin da
Laborintus «le scelte operate […] sia sul versante metrico-stilistico, sia su quello della macrostruttura
laborintica, sono in stretto rapporto con l’io che prende la parola, un io che non solo è diviso (secondo le
modalità descritte dalla psicanalisi e dagli artisti più avvertiti della prima metà del Novecento) ma è del
tutto frantumato, gettato nella Palus della realtà»(10). Quando Sanguineti scrive «io sono una
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moltitudine» (Laborintus, 2, v. 20) è dunque sia un “soggetto plurale” come direbbe Gramsci, sia un Io
psicoanalitico diviso, frantumato più che multiforme.
Per non parlare della tenzone tra vita giocata (con le sue regole leggere, pensiamo anche al romanzo Il
giuoco dell’oca) e vita vissuta (con le sue voragini). Tutte da osservare anche le evoluzioni: già in Storie
naturali il gioco denuncia il suo essere fuori posto, vale a dire c’è poco da giocare stando in questa
situazione di spersonalizzazione e di congelamento, come si osserva anche nel romanzo Capriccio
italiano. C’è all’inizio spazio per un gioco consapevole e tragico, alla Beckett di Finale di partita insomma,
ma ben presto la vita reagisce alla pulsione schizofrenica (non aver vissuto la vita ma ricordarla) e si
rende conto del suo essere piuttosto mortifera, una vita che «ci ritorna su […] come una minestra che ce
la siamo digerita male, […] è la vita che uno si vomita»(11). C’è molto di beckettiano nel teatro di
Sanguineti, che spesso si svolge in quello spazio tra culla e tomba, ristrettissimo, che Beckett cita con
enfasi in Aspettando Godot(12).
Ma c’è un particolare di fondamentale importanza. Le voci che prendono il sopravvento in scena tentano
di liberare le pulsioni, ma rischiano ad ogni momento di soffrire un’altra schizofrenia, quella di chi dice la
vita da una appendice del corpo, essendo esso in realtà un’assenza da esorcizzare, un corpo condannato
ad una «corporeità crocifissa»(13). La voce infatti crea inesauribilmente spettri di varia natura e false
piste popolando foneticamente la scena divorata dal buio (già K si svolgeva di notte). Ci accorgiamo
allora, sotto questa prospettiva, che i personaggi non sono mai davvero sintonizzati tra loro, le voci
esprimono una serie di soliloqui e si affidano alla fonetica per evocare cose e luoghi. Si fanno insomma
oniriche.
E certo è godibile, soprattutto all’ascolto, questa festa di suoni, ripetizioni, allitterazioni, omoteleuti e via
dicendo, assieme al gioco dei registri. Eppure sempre di scissione si parla: l’uomo che chiude la quarta
parte e grida fortissimo nel suo letto, dal corpo atrofizzato, disarticolato, scisso, le cui parti reclamano
autonomia ed ottengono straniamento non sono molto simili all’informe Innominabile di Beckett? Laddove
nel continuare comunque sta il messaggio del personaggio beckettiano, questo uomo sanguinetiano
constata «Io non sono niente contento, niente»(14). Soprattutto, ambedue costruiscono i loro mondi
alienati con flussi di parole, le quali sono però in Sanguineti dotate di un potere tattile («E poi, sì – si
parla per parlare, già – cioè, per toccare»(15)) che potrebbe, certo, sostituirle al corpo, ma in realtà
riesce a farne sentire la mancanza(16). «Se, in effetti nel Novecento, il secolo del cinema, anche il
teatro, sulla spinta delle esperienze surrealiste, sembrava enfatizzare un suo aspetto di teatro di
immagine, Sanguineti, con una operazione paradossale, pare puntare a recuperare la parola utilizzandola,
appunto, come immagine sonora»(17).
Il buio è ciò che aiuta certi personaggi a sognare di non esistere: «io mi sogno che sono niente, soltanto.
[…] Ma non ti dico, però, più niente – come più niente è un ragazzo che ci è restato secco, per esempio
[…] Ma non essere niente, invece – non essere mai stata niente, nemmeno, mai – questa è una cosa che
te la puoi sognare, tu, soltanto. – […] Lo so, ti aiuta un po’ il buio, se vuoi – perché è come un sogno
tutto vuoto – fatto di niente, proprio. – È un sogno dove devi abolirti lì tutto»(18). Fatalmente, rientra
dunque in gioco la memoria: ma ricordarsi di qualcosa significa che questa cosa è esistita? È su questo
dubbio, sconosciuto a gran parte della letteratura, che si fonda parte del teatro sanguinetiano, all’insegna
del denudamento dei comportamenti schizoidi.
Il corpo sanguinetiano è sempre fisico e onirico (vale a dire, spesso, psicoanalitico): Capriccio italiano e la
prima parte di Storie naturali propongono il tema dell’uomo gravido, al quale non sono forse estranee
letture di Groddeck. L’autore non censura alcuna delle dimensioni dell’esistere, che nella nostra
quotidianità sono così intrecciate. Nella terza parte di Storie naturali, poi, assistiamo ad una messa in
scena del corpo nelle sue parti che richiama fortemente Artaud: quale puzzle in realtà uno dice, quando
dice “Io”(19)?
Come precisa la nota al testo, l’opera si affida all’oralità e la voce «è la prima realtà del teatro», ma lo
scopo dell’opera non è «ridurre a vocalità il testo, ma […] dare la massima efficacia di presenza fisica
attraverso l’immaginazione, innanzitutto la presenza fisica della voce»(20). Questa distinzione è di
importanza capitale, non deve passare inosservata: distinguere tra testo, ossia pur sempre un oggetto
letterario, e vocalità è una delle priorità da recuperare in teatro. Sanguineti si assicurava questa presenza
fisica della voce, e l’attenzione diciamo auricolare del pubblico, grazie ad un espediente estremo: i brani
si svolgono per buona parte nel buio più assoluto. È vero che la nota, come abbiamo visto probabilmente
dell’autore stesso, sottolinea come si porti all’estremo l’idea di teatro della parola, ma «in un senso
assolutamente antiletterario», soprattutto grazie alla fusione di ascolto e tatto, alla voce che tocca, ma
ciò non significa che si tratti di un teatro che come altre esperienze (certo Carmelo Bene, tanto per fare
un nome) sottovaluta le necessità del testo e le sacrifica alla spettacolarizzazione.
Occorrerebbe aprire una piccola parentesi circa il “Teatro di parola” da Sanguineti difeso e contrapposto
al “Teatro di regia” e al teatro iperletterario di scrittori che si improvvisano drammaturghi. La definizione
è un poco ambigua, e potrebbe essere confusa con quella che usò Pasolini (si leggano ad esempio il
programma di sala per Orgia e il dibattito seguente(21)). Occorre allora ricordare che Pasolini intende
usare il teatro di parola per polemizzare contro la parola, usando nel dramma una parola di poesia (ossia
la parola nel suo momento secondo l’autore più “espressivo”) che sottolinei però il primato dell’azione la
quale può, anche, certo, rendere conto dell’irrazionale. In qualche modo, il teatro di parola pasoliniano è
aristocratico data la sua accesa selettività, la sua lingua difficile e l’artificiosità dei dialoghi (il tutto lo
avvicina, mutatis mutandis, al teatro di D’Annunzio, rispetto al quale è più paranoico ma come il quale è
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lontano dall’idea didascalica di Brecht o dall’idea dialettica di Benjamin). Si avvicina al teatro
sanguinetiano solo là dove intende non confondere cultura democratica con cultura di massa, dove
intende rivalorizzare l’apporto critico e fisico degli spettatori (non si parla qui della corporalità nei testi
pasoliniani, la quale è stata decisamente sopravvalutata, ed è fondamentalmente in essi solo evocata) e
dove si dimostra poco interessato a definire la fisionomia dei personaggi.
Sanguineti sottolinea il carattere tattile della voce non per farne sfoggio acustico ma per insinuare come
la voce possa, se trattata nel modo giusto, far assistere gli spettatori al farsi della storia e dei personaggi
stessi, recuperando così un’idea di teatro come processo e non come mero resoconto di fatti (il cosa
raccontino è secondario ai fini di una trattazione teorica e generica come la nostra: qui l’autore torna sui
propri temi centrali esponendo lo svilupparsi di nevrosi dovute al fatto di possedere un corpo). La voce
per Sanguineti non è come avviene spesso un’astrazione bensì un’appendice eminentemente fisica,
corporea, la quale al corpo (intero o segmentato che sia) rimanda sempre. Ed infatti il buio non cancella i
corpi bensì permette alla voce di dire appieno agli spettatori, non distratti dalla vista, proprio il corpo
nella sua complessità e materialità. Senza contare poi che i rumori non prevedibili (scricchiolii del palco,
respiri, etc.) contribuiscono anch’essi a sottolineare la corporeità, all’opposto di come fanno (solitamente)
la radio e il cinema(22). Non a caso Sanguineti così scrive in una poesia di Fanerografie: «ogni teatro è
un teatro anatomico»(23).
Nel fare questo l’autore sviluppa un testo che sarà anche antiletterario nel suo procedere ed irrituale
nell’indeterminazione “registica” del testo stesso, ma che è inequivocabilmente letteratura nel suo avere
una testualità precisa ed individuabile (rimandando alla figura del “Dramaturg” cui abbiamo accennato).
I testi sanguinetiani, soprattutto opere come Storie naturali, vivono una loro circolarità. A suo modo
anche il travestimento dei classici genera una circolarità, un andare e tornare ad essi incessante. Resta
da decidere se questa circolarità sia un annullamento preoccupante o una soluzione scenica. Niva
Lorenzini conclude la sua introduzione all’edizione di Storie naturali citando l’espressione «E nessun
cominciamento, se non nella ripetizione, s’intende» dalla premessa a K(24), ma non precisa se si tratta
di una rinuncia ad una direzione di senso. In Laborintus come in tutto il resto della sua produzione,
«l’autore non prevede e anzi impedisce e combatte una deriva infinita dei sensi»(25). Scriveva Umberto
Eco a Sanguineti, nel contesto di una polemica: «C’era più violenza contestataria nei tuoi versi in cui il
latino medioevale si collazionava con gli echi junghiani, che in tante poesie “civili”. Tu lo sapevi, noi lo
sapevamo, e chi recentemente ha tentato di metterti alla gogna perché in politica fai il rivoluzionario e
poi scrivi versi con parole difficili, è incorso in uno squallido peccato di zdanovismo da quattro soldi […].
Questo significa dire che l’operazione culturale ha dei “tempi lunghi” che non sono quelli dell’azione
politica immediata»(26).
A nostro avviso la circolarità insita di cui poco fa parlavamo è una soluzione scenica, diremmo
drammatica, ma ha un valore tutt’altro che nichilistico: essa ha la forza del “e io continuo” con cui
conclude lo sterminato monologo dell’Innominabile beckettiano. La ripetizione, crediamo di capire, non
esclude la memoria, quella memoria che dà senso alla voce e ai corpi di chi osserva lo spettacolo a
teatro, individui i quali possono rivedere (rileggere) facendo tesoro della memoria e dunque potendo
carpire meglio certe situazioni, certi collegamenti. Insomma a nostro avviso la circolarità in Sanguineti
sta a significare una testimonianza che il ritorno sui propri passi avvalendosi di un proprio tesoro culturale
è possibile, esattamente come – l’argomento ebbe un tempo un certo successo, e il Nostro è sempre
stato ad esso affezionato – la letteratura è una continua citazione, ossia rielaborazione di temi. Se così
non fosse essa sarebbe sempre qualcosa di nuovo, e tanto noi quanto essa non avremmo storia. Invece
«ogni testo è un test, e dunque luogo di proiezioni speculari e di inevitabili transfert – […] non esiste
attività più impudica ed esibizionistica di quella che austeramente si cela sotto il manto impassibile e
severo della critica»(27).
Al succo delle cose “travestire” un testo significa concepire la citazione, ossia l’esecuzione di un testo, in
un più vasto problema antropologico: il meccanismo delle citazioni non può non generare cortocircuiti e
frizioni, oltre che richiami e sovrapposizioni, il che obbliga a superare ogni concezione naturalistica del
testo a favore di una carnalità ed una necessaria usabilità del testo. Molto vicina, è ovvio, alla crudeltà
artaudiana: già nel 1969 Sanguineti scriveva che «la letteratura, come luogo della crudeltà, è allora lo
spazio sperimentale dove si decide la dialettica, come si ama dire oggi, delle parole e delle cose»(28). E
ancora prima, nel 1967: «Non esiste giustificazione possibile, oggi, per una nozione di letteratura, se non
l’idea della crudeltà. […] La letteratura non può metterci in rapporto (e in causa) con le cose stesse (con
la vita, come si diceva una volta, e diceva ancora Artaud) […] se non in quanto proponga idee che hanno
la forza della fame. […] La letteratura, come luogo della crudeltà, è allora lo spazio sperimentale dove si
decide la dialettica, come si ama dire oggi, delle parole e delle cose»(29).
Testi per musica
La simultaneità e la pluralità di voci che intervengono tra di loro e su di loro portano come detto a un
concetto contrappuntistico, e dunque a una visione musicale del testo. Due esempi capitali nella
produzione sanguinetiana sono Passaggio, testo scritto per la musica di Luciano Berio, e
Traumdeutung(30).
Nel primo lavoro un soprano, due cori e strumenti vari dipingono nel dipanarsi di parole e fonemi il
sofferto passaggio dell’individuo moderno al caos della civiltà moderna in sei stazioni; una moderna Via
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Crucis nella quale la voce femminile solista tende a fondere questo passaggio con il passaggio personale
attraverso i fatti della vita mentre un coro amplifica le sue espressioni e un altro (disseminato tra il
pubblico) rappresenta il polo dialettico. Nel secondo lavoro quattro attori si dispongono come un
quartetto, con tanto di leggio, ed eseguono le loro parti. Il testo è stato in seguito messo in musica da
Globokar, ma in origine rifletteva sull’“esecuzione” delle voci (gli attori non recitano a memoria ma
leggono) che evocano spazi e sensazioni, ognuna per sé, a tratti intersecandosi. Ne deriva quasi un
paradosso: la comprensione emotiva del pezzo si può avere solo con la risultante delle voci in concerto,
eppure assistere al pezzo nella sua interezza non fornisce alcuna informazione in più rispetto alla lettura
continua e successiva delle parti. Sanguineti raggiunge così il paradosso di un testo per la scena nel quale
si sente la carenza delle informazioni aggiuntive che ci si aspetterebbe, riuscendo ancora una volta a
concentrare l’attenzione sull’aspetto corporale delle voci.
Insomma se “Musica e Poesia son due sorelle” come diceva il Marino, Sanguineti non dimentica il “Recitar
cantando” di Monteverdi, che filtra fino allo “Sprechgesang” di Schoenberg (e pensiamo anche, quanto a
consistenza fisica e fisiologica della voce, ai microdrammi di Kurtag).
È inevitabile che l’opera successiva sia il “radiodramma stereofonico” Protocolli (1968) in cui il processo di
desemantizzazione della parola impedisce ormai di riferire messaggi esaltandone la fonesi, un vero (come
dice la dedica del pezzo a Jean Thibeudeau) “teatro materialista”. Arrivato a questo punto la deriva
afasica poteva sembrare scontata, e invece Sanguineti crea Storie naturali di cui abbiamo
abbondantemente parlato, e Orlando furioso oltre a varie altre traduzioni/travestimenti. In Protocolli si ha
l’apice della ricerca della resa principalmente fonica della lingua, e di una desemantizzazione che in realtà
(proprio sulla scena) ripropone una nuova capacità di significazione, non certo dialogica ma lontana da
ogni tentazione afasica. Il tutto, ovviamente, non fa che ribadire la concretezza della significazione
teatrale.
D’altra parte a Sanguineti è sempre stato chiaro come ogni parabola avanguardistica sia destinata a finire
nella museificazione, data la sostanziale impossibilità di sostenere in maniera illimitata una
destrutturazione senza arrivare prima o poi a una nuova organizzazione dei significati (fu tra l’altro il
motivo che spinse Artaud ad abbandonare i surrealisti), considerazione ovviamente legata al mandato
civile del poeta, a una “responsabilità positiva”. Maria Dolores Pesce, nel suo volume sul teatro
sanguinetiano di valore e di obbligatorio riferimento, situa in questo snodo della poesia dell’autore la
necessità «di un nuovo momento espressivo, un momento attraverso il quale questo mondo, in qualche
modo rinnovato nella manipolazione e destrutturazione dei linguaggi, debba essere altrimenti descritto, o
meglio rappresentato»(31). In sostanza, il teatro sanguinetiano nasce dalle sue riflessioni teoriche, ma si
concretizza come filiazione diretta della sua poesia.
Riflessioni molto ponderate e valide come sicuro punto di riferimento circa l’arte come merce e «la
prostituzione ineluttabile del poeta in relazione al mercato come istanza oggettiva» si trovano nel saggio
di Sanguineti (che molti farebbero bene a rileggersi invece di riempire pagine con idee non certo chiare
come le sue circa questo scottante problema) Sopra l’avanguardia, che cita in sintesi il momento eroicopatetico e il momento eroico dell’avanguardia, «spesso perfettamente distinguibili cronologicamente,
psicologicamente e persino, talvolta, esteticamente, [i quali però] stanno, nella verità storica, dentro un
solo e medesimo istante»(32).
Traduzioni
«Quello che mi ha indotto sempre e volentieri ad accettare le traduzioni è il fatto che, nella pratica
comune anche di ottimo livello, tali versioni sono per lo più realizzate pensando alla sola lettura, specie
quando si tratta di traduzioni dei classici antichi. […] Per funzionare appieno [la traduzione] richiede di
essere calata nel concreto di una situazione corporea»(33). L’autore scriveva, ad esempio, in un articolo
del 1981: «un traduttore, propriamente, è un autore in maschera. Illusionista fraudolento,
massimamente se alle prese con uno scrittore morto, e con una lingua morta, e massimamente se con
uno scrittore da teatro, questo negromante evoca spiriti, per esprimersi poi, in effetti, come uno sfacciato
ventriloquo». Si cita come esempio la sua sostituzione nell’Edipo tiranno di “Edipo” con “Piedone”, e si
ricorda che «il pubblico si fa la sua libera e impregiudicata esperienza, lì al suo posto di combattimento,
da spettatore vigile e solerte». D’altra parte, dice, «ho tradotto pensando agli attori, al palcoscenico, agli
spettatori, alla dicibilità del testo, segnatamente nel caso di un testo così, che, come ho avuto occasione
di dire, è un po’ tutto steso in “oracolese”»(34). E ancora, altrove: «è soltanto partendo dal problema del
destinatario che è possibile, realisticamente, riformulare la destinazione teatrale, ossia la funzione
sociale, mentre da noi si parla ancora e sempre, gratta gratta, con la testa rivolta a Atene e Roma». E si
cita Brecht: «Il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro, purché sia visto come un
mondo trasformabile», al che Sanguineti fa eco segnalando come proprio la rielaborazione dei classici si
esprima troppo spesso in un teatro di regia (l’esempio è Il giardino dei ciliegi nella versione di Strehler)
che ostacola proprio questo concetto di modificabilità, mobilità, vitalità; diceva ancora Brecht che non ha
probabilmente senso tornare a mettere in scena Shakespeare «prima che il teatro sia in grado di portare
sulle scene con successo la produzione contemporanea»(35)
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Conclusioni
Tiriamo dunque le somme. Non siamo qui a indicare i testi di Sanguineti come esempio da seguire da
vicino (anche se non di rado essi ci affascinano): ciò che ci interessa è identificare i meccanismi e le
considerazioni che li hanno generati e vedere se e come siano consigliabili a chi si appresta a fare teatro
oggi.
Questi sono probabilmente i punti chiave dell’esperienza teatrale sanguinetiana, dei quali chi scrive oggi
teatro dovrebbe fare tesoro.
1) Il recupero della centralità del corpo e di un’idea concreta della corporalità (gesto, voce, udito, tatto).
In corollario, l’incessante indagine della fisicità della voce e dei suoi rapporti con la necessaria presenza
del corpo.
2) La riabilitazione della figura del Dramaturg in opposizione alle tendenze del “Teatro di regia” e,
all’opposto, della drammaturgia iperletteraria e distante da una autentica concezione teatrale (aspetto nel
quale rientra anche l’importanza della committenza, la quale impone un’iniziale idea di rappresentazione).
3) La mescolanza dei codici non fine a se stessa ma alla ricerca di un filo rosso già esistente e così
emergente, vale a dire non imposto, né preconcetto e giustificato da un testo costruito ad hoc.
4) Il perpetuo inseguimento di una pars construens nella destrutturazione, vale a dire l’esercizio di una
messa in crisi dei codici allo scopo non di depistare e distruggere ma di cercare nuove ed efficaci
significazioni, peraltro (sorrette dalle riflessioni soprattutto su Benjmin) condivisibili e concrete.
5) La concretizzazione di un autentico dialogo con la letteratura, un dialogo tra autori aperto e curioso.
6) La sottolineatura che, dopo tutto, è alla pagina che occorre sempre tornare, alla parola scritta quale
vettore di suoni ma anche di intenzioni ben precise, persino laddove l’autore sembra voler lasciare la
massima libertà esecutiva. La parola drammaturgica scritta fonda da sé, ha implicita in sé, una
“esecuzione”, che è sempre da tenersi ben distante dalla “performance” (sono in gioco diverse concezioni
dell’autorialità e diverse priorità).
7) La sperimentazione della messa in atto di una parola poetico-teatrale che, magari rischiando l’afasia
(tuttavia sempre controllata ed evitata, come abbiamo specificato), eviti una mercificazione (fatte salve le
citate riflessioni sul rapporto avanguardia-mercato), una banalizzazione dell’espressione verbale.
Postilla
Sanguineti ha sovente insistito su una nozione di “teatro di parola”, «perciò nemico di ogni didascalia (e
amico di un linguaggio che suscita e decide, da solo, lo spazio teatrale, la scena e il gesto)» (45). È vero
che questo conferma quanto i teatranti dei più diversi orientamenti sostengono, ossia che il testo deve
suscitare la regia e l’allestimento, e che le didascalie (le quali non andrebbero eliminate ma incorporate
nel testo) appesantiscono il testo limitando l’immaginazione di chi allestisce e persino di chi legge. Ed è
altrettanto vero che queste opere del Nostro hanno influenzato molto il teatro italiano contemporaneo.
Però chi scrive queste note ha sempre sostenuto, consapevole della povertà e letterarietà (ossia, come
dicevamo, non teatralità) della maggior parte testi circolanti, che l’assenza di didascalie solitamente
testimonia non un testo autosufficiente ma un testo non pensato per il palcoscenico, dietro al quale cioè
non c’è già un’idea di allestimento. Occorrerà dunque riflettere su quanto la difesa dell’assenza di
didascalie favorisca in realtà testi di scarso valore propriamente teatrale, agevolando da una parte testi
borghesi nel senso peggiore del termine (ossia la vana ingenuità di “rifare la vita sulla scena”), dall’altra
una pretesa libertà (in realtà anarchia, ancora una volta nel senso peggiore) che sfocia nelle attuali
degenerazioni del genere performance. Si potrebbero d’altra parte considerare le didascalie non come
mere istruzioni di regia, spesso superflue, ma come qualcosa di più significativo: è stato lo stesso
Shakespeare a enfatizzare tramite le didascalie la funzione drammaturgica dei suoni, e la coppia
Sanguineti-Liberovici si è ispirata proprio a questo per Macbeth Remix facendone derivare feconde
contaminazioni.
Sandro Montalto
Note.
(1) Definizione circa la quale (in uno spazio curiosamente esiguo) ci mette in guardia Sanguineti stesso accettando
l’idea di un teatro di poesia in quanto «antinaturalistico», ma segnalando il rischio di «liricizzare il testo teatrale al di là
di quello che è scenicamente efficace» (Maria Dolores Pesce, Edoardo Sanguineti e il teatro, Edizioni dell’Orso,
Alessandria 2003, p. 159).
(2) Sansoni, Firenze 1966
(3) Einaudi, Torino 1966
(4) Cfr. Erminio Risso, op. cit., p. 26 e passim; l’articolo in questione è I santi anarchici¸ «L’Unità» 30 – 12 – 1991;
poi in: Edoardo Sanguineti, Cose, Pironti, Napoli 1999, p. 14. Risso scrive infine che Laborintus si configura come
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«l’enciclopedia poetica dell’anarchismo, per la sua forza eversiva e per la natura dei materiali, ma di quell’anarchismo
non volontarista che vede nel marxismo la razionalizzazione dell’aspirazione anarchica» (p. 49).
(5) Cfr. Edoardo Sanguineti, Storie naturali, cit., pp. 232 – 233. Per altri cenni dell’autore su Brecht e lo straniamento
si legga, tra i molti contributi, l’articolo Il paradosso dell’autore, in: Edoardo Sanguineti, Giornalino secondo 1976 1977, Einaudi, Torino 1979, pp. 110 – 113. Nello stesso libro si legga anche il resoconto dello spettacolo Carrousel,
testi di E.S. e musiche di Vinko Globokar, anch’esso a suo modo basato sulla selettività data dal punto d’ascolto (pp.
223 - 225).
(6) La nota su può ora leggere in coda all’edizione di Storie naturali a cura e con un saggio di Niva Lorenzini, e con una
interessante conversazione dell’autore con Claudio Longhi; Manni, Lecce 2005
(7) Cfr. Edoardo Sanguineti – Luca Ronconi, Orlando furioso, Bulzoni, Roma 1970. Per una puntuale analisi di questo
testo si legga: Maria Dolores Pesce, Edoardo Sanguineti e il teatro, cit., pp. 55 – 65
(8) Cogliamo l’occasione per segnalare un volume imprescindibile per la conoscenza del Sanguineti poeta: l’edizione
critica definitiva di Laborintus commentata con acribia e generosità, testo per testo, da Erminio Risso (Manni, Lecce
2006), preceduta da un lungo saggio del curatore medesimo che ripercorre gran parte della produzione del Nostro.
(9) K si può leggere, assieme a Passaggio, Traumdeutung e Protocolli, in: Teatro, Feltrinelli, Milano 1969. L’orologio
astronomico è pubblicato da Verger éditeur, Illkirch-France 2002; in italiano è uscito presso Edizioni Monogramma,
Milano 2005.
(10) Erminio Risso, op. cit., p. 15
(11) Edoardo Sanguineti, Storie naturali, cit., p. 36
(12) Si veda, tra l'altro, l'articolo L'aldilà travestito di Gilda Policastro, su Finale di partita e Storie naturali, in: AA.VV.,
Tegole dal cielo. L'effetto Beckett nella cultura italiana, a cura di Giancarlo Alfano e Andrea Cortellessa, EDUP, Roma
2006, pp. 97 – 107
(13) Così si esprime Umberto Artioli nel lucido contributo Il fantasma del corpo crocifisso. Visionarietà e parola nella
drammaturgia di Sanguineti, in: AA.VV., Edoardo Sanguineti. Opere e introduzione critica, Anterem, Verona 1993, p.
87
(14) Edoardo Sanguineti, Storie naturali, cit., p. 201; Cfr. Edoardo Sanguineti, Faust. Un travestimento, Carocci, Roma
2003, p. 52
(15) Edoardo Sanguineti, Storie naturali, cit., p. 190
(16) Per questo argomento si veda almeno: M. A. Bazzocchi, Messinscena del corpo (Materiali per uno studio del teatro
di Edoardo Sanguineti), «Inventario», 5 – 6, 2003
(17) Maria Dolores Pesce, Edoardo Sanguineti e il teatro, cit., p. 15
(18) Edoardo Sanguineti, Storie naturali, cit., pp. 214 – 215
(19) Cfr. ad esempio Edoardo Sanguineti, Storie naturali, cit., p. 139
(20) Edoardo Sanguineti, Storie naturali, cit., p. 225
(21) Cfr. Pier Paolo Pasolini, Teatro, Mondadori, Milano 2001, pp. 318 – 351
(22) Per avere esempi di come sia fruttuosa una deviazione da questa tendenza radiofonica basterebbe pensare
ancora a Beckett, il quale è il drammaturgo che forse meglio di chiunque altro ha elaborato il tema della corporalità, o
al cinema con (un esempio banale ma efficace) l’ansimare del personaggio nella tuta spaziale durante la soggettiva
alla fine di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick.
(23) Edoardo Sanguineti, Senzatitolo, Feltrinelli, Milano 1992, p. 106
(24) Edoardo Sanguineti, Teatro, cit., p. 10
(25) Erminio Risso, op. cit., p. 27
(26) Umberto Eco, Vietando s’impara, in: Il costume di casa, Bompiani, Milano 1973, p. 305
(27) Edoardo Sanguineti, Alberto Savinio, in: La missione del critico, Marietti, Genova 1987, p. 162
(28) Edoardo Sanguineti, Per una letteratura della crudeltà, in: Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 132
- 135, pp. 108 – 109. Segnaliamo come Erminio Risso (op. cit., pp. 30 – 32 e passim) cerchi in Laborintus le prime
manifestazioni di “travestimento”. Edoardo Sanguineti, Teatro, cit., p. 10. Per approfondimenti si leggano: Fausto Curi,
Manipolazioni, mescidazioni, travestimenti, montaggi… Sanguineti e il già scritto, in: Gli stati d’animo del corpo,
Pendragon, Bologna 2005, pp. 221 – 315; Edoardo Sanguineti, La scena, il corpo, il travestimento, «L’immagine
riflessa» XI, 1988 (Poi in Per musica, Ricordi – Mucchi, Modena 1993); C. Bregoli, Il travestimento teatrale. Intervista
a E.S., «Comunicare», 5, 2005, pp. 65 – 83; P. Schiavo, Edoardo Sanguineti. I travestimenti teatrali, idem, pp. 57 –
63; P. Schiavo, Larvatus prodeo: Edoardo Sanguineti e la parodia in maschera, in: G. Policastro, In luoghi ulteriori,
Giardini, Pisa 2005, pp. 87 – 100
(29) Edoardo Sanguineti, Per una letteratura della crudeltà, in: Ideologia e linguaggio, cit., pp. 132 – 135
(30) Le due opere, assieme a K e Protocolli, sono apparse in: Teatro, cit.
(31) Maria Dolores Pesce, Edoardo Sanguineti e il teatro, cit., p. 5
(32) Edoardo Sanguineti, Ideologia e linguaggio, cit., pp. 62 – 66 (63). Ovviamente da leggere l’altro saggio
fondamentale dal punto di vista teorico: Avanguardia, società, impegno (Ivi, pp. 67 - 83). Si legga anche il saggio di
Umberto Eco Sperimentalismo e avanguardia (in: La definizione dell’arte, Mursia, Milano 1990, pp. 237 – 258)
(33) Edoardo Sanguineti, Storie naturali, cit., p. 240
(34) Edoardo Sanguineti, Gazzettini, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 7 – 8. Per una riflessione dell’autore stesso
sull’originale si legga: Edoardo Sanguineti, Edipo, nostro contemporaneo, in: Ghirigori, Marietti, Genova 1988, pp. 134
- 135
(35) Edoardo Sanguineti, Giornalino secondo 1976 - 1977, cit., pp. 12 – 13
(36) Edoardo Sanguineti, Il traduttore, nostro contemporaneo, in: La missione del critico, cit., pp. 182 – 185. Per una
notevole messe di considerazioni sulla traduzione sanguinetiana rimandiamo ancora una volta a: Maria Dolores Pesce,
Edoardo Sanguineti e il teatro, cit., pp. 31 – 54 (e passim).
(37) Costa e Nolan, Genova 1985; Carocci, Roma 2003
(38) Costa e Nolan, Genova 1989, introduzione di F. Tiezzi
(39) In: Andrea Liberovici - Edoardo Sanguineti, Il mio amore è come una febbre e mi rovescio, Bompiani, Milano
1998 (contiene anche altri utili materiali)
(40) Inedito (1999)
(41) Il Melangolo, Genova 2001
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(42) Intervista a E. Sanguineti di A. Liberovici, in: Andrea Liberovici - Edoardo Sanguineti, Il mio amore è come una
febbre e mi rovescio, cit., p., 117
(43) Il Melangolo, Genova 2001
(44) Maria Dolores Pesce, Edoardo Sanguineti e il teatro, cit., p. 73
(45) Edoardo Sanguineti, Teatro, cit., p 52
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IL TEATRO DEI POETI
GLI SPAZI DELLA POESIA
La poesia in questo scorcio di secolo che psichicamente già stiamo vivendo, in una crisi millenaristica
continuamente rimossa per l’incapacità di dare ad essa un linguaggio «laico» e gli impulsi e gli scarti dalla
norma propri di una ricerca di «fede», sta attraversando un periodo insieme di fortuna e di disperazione.
Una pratica fattasi tradizione, ha voluto che la poesia fosse celebrata e ignorata insieme, con un
meccanismo di rimozione che la vorrebbe relegare in una zona grigia, dove il linguaggio nomina e non
crea. Dal punto di vista poetico, apparteniamo senz’altro a un singolare Terzo Mondo: da sempre
presente, come un’immagine del dio del sole scolpita nel granito e sepolta dalla foresta, la poesia nel suo
«vivere» ha perso addirittura il proprio «nome», è di ventata una parola che significa tutto, il sinonimo
per eccellenza. A buon diritto, essa va rivendicata oggi come l’arte senza nome, come l’attività che, nel
magma del linguaggio e attraverso i significati via via costruiti dal «potere pensante», rivendica la
necessità di un’arte del pensiero, che inventi continue regole del gioco, come un terzo polo rispetto a
quelli del sapere e del saper fare, che così lucidamente ha analizzato François Châtelet.
E quel vertice del triangolo che, affondato nel magma, non sappiamo mai quanto sprofondi, ma
conoscenza per il poeta sta nel tentare infinite misure individuali, attraverso le quali articolare le proprie
costruzioni: il testo, l’opera, sono tali in quanto operano per valori «filosofici», come forme di una attività
capace di giustificarsi non con le proprie premesse (come le filosofie precedenti alla crisi in atto) o con la
descrizione e la verifica sperimentale (come le scienze attualmente al potere), ma misurando il passaggio
dal nulla e nel nulla, come segni di una forza che si autodimostra e che conosce il suo stato di massima
energia proprio là dove cessa di essere identificabile. Quando Gianni Vattimo indica ai giovani la lettura di
certe opere anche come itinerario alla filosofia, suggerisce che l’unica sintesi possibile oggi sia costituita
da un continuo «passaggio» attraverso la molteplicità e la dispersione. Gli oggetti originari siamo noi in
quanto attività di pensiero, il testo del poeta codifica questa attività, che a sua volta dipende dal continuo
travisamento dei codici in atto.
Invece spesso la poesia si presenta come descrizione inerte o come pura critica del linguaggio, la poesia
come arte del pensiero è un indirizzo necessario, un luogo di scontri, ma anche la mobile sabbia dove
costruire.
Mentre Roland Barthes indica che «l’intervento sociale di un testo ... si misura piuttosto con la violenza
che gli permette di eccedere le leggi che una società, una ideologia, una filosofia si danno ...» troppo
spesso l’attività letteraria, e quella poetica in specie, ha da noi un ruolo compensatorio, quindi non
conoscitivo per eccellenza. Troppa poesia opera come restituzione di valori o restituzione di linguaggi:
restituzione nel doppio senso di resa e di nuova, subalterna, istituzione.
Si agisce così attraverso una serie di falsi confronti, come quello fra tradizione e avanguardia,
singolarmente affiancate, quanto a testi poetici, in un logoramento parallelo: da una parte, i valori
linguistici degradano in un indomabile naturalismo, mentre tutta la nostra esistenza è diventata un
oggetto metaforico, non descrivibile attraverso «dati» che non siano accettati come reperti, alberi
pietrificati (i «valori» occhieggiano fra gli altri sassolini nel setaccio del cercatore cieco); dall’altra, tutta la
proposta di una parte della neoavanguardia si è risolta in una attività di sperimentalismo che ha
destrutturato un lessico senza proporre un’idea di linguaggio: ma un oggetto, che non sia tale definibile
come tale dal nostro pensiero, né capace di esser utilizzato o abbandonato con scelte non gratuite, non è
un oggetto, ma soltanto un paradosso.
Il movimento coatto di tradizione poetica e di neoavanguardia ha portato all’esasperato gusto della
solitudine degli anni Settanta, a troppi linguaggi poetici succubi dei mass media, a un desiderio senza
sangue da comunicare, a un misticismo poetico senza lessico da riconsacrare, insomma all’esatto
contrario di quel bruciare «del linguaggio attraverso il pensiero», di cui parla Jean-Pierre Faye,
ipotizzando un «movimento dai molti centri, dai molti luoghi, che non impone nessuna costrizione, che
inventa delle regole del gioco per poter giocare».
Certo delle regole non sono i codici di questo o di quel «clan poetico», poco attento alla qualità e alla
coerenza della scrittura, troppo esperto in alleanze e in battaglie dietro le quinte.
Proprio la crisi degli anni Settanta, la sua disseminazione di linee, di tendenze, di oggetti veri e di oggetti
in cartapesta, sta liberando dalle alghe che lo tenevano sommerso il continente della poesia. Terra mal
frequentata, d’accordo, afflitta da safari di gruppo che ne stanno distruggendo la fauna; però va detto
che la scoordinata attività poetica degli ultimi anni Settanta è sembrata riuscire a posteriori, in Italia, in
quello che non fu possibile prima: il creare un’attenzione intorno alla poesia, sfruttando pretesti e mode,
ma anche il contraccolpo di un grande e voluto ritardo; le chiusure sono diventate meno operanti, nessun
portabandiera ha il coraggio di presentarsi come un portatore di fede; senza dimenticare, si capisce, quel
che scriveva Eluard nel ‘32: «La stupidità, essenzialmente, è militante. Essa serve dei sistemi che si
ritengono di primaria utilità perché sono ragionevoli».
Ma l’accontentarsi dell’esibizione del continente sommerso, quale finalmente appare ai più, significa
proprio rinunciare alla ragione di essere d’una attività poetica. Oggi, accanto alla continua sostituzione di
ideologie, di «progetti» non più articolabili, oppure entrati in processi di autocontraddizione irreversibile,
abbiamo un assoluto bisogno di «oggetti», artistici e quindi liberatori.
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La poesia è per eccellenza questo «oggetto» e questa forma di sapere. Il «testo» (come «primo elemento
di una pratica appropriatrice», per dirla con Julia Kristeva) è insieme oggetto e soggetto di conoscenza.
Così, la poesia ha un doppio ruolo: quello dei «Giganti che diedero a questo mondo la sua forma di
esistenza sensuale, ed ora in esso sembrano vivere in catene ma essi sono le cause della sua vita e le
fonti di ogni attività» (per citare, con solo apparente falsificazione, William Blake) e quello dell’arte
nell’epoca della crisi ideologica, che provoca per Lukács «la concretizzazione del senso di morte, come
malattia, decomposizione, abisso e come simpatia verso una tale malattia», con un significativo
ribaltamento: nella società borghese di oggi, cioè in tutte le società delle nazioni industriali, proprio il
poeta «isolato» nel testo può raggiungere la vita (il mondo), e la raggiunge nel tratto della sua non
esistenza, del suo proporsi di fronte al «nulla» o del suo rientrare in esso; in questo senso l’oggetto
poetico è stato sempre un progetto contraddittorio, un polo opposto al «divenire» delle cose del mondo,
anche nei momenti in cui, per usare una espressione di Emanuele Severino, crede di esprimere una
«volontà di potenza». «Né poi i poeti hanno mai escogitato forme di valentia diverse da quelle che si
riscontrano nelle cose umane: bensì sceltane una che sia media, la elevano al di là del credibile e ad essa
conformano i loro versi»: qui il «non credibile» del Vico anticipa l’«eccedere» di Barthes; la dismisura
assume a oggi un valore filosofico, si propone, nel suo distacco dalla norma, come visione del mondo.
Ecco un altro degli spiragli della poesia: il poter conoscere in essa non solo dei sentimenti, dei suoni, delle
pulsioni (che appartengono tutti al «riconoscersi» nella poesia, al ritrovarvi se stessi), ma quel qualcosa
che ancora non è, e che nei poeti autentici si manifesta nel suo farsi realtà, cioè linguaggio. Una diversa
creazione, rispetto alle creazioni della natura, agli oggetti dell’uomo, alle proiezioni del suo pensiero. La
poesia si consuma in uno stato di passaggio, in uno spazio dove domina la legge dell’indeterminazione.
Il compito del poeta, per Breton è quello di essere il rivelatore della confusione totale del mondo, deve
«contribuire al discredito totale»: ma nella realtà di oggi, ogni «interpretazione paranoica» alla Dalì
appare come ricomposizione, come rinuncia al controllo della ragione, non in nome di una alogica
creatività, ma di uno scacco più profondo, che mette in discussione l’attività stessa del pensiero. Allora
non resta che ribaltare i termini, riconoscere, nel bisogno di poesia, l’agire di un inconscio collettivo che
richiede, oltre alle parole, alle immagini, ai suoni, ai colori, proprio il pensiero. Come per il poeta «nessun
personaggio è storico» (Goethe), così la nostra vicenda storica oggi non si risolve nel personaggio del
poeta, in un mero teatro dell’immagine, cui troppi vorrebbero ridurre la poesia.
Probabilmente, in questo, stiamo ritornando «antichi», con lo spegnersi dei lumi del razionalismo, ma
anche dei fumi dell’irrazionalismo moderno povero di fede; se per il Leopardi «in rigor di termini, poeti
non erano se non gli antichi, e non sono ora se non fanciulli e giovinetti, e i moderni che hanno questo
nome non sono se non filosofi», oggi, al contrario, i poeti incapaci di proporre una visione del mondo non
hanno ragione di presentarsi se non come grammatici o professori di versi. Neppure bastano le invenzioni
linguistiche, sul modello della tecnica del sogno kafkiana: l’infinito ramificarsi delle strutture poetiche ha
senso solo se parte dalla misura di quel vertice sommerso nell’indefinito nulla, di cui parlavo all’inizio.
Rivendicando alla poesia un primato nel campo del pensiero, non si rinuncia all’emozione, all’immagine, a
ogni possibile traduzione del sensibile, come d’altronde ogni poesia «classica» (compresa la classicità
dell’avanguardia storica) ha fatto; ma così la poesia viene messa al riparo dai due pericoli maggiori che
oggi corre: quello di diventare ancor di più campo di esercitazione per i grammatici che si chiudono in
una autistica dissezione del linguaggio, e quello di proporsi, nella accezione comune e nella pratica
«media», come l’ultimo dei mezzi di comunicazione di massa, trasformandosi, insomma, nella
subalternità del significante, da Cenerentola a prostituta.
METAMORFOSI DEL DRAMMATURGO
Negli anni che stiamo attraversando, i discorsi artistici hanno visto saltare tutte le corrispondenze: non
solo nulla combacia più, ma proprio la discordanza è diventata una spia del valore. Si potrebbe quasi dire
che il sistema e le singole identità si possono riconoscere attraverso una serie di segnali di
contraddizione. Intanto, stanno scomparendo i soggetti e gli oggetti, di una vecchia dialettica: l’identità
sociale e le forme costituite, quei linguaggi tanto resistenti da poter esser essere assunti come codici da
corrodere o da trasformare.
Per questo ogni discorso di drammaturgia rimanda necessariamente ad altri discorsi. Ciò non avviene,
come spesso si crede, solo perché la scrittura per il teatro è una delle parti di un processo collettivo di
creazione. Succede innanzitutto perché stiamo attraversando quella che io chiamo l’epoca della
metamorfosi.
È in corso un cambiamento che non tocca solo, come è accaduto più volte nella storia, le condizioni sociali
e materiali del vivere, i principi nei quali una parte della collettività si riconosce. Non sta cambiando
soltanto la nostra cultura o le idee che abbiamo dell’attività artistica. Si stanno trasformando invece le
nostre percezioni, la nostra psiche. Sono differenti oggi gli approcci alla fantasia, proprio dentro ciascuno
di noi. Pensiamo sempre più attraverso immagini, o meglio un flusso di immagini ci attraversa di continuo
e soltanto una parte di queste diventa pensiero cosciente. La ragione deve continuamente confrontarsi col
proprio vuoto, che è molto più difficile da sopportare dell’irrazionalismo, della montante marea
superstiziosa, che appunto quel vuoto vorrebbe esorcizzare. Una crescente aggressività si misura con
l’«impossibilità» della violenza, un bisogno del bello, dell’arte, che è anche domanda inquieta di tanti, si
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muove in uno spazio dove ancora non sono costituite appieno, come consapevolezza, delle nuove idee
dell’arte. Ecco i tempi della metamorfosi che stiamo attraversando e che vengono dopo che il ‘900, in
tutte le arti, ha completato il proprio ciclo.
In Italia persiste ancora, o almeno secondo me persiste ancora troppo, una pervicace idea sbagliata, che
considera il drammaturgo come un inventore di battute, una specie di imbrattatele della lingua, che non
può esser mai un vero pittore perché nella pittura conta la prospettiva, le suggestioni segrete, un
messaggio composito, che è naturalmente negato al «drammaturgo ad una sola dimensione».
Devo dire che della battuta io mi interesso solo all’ultimo momento, prima — anche in drammaturgia —
viene il processo di pensiero e un metodo di lavoro.
Per quanto mi riguarda, il processo di conoscenza è quello cui ho accennato prima. Mi inquietano e mi
interessano i personaggi, per quel che contano dentro di questa epoca di trapasso, per quanto
contraddicono, e quindi possono servire a vivere.
La finzione e l’ambiguità sono le due grandi «forme» del teatro, specialmente oggi, quando, per essere
credibile, la scrittura deve prima di tutto travestirsi.
Il drammaturgo vive una singolare contraddizione, a mio parere: sotto l’aspetto pratico, quello della sua
vita (se così si può chiamare) quotidiana, il suo lavoro e la sua presenza appaiono sempre più parcellari,
come dei momenti di un meccanismo più ampio di lui. Io sono convinto che, per quanto coperta dalle
onde della regia e dagli splendidi riflessi dell’interprete, la parola rimanga la materia sotterranea, il mare
necessario perché il teatro vi possa navigar sopra. Il linguaggio, o meglio ancora il pensiero, è quel mare
che consente virtuosismi di interpretazione e creatività d’effetti. Dall’altro lato, tuttavia, il drammaturgo,
momento e coautore dello spettacolo, è oggi obbligato a un ruolo più vasto di quanto consente la sola
creatività teatrale. Egli deve cioè confrontarsi con questi mutamenti, con queste metamorfosi cui
accennavo, dare un senso alla propria presenza di autore dentro una generale crisi del senso e del
significato.
Questo è possibile perché dietro lo spettacolo teatrale non sta solo il copione verbale delle battute, delle
indicazioni più o meno pertinenti per la scena, ma prima di tutto una trama di pensiero, una serie di idee
e tensioni da comunicare che diventano parole anche quando (in casi rarissimi e mai esaustivi) manchi la
parte verbale dello spettacolo. In parole povere, vorrei dire che anche il comunicare attraverso percezioni
implica un sistema di linguaggio verbale: quando questo manca la percezione non comunica, non si
stabilisce il contatto, perché manca, oltre il boccascena o sotto i riflettori se siamo in una cantina, quel
linguaggio sotterraneo, capace di generare dentro la sensibilità degli spettatori un preciso sistema di
parole.
Fatto questo «omaggio alla parola», che non poteva mancare in chi, come me, ne è profondamente
persuaso e che si dichiara anche nella poesia «figlio della parola», direi che il drammaturgo in questa
stagione non si trova di fronte all’alternativa fra un teatro di immagine e un teatro di parola, così come la
si intendeva qualche annofa, ma che, dopo la crisi dell’avanguardia, deve sentire profondamente il valore
immaginario della parola teatrale.
Cerchiamo un momento di guardare il drammaturgo oggi da un altro punto di vista, cioè ad esempio con
gli occhi dell’attore o del regista. Facendolo, cerchiamo anche di non far dire a questi personaggi le
battute che pure a un drammaturgo potrebbe far piacere di sentirsi rivolgere o che forse qualche volta
pure gli è capitato di ascoltare, con quell’intimo trasalimento che provoca in noi il consenso delle persone
che stimiamo. Quindi stavolta i personaggi non diranno se a loro piace o non piace un testo, una
situazione, una possibilità di ritmo scenici. Vediamo, invece, per cosa a questi personaggi può servire la
presenza di un drammaturgo.
Intanto direi che non serve per avere dei testi: non aveva torto quell’importante regista italiano, forse
Ronconi, quando disse che ci sono materiali nel passato buoni per almeno un secolo di teatro. Ma questo
era vero anche un secolo fa e un secolo prima. Credo, però, che la sensibilità e anche la lucidità di un
regista siano diverse dalla percezione e dalla possibilità di costruire che ha un autore.
Il problema non è di parlare di argomenti d’oggi. Non sono i contenuti quelli che determinano le forme
nuove, sono le forme che a teatro trasmettono dei contenuti. Si può fare del vecchissimo teatro parlando
di problemi scottanti e di attualità, credo si possa fare teatro nuovo, il teatro di questo tempo di
metamorfosi, anche immaginando una situazione di secoli addietro, quello che conta è di immaginarla
oggi. Conta la prospettiva. In primo luogo, la drammaturgia oggi è un problema di prospettiva. La
prospettiva, in questo senso, è la sfida creatrice, diciamo così, per non nasconderci dietro le parole, visto
che almeno il drammaturgo dovrebbe buttare la maschera. Un progetto che leghi questo trapasso del
tempo, questa crisi della psicologia collettiva, con una concreta operazione di teatro, dovrebbe
interessare al regista, dovrebbe interessargli per ché, per ovvie ragioni, non può venirgli neppure dal più
grande degli antichi: tutti siamo inchiodati nel nostro tempo, in questo senso è ben vera quella
«inefficacia» cui Dürrenmatt faceva riferimento, proprio a proposito di classici.
Il problema non è solo di etica artistica, è soprattutto di efficacia scenica. Se si riuscisse a far sentire al
pubblico teatrale italiano che il discorso del palcoscenico è qualcosa che oggi va anche oltre al teatro,
perché coloro che frequentano gli spettacoli teatrali partecipano di un cambiamento in atto, della curiosità
di cercare di sbagliare oggi, io credo che avremo una civiltà teatrale superiore, paragonabile con quella
del mondo tedesco e del mondo slavo.
Dopo questo patetico appello al buon cuore della regia, che però vorrebbe, da parte dello Zanni drammaturgo, insinuare anche delle buone ragioni per chi organizza il potere teatrale (è un’altra figura, si
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capisce, rispetto a quelle del regista e dell’attore), buone ragioni per la scrittura si capisce, vediamo in
che modo il drammaturgo può essere utile all’attore. Un attore o un’attrice, sensibile, colto, curioso di
trovare qualche strada non battuta, potrebbe esser già stimolato per le ragioni che ho esposto sopra. E di
attori così ce ne sono, più di quanto si voglia credere. Ma esistono delle ragioni in più. Il drammaturgo
scrive quasi sempre in funzione di un attore. Non sempre c’è il rapporto a priori con l’interprete, ma, per
quanto mi riguarda, devo dire che ho un bisogno assoluto di immaginare fisicamente il personaggio che
faccio «recitare sulla pagina». Devo cioè dargli una faccia e una voce: più di una volta qualche
personaggio «difficile» l’ho risolto incantandomi a fissare il volto di un’attrice o di un attore: era il mio
personaggio, che diventava vivo da quel momento, sciogliendo anche i miei problemi di battuta.
Però, in tempi recenti, ho quasi sempre scritto di teatro partendo da un progetto, il più concreto possibile,
che legava possibili interpreti a ruoli in movimento. È qualcosa di più che cucire la parte addosso a un
attore, significa scrivere un testo interpretando un attore, che a sua volta potrà accettare o respingere
questa interpretazione, compiere — questa volta sì — un’operazione dialettica, di quella dialettica teatrale
tanto teorizzata e così poco praticata da noi.
Questo lavorare insieme, col regista, con l’attore e da qualche parte finalmente anche con le strutture
teatrali, con le organizzazioni dello spettacolo, porta necessariamente il drammaturgo a cambiar pelle, a
entrare anch’egli, con le sue vecchie problematiche e le sue nuove angosce, nello spazio della
metamorfosi.
Il sistema linguistico è un tratto a mio parere essenziale; intanto, il linguaggio del teatro deve essere
capace di affrontare tutti gli acidi e tutti gli umori: dalla personalità dell’interprete alle linee della regia.
Non credo nella «sacra parola» immodificabile, definitiva, del «poeta» della scena. Proprio perché sono un
poeta, so che il linguaggio per il palcoscenico deve confrontarsi con chi lo pronuncia, con le situazioni
concrete dello spettacolo. Più volte ho cambiato battute e personaggi, in funzione degli attori che le
pronunciavano, dei problemi di scena, delle circostanze di palcoscenico. Questo non significa affatto una
dichiarazione di modestia. Anzi, permettetemi di dire che io la sento proprio al contrario. Come, raggiunta
la forma definitiva, non cambierei mai una parola di una poesia, così sarò pronto a cambiare tutte le
battute di un copione, quando questo risulti utile allo spettacolo. Quello che conta è il mio sistema di
linguaggio, che, finché sono vivo, potrà sempre permettermi di giocare col palcoscenico; e spero di
divertirmi.
Non si pone, a mio parere, il problema del linguaggio realistico o meno: non conta la contemporaneità
banale, l’ho già detto, non importa neppure che il linguaggio sia quotidiano: la verità del teatro è un’altra,
è sempre metafora, è sempre una convenzione linguistica e metalinguistica con lo spettatore. Così non
credo affatto che la lingua italiana sia una lingua non teatrale, anzi viviamo un’epoca esaltante sotto
questo aspetto, si va realizzando l’unità linguistica, possiamo esprimerci con un linguaggio realmente
parlato e realmente pensato dalla gente. Sarà una lingua povera o discutibile: bene, questo è proprio il
nostro lavoro, inventare il linguaggio, proporlo agli altri. Per il drammaturgo non si tratta di piangere, ma
di lavorare.
Oggi che il drammaturgo ha capito di essere una parte di un meccanismo artistico, l’identità dello
scrittore-autore assume nuovi connotati: egli scrive prima di tutto per gli attori, per i registi; solo
scrivendo così, il drammaturgo può pensare di far arrivare il massimo del proprio linguaggio e delle
proprie invenzioni agli spettatori. Non voglio dire che non si scrive per il pubblico, sarebbe assurdo. Io
credo nell’opera d’arte come comunicazione, come qualcosa che si ricrea di volta in volta dentro la
sensibilità dello spettatore, come del lettore, o di chi osserva un quadro. Ma vorrei dire che oggi il
drammaturgo forse non può essere più solo un drammaturgo, almeno come disponibilità d’animo, come
stato creativo. Il drammaturgo a teatro non rappresenta più solo se stesso, deve rappresentare, ed è una
rappresentazione ben difficile, la scrittura e il pensiero, in una appassionata razionalità che vive il tempo
della metamorfosi. Nel tempo che sembrerebbe circoscrivere il ruolo del drammaturgo egli invece, a mio
parere, acquista sempre di più nel teatro lo status di scrittore, di chi opera per via di linguaggio e di
fantasia.
Infine, io amo il teatro non solo perché rappresenta la ambizione luciferina di ricreare la vita, non solo
perché permette il peccato faustiano di ricercare la maschera della bellezza e della giovinezza eterna, ma
anche per quell’incontrarsi, quel lavoratore insieme, attori, registi, tecnici, scenografi, drammaturghi,
intorno a qualcosa che alla fine ha spesso la capacità di sorprendere tutti quanti, di essere un poco
diverso da quello che ciascuno di noi lo aveva immaginato, di proporci un’altra maschera, viva nelle
persone e nella materia dello spettacolo, che, spero affettuosamente, ride delle nostre angosce.
POESIA E TEATRO
Questa è l’età delle macerie, ma non credo che il Medioevo stia davanti a noi. Sono via via entrate in crisi
le utopie, quei sistemi di pensiero europei che da tre secoli giustificano e stimolano l’immaginario, come
se fossero un grande volano fra la società e la rappresentazione. Il parlare della fine è diventata una
moda, la metafora mitteleuropea sta proprio in questa attesa civile, consapevole della dissoluzione, in
questo senso particolare della prospettiva, capace di includere i protagonisti dell’oggi. Mentre la fine
letteraria presume che ci sia qualcuno ad osservar gli eventi, la fine tout court non ammette alcunché.
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Eppure noi stiamo utilizzando davvero delle macerie, quelle di una recente età di mezzo, ricca nelle arti,
ma dominata anch’essa dalla rivelazione, dalle convinzioni assolute, dal l’intolleranza dogmatica. Oggi
nelle arti avvertiamo nuovamente il bisogno della ragione e della verità, vale a dire della classicità e non
del manierismo.
Un ciclo nuovo sta cominciando, prima di tutto perché ne abbiamo assolutamente bisogno (lo stato
d’animo collettivo è già realtà), poi perché ci sono tante conferme concrete. Negli anni ‘60 e ‘70, in Italia
e nel mondo si manifestano fenomeni, che chiamerei «epifanie conclusive»: accensioni della creatività,
che sono anche riproposizione e limite. Dalla letteratura al teatro, alle arti figurative, alla musica, le
nuove generazioni hanno assimilato e trasformato in storia le ricerche dell’avanguardia. Per
l’avanguardia, che ha ormai costituito e codificato una tradizione sua propria, le posizioni hanno di
mostrato una capacità di resistenza superiore a quella delle forme. Ancor oggi quelle «ragioni» dell’agire
artistico ci emozionano, mentre dove non sia presente la genialità, verso l’opera abbiamo la reazione
dell’abitudine, delle convenzioni già assimilate.
Nel lettore, nello spettatore degli anni ‘80 si sta componendo in maniera diversa il rapporto fra soggetto,
forma e contenuto.
Questo mutare delle percezioni e della sensibilità si lega anche col diverso presentarsi nell’opera d’arte.
Prima dell’avvento della recentissima età della comunicazione ininterrotta attraverso l’immagine, ogni
opera (anche quella cinematografica) era un unicum, inserito sì in contesti a parte, ma sempre staccati
dalla quotidianità; lo stesso libro, nei Paesi progrediti, era consuetudine, solo in rari casi consumo.
L’opera per me resta certamente unica e irripetibile, con tutte le connessioni e i rimandi che si vuole,
perché l’originalità creativa nasce proprio dai confronti, dalla capacità di trasformare ciò che già esiste
come vita e come cultura. Ma, intorno all’opera, pullula oggi una enorme quantità di messaggi, che,
ricercando il massimo d’intensità, ne imitano le forme, quando non le citano, riproducono o plagiano
addirittura. Per gli autori, cioè per coloro che vivono di idee, il problema non è solo culturale, o teorico,
ma spesso, a mio avviso, tocca gli stessi diritti dell’ideazione.
Siccome oggi l’intensità del mezzo e l’iterazione della proposta creano, come sappia mo, nel destinatario,
una situazione di attesa o di benevola ricettività, occorre vedere se questa «attesa» generica, ottenuta
spesso con messaggi diretti all’inconscio o sublimali sia diversa — e quanto e come — dall’ «attesa» che
crea una cultura verso le opere d’arte. Non solo: c’è il pericolo che all’attesa di tutti si affianchi l’attesa o
le attese dei pochi, non più solo appassionati di teatro, musicofili, lettori attenti, ma costituzionalmente
l’élite, la minoranza capace, per la propria cultura e le proprie abitudini sociali, di determinare le proprie
attese culturali. Per gli «altri», la maggioranza, nella visione aberrante che discende da questa logica
dell’élite, un libro, un film, un dramma, verrebbero recepiti con una sostanziale uniformità, determinata
dall’intrattenimento e dalla curiosità di cui si carica lo stesso messaggio che li presenta al consumatore. Il
mito effimero come risposta a una attesa pilotata.
A questa situazione, che in parte esiste già, la gente sembra reagire, pur non avendola afferrata in pieno,
col fastidio che tutti proviamo per ciò che appare imposto o subdolo. Ciò viene proposto e rilanciato
consapevolmente da vari artisti: tanti materiali del ‘900 che si bruciano negli spot pubblicitari possono
costituire invece la piattaforma per le nuove costruzioni. Penso a un linguaggio sintetico, medio, ad
esempio, fra i tanti dati surreali dell’immagine, ecc., che è una sorta di nuova lingua italiana accettata da
tutti: accettata nell’uso, ma per chi scrive essa è materia da arricchire e da innovare, se può. Fra un
poeta degli anni ‘60 e un poeta degli anni ‘80 le differenze linguistiche a mio parere sono notevoli, non
solo per le accezioni delle singole parole, che possono ascriversi anche a un particolare lessico d’autore,
ma per i «valori» che alle parole vengono assegnati, per le diverse capacità di significanza e di
trasgressione.
Nello stesso tempo, l’arte che viene dopo i «moderni» deve confrontarsi con il tema della durata. Le
diverse forme della ricezione e anche una condizione dello spirito d’oggi obbligano alla classicità; e
siccome l’equivoco è diffuso, torno a dire che per me classicità non è opera di ripetizione, ma di
costituzione; è il contrario del riprendere il passato, si tratta di conoscere partendo da noi stessi, perché il
vuoto non può esser riempito né dalla storia, né dalla società.
L’idea della durata è unita con l’idea della poesia. Molti pensano che la gente legga o ascolti poesia per
una ragione preconscia, di impeto emotivo; invece alla base della poesia stanno due principi razionali:
quello della costruzione e quello della durata. La poesia rovescia il rapporto col tempo, lo esorcizza. Alla
radice, questa è la ragione del nuovo interesse per la realtà della poesia del mondo «occidentale», come
del rinnovato vigore della metafora in quello «orientale»: in ogni Paese la poesia gioca a scacchi col
tempo.
Questo è l’orizzonte delle pratiche in atto, per ciò che riguarda un rinnovato interesse per la poesia. Un
interesse che riguarda per ultimi i lettori di libri, il cui numero in Italia si è allargato solo di poco. Ma si
tratta di un’onda lunga, che credo toccherà anche i poeti militanti, dopo i classici e i maestri dei ‘900.
Però lo spazio dei poeti in questi anni si è molto dilatato. La poesia tende a diventare l’arte che attraversa
tutte le altre arti, che con esse si combina e si accompagna. Ecco i rapporti strettissimi fra poesia e
musica contemporanea, i numerosi incontri fra cinema e poesia, quelli ormai tradizionali fra pittori e
poeti.
La poesia recitata, per quanto detto sopra, costituisce un fenomeno a se stante. Siamo lontani da certi
progetti dell’inizio del secolo, che credevano di «nobilitare» il teatro con la poesia. Il teatro non ha
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bisogno di nessuno; e neppure la poesia, si può aggiungere. Ma più che i rapporti astratti, qui interessa la
nuova pratica che si è instaurata negli anni recenti, e i significati produttivi che essa può assumere.
Gli attori hanno sempre letto poesia; anzi, per mia esperienza, sono sempre stati disponibili e molto
simpatici nei rapporti con la poesia. Ma qui non voglio ricordare le letture in àmbito letterario (che tale
resta anche se ci si trova in un teatro), efficacissime e suggestive, di un Albertazzi, o di Edmonda Aldini,
Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, del compianto Bruno Cirino, di Lucia Poli, Giulio Bosetti, Patrizia De
Clara, Pino Micol, Riccardo Cucciolla, Renato De Carmine, Mario Mattia Giorgetti, Walter Maestosi, Laura
Gianoli, Leda Negroni, Salvatore Martino, solo per indicare artisti delle più diverse aree; facilmente un
elenco coprirebbe un intero annuario teatrale.
La poesia a teatro sta anche assumendo una nuova funzione di «testo»: quante volte lo si è potuto
constatare con Carmelo Bene, non solo nelle sue ammirevoli letture-recital, ma anche nelle citazioni
interne degli spettacoli, negli stessi recital di Giorgio Albertazzi, della Aldini, nelle interpretazioni di
Strehler, di Milva, di Tino Carraro. Ma i nomi preoccupano, perché tantissimi artisti sarebbero da citare,
dai grandi lettori come Gassman o Arnoldo Foà, ai recentissimi giovani interpreti.
Ma qui c’interessa il nuovo rapporto con la poesia che a teatro si sta verificando; accanto alla tradizione ci
sono dei fatti nuovi. Essi si collegano col panorama cui sopra accennavo: il bisogno di verità, di durata. I
sostenitori di un «teatro assoluto» considerano la poesia come un elemento narrativo; quindi non
scenico. Ma la staticità non è sinonimo della parola; anzi, un certo ritorno alla parola, con tutte le
ambiguità che possono avere le mode, dipende anche da un effetto di saturazione che ha l’immagine. Chi
ha più di quarant’anni ricorda come le immagini ci coinvolgessero emotivamente, quanto esse aprissero
con forza i propri spazi in un mondo parlato e descritto. Nel mondo della rappresentazione ininterrotta,
forse il fenomeno sta cambiando di polo.
In queste condizioni, la poesia potrà esser considerata, in certi casi, non solo materiale per lo spettacolo,
ma vero e proprio testo. D’altronde, anche nella scrittura per la scena, il pensiero viene prima della
battuta, e non esiste un drammaturgo a una sola dimensione.
Nello stesso tempo, se la poesia dovesse ancor più ampiamente entrare nella pratica del teatro, oltre a
dimostrare (se ce ne fosse ancor bisogno) la gratuità di certe insofferenze verso il testo, indicherebbe
come nel teatro d’oggi la parola è obbligata a un ruolo più vasto di quello della sola creatività teatrale. È
un paradosso, eppure oggi a teatro la parola non può confrontarsi solo col teatro.
Fra l’identità della parola poetica, carica al massimo di individuazione e l’ambiguità che valorizza la parola
sul palcoscenico, nella sua disponibilità all’interpretazione, si stabilisce un nesso nuovo, talora una
possibilità nello scambio delle prospettive. Gli autori si devono confrontare con un nuovo regista, difficile
da affrontare più di certi vecchi maestri di palcoscenico: un soggetto collettivo, inquieto nelle sue stesse
domande, che, come tutti noi, muta dentro e fuori del teatro.
UTOPIA E SCRITTURA DRAMMATICA
Non è più tempo di ritorni, di ricerca di radici: la drammaturgia interessa e può agire, solo in quanto
strumento per la fondazione di origini nuove. Si è chiusa un’epoca iniziata con il Settecento della ragione,
di una ragione molto più tormentata e ansiosa di quanto si creda; non fu quella un’epoca di classica e
serena fiducia nella ragione, ma di una fede inquieta e inquietante, in cui il pensiero diventava anche
metamorfosi in una sorta di illusionismo, che generava mostri sotto la pacata superficie della razionalità;
chiusa la lunghissima epoca delle eresie, di un millenarismo cristiano che ha prodotto alcuni dei momenti
più alti e delle tensioni drammatiche più durature nell’arte del pensiero umano, si apriva una spaccatura,
una scissione nei ruoli, all’interno dello stesso soggetto nel suo proporsi come fondatore di arte.
Non è un caso che Jaspers assumesse la schizofrenia come connotato dei tempi moderni, e che fra l’altro
in questa scissione, in due personaggi, del soggetto, egli vedesse la più convincente metafora della
nostra inquieta possibilità di creare. Così anche il drammaturgo oggi incontra i suoi personaggi come
problemi della comunità teatrale; ancora adesso direi che ha sostanzialmente ragione Diderot quando nel
Discorso sulla poesia drammatica sostiene che la «la platea di un teatro è il solo luogo dove le lacrime del
l’uomo virtuoso e quelle dell’uomo disonesto si mescolino»; e sorprende la forza corale del teatro, in una
società che va assumendo la finzione e il cinismo del potere come misura di disumanità a livello
planetario. Come Swedenborg nel ‘700 mostrava la drammatica alternanza fra scienza e bisogno di fede,
fino a un connubio classificatorio di corrispondenze e a un meccanismo coatto, nevrotico di iterazioni
ossessionanti, così vediamo oggi come il pensiero non abbia spesso la forza di ripetersi a se stesso, con
una tecnica di autoconvincimento, di fondazione di verità precarie, cioè di utopie teatralizzabili, fissate in
un dato momento. Ecco la forza visionaria che sta dentro la materia, che l’arte del pensiero anima in una
mutevole scena. Una sumerica spartizione del mondo dominabile, una complessa costruzione mitica
parallela ad essa, quasi un mito di Gilgamesh dell’età della scienza, caratterizza questi anni, dopo il
crepuscolo delle vecchie utopie. Ma lo stesso riproporsi delle tensioni della fede dentro l’umanità, quasi a
recitare la difficile separazione delle anime dai ripetuti corpi, dalla ritornante materia, in cui nelle età di
inquietudine esse sembrano avvertire la durezza del legame, nel l’utopica tensione a una realizzazione
assoluta di sé, tutto questo meccanismo visionario è alla radice della possibile teatralità dei nostri tempi.
Non pretendo con questo di dare una spiegazione di qualcosa che si può comunicare oggi solo facendo
arte, ricercando nell’arte del teatro; d’altronde credo che la coerenza, su questo piano, possa esser solo il
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vanto degli autori mediocri, di coloro che sono armati di serenità per mancanza di tensione. Ma sono
certo che lo scontro fra una ragione che vede affievolirsi i propri lumi e le vecchie utopie entrate in crisi è
la chiave teatrale dei nostri tempi; l’arte diventa un viaggio, il teatro una serie di passaggi, in uno scontro
più complesso di quello cui si riferiva Diderot dicendo, nel Supplemento al viaggio d Bugainville che
«dentro l’uomo naturale è stato introdotto l’uomo artificiale; e in quella caverna si scatena una guerra
civile che dura tutta la vita». Non è oggi la ricerca di uno stato di natura il modello utopico dello stesso
scrivere e quindi non può essere una denuncia la sola molla della drammaturgia: l’immaginazione e l’arte
soltanto, possono trasformare in alchemica luce d’oro i rifiuti della nostra società, lì in mezzo si svolge il
confronto, fra quelle quinte si deve ricostruire la scena.
Allora, in una simile prospettiva tanti problemi dibattuti con accanimento nell’ambito delle nostre scritture
teatrali appaiono come falsi problemi. Il rapporto fra parola della drammaturgia e azione teatrale ha le
stesse caratteristiche di intima compenetrazione, fra quelli che Foucault chiama linguaggi primi e
linguaggi secondi: questi ultimi non funzionano più come «aggiunte esterne alla scrittura», ormai egli
dice «essi fanno parte del cuore della letteratura, del vuoto che essa instaura nel suo proprio linguaggio;
sono il movimento necessario, ma necessariamente incompiuto mediante il quale la parola è riportata alla
sua lingua, e la lingua si stabilisce sulla parola». Ecco, sulla scena questa tensione fra langue e parole
costituisce oggi il segno del carattere critico di ogni operazione drammaturgica. Ciò da un lato instaura
rapporti di attività reciproca fra parola, intesa come pensiero, e atto scenico, dall’altro giustifica la
sempre maggiore destituzione di ruolo che accusa la critica in senso stretto. Non è solo per caso o per
una pur vistosa crisi culturale o per la patente strumentalità di troppe posizioni, che la critica militante a
teatro sta perdendo ogni credibilità nei confronti del proprio oggetto. Se è ancora vera solo in parte la
paradossale intuizione di Diderot, secondo cui «quello di autore è un ruolo assai vano; è quello di un
uomo che si considera in grado di impartire lezioni al pubblico, il ruolo del critico è ancora molto più
vano; è quello di un uomo che si ritiene in grado di dare lezioni a colui che si considera in grado di
impartirne al pubblico»; oggi un autore non può essere che un utopico ricercatore, perduta la certezza,
ma non la presenza della ragione. Il critico, specialmente in Italia e con le rituali e debite eccezioni, su
questa strada appare del tutto incapace di procedere, non solo per le pastoie e la strumentalità da cui
non ha avuto il coraggio di liberarsi, ma anche per una più profonda incomprensione per tutto ciò che
vada oltre la crosta, anzi le incrostazioni del teatro. Ne deriva la necessità di far oggi l’elogio del vecchio
cronista teatrale, di colui che aveva la capacità di vedere uno spettacolo, descrivendolo ai lettori; in
mancanza di interpreti, vanno apprezzati i traduttori letterali, mentre il gioco delle variazioni sul testo,
gioco registico e gioco critico, condotto nei confronti dei classici, non solo è privo di ogni reale impegno
nella direzione cui accennavo, ma spesso è un ozioso costituirsi in pigrizia intellettuale.
Nello stesso tempo, rivendicando questo suo fondamentale ruolo utopico, va denunciata la generale
arroganza che oggi si riscontra verso la parola teatrale; chi giudica chi?, questa è la domanda: gli
organizzatori, ahimé quasi sempre pubblici, perché i privati hanno nonostante tutto più apertura, e i
critici (per lo più diventati autori in proprio), molto più che i registi e gli attori, che invece sentono il
fascino di queste tensioni e di questi rischi, stanno deliberatamente distruggendo la possibilità di una
drammaturgia in Italia.
Qui interviene il tema del confronto: utopia teatrale significa anche confronto antagonistico con testi e
momenti di pensiero cui facciamo riferimento; non significa mai, invece, semplice sceneggiatura di
romanzi, riduzione di testi canonici, pseudo traduzione di opere straniere. Ma chi fa confronti e non
organizza adattamenti, può, proprio per questo, star certo di contare su larghe incomprensioni, tanto più
irritate e false, quanto più il pubblico mostri di capire il senso della proposta e le ragioni originali che la
hanno mossa.
Il teatro come luogo dell’utopia è costituzionalmente lo spazio per un attore che sia soggetto di ricerca;
l’attore non è un mediatore e neppure un uomo che debba esser vestito di parole; egli è il conduttore del
disegno utopico, colui che materialmente fa attraversare il passaggio dei nostri tempi con un’arte che non
è solo affinamento o invenzione di tecniche, ma profonda convinzione della necessità del viaggio.
L’attore così compie un viaggio nella materia teatrale intesa come storica coincidenza fra fondazione di un
progetto utopico e viaggio precario nello spazio che si apre in torno a noi. La formalizzazione, attraverso
il teatro, dell’utopia diventa azione dell’attore, presenza intesa come un’altra forma della materiale
fisicità, quella cui si riferisce il mio amato Lucrezio quando dice «esiste dunque la natura e lo spazio nel
suo effondersi, sì che tutto non lo possono percorrere i fulmini lucenti librandosi nell’eterna orbita del
tempo, e neppure è possibile che un minor cammino si apra nell’immensità alle cose, eliminando i confini,
in ogni direzione, dovunque».
Una proposta di utopia teatrale oggi non si colloca in una zona astratta, fra il poetico e il privato, come
alcuni vorrebbero far credere. Al contrario, essa costituisce una precisa tendenza fra quelle che
confusamente si misurano nel nostro teatro.
Non vorrei avere ragione sostenendo che temo una crisi teatrale. Ma è certo che le scialbe stagioni che
abbiamo ultimamente vissuto autorizzerebbero anche una certa fuga da parte del pubblico. Soprattutto
negli anni recenti il teatro ha dimostrato una sempre crescente mancanza di coraggio: non è detto che
sulla scena si debba rappresentare paratatticamente la crisi della società, le sue tensioni, le sue lotte.
Non è detto neppure che uno spettacolo dichiaratamente politico faccia di per sé teatro politico; ma è
certo che abbiamo assistito ad una doppia fuga, nei teatri italiani: quella che avrebbe voluto portare
lontano dal rischio politico e culturale e quella che avrebbe voluto portare lontano dal rischio artistico.
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Però non si può consentire che una parte di ex-avanguardia, quasi avulsa per sua scelta dalle tensioni
culturali e politiche che attraversiamo, si proponga come reale alternativa a questa crisi del teatro. I suoi
comportamenti pratici e le sue scelte ideologiche stanno alla radice, al pari di altri fenomeni, di questa
crisi, non ne sono la risposta. Pretendere per esempio che lo spettacolo teatrale divenga in ipotesi una
specie di balletto meccanico, riproducibile in alternativa al fatto filmico o a quello televisivo, costituisce un
errore di impostazione radicale, che non solo non offre un contributo per una rifondazione della creatività
teatrale, ma spiazza in una zona di estremismo extra teatrale le stesse possibilità della ricerca. La
precarietà dello spettacolo, la sua fisicità, legata alla presenza dell’attore, non sono i nemici da
combattere come retaggi di una concezione romantica della vita della scena: l’imprevedibilità è il segno
artistico della libertà, come la fisicità è il primo strumento di comunicazione del teatro, che è un’arte
essenzialmente legata alla «materialità» della presenza umana. Quale altra forma d’arte infatti
presuppone un’azione fisica preminente tanto che quest’azione agisce continuamente sullo stesso
linguaggio? La parola teatrale è una parola che cambia continuamente di inflessione, che dipende dalla
voce che la domina.
Va inoltre detto, per quanto riguarda il problema della scrittura drammatica, che come in ogni altra
ricerca della cultura, molto dipende dalla considerazione in cui quella particolare sfera di attività è tenuta
per convenzione comune. È indiscutibile che nel dopoguerra in Italia la ricerca della regìa da un lato, e,
seppure in ruolo minoritario, le proposte di teatro d’immagine, hanno teso a spiazzare la funzione del
drammaturgo. Nello stesso tempo, la scrittura continua ad essere da noi, come in altri Paesi, una sorta di
coscienza infelice, non sempre convinta fino in fondo di doversi realizzare e soprattutto mal tollerata dai
poteri costituiti del teatro. Questa rimozione del «drammaturgo» è a mio avviso la spia più chiara di una
sua funzione che più d’uno vorrebbe non venisse esercitata. Il drammaturgo è accettato o in quanto
costituito nell’opera di un classico oppure quando si presenti come personaggio assolutamente non
disturbante. Ecco le ragioni delle riproposte del teatro di consumo di cui parlavo prima. Solo che non si
considera che l’inerzia intellettuale porta il più delle volte anche alla noiosità scenica.
Infine va considerata la crisi della regia, non quella di un teatro non verbale, ammesso che sia realmente
esistito, ma quella che avrebbe dovuto essere la naturale erede dei grandi maestri della regìa, che
costituirono un’arte proprio sulla rigorosa interpretazione del testo, sul rapporto innovativo tra teatroteatro e teatro-copione. Oggi, le linee della regia appaiono più come anelli stretti fra gli arcipelaghi del
potere che come reali tensioni che si esercitano sui segni teatrali. Esistono certamente degli importanti
momenti di teatro che si possono dichiarare frutto quasi esclusivo della creatività del regista, ma proprio
nei casi più significativi, negli esempi più alti di arte della regia in questi ultimi anni, abbiamo visto che è
proprio la crisi dell’interpretazione la molla artistica che muove questi spettacoli. La crisi
dell’interpretazione, divenuta consapevolezza, ha portato a due scelte diverse entro cui si muove la figura
del regista. La prima è quella del regista che intende riformare la regìa stessa, convinto che questa sia
uno specifico d’arte e non un temporaneo ruolo culturale assunto da una nuova figura scenica, nel
momento in cui il vecchio teatro dell’800 toccava i punti più bassi dei suoi esiti artistici; questo tipo di
regista fa della crisi della regia lo specchio della crisi del teatro, che a sua volta riflette la crisi della
società e, attraverso questa via, si ripropone come perno dell’azione teatrale. Tutto ciò però richiede,
oltre alle capacità, che pure sono diffuse, fiducia e coraggio nel proprio compito. Queste qualità difettano
nell’altra figura di regista che ancora non sicura, nel suo porsi al riparo dei testi dei grandi autori,
vorrebbe trasformarsi in autore; non autore di uno spettacolo in cui sembra creda sempre di meno, ma
addirittura autore del testo. In questi casi il copione viene manipolato, rifatto, ridotto, riadattato, riedito e
così via, non per ragioni di creatività e per gusto del gioco teatrale, ma perché sulla scena opera un
personaggio insicuro del proprio ruolo. La ricerca di un nuovo ruolo si trasforma non in ipotesi di una
regia innovatrice, ma in un cambiamento di pelle, quella che maschera il regista-autore.
Insomma, fare un discorso sulla scrittura teatrale, intesa come farsi utopico dentro il movimento storico
della società, significa non solo proporre una visione personale d’autore, ma anche compiere un’analisi
«sgradevole» sui troppi travestimenti che nascondono i veri personaggi che agiscono sulla scena teatrale
dell’Italia d’oggi. Allora ci accorgiamo che il rinnovarsi delle definizioni e delle mode, l’accogliere
acriticamente qualsiasi tendenza, la continua ricerca di «novità», sono il necessario contrappeso del
l’inerzia creativa di una tradizione diventata routine.
L’una e l’altra contribuiscono a stringere la tenaglia delle situazioni consolidate del quieto vivere, dello
spazio inteso come potere e non come luogo di confronti d’arte. Da scrittore non sopravvaluto il ruolo
dello scrittore, soprattutto so bene che i cambiamenti di tendenza a questi livelli avvengono sui tempi
lunghi, in una società bizantina come quella dell’Italia d’oggi. Tuttavia il fatto che si parli sempre più
spesso di scrittura, che ci si lamenti, sia pure in malafede, dell’assenza della «variabile drammaturgo»,
mi sembra già un segno che fa pensare ad una nuova fase all’interno dei rapporti fra coloro che fanno
teatro.
IL TEATRO DEI POETI
La poesia e il teatro sono arti contigue e insieme lontanissime; tutte e due da lontano sembrano delle
realtà unitarie e ben individuate, ma, se si va oltre le prime semplificazioni, appaiono costruite sulle
domande, sugli interrogativi. Questi dubbi, questa ricerca interna sui modi e sulle ragioni specifiche
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dell’esistere, fanno sì che esse siano delle forme vive. Il «chi sono?» e il correlato «quali ragioni ho per
esistere?» sono due interrogativi, che spiegano la particolare tensione che hanno poesia e teatro.
I dati di partenza sono tanti, ma nessuno è, per chi operi fuori della ripetitività (nella poesia) o del solo
guadagno (nel teatro), scontato a priori.
Non costituendosi con materiali inerti, la poesia e il teatro sono arti a sé, non parti di un genere. Certo, la
poesia usa la parola; ma appartiene all’area della scrittura solo per comodità di critici e di storici, mentre
racconti, romanzi, novelle e diari, appartengono al genere della narrativa e diventano più autonomi o
necessari, a seconda del peso che ha la funzione del narrare dentro una società. Ma se la poesia non si
esaurisce nella scrittura, il teatro si distingue dallo spettacolo, anzi sempre più deve distinguersi da una
funzione di intrattenimento, di semplice «diversione» della psicologia dello spettatore rispetto al tempo
reale. Quello che nella poesia e nella letteratura del Novecento è il problema della crisi della soggettività,
nel teatro del nostro secolo diventa il tema dell’identità del teatro, della ricerca dello specifico, di quel
«quid» che lo differenzia dalla letteratura, dal cinema, dalla sola dizione, eccetera. Per certi aspetti,
poesia e teatro sono parti di uno stesso corpo: non quello fisico, la «presenza» dell’attore, la personalità
del poeta che viene immesso sul palcoscenico, e neppure quello letterario della parola, del verso, della
battuta; ma il «corpo» di un pensiero che vuol comunicarsi nella sua immediata totalità, in una
trasmissione «crudele» per la sua interezza. Il teatro investe i sensi dello spettatore, lo fa entrare,
quando è davvero teatro, in un altro tempo che, a differenza del tempo filmico, non opera sotto il
margine della sensibilità conscia, ma chiede una razionalità nello stesso guardare come nel sentire; la
poesia non vuole accattivare il lettore con la descrizione, con l’intreccio, con il piacere passivo della
fantasia che cammina insieme con il narratore: il lettore di poesia deve esser attivo, oppure crede solo di
leggere quei versi. La partecipazione al teatro non è di gruppo, politica e quindi censoria, è trasmissione
di identità, dall’attore allo spettatore, da soggetto a soggetto. Poesia e teatro diventano le due forme
maggiormente espressive di un pensiero artistico degli uomini. Trasmissione del pensiero è molto di più
che trasmissione della «sola» parola, infinitamente di più che trasmissione del gesto, del colore, del
movimento, dell’immagine. La parola è pensiero, ma non lo è «sempre», non c’è nulla di passivo, non
bastano solo le parole. Perciò un piatto teatro di parola è poco teatro, quanto la banale illusione che il
mezzo visivo possa di per sé trasmettere qualcosa di essenziale al teatro. Ma gesti, immagini, suoni
acquistano significato quando si confrontano con la parola e soprattutto quando hanno in sé un pensiero
(non preverbale; quello che non è fatto parola non è pensato).
Su questo lato del pensiero (che non è ragionamento, non è filosofia, non è razionalità fredda, non è ...
ma l’Italia culturale è la patria del non voler capire, anche se dici che «il corpo pensa», ti obiettano che
sei un razionalista), poesia e teatro trovano una identità, che anticamente fu origine comune del pensiero
mitico: non per caso si ritrovano vicine in un’epoca che torna ai valori conoscitivi del mito.
Il mito «torna» per le stesse ragioni che hanno fatto tornare la poesia, che devono indurre a «tornare» il
teatro. Il Novecento è un grande secolo di teatro e di poesia, perché è una età di cambiamento come
forse mai ci furono nella esperienza degli uomini. Da un ventennio noi viviamo «oltre» il Novecento;
questi anni stanno ancora nel secolo ventesimo, ma la comunicazione, le arti, le forme e soprattutto la
psicologia di tutti noi subiscono una metamorfosi; cambia il modo di vedere e di leggere, per effetto della
nuova comunicazione, dell’immagine, della velocità e insieme della ripetitività delle notizie. Le stesse
informazioni quotidiane vengono, nel mezzo televisivo, trattate come «generi»: c’è il dramma, l’atto
unico, il romanzo a episodi, la novella; che poi, sotto le forme del dramma pastorale o della tragedia
sintetica, i fatti riguardino sofferenze e ingiustizie senza misura, conta poco: per lo spettatore, queste
informazioni sono già giudicate e rese almeno in parte inattive; e la funzione anestetica spetta proprio
alle forme della spettacolarizzazione, che le rende inerti, per quanto riesce a inserirle in un genere.
Insomma ci viene presentato «il dramma di ...», non i fatti. Questo non per maligna volontà, ma per
effetto delle forme. La realtà è che se il teatro e la poesia si devono continuamente reinventare, il mezzo
televisivo deve ancora inventarsi, conquistare una sua autonomia, che non è solo tecnica, mentre molte
delle forme di narratività in uso, come vie scelte o come strade obbligate, sono in effetti devianti.
La metamorfosi, l’impasto di vecchio e di nuovo che portiamo dentro di noi è ben evidente nei rapporti
poesia-teatro. Si dice che sono due arti in crisi, eppure sono quelle che più esprimono il senso di questo
secolo e anche dell’«oltre» che viviamo (vicino alla architettura, alla pittura e al cinema). Ad esse è
connaturata un’aura, un’atmosfera particolare che dispone a un certo tipo di percezione, a un’attenzione
specifica; la loro immagine crea adepti che vogliono praticarle senza neppure conoscerle davvero, questo
è un dato misterioso, che tocca il bisogno di esprimersi degli individui, che riguarda il piacere e la
religione insieme.
Quindi la poesia a teatro nella sua essenza non è phoné: il suono, la sua emissione sono molto
importanti, ma il filo da seguire non è la dizione, o peggio la recitazione delle parole, ma il particolare
pensiero della poesia e la particolare «aura» del poeta. Non esiste un’aura unica, a meno che non la si
confonda con un «atteggiamento» esteriore; tanto poco importante quanto i poeticismi rispetto alla vera
poesia. Ma ogni poeta «deve» avere la propria aura, che è in sostanza il suo modo e le sue ragioni di
porsi di fronte alla poesia: se mancano questi rapporti, un autore crede di far poesia, ma in realtà fa
altro. Così questi rapporti possono benissimo esistere anche in un poeta che li rinnega.
Altro dato essenziale nel rapporto poesia-teatro è la musica; ma la musica non si può recitare.
L’imitazione della musica dentro le parole diventa facilmente concessione alla musicalità, che è maniera,
dato deteriore, se c’è, nella poesia, elemento deteriore, se si presenta nella interpretazione dell’attore.
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L’attore non deve fare il verso al canto del poeta. Questo canto appare spesso dissonante; armonia non
significa un bel suono, ma necessità della costruzione.
Oggi il teatro guarda alla poesia e la poesia al teatro: sia perché entrambe le arti avvertono acutamente
nella metamorfosi della parola, che è in atto, non la sua fine, ma il rinnovamento. Così, i teatranti spesso
per poesia intendono la liricità, quando addirittura non la avvertano, come si faceva cinquant’anni fa,
dentro alcuni temi (la memoria, l’infanzia, e di male in peggio ...); i poeti credono che un dialogo sia già
teatro, o che l’essenza del teatro sia lo stare in palcoscenico.
Eppure dentro la metamorfosi di questi anni, la rappresentazione è la chiave di tutto: il reale non è
descritto, né affrontato per trasformarlo (dopo la crisi dell’utopia e il bloccarsi della dialettica) e neppure
accettato; esso viene rappresentato, viene constretto nei generi. È in atto una grande falsificazione del
reale, cui si sostituisce «l’immagine del reale visto da ...» Ed anche il soggetto che vede è una
costruzione, talora arbitraria, talaltra maliziosa. Eppure il rappresentare, sfuggendo a questa
contaminazione del soggetto è il compito d’oggi della poesia e del teatro. Il rappresentare noi stessi nel
cambiamento, e il cambiamento come parte di noi. Ecco perché la poesia e il teatro non possono
rassicurare. Attraversiamo il vuoto, ma la sua rappresentazione non dà angoscia; e l’umanità sopravvive
mutando nei veleni e adeguandosi all’ambiente. Nella poesia e nel teatro la verità dà più forza della falsa
consolazione o della ironia, che autogiustifica il soggetto.
Fra poesia e teatro credo ci sia un appuntamento, in questa età che non può essere che di origine o di
fine; come in tutte le metamorfosi, l’antico si mischia con le nuovissime proiezioni delle due arti.
La leva di tutto per me è una cosmica idea di materia, dove soggetto o oggetto tentano un confronto
attraverso la volontà individuale. L’etica e la necessità si realizzano nell’idea di viaggio e di conoscenza.
Ma quanto è ridotto questo soggetto, rispetto a quello di un Leon Battista Alberti o di un Diderot! L’io non
articola la propria architettura, non si divide neppure più nei vuoti e nei pieni, ma ha operato in questi
ultimi anni una riduzione che lo ha portato a una nuova unità. Ed è materia nella materia, terminale di
sensori, cliente di intelligenze artificiali, sala di controllo dei propri prolungamenti che
contemporaneamente determinano il suo essere. Come sta saltando il diaframma fra il dentro e il fuori di
noi, così penso che la alternativa fra materialismo e spiritualismo, rispetto al reale, in parte cambi, in
parte cada. Tutto ritorna al soggetto, a quella barriera dell’«oltre», che il pensiero sa che esiste e che un
atto di fede può saltare.
Per me poesia vuol dire conoscere e significare, dentro il peso e il piacere della ragione e della materia.
***
Quando parlo di «Poesia della metamorfosi», so di usare una figura allegorica, ma proprio in quanto
allegoria essa è rapportata al reale. Forse è un sentire di poeta, ma non è sogno: lo dimostrano questi
anni Ottanta, quasi tutti trascorsi. Quando la proposi, molti la accolsero, ma alcuni amici pensarono si
riferisse solo alla classicità, altri la sentirono come una utopia morale, una figura poetica. Invece i tempi
hanno dimostrato quanto la metamorfosi sia una chiave del reale, di una realtà nuova oltre i nostri
desideri. Rileggendo la retorica futurista, tante belle e meno buone illusioni di riportare la macchina e la
tecnica sotto il dominio dell’arte solo nominandole nella poesia, trovo che Folgore e gli altri
appartenevano a un mondo fatto di confini: fra le arti, fra il dentro e il fuori di noi. Questi confini sono
caduti, la stessa superficialità futurista, che considerò le azioni (le tecniche) e non il pensiero (le scienze)
— specie in letteratura, diverso è il discorso per i pittori, gli architetti, i musicisti: o forse la diversità
dipende, come sempre nelle arti, dai risultati? — ci appare rassicurante.
Uno spazio senza confini è uno spazio vuoto per principio: tutto vi può comparire, tutto può esservi
assente. Ma il nostro spazio non è quello dell’indifferenza, della pigrizia intellettuale di tanti discorsi sulla
poesia degli anni Settanta. Se le cose cambiano, non si è autorizzati a mettersi alla finestra.
Credo che oggi tutti possano scendere in strada. Il panorama è cambiato e non si riesce a osservano
attraverso vecchi schemi. È inutile cercare gruppi o tendenze secondo una ottica superata. La
metamorfosi investe il pensiero politico, quello filosofico, le inquietudini delle arti.
Nel 1982 «Poesia della metamorfosi» a Fano, tre anni dopo l’antologia omonima, ma anche «Les
immatériaux» a Parigi, una mostra che sui temi di pensiero e percezioni ha non poche sintonie con questo
discorso.
Soprattutto, si va diffondendo la certezza che la metamorfosi è di una assoluta radicalità. Cambia il
sentire dell’uomo, cambia il costituirsi della sua fantasia, cambiano i linguaggi. La crisi delle utopie ci
impedisce ogni retorica sulle «umane sorti e progressive», Leopardi e Vico vietano di porsi in posizione di
aspettativa irrazionale o di rottura orgogliosa. Ma, se questo mondo non finirà, sarà davvero un «nuovo
mondo», ancora su questa terra si supereranno confini psicologici e di pensiero che neppure erano
sospettati di esistere. Non ho molta fiducia nella mia sopravvivenza, ma sarei molto curioso di vedere
questo «aldilà».
«Poesia della metamorfosi», allora, è una ipotesi di conoscenza, che segue il cammino della poesia, che
tende a uscire di pagina, ma ancor di più a infittire la sua trama nel reale. Il reale, proiezione di un
«noi»?
***
Eravamo partiti dalle crisi, siamo entrati nella metamorfosi. L’autodifesa in età di crisi è l’ironia, lo
scetticismo, l’esaltazione del negativo. La metamorfosi richiede costruzione, proprio per il suo grande
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spazio, per l’attraversamento del vuoto che essa comporta e che necessita di segnali visibili. Nell’ottica
del tempo di metamorfosi, si spiega la congiunzione delle crisi.
La crisi della utopia coincide con l’eclisse della volontà europea. Non solo la storia, ma la cronaca di questi
anni si spiega con la fine delle utopie.
La ragione, il progresso scientifico, l’ottimismo sociale si sono rivelati via via come dei creatori di mostri, i
mali dell’utopia hanno contagiato la ragione. La metamorfosi, rioggettivando l’individuo nel sé, dà nuovi
appuntamenti per il riemergere della volontà. Ma oggi domina ancora uno sterile e minuto scetticismo.
Il Novecento letterario fu caratterizzato dalla consapevolezza della crisi della soggettività; l’io assente di
Musil, l’io diviso di Svevo, l’io corroso dai sali e dai venti di Montale, compone la reale immagine del
secolo; la ricomposizione, come in D’Annunzio, appartiene al mito letterario. Dentro la metamorfosi, oggi
il soggetto avverte che non c’è più tempo di crisi e di divisione: l’io novecentesco, scisso e inafferrabile, è
stata una grande proiezione della crisi della società, ma anche un lusso culturale e psicologico, che non ci
possiamo più permettere. Un soggetto ridotto, privo di sogni di potenza, immerso come un girino in
un’acquea solitudine, che si rispecchia come un feto nello specchio bianco, teso verso l’impossibile
empatia degli altri. Alla logica del vuoto e dell’energia, nell’insieme che origina la materia, corrisponde la
logica della solitudine e della compressione emotiva nell’io atomizzato di oggi. Ma dentro una figura della
solitudine ben diversa rispetto a tutti i precedenti tipi di solitudine — contrassegnata, dai classici ai
romantici, alle stesse avanguardie, da una forte soggettività, sia pur in sé conflittuale — nella
metamorfosi l’io tende a ricostituirsi come uno; lo testimonia oggi nelle varie arti d’Europa.
La metamorfosi sta «oltre» il Novecento, chiusosi fra gli anni Sessanta e Settanta, di disciplina in
disciplina, sotto l’urto della congiunzione delle crisi: quella della razionalità diffuse un vago misticismo
fatto di superstizione e di riti del consumo e dello spettacolo.
La lingua fu contestata e insieme con essa la parola, confondendo gli effetti con le cause: la parola non
era superata dall’immagine (nel cinema e nella televisione), dall’azione (nel teatro), dagli effetti acustici
(nel canto), ma tutte le arti erano coinvolte nella crisi e nel cambiamento delle percezioni, nel mutare
della fantasia. Siamo dei mutanti rispetto alla nostra sensibilità, ora ce ne accorgiamo appieno, dentro la
metamorfosi. La parola si riconnette col pensiero, con le sue necessità dentro il vuoto: ecco perché la
parola poetica si dilata: in tutte le scale cromatiche, attraverso tutti i registri, fuori della pagina stessa.
Nella metamorfosi la lingua poetica deve aver la forza di significare oggettivandosi, guardando al proprio
sé, mutante dentro i cambiamenti della materia. Una scrittura che non sia lucreziana materialisticamente,
è solo retorica, perché il suo significare va oltre la stessa scrittura, dentro la materia. Altro materialismo
non si dà, se non quello dei mediocri grammatici, incapaci di sperimentare. Occorre vera
sperimentazione, non gioco con le parole. Il salotto borghese e la comune rivoluzionaria sono ipotesi del
passato; se ci sono poche speranze a questo mondo, tocca a noi inventarle, ma nelle cose, non nel gioco
della pagina, arido e gretto. Razionalità vuol dire anche fiducia nelle proprie scelte poetiche, una
convinzione non moralistica, ma etica. Noi non abbiamo mai preteso di dar lezioni agli altri, ma non
siamo, quanto a linee e scelte, dei poeti pentiti, prima ipercontestatori, poi, mutata l’atmosfera,
neoromantici, non apparteniamo a quella pericolosa categoria di uomini d’ordine che sono i rivoluzionari
pentiti. In un momento di azzeramento dei valori politici, diciamo che dentro la metamorfosi occorre che i
poeti si riconoscano nella società, gridiamo che, nonostante tutto, noi siamo fratelli e che l’amore
dell’umanità è la ragione della ragione.
Una vera cultura della pace, una riflessione sulla aggressività, disinteressata e senza pregiudizi, un non
retorico essere uguali: per una Europa che sia mondo, rifiutiamo la divisione in primo, secondo, terzo,
quarto mondo, alla base di un nuovo razzismo della tecnica, dell’economia, della comunicazione.
Rifiutiamo l’informazione come metafora, per cui anche l’eccidio è «naturale» in uno dei mondi
«inferiori». Ai poeti importa — e i poeti denunciano — che ai mondi subalterni sia riservata la produzione
di sostanze tossiche e pericolose, riguarda i poeti l’idea dell’ambiente, materia che entra continuamente
nella nostra individuale materia, con le sue metastasi malate.
***
La ricostituzione di un io solitario fa rivivere, secondo me, la maschera e l’idea del sacro. Il «sacrum» dei
latini, lo «ieròn» dei greci hanno, con diverse accezioni, in sé il concetto di «esecrabile», «mostruoso»;
nella nostra tradizione, maschera e mostruosità sono sinonimi e proprio perché «sacra», la maschera è
credibile. La maschera salta le leggi etiche e quelle della natura: ma il suo distacco dalla norma è un
continuo richiamo a quei valori. Ma per me sono maschere anche gli automi che il Settecento razionalista
ammira: il loro fascino non derivava dall’esser opera di abili orefici, ma dalla trasgressione alle leggi della
natura che rappresentavano «costruendo» l’uomo, dall’eredità del Golem che portavano in sé. Oggi
viviamo nell’età dei robot e delle intelligenze artificiali.
Siamo abituati a concepire degli anelli di acceleratori delle particelle, le cui pareti sono in realtà costituite
da «forze», da campi magnetici e non da metalli visibili: è tanto difficile immaginare una maschera
contemporanea, la cui materia sia diversa rispetto al cuoio e al metallo? Pensate agli assassini dei
Kennedy: maschere, non uomini. Il patto con la maschera sta dentro l’azione? La tragedia ridiventerà
«politica», come partecipazione della comunità?
Io sono un poeta e un drammaturgo che ha sempre rifiutato i condizionamenti e le tessere del potere,
eppure mi preoccupa la caduta dell’idea del «politico», conseguenza del cattivo uso fatto del termine nelle
stagioni passate: ma senza etica non c’è tragedia, non c’è teatro, non c’è neppure poesia.
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La televisione, la musica — dal jazz al rock al «dopo» — con i loro personaggi hanno creato le premesse,
con figure artificiali e metaforiche, quanto artificiali e metaforici erano gli dèi greci; ma queste diventano
maschere solo se esprimono il sacro di questi anni: alcune idee di solidarietà e di pace ad esempio, che
sono profondamente avvertite in Europa, quanto violate nella cronaca quotidiana nostra e altrui; la
tragedia può esser una riflessione sull’aggressività, cui corrispondono le infinite forme della violenza,
anche quella, apparentemente benevola, di chi non ha il coraggio di testimoniare le proprie idee. Si è
costruito un «sacro contemporaneo», che unisce i credenti in verità rivelate e i non credenti; non è una
filosofia, ed è più di una religione naturale: il discorso sulla natura e quello sull’uomo si saldano proprio in
una idea del sacro, alla cui violazione corrispondono delle catastrofi, ecologiche e morali.
Come ci si avvia a disegnare la mappa genetica dell’uomo, così l’io ridisegna i propri rapporti affettivi e la
propria scala di valori. Ma il rapporto non è più soltanto fra il soggetto e il suo profondo, si va
ricostituendo la relazione col mondo, col reale.
Così torna la maschera, come sperimento da vari anni nella poesia, io contro io, io come
rappresentazione del mondo.
***
Proprio perché si tratta di una ricerca nel vivo della scena (cui io stesso mi dedico da un quindicennio)
non credo a un «Teatro di poesia», come si è venuto configurando nel Novecento: questa proposta ha
sempre avuto una valenza regressiva, che tendeva a restaurare una parola poetica (spesso poeticistica)
su un teatro visto dall’esterno, qua si nella pretesa di educare il teatro standone fuori.
Ma ancor più esso si caratterizzava per una concezione «orizzontale» della parola, di un suo «dire» senza
conceder spazio all’invenzione teatrale, che è anche poesia di luci, di movimenti, di maschere, per un
considerare la lingua come un «dato» trasferito sulla scena. La regia non può andare contro il testo, ma
neppure il testo può muoversi contro il suo esser un copione teatrale. Non tesserò certo io l’elogio della
«battuta per la battuta», ma un teatro a una sola dimensione assorbe in quella lirica-colta della parola
tutti gli umori che in scena devono sciogliersi.
Non un «teatro di poesia», dunque che spesso non è né poesia né teatro, ma un «teatro dei poeti» è
quello che da più parti oggi si annuncia. Dalla Svezia all’area di lingua tedesca, dalla Spagna alla
Romania, dalla comunità francofona a quella delle lingue slave, una parte non indifferente del teatro
europeo trova nella fisica coincidenza fra poeta e drammaturgo lo spunto per nuove invenzioni della
parola scenica. È una lingua, che nasce da una convenzione, si sa, quella del teatro, ma oggi sentiamo il
bisogno di nuovi spessori.
Un parallelo bisogno muove la poesia, che col pensiero e con la musica rivede i propri sistemi. La parola
assume le mutevoli trasparenze di una mano d’acqua, che attraversa le balze della soggettività e le
caverne del tempo.
«Teatro dei poeti» significa anche spostare il discorso dall’oggetto al soggetto, riconoscere come il grande
protagonista, della poesia e del teatro, questo nuovo io che emerge. Come l’Europa delle macerie aveva
liberato le contraddizioni, questa Europa, che costruisce e produce, spesso senza pensare, in preda a
segreti timori, ha un nuovo protagonista, un soggetto che propone e modifica. Fra questo nuovo io e la
metamorfosi del reale, si gioca la scommessa di due arti, che, come la mandragola, più di tutte rivela no
la propria radice a forma d’uomo.
Fabio Doplicher
[Da Il teatro dei poeti – Antologia-catalogo, a cura di Fabio Doplicher (C.T.M. – Circuito Teatro Musica
coop. S.r.l. 1987). Per gentile concessione.]
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IL FARE COME VOLONTÀ DI CAMBIAMENTO
L’intervento che segue è stato scritto nel 2001, mentre vivevo per ragioni di studio in Ungheria, ed è in seguito stato
pubblicato in qualche rivista o volume di Atti convegnistici di cui, a pensarci oggi, non ho più memoria. Ne è rimasta
una traccia in rete, sul sito www.letteratour.it, a testimonianza del fatto che la rete è già una biblioteca. I direttori de
“L’Ulisse” lo hanno trovato e hanno deciso di ripubblicarlo, evidentemente trovandolo di qualche interesse. Oggi non lo
scriverei così: le citazioni sarebbero diverse, l’Ungheria e la sua poesia sarebbero vissute con distacco maggiore,
alcune affermazioni sarebbero calibrate e soppesate meglio, così come meglio verrebbero dipanate le riflessioni sulle
stagioni della sperimentazione linguistica e della spettacolarizzazione, etc.; ma va bene così, mi piace l’idea che questa
riedizione sia un’occasione per rimettersi alla scrivania e scrivere un nuovo intervento che citi, confutando e
continuando, il precedente.
Fabio Doplicher scrive nell'introduzione all'antologia-catalogo da lui curata in occasione del Convegno
Internazionale "Il teatro dei poeti" (Roma, 1987): «I sostenitori di un teatro assoluto considerano la
poesia come un elemento narrativo; quindi non scenico. Ma la staticità non è sinonimo della parola; anzi,
un certo ritorno alla parola, con tutte le ambiguità che possono avere le mode, dipende anche da un
effetto di saturazione che ha l'immagine». Sono passati quasi quindici anni ma credo che l'affermazione
del poeta e drammaturgo triestino possa ancora rappresentare un buon punto di partenza per un'analisi
del tema in questione. Ed è probabilmente soprattutto a causa di questa saturazione che si può parlare di
una "rinascita della poesia" in questi ultimi anni.
Vorrei allargare il campo di indagine. Se in Italia c'è stata una cosiddetta rinascita della poesia – oppure
solamente riscoperta, riacquistata visibilità? – in altri paesi a noi vicini il primato della poesia nel '900 non
è quasi mai stato messo in discussione. Penso a paesi della fascia mitteleuropea come Polonia,
Repubblica Ceca, Ungheria, a quelli dell'Est, Russia su tutti. In particolare vorrei soffermarmi
sull'Ungheria, giacché da diverso tempo ci vivo per motivi di studio.
La prima fonte di meraviglia, una volta arrivato, è stata la scoperta dell'esistenza di molti gruppi musicali
che scelgono di musicare le poesie degli autori ungheresi. La seconda fonte di stupore è stata scoprire
che tali gruppi spesso si esibiscono in concerti ai quali accorrono molti giovani, concerti che si tengono
nei locali più disparati, e lo sottolineo per mettere in evidenza il fatto che - contrariamente a quanto si
potrebbe pensare - i luoghi privilegiati di queste performance non sono "sacri", ovvero né teatri né circoli
culturali. La scelta del posto viene fatta principalmente in base a necessità di spazio e non di scelta
ideologica. Sono quei ragazzi che irradiano di sacralità i luoghi e non viceversa, trasformando anonimi
residui di fabbricati socialisti in luoghi di identità, relazioni, progetti, temporalità. E che cosa mettono in
musica? La poesia ungherese è poesia sociale, di forte impatto umano, a partire da Balassi Bálint
passando per Petőfi Sándor fino alle voci più vicine di József Attila e Radnóti Miklós, è il canto che incita il
popolo magiaro a non cedere mai, a resistere, anche dopo la tirannia della Chiesa, dei Turchi, degli
Asburgo, della dittatura fascista prima e di quella comunista poi. È un caso che un paese – l'unico al
mondo? – che ha perso tutte le battaglie e le guerre della propria storia e sia stato assoggettato sempre,
in una maniera o nell'altra, dal suo arrivo in Europa prima dell'anno mille, abbia un rapporto così
viscerale con la poesia? È un caso che anche negli anni più duri della propria storia, quella gente, e per
gente intendo la massa che sta attorno al circolo dei pochi addetti ai lavori, abbia comprato i libri dei
poeti, le riviste di poesia, abbia imparato i testi a memoria, abbia appeso le fotografie dei poeti nelle
cucine, nelle camere da letto? Ed è un caso che in Italia, o in paesi a noi simili per cultura, ciò non
avvenga e non sia avvenuto? C'è un collegamento tra la ricerca e la sperimentazione linguistica della
poesia italiana anni '60 e '70 e la perdita di interesse da parte del pubblico? E c'è un collegamento tra la
spettacolarizzazione e la teatralizzazione della poesia degli anni '70 e quella poesia ansiosamente e
sperimentalmente in perenne conflitto? Cito nuovamente Doplicher: «Occorre vera sperimentazione, non
gioco con le parole. Il salotto borghese e la comune rivoluzionaria sono ipotesi del passato; se ci sono
poche speranze a questo mondo, tocca a noi inventarle, ma nelle cose, non nel gioco della pagina, arido e
gretto». Credo che quel modo di far poesia, da "grammatici" – Zanzotto stesso ha affermato in
un'intervista di considerarsi più che altro un botanico delle grammatiche – da linguisti, abbia provocato
un gap, una frattura tra l'artista e il pubblico e credo che si sia ricorsi al teatro per tentare di colmare
quel vuoto.
Posto che il rapporto tra teatro e poesia si fondi sull'attenzione per la parola in tutte le sue possibili
emanazioni, come può essere detto rapporto onesto e proficuo se il nodo che li unisce è debolmente
formato dall'intreccio non di funi ma di fili invisibili? Pasolini, in Affabulazione, ha detto che «nel teatro la
parola vive di una doppia gloria, mai essa è così glorificata. E perché? Perché essa è, insieme, scritta e
pronunciata». Ma quale gloria per una parola vuota? Grotowski ha detto in un'intervista rilasciata nel
1967 (questa e le altre che citerò sono tratte dal noto Per un teatro povero): «Per me, creatore di teatro,
le parole non sono importanti; per me, la sola cosa che conti è ciò che si può ricavare da queste parole,
ciò che dà vita alle parole inanimate del testo, e le trasforma in "Verbo"».
La domanda che sorge è la seguente: deve essere la parola a genuflettersi di fronte al sistema-Grotowski
o il sistema Grotowski di fronte alla parola? E quale parola, quella ridotta a puro significante? «Noi non
siamo liberi. E il cielo può sempre cadere sulla nostra testa. Insegnarci questo è il primo scopo del
teatro» dice Artaud in Basta con i capolavori, e questo è uno dei messaggi che potrebbe passare, ma ne
potrebbero passare altri. L'importante è che questo passaggio avvenga, che un nocciolo di senso arrivi,
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colpisca lo spettatore, lo inchiodi al suo posto a sedere o in piedi, lo faccia sussultare nel petto e nella
testa; e testa e cuore devono battere e sbattersi l’uno nell’altro e l’uno contro l’altro, all’unisono. Ecco
perché il teatro ha bisogno della poesia e viceversa. Perché la poesia, come dice Paolo Ruffilli
nell'antologia curata dal Doplicher, «anche se è fatta per essere scritta (secondo non tanto una tradizione
ormai plurisecolare, ma una discriminante categoriale vera e propria), nella sua dimensione di scrittura la
poesia conserva (deve conservare) tutto il suo sviluppo di "pronuncia"» e continua: «il libro in generale, e
quello di poesia in particolare, è anche una scatola sonora». La poesia ha racchiuso in sé il duplice seme
della sua essenza: scritto e orale, memoria fedele al tempo e mito da tramandare a voce, ha bisogno di
far sprigionare il suo suono per liberare la completezza della sua energia. Perché dunque non far scaturire
questa forza nel teatro, il luogo deputato all'amplificazione dei suoni, dei gesti, dei sentimenti, in
sostanza, dell'uomo? In Affabulazione Pasolini ha pure detto che «l'uomo si è accorto della realtà solo
quando l'ha rappresentata. E niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla». Se a questa
dichiarazione pasoliniana si aggiungono gli ultimi versi ungarettiani di Commiato (Quando trovo / in
questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso), si può finalmente
focalizzare il punto d'incontro tra teatro e poesia, partendo da una considerazione di carattere
etimologico: il greco poiein significa "fare" e il greco drama significa "azione" – un'azione, un fare che
origina la parola e che da essa stessa viene originato; allora ci si rende conto di quanto sia forte sia nella
parola poetica che in quella teatrale la pulsione al movimento, alla dinamicità, come se alla base di
ambedue ci fosse la sottesa volontà di andare verso qualcosa o qualcuno, di fare da ponte, senza però
smettere di essere in movimento, come se l'esplorazione in profondità dei diversi livelli di realtà che le
connota non potesse mai esaurirsi, nemmeno nel lettore o nello spettatore, anzi, dovesse oltrepassarlo
sonoramente, visivamente, epidermicamente e mentalmente per poi tornare sul palco e continuare il suo
incessante divenire a spirale.
Soffermandosi sulla valenza etimologica, non si può fare a meno di osservare il "fare" come volontà di
cambiamento, la possibilità di inventare le speranze nelle cose e non nel gioco gretto della pagina,
citando nuovamente, ma con più cognizione di causa, Doplicher. «Non c'è altra poesia che l'azione
reale...» ci conforta Pasolini in Poeta delle Ceneri, presupponendo una poesia che ha bisogno, per
manifestarsi integralmente, di un luogo adatto a tale azione di disvelamento ed anche di qualcuno che
all'interno di quel luogo sia pronto, carnespiritata, a farsi da tramite.
Il punto che si presenta ora è: questo qualcuno è l'attore professionista, il poeta, o l'uomo qualunque? O
qualcos'altro di cui risulta arduo tracciare distintamente i contorni? Cesare Milanese, nell'antologia di
Doplicher, a proposito della declamazione di poesie in teatro: «ogni prova a cui il testo venga sottoposto
è buona. Spetta a chi ascolta approvare o disapprovare. In queste prove non teatrali l'autore si salva
sempre. Per quanto la sua voce possa risultare tonicamente "sgrammaticata" e sbagliata, essa comporta
sempre un dato di verità, quello del possedere un ritmo corporeo che conosce la pulsione da cui la poesia
si è generata». Ha ragione Milanese oppure bisognerebbe seguire le indicazioni del Grotowski quando dice
che «lo spettatore deve essere circondato dalla voce dell'attore come se questa provenisse da ogni
direzione e non soltanto dal posto dove l'attore si trova. Persino i muri devono parlare con la voce
dell'attore»? L'autore sgrammaticato oppure l'attore grammaticato? O cos'altro?
Dario Fo riporta, nella "Quinta giornata" del Manuale minimo dell'attore, che il modo di leggere dei poeti
provoca la fioritura nel ventre di «vermi di una spanna», però poi aggiunge, rivolgendosi ad un
immaginario aspirante attore: «Quando imparate un testo cercate di ritradurvelo prima con parole vostre,
e poi nel vostro dialetto, se ne avete uno. È una grande sfortuna per un attore non possedere un dialetto
come fondo alla propria recitazione. Ho conosciuto attori che ne erano privi: dicevano le battute
proiettando fonemi piatti, asettici, e senza nessuna musicalità nei toni e nelle cadenze». Nel dialetto per
Fo «le cadenze e i respiri, le parole, le costruzioni grammaticali sono autentiche, non c'è niente di
costruito». Ecco il nodo della questione. La poesia è fare autentico o dissimulato? Il poeta è un fingitore
come scrive paradossalmente Pessoa in una delle sue più celebri poesie oppure un cactus spinoso / di
malumore come scrive il triestino Penco in una mirabile raccolta che va sotto il titolo di Ballate dal Mary
Celeste? «Perché fare poesie è una battaglia ogni giorno / con il comune senso del pudore, / perché fare
poesie non è un tic nervoso» secondo Penco, che raffigura il poeta come un umile e buffo personaggio,
un perdente costretto a lottare donchisciottescamente ogni giorno per tirare fuori la parola che, se in
parte lo alleggerirà, d'altra parte lo renderà ancora più curvo e disilluso.
«Si fanno versi per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma c'è sempre / qualche peso di troppo,
non c'è mai / alcun verso che basti / se domani tu stesso te ne scordi»: la poesia I versi, tratta da Gli
strumenti umani di Sereni, illustra bene lo sforzo che sta alla base della condizione del poeta. Nessuno si
diverte a lottare contro i mulini a vento dopo aver scoperto che non sono giganti, soprattutto se questa
lotta non frutta, come nella maggior parte dei casi, né fama né denaro, ma esistono alternative? La
letteratura ungherese esalta la figura del poeta umile e povero – celebre il verso conclusivo di Attila
József in Sette giorni: Amici, da sette giorni non mangio – che combatte per la dignità del suo popolo e
gli insegna ad accettare la rassegnazione, il valore della sconfitta. Il 2 novembre 1956, a Budapest,
durante i giorni della Rivoluzione contro i sovietici, fu il famoso poeta Illyés Gyula a declamare alla radio
l'ode intitolata Una frase sulla tirannia, e lo fece, stando alle cronache, con voce alquanto tremante
all'inizio. Quella voce tremebonda e rabbiosa, quella dizione imperfetta, quella lettura da far crescere i
vermi nello stomaco, non hanno forse incitato alla lotta e alla resistenza? Sarebbe stato meglio sostituire
il poeta con un attore?
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In un paese come l'Ungheria il '900 è stato un secolo in cui il potere – fascista, comunista – ha
monopolizzato il linguaggio e ha strumentalizzato le immagini producendo una rappresentazione fittizia
della realtà. La risposta del popolo è stata in termini di vite da una parte, e in affermazione di pienezza di
parola dall'altra. Contro la retorica dei regimi, contro il bavaglio, i poeti – e solo in parte i drammaturghi
– hanno risposto con una parola pregna, non ermetica, luminosa. Scenario, una commedia di uno dei più
celebrati scrittori magiari del '900, Orkèny Istvàn, mostra la carica deformante della pubblicità sovietica
negli anni '50 e inscena la storia in un circo, l'unico luogo che in quel periodo sfuggiva alla censura e al
controllo, dimostrando la spettacolarizzazione assurda e spietata che quel potere aveva imposto. Tuttavia
il paradigma del poeta che legge i propri versi alla radio contro la tirannia nel momento stesso della
rivolta dovrebbe far pensare. Fare non si deve tradurre con agire concretamente per modificare
materialmente la realtà, bensì con tensione che permetta di avere costantemente uno sguardo vigile,
sensibile, rivolto alle potenzialità del cambiamento, non dimentico (di ciò) che potrebbe perdere (e
perdersi). Uno stare all'erta dinamico che garantisca la formazione di quello stato interiore in cui si
possano fondere assieme, non mescolandosi, pensiero razionale e emozione.
Che fare praticamente? Intanto togliere l'aura di sacralità che circonda il teatro così come la poesia,
evitare i settarismi, destrutturare le bibbie-manuali che propongono tecniche impareggiabili per
conseguire il massimo risultato nel campo della scrittura e della recitazione (e incoraggiare lìuso forzato
della modestia presso gli attori e i poeti, no?).
Concludo portando queste riflessioni di Doplicher, tratte dalla sopracitata antologia: rivendicando alla
poesia un primato nel campo del pensiero, non si rinuncia all'emozione, all'immagine, a ogni possibile
traduzione del sensibile, come d'altronde ogni poesia "classica" (compresa la classicità dell'avanguardia
storica) ha fatto; ma così la poesia viene messa al riparo dai due pericoli maggiori che oggi corre: quello
di diventare ancor di più campo di esercitazione per i grammatici che si chiudono in una artistica
dissezione del linguaggio, e quello di proporsi, nella accezione comune e nella pratica "media", come
l'ultimo dei mezzi di comunicazione di massa, trasformandosi, insomma, nella subalternità del
significante, da Cenerentola a prostituta».
Luigi Nacci
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IL TEATRO COME POESIA DEL CAMMINARE
Cosa rimane al teatro quando lo si sottrae all’edificio tradizionale che lo accoglie, con tutti i suoi corollari
tecnico-artistici e amministrativi?
Rimangono gli attori e il pubblico.
Vediamo l’attore in piedi, o seduto, ma sostanzialmente fermo in un punto. Il pubblico sta seduto e
immobile.
E che succede se all’attore si toglie la stanzialità? Eccolo invadere lo spazio del pubblico (tra le novità
della Regia primonovecentesca), ma conservare tuttavia un palcocentrismo che lo tiene legato alla
disposizione canonica della scena.
Se poi gli sottraiamo anche il palcocentrismo, ecco apparire un attore che non sta fermo in un luogo, ma
si muove attraverso vari luoghi.
Infine che succede se, reciprocamente, togliamo allo spettatore l’ultimo baluardo di sicurezza: la
poltrona? Avremo uno spettatore che perde la propria sedentarietà e si mette al seguito dell’attore,
privato, a sua volta, del palcocentrismo (è il caso di tutta la sperimentazione nelle strade e negli altri
luoghi del sociale e del quotidiano, che parte dall’inizio degli anni Sessanta negli Stati Uniti).
Diverso è se lo spettacolo, e dunque l’attore, fanno del muoversi da un luogo all’altro il luogo stesso
dell’azione. Se cioè lo spostarsi diventa predominante rispetto alla, pur relativa, stanzialità dell’approccio
a “scene inframmezzate da spostamenti”.
In quest’ultimo caso si entra in una dimensione diversa, dove si deve costruire uno spazio attraverso il
tempo dello spostarsi: cioè lo spazio non è dato una volta per tutte – pur con le varianti del caso - ma
cambia di momento in momento col procedere dell’azione. Allo spettatore il compito di ricostruire lo
spazio unitario così segmentato.
E all’attore quello di rendere possibile questa ricostruzione senza troppe forzature.
Si avranno allora modalità teatrali che eleggono a spazio del teatro non un luogo o un insieme di luoghi,
ma un ambiente intero; per esempio un pezzetto di territorio omogeneo per paesaggio; oppure
eterogeneo, ma con caratteristiche che soddisfino una precisa ipotesi artistica.
Scardinando dunque la dipendenza apparentemente univoca e naturale tra edificio teatrale deputato e
teatro, sembra emergere una prassi senza rete che rischia quasi di non apparire, tanto forte è nella
percezione comune la corrispondenza tra prassi artistica e luogo ad essa tradizionalmente, o
convenzionalmente, deputato.
Questo fenomeno di dis-locazione si può riscontrare anche in un ambito apparentemente più statico
com’è quello della poesia. Che succede infatti se al poeta si toglie il libro come depositario muto del
proprio operare e al lettore la lettura?
Al poeta rimane l’esercizio di una possibile oralità del poetare; al lettore l’ascolto. La ricerca di questa
oralità possibile non si limita al territorio anche un po’ inflazionato del reading, ma può arrivare fino al
punto di spingere il poeta a ricercare il corrispettivo orale e vocale dello scritto. Influenzando addirittura
la formazione di una metrica che dall’evento orale prenda le mosse. L’obiettivo del poeta, a questo punto,
sarà anche quello di agganciare all’ascolto il lettore, privato, a sua volta, del rapporto eminentemente
visivo, e individuale, con il testo scritto.
Sia per il teatro che per la poesia si può dire allora che il luogo di questa prassi di dis-locazione è un nonluogo, che va di volta in volta inventato. La sua invenzione si dà come eccesso, sovrappiù, rispetto alla
pratica regolare dell’attore, o del poeta. Questo eccesso trasforma il “semplice” attore in autore, e il
“semplice” poeta in attuante.
C’è in Italia un artista che è stato tra i primi a sperimentare la ricchezza, e il pericolo, di una tale
condizione, affrontandola sia dal punto di vista del teatro, che da quello della poesia. Il suo nome è
Giuliano Scabia.
Scabia nasce come poeta sulla scia della novità del Gruppo ’63. Elio Pagliarani è infatti uno dei suoi primi
estimatori. Le prime poesie vengono pubblicate da Sciascia editore nel 1964, con il titolo di “Padrone e
servo”. Ma già allora il percorso poetico di Scabia si intreccia con le sperimentazioni dell’arte e della
musica a lui coeve, in una sorta di approccio multidisciplinare che non tarderà a dare i suoi frutti e a
indirizzarlo verso una prassi teatrale vissuta a più livelli: da drammaturgo, da attore, da regista, da
animatore e da inventore di spazi e di inedite occasioni teatrali. In ambito musicale scrive i testi e il
libretti di alcune opere di Luigi Nono. Mentre partecipa ai primi esperimenti di teatralizzazione della città,
a Venezia, con il pittore-scenografio Vedova, proiettando grandi immagini sulle facciate di palazzi e
monumenti. Ma è l’incontro con il regista siciliano Carlo Quartucci, esponente di spicco di quel movimento
del Nuovo Teatro che muove i primi passi in Italia alla fine degli anni 50, in casuale sintonia con quanto
stava avvenendo altrove nel mondo e negli Stati Uniti in particolare, a segnarlo e a spingerlo sulla strada
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di una drammaturgia d’avanguardia dove la tradizionale forma drammatica cede il posto a un organico e
visionario prodursi di immagini contemporanee giustapposte tra loro e legate dal filo paradossale e
corrosivo del “teatro nel teatro”. Procedimento quest’ultimo che s’incarica di disvelare l’angustia e
l’anacronismo della scatola scenica ereditata dalla tradizione.
A questo filone appartengono i primi due testi teatrali “All’improvviso” e “Zip.... e la Grande Mam” del
1965. È un periodo di radicale messa in discussione. Argomento cardine delle teorizzazioni del periodo è
la necessità di riverificare tutti gli statutii che la tradizione ha dato come stabiliti una volta per tutte: “e
poiché non esistono oggetti o atti per definizione teatrali, la teatralità va conquistata per ogni gesto, ogni
oggetto, ogni suono, ogni parola. Non esiste una tradizione di teatralità stabilita, neppure epica o rituale:
ci sono invece dei termini di riferimento e delle ipotesi di lavoro a volte ben collaudate. (“All’Improvviso e
Zip”, Einaudi, 1967, p.48)
Tra l’altro, la messinscena di “Zip” alla Biennale di Venezia del 1965, farà scalpore, e darà il destro ad
attacchi anche molto duri da parte della critica più insofferente al clima e alle innovazioni della neoavanguardia teatrale.
Il periodo che va dal 1965 al 1969 vede in Italia il crescere di un grande fermento politico e sociale, che
Scabia attraversa da drammaturgo con un’energia iconoclasta destinata a provocargli gli attacchi - ma
anche il successo - per Zip; l’avvicinamento, con conseguente successiva “cacciata”, a una realtà
impermeabile alle novità, e dalla tradizione ingombrante, come il Piccolo Teatro di Milano; e infine, la
fuoriuscita radicale dai modi e dall’ambito del teatro propriamente detto, alla ricerca di nuove modalità di
lavoro.
Dal 1969 in avanti lo Scabia drammaturgo sentirà la necessità di scrivere in rapporto a un contesto
specifico di volta in volta individuato in ambiti non teatrali; quasi non per il teatro, ma malgrado il teatro.
Si servirà della tecnica del drammaturgo per andare a cercare fuori del teatro non solo la materia, ma
anche le verifiche al suo fare. In un tentativo di allargamento degli strumenti di intervento, da quelli
specifici del suo lavoro di scrittore a quelli più vari e plastici provenienti dalle più svariate tecniche teatrali
(burattini, grandi pupazzi, mascheroni); ma anche dall’ambito dell’arte (il disegno, la pittura) e della
comunicazione (l’intervista, il giornale, il videotape). Così in questi anni la prassi di Scabia si avvicina
sempre più a una forma di animazione sociale condotta attraverso gli strumenti che l’artista ha a
disposizione, usati liberamente, senza le gerarchie e le limitazioni d’uso legate a un’idea “borghese”
dell’arte.
Ma è dall’inizio degli anni Ottanta, dopo esperienze che negli anni Settanta lo hanno visto approfondire
l’aspetto malgré le thèatre del suo lavoro, portandolo a contatto con gli operai della Fiat, con gli alunni
delle scuole, con i pazienti dell’OPP di Trieste diretto da Franco Basaglia, con i montanari dell’appennino
reggiano, con gli studenti dell’Università; e dopo esperienze come quella di Perugia, con un
attraversamento della città da nord a sud che dura tre giorni consecutivi, “a cavallo”, è il caso di dirlo
data la natura dell’impresa, di una commedia itinerante in 44 quadri, dove Scabia veste i panni di un
diavolo con maschera e forcone, in pendant con un angelo musicista suo alter ego (“Il Diavolo e il suo
Angelo” del 1980, con Aldo Sisillo, fatto anche a Venezia e a Parigi), che il nostro drammaturgo inizia a
praticare una forma di racconto intinerante del proprio teatro, calandosi in ambienti naturali: paesaggi
toscani, città medievali, parchi, giardini, boschi. I testi che scrive in questo periodo contengono già un
teatro della natura dove si immagina che a parlare siano animali selvatici, fate, alberi e spaventapasseri.
I luoghi dove avviene l’azione sono sospese creazioni dove la natura parla agli uomini con l’intensità del
mito; con l’amorevolezza, e l’ambivalenza, di una dea benefica. Sono testi che, pur conservando la forma
dialogica del teatro e dunque sopportare e anzi prefigurare la rappresentazione, pure, in teatro rischiano
di perdere molto della loro forza visionaria (1).
È nel corpo attuante del loro creatore che questi testi sembrano più a loro agio, soprattutto quando questi
progetta intorno a essi non la situazione canonica di una lettura a leggio in una sala, ma un evento che
contenga uno smarcarsi dal palcocentrismo, un itinerario anche fisico all’inseguimento del testo, verso il
suo farsi carne e voce. Ecco allora le lunghe camminate, o trekking, dove il paesaggio circostante si fa
paesaggio del testo e il testo azione nel paesaggio. È come un calare con amore le parole in una cuna
terrigna che le possa far germogliare. Il poeta sembra come seminare i versi delle sue poesie, le battute
dei suoi personaggi. Cerca nell’ascoltatore una presenza in eccesso, un sovrappiù di responsabilità e
partecipazione che lo aiutino a fare il miracolo. Così come specularmente si dà l’eccesso, il sovrappiù del
poeta nel suo farsi attuante.
Questa forma di teatro, che chiede al testo di farsi evento sulla trama non solo del suo tessuto verbale,
ma su quella del respiro di chi lo pronuncia e soprattutto sulla tramatura dei passi che lo spettatorepedone è chiamato a svolgere, in una camminata più o meno lunga in compagnia del poeta-attuante, mi
sembra una delle novità più gravide di implicazioni per gli esiti che un certo teatro di ricerca italiano
produrrà a partire dal decennio successivo.
Franco Acquaviva
60
Note.
(1) Quest’affermazione – messa in forma necessariamente dubitativa - si basa su una esperienza personale legata alla
visione di uno spettacolo tratto dal testo “Cinghiali al limite del bosco” messo in scena da Assemblea Teatro di Torino
credo nel 1985/86. Dove era evidente come la professionalità un po’ algida degli attori, della regia e della scenografia
nuocesse fortemente alla poesia di quel testo, alla sua profondità umana. D’altra parte, questo potrebbe anche
soltanto voler dire che si trattava di un allestimento poco felice. Sta di fatto che, vedendo poi lo stesso testo, nella
stessa sera, messo in scena da un gruppo di “matti” dell’OPP di Trieste diretto da Claudio Misculin, la sensazione fu che
quel testo – ora sì – non solo aderiva perfettamente a quelle persone, che possedevano una tecnica teatrale
approssimativa vitalizzata però da un’energia e da un vigore perturbanti, ma manteneva intatta la sua carica, la sua
strana poesia.
61
IL TREMITO (DELLA POESIA NEL TEATRO IL TREMITO)
Sono lieto –
oggi, 1. dicembre 2000 –
di essere in un luogo che si chiama «della
visione» –
fra i monti Pisani e le Università –
a parlare di poesia,
all’inizio del tempo che nel calendario cristiano si chiama
di avvento:
e, nel mio, anche di attesa del gelo.
Nel cammino di avventura verso il teatro la
parola avventura
(avere avventure: con pericoli, duelli, agguati,
fughe, sparizioni, ritrovamenti, sorprese)
mi ha sempre fatto da scudiera:
avventure/avvenimenti:
teatro di avvenimenti:
di eventi:
eventi e apparizioni.
Quando mi sono imbattuto nel teatro –
un po’ per caso un po’ per destino –
ho sentito che il tremito della poesia…
… TREMITO…
voglio fermarmi un momento sulla parola tremito:
di quando viene il tremito della poesia –
si sa: di giorno di notte –
in qualunque luogo –
quando nelle rocce della mente si apre una
fessura
e la vivenza profonda della lingua si scatena
in terremoti che parlano
nel corpo – il corpo trema e ha febbre – si
infebbra –
fervore/tremore che porta in altro luogo:
luogo che è il futuro della lingua e del corpo,
in germoglio, sbocciato dentro la presenza.
In quel tremito c’è l’inizio di ogni avventura:
sì: il tremito è sempre di rivelazione
(il tremito che sento nei poeti che mi sono
cari e che ascolto,
che mi aspettano – assopiti – soprattutto alla
notte,
o mentre cammino nei boschi,
o mi godo la bellezza dei treni –
e apro i loro libri invincibili
e li ritrovo:
sento il loro tremore e lo esperimento nel corpo
(tremito è il duende?
mi piacerebbe che Lorca dicesse col capo: sì sì:
ma credo di no,
il sangue e il fuoco del toro,
e un certo battere di piedi ballando qui non
ci sono) –
tremito:
quando viene, è lui che parla
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lui porta i cavalli e le foreste –
ha in sé, come un albero di carne e immagini,
tutti i nomi, cioè tutti gli dèi –
tutti i nomi detti dagli uomini e anche dalle
bestie:
sì,
perché nelle bestie, sono sicuro,
e negli insetti, e nelle piante
c’è lo stesso tremito che prende noi
quando l’armatura secca dei comportamenti
e della mente conformata, costretta,
va in frantumi:
frantumi:
è dai frantumi che risorge il tremito:
non dai programmi, non dai progetti, non dalle poetiche.
Quando mi sono imbattuto nel teatro
e ho cominciato a sperimentarlo
ho sentito che era il tremito della poesia
a entrare in campo
come in un torneo:
è cominciato un combattimento
meraviglioso e pericoloso
con le forme del teatro che stavano là
forti, seducenti, nutrienti,
ma anche in cerca di un nuovo senso,
di rigermogliare di nuovo:
un combattimento e interrogazione
di attori, compagnie, teatri, spazi ignoti (a me)
domandando aiuto ai percorsi di certi poeti
che si erano imbattuti nel teatro
e lo avevano praticato
con la medesima intensità della poesia:
Lorca, Majakovskij, Kleist, Marlowe, Ruzante,
Euripide –
e tutti gli altri.
Dei versi la forza è
essere frecce gravide di germogli – di vita in
germe
che sveglia la sete di vita in chi è colpito
e dà nutrimento al bosco delle immagini –
linfa, acqua e sangue:
questo l’ho capito piano piano
attraverso il mio corpo che si trasformava
(esperimentava la trasformazione)
e cominciava a sentire le parole diventare carnee –
carne viva, viventi –
agnelle, allodole e cerve ballerine.
Saluto qui Iosif Brodskij, morto d’infarto prima del tempo,
per aver scritto:
«La patria del poeta è la sua lingua» –
in un saggio scritto quando ormai era lontano
dalla Russia.
L’esperimento è sempre con lei, la lingua,
paterna e materna,
combattimento con lei, avventura con lei,
per cercarla e trovarla nel soffio del corpo
voce.
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Una mattina d’inverno di qualche anno fa, di
domenica,
nelle sale Apollinee del teatro La Fenice
ho sentito Brodskij dirci:
«Cosa c’è di più bello che leggere poesie
insieme a dei giovani all’Università?»
Pedagogia: guidare i giovani: nutrirli:
mangiare con loro: convivio: atto d’amore.
Pedagogia è un atto d’amore –
un esperimento di ricerca dell’oro
o, meglio, di invenzione dell’oro:
non l’oro monetale,
ma l’oro frammento del sole,
corpo del dio che fa germogliare,
l’oro delle parole diventate vive.
Non c’è differenza fra teatro e poesia:
non c’è teatro di poesia –
c’è la poesia
che è
della poesia nel teatro il vento.
Dove trema il vento della lingua neo-nata
e germogliata
c’è esperimento –
trovamento.
Il tremito e l’esperimento sono il gioco:
jeu – joie –
gioco e gioia:
l’instabilità del gioco e della gioia:
gioco gratuito: cioè in grazia:
grazia charis:
la charis del gioco:
charis: cioè cura:
prendersi cura, aver cura, curare, avere amore:
charis e cura sono la stessa parola?
Grazia, gioco, gioia, cura d’amore
per me sono l’unico senso della poesia e del
teatro
e della musica.
Non vi racconterò i tanti esperimenti provati
negli anni
soprattutto anni di apprendimento e studio –
i presenti in parte li conoscono, forse –
ma ogni azione, atto, presenza, evento, apparizione, giro, passaggio,
camminata, itinerario, visita, schema vuoto,
traccia, commedia,
poema,
romanzo
tutti sono stati tentativi di ascolto del tremito,
il mio e quello degli altri.
Giocare insieme,
fare un viaggio di visione insieme,
per gioco sapendo di giocare a cercare
la gioia di un momento,
uno star bene.
Spesso quando racconto (leggo in pubblico a
voce alta)
ciò che ho scritto
sento che il testo mi risveglia (col suo tremito
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depositato)
il tremito nella presenza:
sento il risveglio della grazia da cui è nato
che incontra la grazia (la gratitudine) di chi
ascolta:
col tempo, piano piano, mi sembra di aver
capito
che questa grazia, charis, nutrizione, germogliatura e cura
è anche, un po’, purificazione:
il nettamento della lingua incrostata
e il ritrovamento dell’anima.
RITROVAMENTO:
baussète!
Che grande gioia ha il bambino
quando viene ritrovato,
e salvato
da chi lo ritrova
e dal trattenere il fiato
che lo riporta nel respiro
dei genitori
a ridere felice.
In una vita piena di angosce, paure, tragedie,
dolori –
e oggi, mi sembra, di forsennatezza
– e anche, finalmente, di preoccupazione per
la specie,
il ridere felice che nasce dall’essere ritrovati,
dall’esperimento/ritrovamento
nato dal ballare dei fiori interni,
dalla cura praticata come amore,
mi sembra il traguardo di ogni ora –
e non solo del teatro:
lo dico per me e per tutti, uomini, bestie e piante.
Giuliano Scabia
[tratto da: Il tremito. Che cos’è la poesia?, Casagrande, Bellinzona, 2006. Per gentile concessione.]
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NOTE SU STANISLAVSKIJ
1. Note su Stanislavskij. Si dice che una volta entrando in classe Stanislavskij abbia salutato i suoi allievi
attori augurando loro:“Buon tempo- ritmo!” Non per celia. Il maestro riteneva fosse più corretto
auspicare “Buon tempo ritmo” anziché “Buon giorno”. Il giorno può essere sereno o piovoso, solo il
tempo-ritmo interiore testimonia della nostra buona salute e fa presagire una buona giornata.
Per un attore è indispensabile percepire la velocità e il metro diverso di ogni movimento, azione,
sensazione, pensiero, del respiro e delle pulsazioni del sangue, del battito cardiaco e di tutte le condizioni
generali del proprio organismo.
Se il pensiero di una piacevole prospettiva per la sera provoca in noi un ritmo vivace, l’affiorare di
qualche dubbio rispetto alla stessa prospettiva ci rende insicuri, e il nostro ritmo cala: questo secondo
Stanislasvskij è un valido esempio di ritmo alternato legato ad un umore. Afferrando il tempo-ritmo del
personaggio l’attore scopre il sentimento(1).
Da qui l’inventore del “Sistema” elabora tutta una serie di esercizi per imparare a segnare esteriormente
il tempo ritmo ascoltando le rievocazioni interiori. Viceversa, si può, a partire da un tempo ritmo dato (col
metronomo) esercitarsi nell’immaginare e rievocare finzioni. Successivamente l’allievo studierà il tempo
ritmo della parola, per capire come anch’essa influisca sul sentimento.
Quando l’attore esamina il suo materiale fonetico, sappia che la linea delle parole si svolge nel tempo,
che il tempo va suddiviso in suoni (lettere, sillabe e parole) ovvero secondo parti e gruppi ritmici, e che
mediante questo processo potrà iniziare a creare infiniti e diversi tempi ritmo. Solo così egli giungerà ad
elaborare un parlato scenico corrispondente ai nobili conflitti della tragedia o agli allegri e vivaci stati
d’animo della commedia.
Ad ogni domanda, perplessità, da parte dei suoi allievi, sul tempo ritmo, o su qualsiasi argomento,
Stanislavskij non oppone mai un precetto, ma propone sempre un esercizio, offrendo talora un consiglio
pratico, adattabile ed elastico, collaudato in anni di esperienza sulla scena, rivelandosi in ciò tanto
sistematico quanto lontano da un’idea dogmatica di sistema.
Per esempio a chi dubitava che la prosa potesse veramente avere un ritmo, egli proponeva di analizzare
la struttura di una canzone scritta non su versi, ma su testo in prosa. Si poteva osservare come in quel
caso note, pause e battute, accompagnamento musicale, melodia, tempo ritmo si fondessero con lettere,
sillabe, parole, frasi, e che la semplice prosa suonava come versi e riceveva le proporzioni armoniche
della musica.
Da qui la proposta di un nuovo esercizio: se in musica la voce canta una melodia con delle parole, e dove
mancano le parole subentra l’accompagnamento o si introducono delle pause che riempiono i momenti
ritmici della battuta, rimasti scoperti, altrettanto si potrebbe fare recitando un brano in prosa. Le lettere,
le sillabe e le parole sostituiranno le note; le pause, e la scansione mentale andranno a riempire i
momenti ritmici in cui mancano le parole del testo.
Posto che le parole e le sillabe coincidano coi momenti culminanti del ritmo, il parlare in prosa degli attori
potrebbe secondo Stanislavskij, entro certi limiti, essere accostato alla poesia. E cita in proposito
l’esempio dei versi liberi, e le opere di quei poeti contemporanei, così vicine al linguaggio comune, che si
possono dire prosa in versi.
Dunque per impadronirsi del ritmo di un discorso in prosa l’attore deve studiare anche il ruolo delle pause
logiche, psicologiche e di respiro nella poesia; poiché le pause preparano la coincidenza dei momenti forti
del ritmo del discorso, dell’azione, della reviviscenza coi momenti forti della scansione interiore.
C’è di più: se il tempo ritmo della prosa nasce dall’alternarsi dei momenti forti e deboli del discorso e
della pausa, in questo alternarsi, l’attore non dovrà solo saper parlare o tacere, non gli basterà agire, egli
dovrà anche non agire in tempo ritmo. Ma questo tacere e non agire in tempo ritmo presuppone dei vuoti
di parola e d’azione lungo tutta la linea del discorso.
Come sì può quindi prevenire la casualità con cui si presenta la coincidenza ritmica nel parlare in prosa, e
segnare mentalmente le pause ritmiche completando le battute lasciate scoperte dalle parole? Ancora con
un esercizio: si riscrive la battuta in versi e si contano mentalmente le pause ritmiche con un suono che
Stanislasvkij, sfidando il motteggio, chiama ta-ta-ti-ra (tipico suono che si pronuncia cantando una
canzone di cui non ricordiamo il testo).
Ad esempio, se la battuta è: “Vi ho invitati, signori, per comunicarvi una spiacevolissima notizia: sta
arrivando da noi un revisore.” Ridotta in versi senza pretese, sarà: “Signori, invitati io v’ho/Per darvi una
notizia/Un revisor qui verrà.” Ora ciascuno di questi spezzoni possiede un ritmo, seppure diverso fra loro.
Non resta che fonderli in qualcosa di organico con il ta-ta-ti-ra.
L’attore infatti dovrà leggere questi versi, introducendo un ta-ta-ti-ra mentale la dove manca il ritmo, in
modo da abituarsi a percepire il passaggio da una battuta che ha un suo tempo ritmo a un'altra che ne ha
uno tutto diverso. Il ta-ta-ti-ra in prosa è una specie di ponte che unisce le frasi e le battute più
eterogenee dai più eterogenei ritmi. Col ta-ta-ti-ra il parlare in prosa può diventare ritmico.
Perché l’attore dovrebbe cercare di avvicinare il più possibile la prosa alla poesia? Perché più sono ritmici
la poesia o il discorso prosastico, più precisamente egli vivrà i concetti, i sentimenti, e il sottotesto. E
anche i suoi pensieri, divenuti più ritmici e precisi troveranno la giusta espressione orale.
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Il favore di Stanislavskij per la forma poetica è propedeutica alla tecnica scenica: il metro, con la sua
concisione, precisione, essenzialità, influisce in modo superiore alla forma prosastica sulla memoria
emotiva, sul ricordo, sui sentimenti, e sulle reviviscenze.
Stanislavskij citava spesso il nostro attore Tommaso Salvini, ritenendolo capace di comunicare tutta
l’acutezza della vita interiore del personaggio anche a chi non conoscesse l’italiano, per l’intonazione, la
precisione e l’espressività del tempo ritmo con cui parlava. E del resto mostrava grande interesse per
tutte le poesie onomatopeiche, che descrivono col tempo ritmo le immagini sonore: una per
tutte, l’Erlkoning di Goethe:
Wer reitet so spät durch Nacht und Wind?
Das ist der Vater mit seinem Kind.
2. Postilla. Ci sono due ragioni che giustificano il mio rinnovato interesse per Stanislavskij. La prima,
affettiva: quando frequentavo l'Accademia Silvio D'amico a Roma la mia insegnante di Storia dello
spettacolo era Elena Povoledo, traduttrice del "Lavoro dell'attore su se stesso". La seconda,
professionale: il mio lavoro di regista e, saltuariamente, quello di docente di recitazione.
In questo doppio ruolo si esplicita il paradosso a cui accennavo nel riferire in modo sintetico il contenuto
dello straordinario capitolo sul “tempo-ritmo”: ovvero che il corpo degli scritti di Stanislavskij mi pare
oggi, a una lettura non funzionale, più attinente al sistematico che al sistema, riferendomi a
un’opposizione non nuova alla critica.
In effetti, in quanto regista è come se il contenuto di Stanislasvskij, frutto di antiche letture, inafferrabile
nel suo insieme, si fosse disperso in me in tante particelle alle quali posso attingere, anche
inconsapevolmente; mentre come insegnante trovo sempre più resistenza a “insegnare il metodo”.
Le regole del “Sistema Stanislawskij”, come fa notare Gerardo Guerrieri(2), “si contraddicono. Anche il
suo critico più sottile, Bertold Brecht, si è smentito giungendo al punto di imitarlo, persino di
complicarlo.” Ed è strano, poiché i “Sistemi” per natura non amano contraddirsi o essere contraddetti. E
tutti gli scritti di Stanislasvkij non sono che una registrazione di performance colte nel loro divenire,
nell’atto della loro invenzione, aperte a infinite proliferazioni e revisioni.
Personalmente ho rinunciato ad “insegnare metodi” ai miei allievi attori, né possiedo una verità sulla
dizione in pubblico delle poesie (Questo è un problema di regia non di didattica); piuttosto l’esperienza
diretta mi ha insegnato che essi possono imparare a recitare in prosa anche studiando in profondità le
buone opere in versi; quelle dove si attua la perfetta coincidenza tra conflitto drammatico, ragione,
sentimento ed espressione orale. E infine, riguardo a Stanislavskij, penso sia consigliabile “tornarci su” di
tanto in tanto, auspicando che un atomo della sua modestia e saggezza ci sfiori.
Andrea Dalla Zanna
Note.
(1) Cfr. "Cap. VI -Il tempo ritmo”, in Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore su se stesso, trad. di Elena
Povoledo, Editori Laterza (Biblioteca universale), Bari, Prima edizione italiana 1956 nella "Biblioteca dello spettacolo"
[Nella "Universale Laterza" prima edizione riveduta, con una nuova introduzione, 1968; nella "Biblioteca universale
Laterza" prima edizione 1982. Decima edizione riveduta e corretta a cura di Fausto Malcovati 1966. Diciottesima
edizione 2006.
(2) Il riferimento è alla introduzione di Gerardo Guerrieri alla diciottesima edizione de “Il lavoro dell’attore su se
stesso” Laterza.
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FUOCHI TEORICI
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L’ATTORE È UN POETA
Poesia della voce
Ma che accade all’attore, alla voce dell’attore quando recita un testo? Secondo il senso comune, all’attore
spetta il compito di svolgere il suo “ruolo” e seguire le indicazioni del regista. Il ruolo è fissato, in termini
di indicazioni (didascalie più o meno generiche, a seconda dei casi), nel testo drammaturgico. Il regista
ne propone una “lettura” e all’attore spetta realizzarla sul palcoscenico attraverso l’uso della voce, del
gesto, dei movimenti nello spazio. È il rito dell’interpretazione. Ciò che ha pregnanza è la coerenza di ogni
elemento con il testo. L’attore è – di fatto – un essere “pensato” dal testo; la sua costruzione della
“parte” soggiace ad un particolare rapporto di dipendenza con esso. E pertanto la sua voce deve
equilibrare il movimento dei suoni a quello del significato. Qual che accade alla voce, alla voce dell’attore
nello spettacolo della parola, è ciò che potremmo chiamare l’esperienza del medium: essa è il mediatore
tra l’autore e lo spettatore. Ma la mediazione presuppone l’esistenza di uno spazio condiviso, di una
esperienza comune ad attore e spettatore: ed ecco che la voce dell’attore si concede alla luce
dell’esperienza verbale quotidiana, così che risulti agevole individuare i significati della lingua. Nell’ambito
del teatro contemporaneo, dunque, il problema della esecuzione fonetica della parola è risolto così:
privilegiando la prosodia, in particolare le caratteristiche ritmiche ed intonative connesse ad informazioni
di carattere “paralinguistico” tipiche della lingua comune. È il rito della voce come rappresentazione del
testo.
Nell’ambito di questa concezione, la voce non viene vista come segno dotato di un proprio «potere di
senso», ma come semplice veicolo di significati che hanno sede fuori dalla voce stessa, dentro il
linguaggio: la voce è intesa come «gesto articolatorio» conforme al sentire del personaggio, ad essa
spetta nient’altro che “tradurre” le situazioni previste dal testo facendo coincidere, nella dizione, ogni
articolazione sonora con una «intenzione di senso». Questa tendenza si afferma a partire dagli
insegnamenti di Stanislavskij e dal suo concetto di riviviscenza. La recitazione è intesa come «creazione
organica di un essere umano vivente», mentre la qualità dell’attore si misura sulla sua capacità di
identificarsi con il personaggio: è direttamente proporzionale alla capacità di rendere la recitazione
congrua ai parametri psicologici, esistenziali e intellettuali del personaggio, sviluppando il dire in perfetta
aderenza al detto. Essere attore significa essere un altro. A onor del vero, la strada indicata da
Stanislavskij era ben più complessa di quanto si sarebbe poi affermato nel teatro del Novecento, e la sua
linea di ricerca è stata sicuramente tra le più importanti di tutta la storia del teatro. Resta però evidente
che il suo sacralizzare il testo drammaturgico, cui l’attore deve sottomettersi, abbia di fatto contribuito ad
affermare l’idea della “messa in scena” come fondamento del teatro, che in realtà è qualcosa di diverso:
non solo trasposizione di un testo pre-esistente sulle assi di un palcoscenico, ma “linguaggio” vero e
proprio, con una propria sintassi e una propria capacità articolatoria che esula il testo scritto. Se invece il
testo è l’elemento prioritario, all’attore spetta il compito di farlo «rivivere»; per conseguire lo scopo deve
fare della recitazione una semplice «azione verbalizzata» del testo stesso, rendendo la voce alienata in
altro da sé. Con ciò – dice giustamente Maurizio Grande – l’attore «è schiacciato contro la fisionomia
(verbale e mimica) della dramatis personae» e la sua voce si fa «megafono di una identità imposta
dall’esterno», altra da quella dell’attore stesso. Esercitarsi ad essere un altro – parlare con la voce di un
altro – dipendere da questo altro – riprenderne il linguaggio, simularlo: essere attore significa lasciarsi
fare da un altro – da un altro che è così palesemente inumano, così assolutamente freddo, di “carta”.
Essere attore è amare al posto di un altro – fingersi d’accordo con un altro dimenticando se stessi. È
l’opera che immagina l’attore.
Eppure, eppure non è sempre stato così. La storia del teatro non è avara di spunti di controtendenza. Ci
sono esperienze, importanti pur se minoritarie, che hanno dato dignità inventiva all’attore come essere
dotato di vita propria: un attore che produce il suo spazio, lo istituisce, lo ricerca e lo rende visibile. La
recitazione non è più una cerimonia di ripetizione di un carattere altrui, ma un «evento essenziale», che
scatena l’attore in quanto creatore di forme. Ed è qui che la voce acquista una valenza decisiva: acquista
una sua capacità di produrre senso, anche presa separatamente dal codice linguistico cui fa riferimento; è
pronta ad esaltare, pur nella relazione coi significati (ma non più sottomessa ad essi), il corpo fonico della
parola. L’attore naufrago, in balia del testo, comincia a costruirsi una zattera tutta sua; diventa il maestro
di cerimonia, e il teatro torna ad essere il regno dell’attore. Lo stesso teatro greco delle origini, per non
dire poi della poesia epica, agiva la parola facendo vacillare il limite tra parlata e canto, riconoscendo alla
voce un valore autonomo, indipendentemente dalle norme del discorso. Anche la Commedia dell’Arte, in
evidente rottura con i postulati del tempo, frantuma la catena del linguaggio naturale, in particolare con
l’introduzione di interruzioni del discorso lineare (i cosiddetti lazzi), allontanando la voce da quel «portare
all’orecchio del popolo il concetto che la parola esprime» (Tasso), per fare invece risaltare la ricchezza
delle sue tonalità in senso completamente gratuito. La stessa cosa potrebbe essere fatta rilevare con il
sorgere del recitar cantando, in cui la struttura del parlato assume connotazioni fortemente musicali,
facendo esplodere la parola non già in imitazione del livello semantico, quanto piuttosto articolando il
significante come «una sorta di accompagnamento al significato» (Pagnini). Fino ad arrivare ad un
contemporaneo di Stanislavskij, ossia a quel Mejerchol’d che per primo ha, per lo meno nel Novecento,
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contestato il fatto che l’attore dovesse immedesimarsi nel personaggio: incamminarsi tra le pieghe del
personaggio facendo apparire la propria distanza da esso, e fare ciò mediante il ricorso ad una struttura
gestuale e vocale modulata al di là delle convenzioni linguistiche. Secondo il grande regista sovietico,
l’attore deve abbandonare tutto ciò che odora di psicologia per rivolgersi invece alla musica; soltanto con
questo atteggiamento potrà far risaltare i personaggi non come «tipi unici», ma come maschere sociali.
Importante, in questo senso, la sua indicazione di trasformare la dizione dell’attore in «melodia che
provoca negli spettatori delle associazioni» con il ricorso a “staccati” non naturali, a interruzioni del ritmo
declamatorio, a variazioni tonali giustificate non “psicologicamente”. Comincia da qui una proficua
sperimentazione sulla musicalità del linguaggio; comincia da qui: slegando la declamazione dal discorso
quotidiano, in favore della «creazione di una trama verbale organizzata musicalmente». Non più, dunque,
l’atto di porgere la voce privilegiando i «referenti concettuali» della lingua, ma la parola intesa come
corpo sonoro; è lo stesso Mejerchol’d a dirlo: «il mio sogno è uno spettacolo provato con un sottofondo
musicale, ma poi recitato senza musica. Senza musica, ma con la musica, giacché i ritmi dello spettacolo
saranno organizzati secondo le leggi musicali e ogni interprete porterà la musica dentro di sé». Da questo
punto in avanti si srotola un’altra storia.
Diciamo che nel corso dell’ultimo secolo sono stati sostanzialmente due gli atteggiamenti che l’attore ha
assunto di fronte al testo: 1) fondare un’altra idea di recitazione, tale almeno da permettergli di
affermare se stesso e la propria vocalità, usando il testo come un tramite per allargare i propri confini; 2)
assumere la recitazione dell’epoca e quindi penetrare il testo, legarsi “amorevolmente” alla parola data e
tradurla vocalmente. Nel primo caso, ad avere rilevanza è l’autorialità; l’attore è elevato al rango di
compositore della partitura vocale, ne è il diretto responsabile, e ciò al di là (e spesso contro) il testo; nel
secondo, prevale l’approccio “ermeneutico”, per cui all’attore spetta chiarire il testo, trovare una sintesi
interpretativa e svolgerlo in voce cercando il più possibile l’aderenza tra la propria recitazione e il dettato
dell’autore. Il primo è l’attore poeta; non sparisce tra le righe del testo: è il testo, ovvero, come dice
Carmelo Bene, nella scrittura vocale poesia è la voce (e il testo è la sua eco, dice). Il secondo è l’attore
interprete; riferisce altro: «la voce assume il ritmo della scrittura e lo traduce nell’universo corporeo e
tattile della sonorità, presta cioè ad esso la propria individualità» (F. Frasnedi).
Con l’avvento dell’attore-poeta comincia ad affermarsi un attore non più costretto a subire il personaggio,
ma capace di farlo diventare strumento del proprio sguardo sul mondo; un attore che, slegandosi
definitivamente dal linguaggio parlato tutti i giorni e dal testo scritto, tende al canto: «nello spettacolo –
scrive magistralmente Antonio Attisani – l’attore non dice, ma significa e canta». In questa prospettiva, le
dinamiche della voce vengono organizzate metricamente, secondo un «procedimento di frammentazione
e ricomposizione ritmica». Scansione del respiro, cesure, accenti, dissociazione di ritmo e sintassi,
ripetersi di blocchi sonori (rime?), accordi ripetuti, contrasti, sillabe spezzate, parole tronche: la
recitazione assomiglia sempre di più ad una composizione poetica. L’attore diviene «un essere integrale di
poesia»: gioca con la voce nel momento in cui la libera dalla dipendenza dal significato. Non placa il grido
nascosto che alberga nella voce; lo esalta, a briglie sciolte. Senza uccidere il significato; tutt’altro. Lo
rende fluido, lo rende aperto, ne amplifica l’efficacia. La voce libera il significato da se stesso, per lo meno
quando riesce a trasformarsi in «appello al godimento e all’inquietudine». Non gioco gratuito, quindi.
Nell’inquietudine è annunciata la critica, si esprime una lacerazione. E allora, quel «piacere agonistico
della voce» che mira a piegare il linguaggio alle esigenze dell’attore ha un unico scopo, uno scopo che è
eminemente politico: «realizzare il desiderio represso di fare del corpo un oggetto di gioco», e non
oggetto di una routine che lo vede sistematicamente messo al lavoro sino all’usura. Questo è un punto
centrale. Senza uccidere il significato, appunto: perché riscattare la voce sottraendola alla dipendenza dal
semantico non significa eludere quel «andare verso qualcuno» che Wittgenstein indicava come
dimensione specifica del significato. Nella voce, il significato «non va in vacanza»: esplode, per rinascere
nello stupore dell’ascolto (pur degenerando, traccia il suo “messaggio” – perché la voce pura non esiste).
Ora, qui è fondamentale liberarsi di un malinteso. L’avanguardia teatrale italiana ha puntato a tenere
«distinti e distinguibili» significato e significante e non, come erroneamente è stato detto in piena bagarre
decostruzionista, attivare un dire che sia assenza di senso. Quest’ultimo è stato l’approccio di quanti,
contrapponendosi «al sistema logocentrico della parola», sono giunti a soffermarsi sulla voce in quanto
«assenza di significato». Tale atteggiamento, per così dire, comincia «proprio là dove il pensiero finisce»,
e rinvia a quella diffidenza rispetto al logos (alla razionalità che si esplica in linguaggio) che porta ad
esaltare la valenza del dire (l’unicità del parlante) rispetto al detto (i concetti e tutto l’ambito del
semantico); in sintesi, abolendo ogni legame della voce con la verità (il senso è la verità, scrisse Henri
Lefebvre). Sospendendo, il parlante, ogni «rapporto con il fuori», la voce è emancipata «dall’urgenza di
significare», liberandola da ogni complicità col mondo. Si resta fermi ad uno stadio pre-comunicativo; alla
preistoria dell’espressione. Pratica insidiosa: è in agguato la torre d’avorio; il rifiuto della significazione è
sempre in bilico di trasformarsi in rapporto di non curanza – e quindi di accettazione – dello stato delle
cose. Il caso di John Cage è esplicativo. Indubbiamente, il suo esaltare una vocalità scaricata di ogni
legame con la parola-pensiero, ha portato a risultati artisticamente rilevanti (esemplari le esecuzioni di
Joan La Barbara in Singing Through del 1990); è però anche vero che le sue composizioni sfociano in una
aleatorietà che è «rinuncia a intervenire sulle cose, sulla e nella storia»; una «esaltazione del
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significante» che per di più non è «intimidatoria nei confronti del fruitore comune» (A. Gentilucci). La
valorizzazione della «funzione destabilizzatrice del godimento vocalico nei confronti dell’effetto
disciplinante del linguaggio» (Cavarero), in questo caso, sfocia in un «esotismo gratuito» che non riesce
affatto ad incrinare, come vorrebbe ad esempio la Kristeva, «la Legge e il Discorso del Potere».
L’analisi dei fenomeni spettacolari dimostra invece come, anche nei casi più radicali, esiste una speciale
significazione nella voce, una sua capacità particolare di farsi «fenomeno di senso»; ma soprattutto
dimostra che, alla prova pratica dell’ascolto, il significato non scompare affatto, anzi, viene esaltato,
come raddoppiato dalla phoné dell’attore. Il modo di impostare la dizione nel suo Per farla finita con il
giudizio di Dio, non porta assolutamente Artaud a liberarsi del significato o, come dice ancora la Kristeva,
«ad attaccare il senso», tutt’altro; l’instabilità ritmica, le tonalità alte, la fonazione strozzata, se è vero
che portano a puntare l’attenzione su quel suo dire esagerato e disorganico, è altrettanto vero che non
nascondono il senso di ciò che voleva comunicare; altrimenti non si capisce perché Artaud abbia scritto
proprio quelle cose, in particolare nel momento iniziale («J’ai appris hier …»), nel brano La question se
pose de… (recitato da Paule Thevenin) e nella conclusione, dove traspare un forte significato polemico nei
confronti della cultura occidentale, e non un semplice accavallarsi di frasi o sillabe non significanti. Ha
ragione piuttosto Carlo Pasi, in particolare quando fa notare come la rottura degli schemi e la
sperimentazione dell’eccesso propri della dizione di Artaud fossero condotti con l’intenzione non di
annullare la comunicazione tout court, ma di aprire un nuovo spazio comunicativo, dove l’incontro con
l’Altro, nel totale allentamento delle inibizioni, si potesse trasformare «in una comunicazione attiva,
intensa». La dizione imperfetta di Artaud apre nuove possibilità di senso, e dunque di libertà («di amore e
di rivolta», dice lo stesso Artaud). Anche l’ascolto delle opere di Carmelo Bene potrebbe fugare dubbi in
proposito. Si prenda ad esempio il poemetto Lamento per la morte di Ignazio Sanches, scritto da Garcia
Lorca. Certamente Bene, come in ogni altra sua opera, soppianta una volta per tutte la «voce impostata»
dell’attore teatrale e, per così dire, elude «il messaggio esplicito»; però è innegabile che la sua musicalità
del dire produce senso. Nel caso citato, il senso di morte e di memoria trafitta dalla mancanza presente
nel testo di Lorca è fatto vibrare, oltre che dal ricorso ad un timbro particolarmente scuro, da una
scansione regolare delle strofe, quasi a “rappresentare” un funerale, ma è fatto poi esplodere (di
“dolore”) in micro variazioni tonali e timbriche all’interno dei singoli versi, e in particolare nello
slittamento verso l’afasia in alcuni accenti e nel ripetere le sonorità delle sillabe finali, là dove Bene, per
realizzare la sua idea di modo – grumi di frasi che si ripetono fonicamente simili nella struttura,
somiglianti alle strofe musicali ma eludenti ogni melodia – ricorre al tipico ingoiare il fiato o all’improvviso
salire d’ottava. Anche il ritmo fonatorio concitato usato da Bene per recitare i versi di Majakovkij (in
Quattro diversi modi di morire in versi) permette all’ascoltatore di cogliere in tutta la sua portata la
valenza eversiva del dettato poetico del poeta russo («io odio tutto questo / tutto ciò che ha inculcato in
noi / l’antica schiavitù»); permette insomma non già di eludere il significato, piuttosto di realizzare quella
messa in scena totale della parola che era la sua principale ricerca. La costruzione della partitura si
compie, in Bene, nel predisporre ogni elemento in «apparente disordine» (o stonatura) rispetto ad un
andamento “normale”. L’atto di spostare le toniche o di spezzare le parole, isolando nel silenzio alcune
sillabe, è in fondo un rompere la prosodia quotidiana per andare in direzione di una «sonora costruzione
dei periodi». La voce di Bene – dice giustamente Giacché – è della musica. Il processo della parola si
esplicita in qualità sonore modulate non già “psicologicamente”, ma, appunto, secondo parametri
assimilabili alla musica, senza però diventare canto vero e proprio. La voce è finta; la sua estensione
trascende la voce parlata nel quotidiano, i passaggi di registro o i cambiamenti di timbro avvengono
proiettando la voce in sintonia a un’idea estetica, anche privilegiando l’uso dei tipici “difetti”, dal gutturale
alla voce ingolata, dal nasale al rauco, persino all’afonia vera e propria. In ciò è evidente un distacco,
addirittura una critica esplicita alla tipica voce “impostata” dell’attore di prosa. Il respiro, in Bene, non
segue più il “messaggio” del discorso, viene articolato secondo parametri essenzialmente ritmici,
riuscendo «a penetrare nell’intimo del linguaggio», con evidenti parentele con lo Sprechgesang («un
canto generato dalla parola») ripreso e praticato da Schönberg. In effetti, proprio il funzionamento dello
Sprechgesang agevola la comprensione del modo di procedere di Carmelo Bene nei riguardi della
relazione tra voce e parola. L’attore imposta i ritmi e gli altri valori fonici (altezze, timbri, etc.) nella piena
consapevolezza della differenza tra parlata quotidiana e recitazione, e imposta l’emissione avvicinandosi e
allontanandosi dalla prosodia, disattendendola con spostamenti di accento e modulando la voce in un
modo che è, allo stesso tempo, «prossimo al canto e distante dalla dizione naturalistica» (Schönberg). Il
senso delle parole è agito secondo parametri musicali. Ed ecco che è in questo modo che l’attore si fa
poeta.
Nella poesia della voce ciò che ha pregnanza è il controllo del processo creativo, a partire prima di tutto
dalla regolazione del fiato. Le tecniche vocali variano a seconda dello “stile” o del senso critico
(l’emissione, scriveva Cathy Berberian, «è anche una scelta culturale»), per cui, ad esempio, l’uso dei
risuonatori è radicalmente diverso tra un attore grotowskijano e un attore di tradizione. Insomma, è un
insieme di criteri etici od estetici (o un incrocio tra questi) che domina il controllo del ciclo parola-ritmosuono da parte dell’attore-poeta, testimoniando che il problema della costruzione del significante è già il
problema del senso. Questo è un punto centrale. In questa consapevolezza l’attore grida la sua
emancipazione totale. Qui la voce lievita e, intravisto l’abisso, s’incammina come lanterna: una
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«illuminazione nel fango». Perché qui si gioca la tensione ad unificare compositore e interprete, in modo
che l’attore, diventando padrone delle proprie intenzioni espressive, celebri la propria liberazione.
Fusione, nella stessa persona, del compositore e dell’interprete: questa è stata la strada percorsa da
molta vocalità non convenzionale, che è nata e si è sviluppata al di fuori delle accademie,
dall’avanguardismo spinto dell’opera The big bubble dei Residents al minimalismo di Meredith Monk, dal
radicalismo vocale di Diamanda Galàs al cabaret-rock di Dagmar Krause, dalle vocine distorte e irridenti
di Frank Zappa al canto popolare di Giovanna Marini. Ed è stato il percorso intentato da certo teatro di
ricerca, in particolare italiano, dove la conformità ai riti propri di una tradizione incapace di “emozionare”
veniva fatta deragliare a favore del gratuito (e della critica), esaltando la qualità personale dell’attore: «la
sua stessa voce, il dispiegamento delle sue tonalità, la ricchezza fonica». La scissione tra il ruolo
dell’autore e quello dell’esecutore, allora, è superata dalla pratica senza scopo – e perciò scandalosa e
rivoltante – dell’attore. In questa deriva, piuttosto che “bardo stipendiato” al servizio di un apparato
istituzionale, l’attore agisce in totale indipendenza e diviene, appunto, poeta. E tutta la ricerca di Carmelo
Bene è lì a dimostrarlo.
Sulla performance poetica dell’attore. Nota tecnica.
Sergio Colomba, dicendo della voce di Carmelo Bene (La voce di narciso, il Saggiatore), afferma che
l’attore salentino si occupava della parola puntando «alla vocalità come rendimento poetico». In sintonia
con Colomba, credo che alcuni nodi cruciali dell’attore contemporaneo riguardino non tanto l’uso d’una
costruzione fonetica concentrata sul vocabolo come portatore di significato, procedimento tipico del
cosiddetto teatro di prosa, quanto una scansione “metrico-ritmica” della recitazione, ossia la capacità di
sottoporre le parole «ad un tipo di orchestrazione che crea, per mezzo di determinate sequenze, pause e
rilievi» (G. L. Beccaria, L’autonomia del significante, Einaudi). La recitazione si configura non soltanto
come tramite dei significati del discorso, secondo cadenze fisse e in gran parte prevedibili, ma anche
come sperimentazione di combinazioni imprevedibili e arbitrarie capaci di aprire nuovi impulsi percettivi,
e dunque arricchenti l’esperienza dello spettatore. In quello che potremmo definire l’attore poeta, le
maschere fonetico-verbali sono costruite non più facendo aderire le parole alla parlata quotidiana, ma
complicando la sintassi sino ad imbastire una vera e propria struttura poetica, dove le «figure del
significante» sono agite in autonomia dai significati della lingua. Estrarre «dalla sonorità vocale tutte le
infinite potenze musicali di cui essa è capace» vuol dire modificare la “curva fisiologica” del parlato,
arricchendolo di una banda ulteriore: il non rispetto della naturale ampiezza delle sillabe esalta le
potenzialità espressive dell’attore. Ora, a rigor di logica anche l’attore di prosa, nel suo incontro con la
parola, per certi versi si sottrae alle consuetudini del parlare, non foss’altro perché deve portare la voce
ben al di là di quanto farebbe in una situazione di vita quotidiana. Si può però affermare che, di solito,
questo tipo di attore si approccia al significante in perfetta aderenza al significato, limitando le variazioni
alla necessità di esporsi dentro uno spazio che abbisogna di una resa vocale particolare. Ciò che è
radicalmente diverso tra l’attore di prosa (o interprete, intendendolo come mero esecutore del testo) e
l’attore-poeta è la via per la quale la voce giunge a realizzare la parola.
Partiamo dal fenomeno dell’emissione. Com’è risaputo, per emissione è da intendersi quel «complesso di
fenomeni che precedono, preparano e accompagnano la messa in vibrazione delle corde vocali, mediante
la produzione del suono fondamentale laringeo e la sua trasformazione in voce mediante il tubo aggiunto
di risonanza» (R. Maragliano-Mori, Coscienza della voce, Curci Editore). Secondo una impostazione ormai
accreditata, nella produzione artistica della voce concorrono, essenzialmente, due elementi: la personalità
dell’individuo e la sua concezione estetica. Entrambe queste dimensioni influenzano l’emissione. L’atto
respiratorio, ad esempio, che è il fondamento di ogni buona emissione, può essere regolato in base
all’idea di vocalità che voglio ottenere. Qual ora voglia semplicemente aderire “allo spirito del testo”,
adeguandomi alle sue esigenze interne, debbo regolare il fiato in modo che non traspaia alcuna
contraddizione tra ciò che emetto in forma di suono vocale e ciò che dico a livello semantico; devo cioè
adattare la sonorità agli sbalzi di stato d’animo del personaggio, rendendo ogni mutamento coerente con
quegli stessi sbalzi. La sensibilità di un attore si misura ancora oggi, principalmente, con la capacità di
legare la sua azione al personaggio. L’apparato fonatorio, allora, è sollecitato per l’espressione di
sentimenti (o di idee o di precetti morali, della “parte” insomma) e non, come accadrebbe se io volessi
invece impostare l’emissione senza seguire le tracce del personaggio, come segni, i quali sono, per
natura, «sintesi organiche di un significato e di un significante» (F. Rossi-Landi, Semiotica e ideologia,
Bompiani). Il lavoro dell’interprete, dunque, nel suo subordinare inevitabilmente il suo corpo sonoro alla
dimensione del significato della parte, si svolge come isolando una porzione di se stesso dalle altre, autolimitando la sua stessa capacità espressiva.
Proviamo a scendere nel concreto, partendo dall’attività che avviene entro il corpo dell’attore, ed in
particolare nella bocca, durante la formazione della parola. La prima dimensione riguarda la formazione
delle vocali e l’intreccio di queste con le consonanti, ovvero la pronuncia e l’articolazione delle parole.
Nella lingua italiana, le regole della corretta pronuncia prescrivono il rafforzamento sonoro di alcune
consonanti semplici, poste ad inizio di parola, da pronunciare come se fossero doppie, per cui, ad
esempio, i primi due versi de L’infinito leopardiano andrebbero pronunciati:
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sèmpre kàro mi fù kkuest érmo kòlle / e kkuésta sièpe, ke dda ttànta pàrte.
Questa risulta essere una delle regole più seguite dall’interprete, tant’è che ogni corso di dizione la
menziona e la insegna (Cfr. La voce recitante, M. Boldrini, da cui è preso l’esempio). Ora, secondo
Grotowski questa regola è pericolosa, in quanto «l’eccessiva accentuazione delle consonanti provoca la
chiusura della laringe», e dunque limita la capacità, durante lo spettacolo, di regolare il fiato e di portare
in modo adeguato la voce; soltanto nello bisbiglio – suggerisce lo stesso Grotowski – ci si appoggia sulle
consonanti. E ciò è sostanzialmente vero. Ma può succedere che la parola subisca, per scelta, un processo
di deragliamento della sua pronuncia e articolazione. Può ad esempio succedere che l’attore disponga
l’apparato fonatorio per una emissione forzata delle consonanti, per ottenere un effetto particolare:
kkkkkkk k k kkkkkuest-t-t-t érmo k-òlle;
o addirittura, come accade in certe frasi di Carmelo Bene, limitando quasi a zero l’apporto sonoro delle
vocali, ingoiandole e quindi sospendendo l’emissione del fiato per il tempo necessario a preparare la
lingua e il palato alla successiva produzione di una serie di sonorità ottenute legando tra loro diverse
consonanti. Le regole generali, dunque, sono “usate” o addirittura smerdate da un dato pensiero estetico
che si pone di fronte ad esse in maniera critica e cerca una espressività vocale che trascenda il modo
comune di agire. Infatti, mentre l’attore-interprete si limita ad abbellire un fatto vocale che è già dato,
nelle sue caratteristiche essenziali, nell’andamento ritmico-semantico e soprattutto “psicologico” dello
scritto, quello che abbiamo definito l’attore-poeta ne varia la struttura. Si prenda l’effetto
dell’allungamento della vocale. Per l’interprete tale allungamento è possibile se lo stato d’animo del
personaggio, in quel momento, lo giustifica; se è gonfio di rabbia, il significato della parola «lasciatemi»
coincide con il portante fonico, per cui la vocale “a” della tonica è emessa, magari coi denti digrignati, per
rispondere alla necessità di formare quella coincidenza; allo stesso modo, la vocale finale “i” può essere
allungata e trasformata, ad esempio, in accenno di pianto. Al contrario, sempre prendendo a riferimento
Carmelo Bene (la parola «lasciatemi» è il finale di un verso di Majakovskij tratto dallo spettacolo Quattro
diversi modi di morire in versi, versione in vinile), la tonica viene appena sfiorata, mentre la “i” finale è
esaltata in lunghezza affatto naturale, ed è fatta vibrare in una serie di passaggi velocissimi d’ottava e di
scadimento del volume, creando un effetto di allontanamento che non coincide con il significato, ma che
di fatto lo esalta. Di certo si può affermare che il meccanismo che sorregge la pronuncia e l’articolazione
avviene, nell’interprete, naturalmente, ovvero acquisendo la capacità di controllare i movimenti muscolari
necessari senza discostarsi di nulla (se non nell’intensità dell’emissione, e comunque nell’adeguare la
portata fonica allo spazio), della prosodia quotidiana. L’attore-poeta, invece, ribalta le regole,
arricchendole di nuova esperienza.
Proviamo a leggere gli stessi primi due versi leopardiani citati in precedenza; proviamo a farlo la prima
volta normalmente, magari anche colorendo la lettura con l’impiego di pause motivate. E proviamo poi a
farlo seguendo le seguenti indicazioni:
sempre (sibilante, afono, con leggera pausa dopo la prima sillaba)
caro (“caaaaa” basso profondo, “ro” espirato semiafono)
mi (miiiiiiiiiiiiiiii prima decadimento fonico e poi soffiato)
fu (netto)
quest’ermo (semiafono, sforzato)
colle (sforzato, a sfumare discendendo)
e questa siepe (legato, basso, sforzato)
che da tanta parte dell’ultimo orizzonte (sforzando ogni sillaba, ma legato, con la sillaba finale
“te” in salire di frequenza)
il (staccando la vocale dalla consonante, con leggera pausa e facendo schioccare sonoramente la
“l”)
guardo (basso, spaventato)
esclude (la “u” glissa in basso fino all’afonia, la sillaba finale altissima).
L’effetto ottenuto grazie all’irregolarità dell’emissione tenderà a classificare questa proposta come
rumore, almeno rispetto al comune sentire. Eppure, se si memorizza il procedimento e si esegue la
partitura dopo averla provata un po’ di volte, non si mancherà di riscontrare un certo interesse, una
diversa tensione dovuta proprio al particolare modo di impostare la scrittura vocale. Se poi ad agire la
stessa è un attore dotato di esperienza e di consapevolezza sonora, ebbene il senso dell’infinito
leopardiano esploderà in tutta la sua magnificenza poetica, e in maniera più efficace che non la stessa
lettura affrontata col metodo dell’interpretazione. La differenza è quella che passa tra la lettura
dell’Infinito fatta da Carmelo Bene (in I canti di Leopardi, versione televisiva) e quella di Giorgio
Albertazzi (in G.A. recita Leopardi, audio cassetta, Curcio Editore), quest’ultima di una banalità
sconcertante, da allievo di primo anno di scuola drammatica.
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Lo stesso tipo di analisi potremmo farla sia sull’uso delle qualità del suono vocale, ossia per i fenomeni
dell’altezza, del timbro e dell’intensità. Tutti i Canti leopardiani sono tradotti vocalmente da Albertazzi su
un’unica linea interpretativa, dove la sensazione, ad un ascolto “professionale”, è quella di semplice
lettura piana; non compare né una variazione d’altezza significativa né un mutamento del timbro, anche
questo tenuto fermo su quello naturale dell’attore. Nessun «fuoco d’artificio» caratterizza la dizione. Ogni
tensione è contratta in un andamento regolare. L’attore Albertazzi recita Leopardi come se stesse
leggendo ad una platea la lista della spesa. Un verso solo dei Canti recitati da Bene basterebbe per
misurare la distanza abissale tra questi due attori. Ad esempio, basterebbe ascoltarsi il “vibrato” usato
nel verso finale de L’infinito, oppure il suo consueto “scadere” del suono nel dire l’ultima parola della
poesia («mare»), dove Bene, accompagnando la fonazione con il tirare indietro il capo, ci fa percepire la
dolcezza di quel naufragare.
Per precisare ulteriormente il differente approccio alla parola da parte dei due tipi di attore qui
considerati, proviamo ad introdurre la funzione dei “registri”. L’estensione della voce, i suoi cambiamenti
di timbro e di tono, sono ovviamente legati all’uso che di solito se ne fa entro un’epoca ben precisa. La
presente prevede la tenuta dei cambiamenti di registro entro margini limitati, allo scopo di ottenere un
effetto rassicurante. Come insegna l’analisi musicale, «l’emissione vocale ‘spontanea’ è una emissione di
un intervallo di quarta» (R. Maragliano-Mori, op. cit.); nella parlata quotidiana è misurabile un distacco di
cinque semitoni tra il punto più basso e quello più alto. Nel canto l’estensione ovviamente aumenta (dal
falsetto al basso). Ora, fatta salva la gamma vocale di ognuno, differente anche per caratteristiche
biologiche, l’abitudine ha reso disponibili gli attori a muoversi a fatica nei passaggi; e ciò non tanto per la
non padronanza dello strumento, quanto piuttosto per la reticenza a confezionare una recitazione
poggiata sulla variazione dei registri. A parte alcune situazioni, ad esempio nella rappresentazione di un
personaggio isterico, dove il registro muta come conseguenza della sensibilità del personaggio, in genere
la voce è tenuta su una estensione di poco maggiore di quella parlata tutti i giorni. Eppure, anche qui, la
storia del nostro teatro non è avara di spunti diversi; tra i più importanti c’è sicuramente quello di Leo De
Berardinis.
Leo De Berardinis è un poeta della scena che ha fatto dei cambi di registro un suo particolare stile.
Esemplari quelli eseguiti recitando Urlo di Ginsberg (registrazione dal Terzo Programma RAI), attraverso
un percorso complicatissimo dentro e contro il testo, dove la battuta è trasformata in un canto dissonante
e le sillabe disgregate, torturate, rese rumore. De Berardinis è stato capace di sintetizzare, attorialmente,
tutte le ricerche sulla vocalità sino a quel momento svolte, soprattutto in campo musicale. Negli anni in
cui De Berardinis cominciava veniva ad affermarsi, in particolare con il lavoro di Berio insieme a Cathy
Berberian, una nuova idea di vocalità (Thema è del 1958, Visage del 1961, mentre Sequenza III è del
1965), molto vicina alla dimensione teatrale, in cui lo strumento veniva esaltato ben oltre le nozioni di
canto allora conosciute e in cui, come afferma lo stesso Berio, «i cambiamenti di emissione vocale e di
espressione hanno importanza fondamentale». Queste ricerche sul gesto vocale coincidono con quanto, in
quello stesso periodo, stavano sperimentando gli attori che sarebbero poi diventati parte integrante di
una nuova funzione della voce recitante, da Carmelo Bene (il suo primo spettacolo è del 1959; già allora
Flaiano notava: «la sua voce scende fino al più angoscioso falsetto») allo stesso De Berardinis.
Quest’ultimo, a furia di ascoltare il naufragio dei suoni operato dal free jazz, ha costruito un suo “stile”
vocale sempre in bilico tra improvvisazione anarchica e controllo ferreo della partitura. Come lui stesso
dirà, in uno dei suoi primi spettacoli, Aspettando Godot (regia di Carlo Quartucci, 1964), arriverà a
contare dodici cambiamenti di registro (Cfr. G. Manzella, La bellezza amara, Pratiche editrice) e ad usare
tutta la gamma dei gesti vocali possibili nella recitazione del personaggio. La dizione di un Albertazzi
qualsiasi, invece, si accartoccia su una variazione inesistente …
Nevio Gàmbula
BIBLIOGRAFIA
Antonin Artaud, Per farla finita col giudizio di Dio, libro + CD, Stampa Alternativa, Roma 2000.
Antonio Attisani, L’invenzione del teatro. Fenomenologia e attori della ricerca, Bulzoni Editore, Roma 2003.
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Lamento
per
la
morte
di
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scaricabile
in
mp3
http://www.vicoacitillo.it/sonora/indice.html
Ernst Bloch, Spirito dell’utopia, La nuova Italia, Scandicci 1992.
Adriana Caravero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003.
Fabrizio Frasnedi, La voce e il senso, Il Verri, maggio-giugno 1993.
Armando Gentilucci, Oltre l’avanguardia. Un invito al molteplice, Unicopli, Milano 1991.
Piergiorgio Giacché, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997.
Maurizio Grande, La riscossa di Lucifero, Bulzoni editore, Roma 1985.
Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni Editore, Roma 1968.
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sito
74
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Carlo Pasi, Artaud attore, La Casa Usher, Firenze 1984.
F. Rossi-Landi, Semiotica e ideologia, Bompiani
Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Universale Laterza, Roma-Bari 1975.
Paul Zumthor, La presenza della voce, Il Mulino, Bologna 1984.
75
“Inscenare il gorgo” - TEATRO RIPOETATO, TEATRO RISANATO
“Tra coloro che il proprio destino ha veramente costretti al teatro,
gli attori eroici e tragici cercano di evadere dall’io, i comici dal
mondo.”
– Hugo Von Hofmannsthal, Il libro degli amici –
Tutta la storia del teatro del Novecento è stata, è anche la storia di un’ininterrotta lotta verso e contro la
parola, per liberarsene e insieme affrancarla, infibrarla o forse provvidenzialmente svuotarla di non
sincera poesia… Dal teatro magniloquente e paludato di D’Annunzio a quello eroso, cogitabondo,
relativistico di Pirandello – il passo certo fu immenso: e forse ancora non bastò, non bastava.
“Quale parola? Chi la potrà dire?” – intona disperata la Francesca da Rimini (1902), languida adultera,
rea solo d’amore, nel concitato, drammatico finale col furente consorte Malatestino – “Tu vivi di fragore. /
Dov’io vivo è silenzio. Il prigioniero / non è lontano e solo / come tu sei lontano e solo, povero /
carnefice, ebro di grida e di colpi! / Taciturna è la sorte.”
“Sissignore, il guscio:” – così diversamente Il Capocomico catechizza Il Primo Attore dei Sei personaggi in
cerca d’autore (1921) – “vale a dire la vuota forma della ragione, senza il pieno dell’istinto che è cieco!
Lei è la ragione, e sua moglie l’istinto: in un giuoco di parti assegnate, per cui lei che rappresenta la sua
parte è volutamente il fantoccio di se stesso. Ha capito?”…
Da questa ardita, loica urgenza drammatica, e da questo supremo denudamento finanche concettuale,
nasce la tragedia stessa della Modernità – sul filo di una deriva appunto d’insipienza, e terribilità, che
avrebbe nutrito a oltranza, ben oltre i vacui e ormai risibili giochi delle avanguardie tutti gli anni e i
decenni a venire. Anni di guerre mondiali, di distruzioni, dissipazioni, tormenti, persecuzioni, olocausti…
Brecht ci ammoniva di estraniarci, per non estraniarci, di capire e restar lucidi, per non farci stranieri
della gioia così come del dolore: “Cannonate a digiuno, / o condottieri, non fan bene alla salute.” – canta
Madre Coraggio a tutti i Comandanti di ogni guerra interminata, interminabile (egli la scrisse appunto
durante l’ultimo conflitto, mentre era in esilio negli States – “Ma se son sazi, io vi benedico, / e
portateveli nel fondo dell’inferno.”
Quando Pier Paolo Pasolini riprese in mano questa parola teatrale ferita e perfino offesa (Orgia è del
1968; Calderòn del ’73), c’era stata, sì, ed era ancora alta, clamorosa d’evento, la parabola infebbrata di
Carmelo Bene – la sua assoluta, contorta, spasmodica ricerca di Voce. Affranta e insieme obliante,
smascherata e in pena: sarcasmo inopinato… “Attore è il suo malessere” – teorizzò del resto ne La voce
di Narciso:
“La sua dinamica è coma-delirio. Nelle agonie indecenti, il morituro non dialoga mai con i sempre
ingombranti astanti. (…) L’attore del malessere si guarda bene dal privarsi del vaneggìo di che consiste.
Anzi, è in lui congenita la necessità di monologare anche la forma dialogica, per restituirla alla trama
nullificante del proprio essere delirio. E non basta: anche il ‘tra sé’ egli ingerisce digerendolo dentro di sé.
Nel corpo del malessere, la bocca è sempre grotta, spalancata o chiusa, grido-silenzio-murmure. Eco
infinalmente, delle innumeri voci inghiottite. Eco, ninfa che dice la sua amnesia dell’amore, frastornata in
riva al mare schiumoso della saliva.”
Teatro di Parola – anelò invece, invocò Pier Paolo. E ne stese, proprio nel ’68, il manifesto; teorico quanto
agguerrito: “La sua novità consiste nell’essere, appunto, di Parola: nell’opporsi, cioè, ai due teatri tipici
della borghesia, il teatro della Chiacchiera e il teatro del Gesto o dell’Urlo, che sono ricondotti a una
sostanziale unità: a) dallo stesso pubblico, (che il primo diverte, il secondo scandalizza), b) dal comune
odio per la parola (ipocrita il primo, irrazionalistico il secondo)”…
Il Teatro comunque vinceva – andò perfino di moda – e insieme si frantumava, si controideologizzava, si
metteva in scena abolendo la scena, si declamava dissacrando, irridendo il testo, si recitava reinventando
non solo l’Arte, ma il Lavoro stesso Dell’Attore…
Fu poi la volta del cosiddetto Teatro Immagine (il cui padre putativo fu forse l’americano Robert Wilson,
mitico regista di spettacoli-fiume, ipervisivi, perturbanti e ipnotici), che nasce, ricorda Silvana Sinisi in un
suo attento studio su Neoavanguardia e postavanguardia in Italia,”nel difficile momento di transizione in
cui, tramontata l’euforia sessantottina, si comincia a prendere atto di uno scacco che invalida qualsiasi
progetto di rifondazione. La scelta della marginalità, il rifugio nella visionarietà e nella dimensione onirica
che caratterizzano questo indirizzo di ricerca costituiscono un tentativo di esorcizzare un malessere
profondo, un diffuso disagio esistenziale che nasce sul vuoto di uno sradicamento.”
Si discettava dunque da più parti, e con insistenza, di una Nuova Spettacolarità. La poesia stessa fu in
qualche modo chiamata, precettata a farne parte – e nacque, per merito di Franco Cordelli e Simone
Carella, quella straordinaria, irripetibile occasione di happening, rito, provocazione, salmo lustrale, insulti
al pubblico, autoerotismo mentale, che fu il grande Festival o lettura pubblica a Castelporziano, spiaggia
vicino Ostia, corrente il giugno del 1979 (ripetuto l’anno dopo a Roma, presso la verdeggiante Piazza di
Siena, solitamente sede del prestigioso, elitario concorso ippico)…
Cordelli ne dà ampiamente conto in un avvincente, serrato diario in progress, o saggio romanzesco:
Proprietà perduta (1983); dove medita e risquaderna il tutto in terza persona:
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Un giornalista chiese a Cordelli che cos’era la nuova spettacolarità, di cui si parlava tanto in quei giorni.
Prima, rispose Cordelli, il gesto veicolava un significato precedente, che esisteva o sembrava esistere in
sé, indipendentemente dal suo essere pronunciato. Possiamo prendere a paradigma di quanto voglio dire
una certa drammaturgia moderna: Brecht, Strehler o, meglio ancora, il Living – perché le differenze siano
ancora più chiare… Quel gesto, riassumendolo, era il pugno chiuso, levato in alto, come minaccia, come
denuncia di un’assenza, come promessa. Era un gesto che presupponeva una fede e un sistema di valori,
un sistema concettuale in cui molti si riconoscevano: era il gesto della critica e il gesto della lotta… Noi
invece vogliamo che ogni persona, o meglio ogni poeta sia messo in condizioni di rivelarsi: una serie di
epifanie, a getto continuo, ogni epifania con la sua intensità, con la sua dose di erotismo… Ma perché
proprio i poeti e non, per esempio, gli attori, chiese il giornalista. Perché, rispose Carella, il corpo del
poeta è più erotico, ha subito il trauma della gloria, condensa, come un campo magnetico, più segni e più
segni trasmette, anche se un poeta non ha l’abitudine professionale di trasmettere segni spettacolari: e
forse perché questa mancanza di abitudine è quanto consente a quei segni di rivelarsi con maggiore
libertà. Anche una parola è un segno fisico: quando Bellezza disse siete tutti fascisti, si rivelò
compiutamente, non dimentichiamo che il suo primo libro era intitolato Invettive e licenze. Questa
rivelazione, aggiunse Cordelli, in un certo senso è qualcosa di opposto alla critica, è addirittura una
celebrazione, ed ecco perché si parla di narcisismo, di narcisismo di massa, e perché poi, alla fine, è
anche il pubblico parte integrante della nuova spettacolarità: non tutti hanno gli strumenti per criticare,
ma tutti possono e debbono avere quelli per rivelarsi. La nuova spettacolarità è una spettacolarità totale
…
Come in un vorticoso e ripercorso video assolutamente moderno fra 8’-’900, tornano dunque in mente
tutti i fecondi tentativi dei poeti di mettere in scena questa Parola contemporaneamente Messaggio e
Immagine, Manifesto e Confessione – anche Autodafè…
Igitur di Mallarmé (1867) che dalla baudelairiana poetica delle Corrispondenze era giunto ad una specie di
poetica dei Simboli: “Suona Mezzanotte – la Mezzanotte in cui i dadi débbono esser tratti. Igitur scende le
scale, dello spirito umano, va a fondo delle cose: da ‘assoluto’ quale egli è. Tombe – ceneri, (senza
sentimento, né spirito) neutralità. Egli pronuncia la profezia e fa il gesto. Indifferenza. Sibili nella scala.
‘Avete torto’ nessuna emozione. L’infinito esce dal caso, che avete negato. Voi, matematici spiraste – io
proiettato assoluto. Dovevo finire in Infinito. Semplicemente parola e gesto.”
Ma anche Kafka, devoto frequentatore delle rappresentazioni di teatro yiddish… E certi suoi dialoghi
raggelanti d’ironia dolorosa, per davvero fruibili quali strani pezzi di teatro mancato, inesorabili atti unici
sul ciglio del baratro di ogni nostra anima contorta ed estorta di sé: il “Dialogo con il devoto”, il “Dialogo
con l’ubriaco” (entrambi, 1909): “Mio Dio, che cosa salutare dev’essere, invece, quando un pensatore
impara da un ubriaco!”…
E pensiamo alla forza drammatica che hanno certi testi per musica di Arnold Shönberg; pensiamo alla
tragica, apocalittica profezia in atto che hanno ad esempio, nell’oratorio La scala di Giacobbe, le voci
liriche, astratte ma squarcianti, dei GENÎ E DEMONÎ:
Un tratto separa il bene dal male.
Fa la sua parte chi attinge quel tratto.
Virtù spinge innanzi: chi vuole chiarezza,
varca la frontiera.
Viltà la paventa, più angusta la rende,
e pur non l’arriva.
Bene e male non fanno che un fastello
Se la frontiera non è valicata.
Commenterebbe Walter Benjamin (riprendiamo il filo di un sua conversazione col commediografo di
costume Wilhelm Speyer): “Se è un problema morale, lo deve sviluppare in scena attraverso i dialoghi. E
anche nella vita reale il miglior modo d’affrontarlo è quello di articolarlo in una discussione”…
Proprio il Teatro di Poesia ha, ebbe e sempre riavrà questo compito: di additare un’etica, di metabolizzare
in parole e perfino in versi un eterno o gli eterni problemi morali.
Molti grandi poeti del Novecento hanno lottato, e non solo sulla pagina, per questo teatro morale, per
questo palcoscenico d’Etica, rigoroso e orgoglioso dei suoi valori, e sprezzante verso le debolezze del
passato: “Ieri siamo stati all’inaugurazione del teatro di Zonov. Così male che non vale la pena di
parlarne; solo un’attrice dà qualche debole speranza” – scrive Aleksandr Blok alla moglie Ljuba il 20
febbraio 1913 (Ljuba, attrice, vaga per la Russia al seguito di scadenti compagnie teatrali – mentre Blok
è diventato, in clima già di rivoluzione, il poeta più importante della sua generazione) – “(naturalmente
non è la Dymšic; il suo cognome è Fetisova, ha interpretato la Rusalka). Ci siamo andati con Tereščenko,
Volkonskij, Remizov e Filosofov e tutti siamo d’accordo. (Fra l’altro recitava il fratello di Gnesin. Non
sapevo chi fosse ed ero orripilato: un vecchio, squallido attore di provincia. Recitano anche due attori del
teatro Mariinskij). Ancora molte lettere, molti piani, come sempre. Non amo gli attori, cara, e mi fa
sempre soffrire che tu insista nel voler recitare. C’è qualcosa di vergognoso. Soltanto il genio salva, ma,
se non c’è il genio, è vergognoso, noioso, non necessario. Un teatro geniale è arte; un teatro non geniale
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è un mestiere ingrato. Andremo da Stanislavskij. Da quando ci sei stata tu, il dramma non è stato letto a
nessuno.”…
“Il teatro è una fornace.” – proclamava leggero e assoluto anche quel grande amoralista (e non gidiano
immoralista!) di Jean Cocteau, prestidigitatore delle arti più varie, e supremo, teorizzante artefice
d’eclettismo… – “Chi non se ne accorge vi si consuma a lungo andare, oppure brucia d’un sol colpo. Il
teatro fa la doccia fredda allo zelo. Attacca con il fuoco e con l’acqua. Il pubblico è un mare tempestoso.
Dà la nausea. La si chiama trac. Si ha un bel dirsi: è il teatro, è il pubblico, niente serve. Ci si ripromette
di non lasciarsi più prendere. Ci si ricasca. È la sala da gioco. Ci si gioca quello che si ha. La tortura è
squisita. A meno di non essere vanesio, la si prova. Non se ne guarisce mai.” I suoi tentativi di
modernizzare gli antichi miti (Orfeo, 1927; Antigone, 1928; La macchina infernale, 1934; Bacco, 1952), o
viceversa di mitizzare i crudi temi contemporanei (I parenti terribili, 1938), in ogni caso gli riuscirono. La
tortura è squisita…
Anche Federico García Lorca chiede e assegna al teatro una strenua forza d’invenzione mitica. A partire
dal ’32, col teatro universitario sperimentale “La Baracca”, portò la voce dei suoi classici (Cervantes, Lope
de Vega, Calderón de la Barca) sino ai più sperduti paesi della Spagna. Certo che il Pianto per la morte di
Ignacio Sánchez Mejías (1936) lasciò il segno, e fece davvero epoca nell’immaginario medesimo della
poesia europea: “Qui Lorca innalza la vicenda del torero a grande figurazione cosmica del tema della
morte;” – spiega Rosa Rossi – “risacralizzata nel terzo movimento con tono salmodiante e con
andamento rituale nel quarto movimento, costruito a partire da un’ottica del tutto laica in contrasto
suggestivo con il valore sacrificale e rituale della stessa corrida.”
A las cinco de la tarde.
Eran las cinco en punto de la tarde.
Un niño trajo la blanca sábana.
A las cinco de la tarde.
Erano le cinque della sera.
Erano le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il bianco lenzuolo
alle cinque della sera.
Teatro come unificante e parcellizzata performance dell’intelletto?! Risacralizzazione della Parola e del
gesto togati o desnudi in Poesia…
Agostino Lombardo grande anglista e munifico esegeta di Shakespeare, ha scritto un memorabile saggio
su Il testo e la sua ‘performance’ (1986), dove estendeva appunto il discorso, oltreché al precipuo testo
teatrale a quello eminentemente “poetico moderno”: canonico, certo, “proprio perché fissato su una
pagina”; “ma altrettanto mobile e proteiforme”.
La scoperta e la ricerca di Amleto, il consistere della sua vera azione tragica non in una sequenza di
azioni e gesti ma nel suo interiore avvicinarsi ai territori inesplorati, è la ricerca che la poesia moderna fa
propria. Certo, le strade saranno infinite, e infinitamente diverse, come diversi saranno i toni, le
disposizioni, i modi poetici, come sempre diverso sarà il linguaggio, che muterà col mutare dei talenti
individuali e col mutare dei tempi, con l’operare di quell’”ansia del retaggio” di cui scrive Harold Bloom,
con la diversificazione della lingua, il variare del paesaggio umano e intellettuale. Ma sostanza e fine della
ricerca sarà sempre la visione dell’abisso, ciò che Italo Calvino chiama “il midollo del leone”.
Teatro e poesia – o meglio, il teatro della Poesia…
I monologhi irruenti e trasgressivi della beat generation, lasciarono il segno. Difficile, dopo il fecondo choc
de L’urlo (1956), rinunciare ad esempio ai lucidi, deliranti e dirompenti j’accuse planetari di un Allen
Ginsberg:
America ti ho dato tutto e ora non sono nulla.
America due dollari e ventisette centesimi 17 gennaio 1956.
Non posso sopportare la mia mente.
America quando finiremo la guerra umana?
Va’ a farti fottere dalla tua bomba atomica.
Non sto bene non mi seccare.
Non scriverò la poesia finché non avrò la mente a posto.
America quando sarai angelica?
Quando ti toglierai i vestiti?
…
Erano anche gli anni in cui Roland Barthes denunciava “i disastri dello ‘stile’ sulle nostre scene borghesi”:
“Lo stile scusa tutto, dispensa da tutto, e segnatamente dalla riflessione storica; chiude lo spettatore
nella schiavitù di un puro formalismo, in modo che le rivoluzioni dello ‘stile’ risultino anch’esse soltanto
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formali: il regista d’avanguardia sarà quello che oserà sostituire uno stile a un altro (senza riprendere più
contatto col contenuto reale dell’opera), convertire, come Barrault nell’Orestiade, l’accademismo tragico
in festa negra. Ma è poi lo stesso, e non porta a niente sostituire uno stile a un altro: Eschilo autore
bantù non è meno falso di Eschilo autore borghese”…
E la stessa Marguerite Yourcenar ci ammaliava più quando trascriveva l’interrogatorio feroce e inquisitorio
a Campanella (cfr. “Esempi di linguaggio parlato non sottoposti ad alcun trattamento letterario”, in Il
Tempo, grande scultore, 1983), che non quando inseguiva tra Roma e Grecia estetizzanti, e forse già
svaporate Carità di Alcippe…
Minute di udienza di tortura subita da Campanella.
18 luglio 1600.
L’imputato Io sto molto male.
Gli viene detto che sarà di nuovo torturato.
Lo stesso Non fatelo! Che volete da me? io son morto.
Interrogato perché non risponde alle domande.
Lo stesso Non posso… Hoimè! Hoimè! Hoimè!… Li coglioni! Tutto mi doglio, frate mio… Scenditeme…
Voi non havete misericordia…
E gli annunciano che sta per essergli applicato un nuovo tormento, la fune.
Lo stesso Sì… Sì… Fatelo… Frate mio, mi hanno consumato…
Interrogato perché non dice la verità.
Lo stesso Hoimè che non posso più… Io piscio, frate (e prese a mingere).
Poi tace. Quindi dice:
Lo stesso Mi caco nelle calze.
E tace. Domandato poi di parlare.
Lo stesso Io non posso far niente.
Gli viene detto di chiedere grazia ai Signori Giudici.
Lo stesso Lasciatemi cacare… Io moro per Dio!
Richiesto se il pranzo era stato buono.
Lo stesso Io non posso più.
Interrogato come si chiama il commissario del Santo Uffizio che lo ha arrestato.
Lo stesso Lassatimi stare, fra’ Tomaso.
Interrogato chi sia questo fra’ Tomaso.
Lo stesso Fra’ Tomaso, son io.
Viene tirato giù e ricondotto in prigione.
Da noi i tentativi migliori in questo senso furono ascrivibili a certi autori in perfetto equilibrio tra verve
sperimentale e gusto, adesione tardoneorealistica: penso ad un fiero, rabdomante affabulatore engagé
come Elio Pagliarani… La sua Ballata di Rudi (1995) eccelle per visione circolare, d’assieme, e la rara
capacità di cogliere – come espediente e risultanza al contempo psicologica, linguistica, ritmica, emotiva,
cronachistica, di costume, plastico-visiva – tutti o quasi gli umori di un’epoca; anzi forse proprio
l’inseguimento dell’epoca nelle epoche, insomma la stratificazione del tempo nei tempi: e la temperie
lirica interno/esterno, goliardico-filologica, di questa stratificazione successiva, in perenne movimento…
TUTTA ORO E PIZZI BAROCCHI
LA SIGNORA DELL’ALTA MODA
Sfilano le sacerdotesse del lusso
Con la mantella di visone
C’è anche la gonna di volpe.
Si emoziona e piange Gianfranco Ferré
quando esce in passerella a raccogliere
la grande ovazione. Fa tenerezza
anche perché è così grasso,
ha la taglia forte dell’orso buono. Lo applaudono
dal privilegio della prima fila
giovani e ardenti mogli di scrittori famosi,
note contesse con lenti a contatto turchese,
attrici del nudo in lattei decolleté, grandi dame arroganti
dai culi in proporzione, autori di libri gonfiabili,
soubrettes passate all’aerobica, ambasciatrici ingioiellate
coi gorilla custodi, pallidi principi in baciamano non stop.
(a canzone)
mi sono innamorato del velluto
e dei suoi riflessi, che in natura
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si trovano nella viola pansè.
Coro: plissettato
plissettato
Con una forte e amabile propensione teatrale: Andrea Cortellessa, nell’introduzione ad Elio Pagliarani –
Tutte le poesie (1946-2005) edito da Garzanti nel 2006, cita appunto un suo manifesto “Dell’eroe
linguistico” uscito in un numero del ’66 di “Nuova Corrente” in tema di Teatro e Linguaggio:
Quella teatrale è una dimensione che lo attrae perché in essa si verifica tangibilmente (Il teatro come
verifica s’intitolerà, questo stesso intervento – non senza, forse, un’eco della fortiniana Verifica dei poteri,
1965 –, collocato a capo del Fiato dello spettatore, il volume edito da Marsilio nel ’72 che raccoglie parte
dei suoi interventi e recensioni teatrali) “la socialità dell’arte […] come capacità di provocazione
immediata”: “A teatro è il fiato dello spettatore che dà fiato all’attore. Lo so per il fatto che ogni tanto
recito versi: io vario, essi variano, in funzione di chi ascolta, e viceversa. (E posso anche diventare
bellissimo)”.
E Nanni Balestrini, intanto (forse con un orecchio al Peter Handke di Insulti al pubblico), si prova a
confessare tutti i difetti e le (scarse) virtù del cosiddetto, autoreferenziale Pubblico della Poesia…
Piccola lode al pubblico della poesia
Eccoci qui ancora una volta
seduti di fronte al pubblico della poesia
che è seduto di fronte a noi minaccioso
ci guarda e aspetta la poesia
in verità il pubblico della poesia non è minaccioso
forse non è neanche tutto seduto
forse c’è anche qualcuno in piedi
perché sono venuti così entusiasti e numerosi
…
Pure del volitivo, programmatico teatro in versi di Antonio Porta, si dovrebbe parlare (La presa di potere
di Ivan lo sciocco esce nel ’74; ma ci piace anche ricordare diverse pièces liriche raccolte ne Il giardiniere
contro il becchino, 1988: come “Fuochi incrociati” e “Pigmei, piccoli giganti d’Africa”, andati in scena
rispettivamente nell’82 e nell’85; nonché il monologo “Salomé, le ultime parole”, che risale all’87):
…
io smetto di guardare nei tuoi specchi, Madre
io guardo le cose
io mangio le tue labbra, Giovanni
io mastico la tua lingua
finalmente ti bacio, Giovanni
là dov’era il palazzo di Erode
ora c’è un lago
e ho voglia di nuotare, adesso
fa sempre troppo freddo
e gelide sono le sue acque
io non mi specchio, io nuoto
le acque del lago sono le mie acque
ora le puoi bere, Giovanni
io voglio bere le mie acque
io voglio nuotare dentro me stessa
io sono liquida
liquida come il tuo Dio, Giovanni
…
Vale anche per quello rilevantissimo di Edoardo Sanguineti (dai libretti per Luciano Berio ai drammi K. e
altre cose, 1962; Storie naturali, 1971; Faust. Un travestimento, 1985; senza dimenticare le preziose
traduzioni di tragedie classiche, e la celebre versione dell’Orlando furioso, ridotta assieme a Luca
Ronconi). E in generale per la verve espressiva del suo inesausto, esaustivo Io monologante: rutilante e
affilato, lucido e contaminato, dentro il tempo infausto, usuale, verrebbe da dire postlinguistico, e
soprattutto neopostavanguardistico, dell’alienazione…
“Quell’io ridotto (e ricondotto) a parola smerciabile e a ripetizione di parola “ – osserva Niva Lorenzini
nella sua viva panoranica su Il presente della poesia – “(‘sei, sarai, come le vivi, come le dici, le ridici,
quelle parole, se ci arrivi’), inflazionato e disperso nei balbettamenti fonici delle proprie varianti riflessive,
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aggettivali, suffissali sino alla più sorvegliata maniera, collabora a mettere a nudo, nei suoi tortuosi e
avviluppati itinerari che coinvolgono il privato e il pubblico, l’autobiografismo e il politico, la modalità
stessa del travestimento.” Un’esposizione, o meglio dedizione teatrale in cui peraltro “l’oggetto di parola e
sguardo non è formato da individui e situazioni reali, visti e percepiti nella tangibilità evidente della loro
presenza corporea,” – come precisa Filippo Bettini in un attento saggio del ’90, Materialità del segno e
rifiuto del ‘genere’ nella scrittura teatrale di Sanguineti – “ma da semplici immagini, da inconsistenti e
delebili simulacri”.
Altri grandi irregolari perpetuavano l’eterno gioco tra testo e pretesto, testo e gesto, parola e plastica
visione, movimentazione della stessa.
Guido Ceronetti da anni gioca con le sue luminose marionette sapienziali, ribelle all’interno di un
raffinato, etico ma non meno ilare carillon mentale (Viaggia, viaggia Rimbaud, 1991). Così come –
all’opposto, caravaggesco e tragico come uno scomunicato mirabilmente ortodosso - un Giovanni Testori
per anni trascrisse sulla scena assoluta gli assoluti istinti e fonemi dell’anima, una vitale e perennemente
rinascente Conversazione con la morte (1978), autobiografica come la coscienza finalmente ignuda di
ciascuno di noi:
Oppure: anima, perduta anima,
scura anima d’affanno e di morte…
Una parola che, lungo il giro dei tempi,
abbiamo lasciata cadere:
anima:
una parola che abbiam resa vuota e inerte
come la spoglia d’una cicala…
Da parte sua lo stesso Franco Cordelli si provava a scrivere un teatro puramente e squisitamente
intellettuale (probabilmente irrappresentabile), di dibattito epocale, gnomico – diciamolo pure:
psicosociologico, e insieme estrosissimo (Diderot Dondero è del 1993). Un po’ secondo la lezione dei
nostri vecchi, cari autori maestri d’anarchia in commedia e gioco amarevole, tragedie parodiate o
conversazioni continuamente interrotte… Stiamo parlando degli esimii Landolfi, Wilcock, Flaiano…
Così come teatro programmaticamente poietico è stato quello di un’autrice avvertita e ab initio addirittura
pasionaria, femminista di progressismo come Biancamaria Frabotta, capace in Controcanto al chiuso
(1991) di fare interloquire le sue due protagoniste (o meglio, Voci), con questi ridondanti, controretorici
epigrammi gnomici:
Seconda voce:
Orecchio che ode non gode
occhio ristagno di lacrime
mucosa, musa mia straziata
(oh quella macchiolina gialla ed indecente
sul candido lino della gonna!)
oh certezze, alchimie, geometrie dell’autore.
Sebbene io non abbia un corpo, ricorda
non sono donna da subire un torto.
Altri scrittori, cesellatori di versi – più tradizionalisti, e comunque aulici – andarono ancor più
perpetuando un’idea un po’ sacrale e sacramentata di teatro di poesia. Luzi, ad esempio, a parte gli ovvii
debiti e le luminose ascendenze eliotiane, si è versato in drammi, o meglio poemetti drammatici, di forte
valenza simbolica e accensione spirituale (Ipazia, 1972; Rosales, 1983), fedele com’è all’idea e anche alla
pratica di un teatro altamente rituale, mitico, significante, diciamo pure lirico, tutt’altro che succube o
tifoso delle corrive, malintese sirene della realtà:
“Cioè portare sulla scena il quotidiano spicciolo è non solo assassinare il teatro,” – ribadisce conversando
con Mario Specchio – “ma è anche svilire le cose di cui si parla, perché una volta private della loro
dimensione ulteriore, di questo ingrandimento della scena, diventano delle banalità insopportabili e
perdono anche il potere di commozione minima, diventano chiacchiere. Sono sicura di questo, infatti io
sono un autore teatrale che non ama il teatro moderno, il teatro usuale, che mi rimane noioso,
insopportabile. Non per bassezza di livello letterario ma proprio per la concezione depotenziata, ecco, del
teatro stesso.”
Maria Luisa Spaziani, nutrita certo dall’amabile, raffinato teatro “classico” francese che lei stessa ha
studiato e tradotto (Ronsard, Racine) ha confezionato con la Giovanna d’Arco (1990) una vera e propria
iridescente, ritmata ballata o cantare popolare in ottave. Per poi giocare, zuccherare la commedia
intellettuale di raffinata, puntigliosa ironia (recitando lei stessa La Vedova Goldoni)… O la tecnica del
colorito dialogo pseudoilluminista, irriverente e colto; o addirittura dell’intervista “impossibile”,
extratemporale, che le consente ampie, divertite divagazioni e/o demistificazioni (cfr. in Teatro comico e
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no, silloge del 2004, taluni brevi atti unici come “Caterina di Russia”, “Monaldo o dell’educazione”,
“Processo a Carducci”, “Processo a Giacomo Puccini”, “Processo a Otto Weininger” etc.):
LEI Illustre professore, lo sa che a Roma si sta sbriciolando il Palazzo
di Giustizia?
CARDUCCI
Su questo aprico colle o valle ombrosa
Altre cose mi mormora il Gran Tutto…
LEI No, professore, non ci siamo. Le sue poesie le sappiamo a
memoria, ma lei oggi qui si deve considerare in borghese.
CARDUCCI Un poeta non è mai in borghese. Un poeta è un sacerdote,
un sacerdote del gran culto di Pan e di Satana, che la Némesi storica
sostituirà ai vostri pallidi turibolanti delle are.
LEI Professore! La richiamo all’ordine, alla serietà della circostanza.
Lei deve parlare come le ha insegnato il su’ babbo, ha capito? Lei ha
ottenuto questa breve vacanza extratemporale per rispondere ad alcune
precise accuse.
Ma lo stile, sia ben chiaro e lo ripetiamo, non scusa tutto. (Barthes: “Nell’arte del teatro lo stile è una
tecnica di evasione.”).
Né nel teatro né ovviamente nella poesia.
Ecco perché – ahinoi – la maggior parte dei testi dell’antologia/catalogo a cura del povero Fabio
Doplicher, Il teatro dei poeti (risalente al 1987), non escono dalla significazione eminentemente lirica,
inevitabilmente letteraria nel senso più aulico, e nello stesso tempo spicciolo… Si sciorinano buoni brani e
ottimi nomi, ma il rinnovato matrimonio tutto contemporaneo poesia/teatro, forse ancora non riesce.
Anche se le intenzioni erano e restano buone, ottime: “Fra poesia e teatro credo ci sia un appuntamento,”
– meditava appunto Doplicher – “in questa età che non può essere che di origine o di fine; come in tutte
le metamorfosi, l’antico si mischia con le nuovissime proiezioni delle due arti.” Subito però precisando,
con grande acutezza: “Teatro dei poeti significa anche spostare il discorso dall’oggetto al soggetto,
riconoscere come il grande protagonista, della poesia e del teatro, questo nuovo io che emerge.”
Chiaro che la poesia nuova aveva e tuttora ha bisogno di maggiori accelerazioni, e di prendere ben altri
rischi…
Cosa che in qualche modo fece un Dario Bellezza, nel suo acceso, ininterrotto monologo e Testamento di
sangue (1992).
Nessuno veramente sa che cosa sia, intero,
un poeta! Un grande sapiente o veggente?
Magari! O soltanto un criminale! Un ladro
di lumi, di vite clandestine vissute
nel silenzio dei giorni tutti uguali.
Schegge vive di un “poeticamente errando” che Augusto Pantoni, poeta anch’egli (e pittore), trasferisce
in un una sceneggiatura, e poi in un affollato, frammentato, plurimonologato lungometraggio filmicoteatrale: “Pantoni disegna un possibile nesso tra l’immagine filmica e la parola poetica che va davvero
controcorrente” – chiosa Giulio Ferroni – “rispetto a quelle che poi furono le esperienze di
decontestualizzazione della poesia dei tardi anni ’70, tra usi teatrali, festival, kermesse, ecc. Il proposito
non è qui quello di produrre spiazzamenti e deflagrazioni, di decentrare e straniare il linguaggio poetico
proiettandolo su altri codici (come tante volte altri hanno fatto), ma quello di errare con la poesia
attraverso alcuni temi essenziali che riguardano appunto il nesso tra la poesia e la vita: i testi sono
disposti in un susseguirsi di sequenze visive e verbali che chiamano in causa l’origine della vita e la
maternità, il sangue e la storia, il fondo notturno e segreto dell’esistere naturale e sociale, le forme
correnti della vita collettiva, i percorsi nello spazio urbano e nel mondo del mercato, l’edilizia come
perpetua modificazione dell’ambiente, il sesso nelle sue diverse forme, la rappresentazione e la scena, la
morte come distruttivo e tragico approdo della stessa scommessa per la vita.”
Uno scrittore misconosciuto ma peritissimo come Normanno (al secolo Luigi Romano) chiede ad un
continuum di invettive teoretiche e giaculatorie intellettuali una Critica epocale contemporaneamente
della Ragion Pratica, della Ragion Pura e del Giudizio (cfr. “Riguardato dagli esiti il mio dramma” [Edipo a
Calono], in Poeta in Ninive, 1999):
Puoi correre alcune età con animo nobile
e contrito, puoi recare nel tuo zaino
i tuoi Sofocle, i tuoi Beethoven, i tuoi Gauguin,
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girare il mondo con la fantasia di Chlèbnikov
e acquisire la potenza di Majakovski;
sempre potrà sorprenderti un mattino
in cui ti convincerai che è inconcludente
per te la loro parola riguardo all’essenza
del nostro vivere, dei precetti che l’imbrigliano,
che vita e morte, impulso e contemplazione,
prepotenza e dileggio, valore e sarcasmo
filtrano da irraggiungibili custodie.
E Maura Del Serra da anni insegue l’iridescenza del Mito tra Fabula Mistica e simbiosi intellettuale, gnosi e
preghiera: Adagio con fuoco. Poesie. Versi per la danza risale al 1999. “Dove fin dal titolo,” – rileva
Monica Farnetti – “ma non meno nelle ‘gighe’, nei ‘gorgheggi’, nei ‘canti’ e ‘discanti’ degli interi titoli e
sottotitoli dei singoli testi – per non dire dell’ultima sezione interamente occupata da vere e proprie
coreografie musico-vocali, da versi scritti quasi con la voce – si evidenzia la simbiosi programmatica della
poesia con la musica, l’arte scenica, la danza.”
LE MANI (all’unisono, con voce argentina dai toni fluttuanti)
- Siamo le Mani. Siamo in mano nostra,
e del Tempo che lento ci plasma e ci scandisce
per il moto e la stasi di un presente
puro, libero. Siamo ciò che mostra
la creazione, mostrando se stessa
ed il suo gioco: il gesto. Veglia e sonno
ci aprono e chiudono, ci danno sangue
veloce e lento in dita intrecciate eternamente.
Colpisce che il commento alla sedicesima figurazione esagrammatica de I Ching, “Il Fervore”, sapienziale
enigma fiorito in aura confuciana, riporti ed incoroni proprio la danza, e il mistero del suono invisibile, alla
radice del teatro: “Fin dall’antichità l’azione inebriante del suono invisibile, che muove e unisce i cuori
degli uomini, fu sentita come un mistero. I sovrani utilizzarono questa inclinazione naturale per la
musica, le diedero dignità e ordine. La musica era considerata una cosa solenne, sacra, atta a purificare i
sentimenti degli uomini. Doveva esaltare le virtù degli eroi e gettare così un ponte verso il mondo
invisibile. Nel tempio ci si accostava a Dio con musica e pantomime (dalle quali più tardi nacque il
teatro).”
Ma ecco già in scena le nuove leve, baldanti di malessere ed eterne neoespressioniste del proprio credo di
libertà e passione, giovinezza e destino… Nuova spettacolarità… Spettacolarità totale…
Marco Palladini (autore, fra l’altro di un’agguerrita trilogia, Destinazione Sade, 1996, summa di tre testi e
rappresentazioni andate in scena nel ’91, ’93 e ’95: “Justine. Il vizio della virtù”, “12 settimane a
Sodoma” e “Il rumore della notte”: le ultime due affidate a memorabili interpretazioni, rispettivamente, di
Antonio Campobasso e Patrizia Schiavo), per l’inaugurazione del piccolo teatro romano “La Pietra Parla”,
scrisse, nel gennaio ’98, una sarcastica dichiarazione di poetica, “Quelli che il teatro”…
Quelli che il teatro… perché vogliono “fare festa”… ma quale festa, se qua è tutto una babilonia
ininterrotta, un permanente carnevale postmoderno!?… (Allora, appunto, si può ri-scoprire una festa
controllata come un tempo diverso, uno spazio di vita anteriore, un luogo extra-quotidiano di sogni e di
visioni non eterodiretti e già plastificati).
Quelli che il teatro… e pretendono pure di disturbare, i tapini!… ma oggi il kapitale reale non ingerisce e
metabolizza ogni cosa e da nulla si fa perturbare?… (Però il disturbo è, prima di tutto, autodisturbo, è
scuotere, spiazzare, scomodare se stessi per rendere più affilato lo sguardo, più acuto il sentimento, più
intensa la comunicazione).
Quelli che il teatro… che vedono che il non-senso è alla guida del mondo… che pensano che non hanno
niente da perdere se non i propri incubi… che a chi afferma: “Io rappresento il vostro futuro e la libertà”,
rispondono: “Ce lo dimostri!”.
Quelli che il teatro… che dichiarano: se questa è la norma – la normalità (italiana), la normalizzazione –,
allora è meglio essere un’anomalia… e che ripetono con Brecht: “Tuttavia non si dirà: i tempi erano oscuri
/ ma: perché i loro poeti hanno taciuto?”.
Quelli che il teatro… è, forse, per loro un vizio assurdo, un reiterato diabolico errare… probabilmente c’è
l’errore, ma c’è soprattutto l’erranza, la mobilità del corpo, l’inquietudine nel cuore, il nomadismo della
mente… e c’è la voglia di cercare ancora (senza garanzia che si riesca)… e c’è il bisogno, comunque, di
rincorrere una tensione etica e poi estetica e poi noetica.”…
Ciò mentre i prestiti e debiti reciproci tra palcoscenico e parola più non si vedono, non si decifrano –
specie in operazioni di ardente, ispirata necessità, come tutti o quasi i lavori allestiti dalla Compagnia
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Valdoca e dal suo regista e nocchiero Cesare Ronconi, sui caparbi, superbi testi lirici della cesenate
Mariangela Gualtieri. “Forte dei suoi studi di architettura, Cesare Ronconi” – lo elogia proprio Marco
Palladini, recensendo nel febbraio 1998 Fuoco centrale – “ha sempre lavorato su una composizione
spaziale e visiva insolita, spaesante, misteriosa, combinando leggerezza e movimento. La sua
esplorazione sull’immagine si è, col tempo, vieppiù intrecciata con la scrittura poetica, ora estatica ora
ebbra, della Gualtieri, con la tensione talvolta selvaggia dei corpi degli attori, con il flusso della musica.
Lo spettacolo Fuoco centrale del ’95 era un bellissimo, smagliante esempio di questo percorso teatrale.”
Ma ecco un lacerante, strepitoso “movimento” forgiato e poetato appunto dalla Gualtieri:
Io sono spaccata, io sono nel passato prossimo,
io sono sempre cinque minuti fa,
il mio dire è fallimentare,
io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo
all’essere e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo all’essere, all’essere e non lo so dire
io sono senza aggettivi, io sono senza predicati,
io indebolisco la sintassi, io consumo le parole,
io non ho parole pregnanti, io non ho parole
cangianti, io non ho parole mutevoli,
non ho parole perturbanti,
io non ho abbastanza parole, le parole mi si
consumano, io non ho parole che svelino, io non ho
parole che puliscano, io non ho parole che riposino,
io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza
parole, mai abbastanza parole
Sovviene l’acceso, denso riferimento di Barthes al concetto stesso di teatralizzazione, rapportato a grandi
esperienze storiche, filosofiche, utopiche, addirittura teologiche, come quelle di Sade, Fourier, Loyola…
“Nell’idea di teatralità” – argomenta il grande critico e semiologo nonché autore di alcune fra le opere
cruciali degli ultimi decenni (da Miti d’oggi a Il piacere del testo, dai Frammenti di un discorso amoroso a
Il grado zero della scrittura e L’impero dei segni) – “bisogna distinguere due nozioni: la teatralità isterica
che, nel nostro teatro occidentale, ha dato il teatro postbrechtiano e contro-brechtiano, successivamente,
più o meno, allo happening. C’è un’altra teatralità che si riallaccia all’idea di messinscena, nel senso quasi
etimologico dell’espressione. I referenti andrebbero cercati sia dalla parte della ‘scena’ freudiana, ‘l’altra
scena’, sia dalla parte di Mallarmé, del libro futuro: una teatralità fondata su meccanismi di combinatorie
mobili, concepiti in modo ch’essa sposta completamente, a ogni istante, il rapporto tra chi legge e chi
ascolta.”
È appunto la teatralità mescidata e rigorosa, lucida e sinestetica, che molti cercano di raggiungere,
ricavare, rinfrancare, gestire… Un piccolo palcoscenico e boccascena sulla grande, disastrosa ribalta del
mondo.
Deriva dell’oggi e senso della Storia. Vertigine e strappo all’etica – offesa all’idea stessa dell’umano.
Nina Maroccolo, dopo la bella prova di un’Anna Frank gridata in canto, e trasfigurata nei tetri mesi del
lager fino al lutto stesso della Speranza (il suo spettacolo “per voce sola” e senza musica, a cappella,
tratto dall’omonimo testo del 2004, è andato in scena a Roma, presso il Teatro Vascello di
Nanni/Kustermann, nel maggio 2005), ingigantisce, proietta e infilza la figura di Adolf Eichmann a
vituperabile, ma anche usuale ambasciatore e prototipo del Male; inopinato, feroce mostro di ogni
assurdo, eppure gentile, mascherato inquilino della porta accanto…
DOCUMENTO 976
Il processo ad Adolf Eichmann
…
PROCURATORE GENERALE HAUSNER:
Grazie, Signor Birkenau
(si volge di scatto verso l’imputato)
Tenente Colonnello Eichmann,
un uomo che si occupi dell’uccisione di esseri umani,
è per lei un criminale?
EICHMANN:
È un uomo sfortunato.
(si gira verso Landau)
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Presidente della Corte,
posso fare una dichiarazione?
PRESIDENTE LANDAU:
Dica.
EICHMANN (molto concentrato):
So che sarò giudicato colpevole
di complicità in assassinio.
So di rischiare la pena di morte.
Non chiedo pietà perché non la merito.
PROCURATORE GENERALE HAUSNER (lirico, tono cadenzato):
Vorrebbero luce
(gli occhi dei sopravvissuti)
Occhi avverati
nottilucenti:
l’anima li affama
d’acque naufraghe, e viadori
infiniti.
Lo sguardo trova il suo raggio,
s’agghiaccia
quando un mormorio di ciglia
inanimerà
le postille del tuo volto
senza attraversamenti.
(con freddezza, si rivolge nuovamente all’imputato)
Adolf Eichmann, lei è già civilmente morto.
Torna, ribaltato, riaggiornato forse a miglior commento, il vecchio e caro giudizio di Benjamin sul
brechtiano teatro epico: “Per il suo pubblico il palcoscenico non costituisce più ‘la scena che significa il
mondo’ (e dunque uno spazio magico), bensì un concreto spazio espositivo collocato in una posizione
favorevole. Per il suo palcoscenico il pubblico non è più una massa di cavie umane ipnotizzate, bensì
un’assemblea di persone interessate alle cui esigenze esso deve corrispondere. Per i suoi testi la
rappresentazione non è più una virtuosistica interpretazione, bensì un severo controllo.”
Ma è impegno e coscienza storica anche l’odissea del Linguaggio, le frustranti o inorgoglite ansie da
destrutturazione; poi rifiorite, riassestate in nuovi stili che non siano e non diano più estetismo, e nuove
estetiche che più non seducano, non penetrino mero stilismo…
Rosaria Lo Russo risale la lingua come un gesto, un rito stesso erotico – amplesso lessicale, sintattico,
retorico…
Alberto Toni racconta un quadro di Picasso come il monologo in fieri di una sinestesia dispiegata (Donna
su una poltrona rossa, 2003)…
Un autore ancora più giovane, Giulio Marzaioli, da vari anni allestisce in compagnia di Romina De Novellis
spettacoli dove l’alta valenza, quasi incandesenza del testo, si sposa ad una originalissima messa in scena
registica, nonché ad un inopinato, rivisitato uso della danza e della pantomima, accesi nell’intermittente
deriva di lampi metafisici, ritualizzazioni estreme, forse sull’indicibile confine di un day after che tutti ci
riguarda, ci reclama e ci indigna, ci premia e assolvendoci ci condanna a capire, a molto meglio guardarci
dentro... Sullo spunto della pirandelliana “Favola del figlio cambiato”, ecco in Sottopartitura “recitare una
danzatrice e danzare un’attrice, entrambe unite dalla stessa storia. La madre vive l’emozione legata alla
scomparsa del figlio, l’attrice interpreta e recita tale emozione. L’interazione” – spiegano Marzaioli e la De
Novellis nelle loro note di regia – “continua tra le due interpreti e porta progressivamente al loro
reciproco riconoscimento”. Memorabile nel settembre 2005, alle fiorentine “Rime Rampanti”, la
performance di Cinzia Maccagnano e Luna Marongiu, rotolantisi in una specie di ring/palcoscenico tutto
affastellato, inondato di terra e pathos…
Il Mito può allora tornare ma rinfrancato di valenze, riecheggiamenti, malìe, riappropriazioni simboliche,
dense e radiose filigrane polisemiche… Ce l’ha perfettamente insegnato Roland Barthes, quando nel suo
saggio semiologico su “Il mito, oggi”, ci parla appunto del mito come “parola depoliticizzata”, trionfante
“metalinguaggio”, e insomma inossidabile, universale “valore”:
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Al mito il mondo fornisce un reale storico, definito, per lontano che si debba risalire nel tempo, dal modo
in cui gli uomini lo hanno prodotto o utilizzato; e il mito restituisce un’immagine naturale di questo reale.
E proprio come l’ideologia borghese si definisce con la defezione del nome borghese, il mito si costituisce
attraverso la dispersione della qualità storica delle cose: le cose vi perdono il ricordo della loro
fabbricazione. Il mondo entra nel linguaggio come un rapporto dialettico di attività, di atti umani: esce
dal mito come un quadro armonioso di essenze.
Massimo Sannelli, un altro giovane, promettente poeta genovese di trent’anni, chiede ad Antigone di farsi
anche ambasciatrice del moderno, con tutte le sue ingiustizie e aberrazioni:
per me, per me, io fiorisco, deserta!
lo sanno i giardini d’ametista,
gioielli poco amati che conservano
stretta la loro luce originale,
voi pietre lo sapete – a cui il mio sguardo
ha tolto il suo chiarore; e voi metalli
che date ai miei capelli di signora
giovane un’andatura che mi regge.
non muoio! – invece muoio, in un mio velo.
amo l’orrore che dà essere vergine:
vivo e temo la luce dei capelli
alla sera, se cerco di dormire
e non mi calmo.
Le stagioni si concludono, ma egualmente si riaprono. Nel 1995, accingendosi a riaprire un volenteroso,
fervoroso Festival dei Poeti (questa volta al Teatro Romano di Ostia Antica), Franco Cordelli, imperituro e
loico scettico ma generoso di sperimentare, di sperimentarsi, ammetteva che “il passaggio della civil
cosa” lo interessasse ancor meno dell’”irraggiungibile fumo metafisico”: “Ma sia la poesia, sia il teatro
sono anche i poeti, gli attori. Costoro – come potrebbero non più interessarmi?”…
Quale teatro allora, ci riserba l’oggi?
Di Parola o di Immagine? Di Ricerca o di pura Fede? Sperimentale o ancora e sempre di Tradizione,
irrimediabilmente borghese sebbene autocritico?
Dall’interno delle sue stesse viscere – annodate, privilegiate di spasmi e gonfie di brindate libagioni,
golose di divorare e divorarsi, trasgredire imperiose…
Finiti i tempi delle provocazioni così come delle ideologie, degli astratti furori e delle concrete utopie –
insomma dell’Immaginazione al Potere – che mai del resto c’è andata, e purtroppo – il Teatro torna a
cercarsi, a perdersi, forse a trovarsi… Così come fa la Parola – e la sua ancella amazzone, musa e
guerriera di nome Poesia.
Torna ogni buon testo, se lo può e lo vuole, a farsi palcoscenico e platea, voce e ascolto specchiati,
attore/artefice, regista sempre in atto: per conquistare il diritto al monologo e, molto più, rispettare il
dovere suadente del dialogo, il ruolo amplificato di una Recita che, come nel film capolavoro di Théo
Anghelopulos (1975) sia insieme prezioso esorcismo individuale e immane coscienza collettiva, evento
storico e mitico avvento, simbolo, metafora e loro più urgente, plastico, quasi tattile disvelamento…
O quando il teatro ritorna schermo, luminosa, corpuscolare pagina di voce, computer inesausto, poesia
dentro e oltre il moderno, pathos, ragione, sentenza e anamnesi di ogni esistere, silenziosa o fulgida,
cicalante d’intimo, autoironica ma più spesso urticante; come le Biometrie (2005) o il “novecento remix”
che il giovane poeta Italo Testa strappa e riconsegna all’informatico futuro in atto, tra “forme in replay” e
“tecnologie del dolore”, corpi trasparenti e lallazioni d’ombra, quasi in cura omeopatica:
Per calcolate derive, per naufragi a tempo
Inscrivi volti mineralizzati, negativi
Pinoli, in cerchi funzionali disseminato
Porti la maschera di un’ateologia privata
Tutti i pigmenti,i simulacri del dire
E chi ti chiama poeta oggi, voce postuma
Ma tu, invidia d’esistenza scrivi
Razze, vessilli, cose perdute
Remix, taglia e cuci, ogni nuvola
A velare il mondo, svelare gli oggetti
Tu, egli, Niccolò, Io, nominare
E bucare il foglio ad inscenare il gorgo
Delle nostre umane sconnessioni
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…
Egli pronuncia la profezia e fa il gesto… Dovevo finire in Infinito… Semplicemente parola e gesto.
Ma: “Basta con le parole.” – prorompe, esclama il goethiano Impresario del Faust, nel suo Prologo in
Teatro (solo dopo verrà quello in Cielo…) – “Fatemi finalmente vedere anche dei fatti! Invece che tornir
complimenti, si potrebbe fare qualcosa di utile. A che giova parlar tanto d’ispirazione? Agl’indecisi essa
non viene mai. Dacché vi spacciate per poeti, comandate alla poesia! Voi sapete ciò che ci abbisogna.
Vogliamo sorbire delle bevande forti: preparatemele, dunque, senza indugio! Ciò che non si fa oggi,
domani non è fatto. Non si deve perdere neanche un giorno.”
Plinio Perilli
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LA POESIA IN SCENA
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Compagnie, registi e attori
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Magazzini Criminali
TEATRO DI POESIA
PER UN DISORDINE POETICO DELLA REALTÀ
Proviamo a perdere la memoria e a costituire la centralità della scelleratezza del nostro stare dentro il
teatro. Anche perché oggi come mai il mio maestro ripete “cosa significa per me il teatro” e così io gli
rispondo “che cosa è il teatro?”
Come artisti abbiamo risentito dell’immaginario che si era venuto a formare sotto la spinta del ‘68 e
abbiamo (naturalmente) contribuito a produrre (come artisti) le basi dell’immaginario che ha creato il ‘77.
Ma i Magazzini Criminali appartengono a quella generazione di mezzo troppo giovane per il ‘68 e infine
quasi vecchia per il ‘77. Questa generazione di mezzo senza padri, è per me l’ultima generazione bruciata
(dopo Fitzgerald, dopo la beat generation): una generazione di “Rebels without cause” per la quale On
the Road di Kerouac e Howl di Ginsberg sono stati i sacri testi di riferimento; una generazione che
violentemente (poiché partiva da zero) ha ridiscusso i linguaggi, tutti i linguaggi, secondo un’ottica
eretica e corsara; una generazione che non ha accettato punti fermi, ma che ha fatto del nomadismo,
dello spostamento continuo un modo di vita e di linguaggio. A questa generazione ribelle e incerta è
dedicato il teatro di poesia, che da questa medesima generazione è stato prodotto.
È stato essenziale per i Magazzini Criminali riflettere sull’opera di Pasolini: una necessità del desiderio per
arrivare a conoscere, presi “per incantamento”, quella passione fredda, quell’ardore politico, quel calore,
quel furore mediterraneo. E a ridiscutere, anche, tracce lasciate da lui sparse e potenti nell’insieme della
sua opera (letteraria e poetica, cinematografica, critica). È stato appunto sulle considerazioni che Pasolini
aveva fatto a Pesaro nel 1966 distinguendo un “cinema di poesia” da un “cinema di prosa” che è nato per
me (una idea leggera della notte) il concetto di “Teatro di Poesia”. Vedo con gli ultimi fiori della memoria
il lavoro già fatto: così Presagi del vampiro (1976) e Vedute di Porto Said (1977) o Punto di rottura
(1979) o Crollo Nervoso (1980) emergono come Haiku o poesie in forma di rosa, basi insomma di quel
lavoro metrico che ha trovato il suo manifesto in Sulla strada (1982).
Parlare di un teatro di poesia differente da un teatro di prosa non vuole determinare delle priorità
qualitative ma solo riconoscere diversità sintattiche e grammaticali proprie a una certa lingua espressiva.
Di tutti gli eventi inesplicabili che compongono l’universo, la poesia resta in sé un gesto magico e segreto,
sempre e comunque una ammissione scellerata del linguaggio, un’emulsione del cervello attraverso la
luce cristallina del diamante. In letteratura esiste una lingua propria alla poesia e una lingua della prosa:
a ognuno dei due sistemi sono specifici particolari giri sintattici e grammaticali; e se alla lingua di prosa è
connesso in certa misura il naturalismo, la lingua di poesia è assolutamente anti-naturalistica.
Riconoscere per un artista l’appartenenza al teatro di poesia piuttosto che a quello di prosa significa
solamente riconoscere delle “sensibilità” operative differenti. Nel teatro di poesia si perde il concetto di
“messinscena”: non esiste il testo di un autore da ridare scenicamente (il teatro come ancella del testo)
bensì una scrittura scenica autonoma nella quale, attraverso più testi oppure senza alcun testo, l’attore il
gruppo oil regista diventano autori. E il “testo” che dal lavoro deriva è qualcosa di molto complesso
poiché si tratta di una “partitura” (molto, molto simile a quella musicale) in cui la drammaturgia è fatta
da un insieme di parole movimenti voci luci musiche; un “testo” quindi che risulta alla fine di un percorso
di lavoro e non è come nel teatro di prosa il perno “assoluto” del discorso scenico.
Nel teatro di poesia si assiste a una definitiva frammentazione e forse scomparsa della narrazione (come
ordine logico); alcuni elementi narrativi sono prepotentemente dilatati fino a acquistare l’importanza
autonoma di puri versi liberi inseriti per maggiore tensione poetica (ritmica) dentro la narrazione-fiction
che così come ordine logico dimostrativo e razionale scompare; al suo posto lunghi versi articolano e
amplificano “giusto un momento” (come direbbe Godard) riconosciuto necessario nel “disordine” poetico
della drammaturgia. Frammentazione del racconto a vantaggio di certi elementi narrativi particolari scelti
anche rispetto alla metrica generale dello spettacolo (il cut-up di Burroughs per Sulla strada). Pasolini
affermava che nel “cinema di poesia lo stile si sente in modo più prepotente”.
Elemento di base del teatro di poesia è il metro. Ritmicamente il regista e l’attore hanno di fronte a sé
tutti i metri (l’esametro è stato il metro di Sulla strada); hanno di fronte tutte le figure metriche e
poetiche, le geometrie, i parallelismi, le onomatopee, le allitterazioni proprie alla lingua della poesia;
hanno di fronte il cut-up come elemento disordinante della narrazione; hanno insomma di fronte dei
procedimenti tecnici molto più malleabili, molto più rigidi e liberi di quelli che appartengono alla lingua di
prosa. Il regista stabilisce nel corso del lavoro il paradigma tecnico (l’ottava piuttosto che il sonetto) e
fonda questa sua scelta sul lavoro metrico dell’attore. Misura del ritmo e quindi del tempo di uno
spettacolo l’attore diviene il metro del teatro di poesia. Attraverso la partizione regolare o irregolare del
respiro, l’attore forma una partitura ritmica e timbrica in cui battute e movimenti nel la loro relazione con
la musica lo spazio e la luce divengono puri versi. Cesure e doppie cesure del respiro spaccano i moti e le
frasi; doppi attori si relazionano a coppia come “distici” a rima indipendente o baciata; ritmi distesi e
simmetrici; movimenti e frasi che hanno una cadenza tronca oppure suonano con un insieme di
movimenti successivi; utilizzazione di dissociazione di ritmo e di sintassi (sia dentro la frase verbale sia
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dentro il movimento)... Attraverso l’enunciazione di questa tecnica costruttiva (tecnica di stile dell’attore)
la lingua del teatro di poesia si svela come lingua antinaturalistica dotata di una espressività efferata, di
una segnaletica interna oltraggiosa e violentemente azzerante rispetto ai linguaggi e alle lingue teatrali
dominanti (la lingua del teatro di poesia, la poesia, mi appare la lingua che non appartiene al potere).
E discorriamo un po’, amici, del ritmo (che bell’argomento per un dialogo di Platone!). La lingua della
poesia ha una enorme disponibilità verso la musica: verso questa va e a lei si lega indissolubilmente,
ineluttabilmente proprio per la “musicalità” che ogni metro poetico ha in sé per natura. Si stabiliscono
allora leggi prosodiche timbriche metriche e sintattiche nelle quali l’attore (il metro della poesia teatrale)
diviene la voce della musica. Il melodramma ottocentesco italiano o tedesco (Verdi e Wagner) che
abbandona la distinzione tra recitativo e cantato (propria all’opera mozartiana o rossiniana) in cui la
drammaturgia è continua invenzione di frasi (si pensi a Aida o Falstaf), una vertigine di invenzione,
diviene la zona di analisi e di lacerazione di una nuova lingua teatrale. Crollo Nervoso (1980) si dichiarava
un “melodramma intergalattico”, Sulla strada (1982) un “melodramma classico”. Lo spettacolo allora in
termini musicali e ritmici (sia la poesia che la musica hanno il loro punctum nel ritmo) si emulsiona come
insieme di “melodie armoniche o dissonanti”. I temi melodici (ogni attore con il suo ritmo) e ogni battuta
(verbale o motoria) danno origine a una invenzione drammatica. Parlando come Wittgenstein si potrebbe
dire che all’attore attraverso l’invenzione è affidato ciò che accade (attore = accadere) mentre il regista
determina la sostanza indipendentemente da ciò che accade e nello stesso tempo è l’accadere che
determina la sostanza.
Attraverso e proprio con il suo procedimento tecnico il teatro di poesia riporta l’attore all’auroralità
(Nietzsche) della creazione artistica: e l’attore trasformandosi in ritmo e in voce abbandona (attraverso
questa tecnica stessa determinata nel corso del tempo dalla storia occidentale) il proprio corpo alle soglie
di un selvaggio in cui anche la memoria si perde con la propria storia e cultura bianche; è allora che
l’attore “ristabilisce l’antica supremazia dell’io” (Nietzsche) e tenta di farne un principio euristico e decide
di assumere come punto di partenza della sua ricerca quegli elementi concreti (del teatro) che
“sicuramente esistono per lui” (Barthes). Attore e regista che partano allora dalla loro relazione e
eroticamente si cerchino: e dalla divisione nata secondo Platone con il taglio in due dell’androgino
cercano quell’unità in cui i sorrisi separati si confondono e si spargono nello spazio come leggera
scintillante nebbia. E parlo di tecnica e di metrica come di elementi che regista e attore hanno di fronte
come cose di cui possono essere (almeno fino a un certo punto) sicuri: il concreto e materiale esistente
del qui e ora teatrale. Il procedimento selvaggio che hanno davanti è ritmo nel vuoto così simile al
procedere (pittorico) di Pollock che ha trasformato la pittura in una selvaggia azione metrica. O come la
chitarra disarmonica di Jimi Hendrix.
In questo procedere tecnico del teatro di poesia tutte le figure ritmiche sono possibili; per le ultime scene
del primo e del secondo atto di Sulla strada (attenzione a come esista anche una metrica generale dello
spettacolo, le due scene sono simmetriche e parallele) ho proposto a Marion e a Sandro tre metri tolti
(non a caso) dalla poesia araba classica: lo schema ritmico risultante era questo ABBABBABB
BBABBABBA BABBABBAB. I tre metri si generano l’uno dall’altro secondo una sequenza che in
matematica si chiama “permutazione ciclica”. Ogni insieme di movimenti (A = alzare le braccia; B =
distendere le braccia) si relaziona ritmicamente rispetto al testo verbale (che si relaziona ritmicamente
alla musica che si relaziona ritmicamente...); dopo un gruppo di versi che riferiscono questo schema
avviene una variazione (per esempio distendersi per terra, piegarsi di lato) che corrisponde a una
variazione ritmica secondo uno schema ritmico differente, eccetera. Non ci sono silenzi arbitrari
all’interno dello schema ritmico (il contrario avviene nel teatro di prosa dove la pausa è elemento cardine
di spostamento dell’attenzione sul significato), bensì degli intervalli (assenze) fissi che Marion e Sandro
hanno trovato ubbidendo al ritmo del respiro, non per motivi funzionali ma per motivi poetici (come del
resto raccomandava Ginsberg per Howl). Pause e assenze sempre identiche nella durata rispetto alle
parole e ai movimenti emulsionati di modo che drammaturgicamente la scena avesse un flusso continuo,
un movimento infinito che è poi la ragione stessa dell’esistenza dei personaggi (e degli attori) di Sulla
strada.
Teatro di poesia dunque come elemento di disordine all’interno della prosa intesa come trascrizione critica
e ragionata di un ordine (quello storico della civiltà bianca occidentale). La poesia induce e reclama il
disordine della visione; la prosa progetta e reclama l’ordine del mondo. In più (naturalmente per la nostra
sensibilità nervosa) la poesia ammette e reclama una forte dose di irragionevolezza e di segreto (il
segreto metrico, l’indecifrabilità poetica) mentre la lingua di prosa vuole determinare svelamenti, misteri
decifrati, essere comprensibile e non percepibile.
Di tutti i segreti che il mio desiderio attribuisce all’oceano e al tempo, la poesia rimane il più indecifrabile.
Scritta su pelli di gazzella del deserto che ho veduto a Tamgroute, scuola coranica, dove un orbo
giardiniere mi porta balbuziente, accendendo a intervalli la luce. E il poema che sogno scritto nella stele
di Rosetta che non capisco e che immagino copiata da attenti scribi sulle rive del Nilo. È scritta in
Finnegan’s Wake e nell’Ulisse di Joyce e incollata alla memoria della sua presenza nelle pagine voltate. È
nell’esametro e nella leggera nostalgia di una lingua (il latino) che non ho così a fondo dimenticato. E
della poesia ho un “leggero amore”: più tenue dei gridi degli uccelli e più chiaro dei diamanti che i barbari
strapparono a Babilonia. È Borges e Virginia Woolf e un racconto di Forster. È la vita stessa di Martin
Eden che infine quando sa non sa più; è l’oro vertiginoso delle tombe di Micene e la sostanza misteriosa
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del Faust e di Platone. Penso al mio maestro e mi chiedo: “Cosa significa per me il teatro?”. Ridendo da
lontano lui mi risponde: “Che cosa è il teatro?”.
Federico Tiezzi
[In Patologo 5/6, Ubulibri, Milano, 1983, pp. 176-179. Per gentile concessione.]
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Magazzini Criminali
IL TEATRO DI POESIA DI TIEZZI E LOMBARDI
Oliviero Ponte di Pino
Pensando al tema della parola poetica, la prima cosa che ho fatto è stato guardare che cosa si scriveva
sul Patalogo, soprattutto nei primi anni, su questo argomento. C’è molto materiale. Solo per citare due
interventi, nel Patalogo 2 – siamo nel 1979 – c’è un ampio servizio sul poeta in scena, che avevo curato
con Gianfranco Capitta (1); e nel doppio Patalogo 5/6 è stata pubblicata una sorta di manifesto per il
teatro di poesia a firma di Federico Tiezzi (2). La riflessione sulla parola poetica in scena è stata un tema
centrale negli ultimi vent’anni. Ma perché è stata così importante?
Siamo intorno alla fine degli anni Settanta. In Italia emerge una nuova generazione di artisti e teatranti,
fra cui il Carrozzone di Federico Tiezzi, Sandro Lombardi e Marion D’Amburgo. Il Carrozzone è in qualche
misura il capofila di un movimento che comprende molti gruppi, fra cui la Gaia Scienza (Giorgio Barberio
Corsetti, Alessandro Vanzi e Marco Solari), Falso Movimento (Mario Martone), Teatri Uniti (Antonio
Neiwiller) e gruppi più giovani, fra cui la Socìetas Raffaello Sanzio e il Teatro Valdoca.
Questa generazione arriva dopo quella che viene definita la «stagione delle cantine romane», il fenomeno
teatrale che vede all’opera artisti del calibro di Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Giancarlo Nanni,
Giuliano Vasilicò, Mario Ricci. Il movimento nasce a Roma negli anni Sessanta, ai margini del teatro
ufficiale, e ha come sede e luogo principale di lavoro la capitale. Cito fra le cantine più famose il Beat 72
di Simone Carella.
Gli anni di cui stiamo parlando escludono quasi del tutto Milano come luogo di ricerca teatrale, per motivi
anche piuttosto ovvi. Primo tra tutti la presenza di esperienze che avevano punti di riferimento diversi: il
Piccolo Teatro, il Salone Pier Lombardo (Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah), e il Teatro dell’Elfo
che, anche se appartiene anagraficamente a quella generazione, adotta un linguaggio e un approccio al
teatro totalmente diversi.
I gruppi iniziano a fare teatro sull’onda degli artisti che allora facevano teatro nel mondo: Jerzy
Grotowski, il Living Theatre, Bob Wilson. E iniziano senza l’uso della parola, in forte reazione a un’idea di
teatro come sottoprodotto della letteratura.
Fino a quel momento, il teatro orbita intorno al testo. C’è un repertorio che va dai classici ai
contemporanei. Ci sono scrittori che scrivono testi per il teatro e registi che li mettono in scena. Ma ciò
che conta è il testo. Le recensioni teatrali, fino agli anni Settanta e ancora per buona parte degli anni
Ottanta, lo testimoniano; la recensione di uno spettacolo consisteva in quattro colonne dedicate all’analisi
del testo e in poche righe finali che dicevano: «La regia è stata corretta, bravi gli attori, in particolare
Tizio e Caio. Belle scene e bei costumi».
Questo era l’approccio. Quello che cambia radicalmente in quegli anni è la visione del teatro. Il Nuovo
Teatro rifiuta di essere subordinato alla letteratura, vuole rivalutare la ricchezza del linguaggio teatrale: il
suono, lo spazio, il tempo.
Giovanni Agosti
La stagione teatrale degli anni Sessanta, la stagione delle cantine romane, appartiene a una Roma
sotterranea. Gli anni Settanta invece fanno capo alle gallerie d’arte. È una fase in cui si parla poco o
nulla, in cui si riduce quasi a zero il problema della rappresentazione del testo, mentre si innesca un
rapporto specifico fra il linguaggio teatrale e un linguaggio di tipo figurativo. L’esperienza di ricerca
teatrale legata alle arti visive è un tratto fortemente caratterizzante della fase di cui Oliviero Ponte di pino
sta parlando. Nel caso fiorentino del Carrozzone, questo rapporto è marcato.
Usando coordinate minime di storia figurativa, la fase delle cantine romane potrebbe rientrare nell’idea
del Pop romano, la scuola di piazza del Popolo. Dietro a esperienze come quelle di Giancarlo Nanni, Memè
Perlini e Giuliano Vasilicò, ci sono artisti figurativi del calibro di Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli,
Giosetta Fioroni.
Il Nuovo Teatro è una fase che ha assistito all’esplosione, nella seconda metà degli anni Sessanta, del
grande fenomeno dell’Arte povera. Quindi, dopo la ricerca figurativa ispirata alla Pop Art romana,
l’esperienza dell’Arte povera segna un momento cruciale della storia dell’arte. L’Arte povera è un
movimento che individua il suo epicentro geografico nella città di Torino.
Lo spaccato generazionale tracciato (si tratta di persone nate negli anni Cinquanta) individua storie e
origini geografiche molto diverse. Parabole singolari che confluiscono su Roma, nel caso di Tiezzi e
Lombardi e di Corsetti, e su Napoli, nel caso di Martone e Neiwiller.
Federico Tiezzi e Sandro Lombardi non hanno frequentato accademie d’arte drammatica o scuole di
teatro. Si laureano in Storia dell’arte all’Università di Firenze. La loro formazione avviene all’interno di un
contesto universitario che aveva formato il meglio della cultura italiana del dopoguerra e che era stato
fortemente segnato dall’insegnamento di uno dei più grandi maestri del Novecento: Roberto Longhi.
Roberto Longhi, nato ad Alba nel 1890 e morto a Firenze nel 1970, insegna Storia dell’arte all’Università
di Firenze dal 1949 fino a metà degli anni Sessanta. Longhi è il più grande storico dell’arte del Novecento,
uno dei più grandi storici dell’arte di tutti i tempi.
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Perché parliamo di uno storico dell’arte all’interno di un discorso sul teatro di poesia? Perché Roberto
Longhi è il professore di Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori; è colui che, con il suo modo di guardare le
immagini, ha stimolato e liberato una serie di energie creative che sono successivamente ricadute sul
teatro.
Federico Tiezzi e Sandro Lombardi arrivano a Firenze, il primo dalla campagna senese e il secondo dalla
campagna casentinese, aretina. Trovano un’università dove, nel settore dell’arte, che è quello che
interessa loro, è ancora molto forte l’esperienza di un grande maestro, l’esperienza di un insegnante che
ha riscritto la storia dell’arte del passato con l’occhio del presente.
Accanto all’impronta di Longhi, c’è quella di un altro personaggio importante, uno dei massimi filologi del
Novecento: Gianfranco Contini, che insegna all’Università di Firenze fino al 1968, quando esplode la
protesta studentesca. Contini è il grande filologo romanzo, l’editore di testi medievali, l’antologista della
poesia italiana del Duecento, dato da tener presente se si fa riferimento ai lavori di Federico Tiezzi e
Sandro Lombardi sui testi antichi. Contini è l’editore della poesia dantesca e predantesca, ma è anche il
compagno di strada di Gadda, il critico che nel 1943 ha recensito le poesie di Pasolini a Casarsa, il
protagonista di una lunga fedeltà alla poesia di Montale.
Questo è il contesto formativo universitario. Accanto a ciò, Firenze ospita un invidiabile tessuto di gallerie
d’arte. Non è la città dell’Arte povera, che abbiamo detto essere Torino, non è la città della Pop Art
italiana, che abbiamo visto essere Roma. Firenze è la città dove nascono esperienze di poesia visiva di un
certo significato, la città dove si forma un grande musicista, Sylvano Bussotti, importante per i suoi
connubi con il teatro e le arti figurative. Bussotti ora vive a Milano, in qualche modo confinato e
misconosciuto ai più, ma è una figura di riferimento di quegli anni, autore tra l’altro del melodramma
L’ispirazione (1988), con la regia di Derek Jarman.
Oliviero Ponte di Pino
Un’altra ragione per cui le allora giovani generazioni di teatranti non usano la parola è perché, in effetti,
le parole a disposizione non funzionano più. Non funzionano per molti motivi, primo fra tutti perché la
realtà italiana subisce in quegli anni un cambiamento drammatico, drastico. Nel giro di un decennio, il
paese passa da una fase premoderna (gli anni Cinquanta) a una postmoderna (gli anni Settanta) senza
una vera industrializzazione, senza attraversare quella che è stata definita l’età borghese. Pasolini è il
testimone per eccellenza di questa accelerazione estremamente violenta.
L’universo culturale e artistico italiano fatica a tenere dietro a una svolta così drammatica e forte. Il
mondo cambia. La televisione c’è già, ma resta un oggetto esotico, ancora non appare nei film, nei
romanzi, nella poesia. Ciò che si vedeva all’interno delle arti codificate non era ciò che si vedeva nel
mondo, nella realtà quotidiana.
È anche un periodo di forte e intensa politicizzazione, e il linguaggio, tendenzialmente rigido e povero dal
punto di vista dell’interpretazione della realtà, è incapace di esprimere i fatti.
In una prima fase, i giovani gruppi cercano di appropriarsi di quelli che sono i segni della realtà
contemporanea. Lavorano sulle tematiche della metropoli, tematiche totalmente ignote al resto del
mondo teatrale; lavorano sulla musica rock e contemporanea; lavorano sulla moda e sul fumetto. Di fatto
il teatro diventa, in quegli anni, una grande palestra in cui appropriarsi con il proprio corpo del linguaggio
della modernità.
In un simile scenario, la parola, quella che si ascoltava abitualmente a teatro, non viene utilizzata. Su
questo aspetto i Magazzini rifletteranno a fondo quando useranno come riferimento filosofico l’opera di
Ludwig Wittgenstein. Lungo tutta la sua opera, Wittgenstein si interroga sulla discrasia tra l’io – ovvero il
pensiero –, il linguaggio, e la realtà. In quel momento storico questo triangolo (io, linguaggio e realtà)
appariva problematico per tutti quelli che si stavano misurando con il teatro. Non funzionano più le
modalità tradizionali di rappresentazione. Diventa necessario appropriarsi dei segni della modernità, in un
processo che porterà a esiti molto interessanti.
Giovanni Agosti
Questa cornice ben definisce il «problema generazionale». Nel caso di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi,
però, non dimentichiamo la loro origine geografica. Un’origine non urbana che verrà coperta dai temi
della fine degli anni Settanta: la metropoli, la pubblicità, la pornografia.
In un elenco di spettacoli di Tiezzi e Lombardi, ci sono lavori con testi tratti dalle Laudi di Jacopone da
Todi, o spettacoli come Morte di Francesco, che parlano di san Francesco d’Assisi. Tornando al discorso
sui poeti del Duecento, pure nel mondo delle gallerie d’arte permane il confronto con la grande tradizione
letteraria e il tentativo di appropriarsi di quella cultura. In Tiezzi e Lombardi è chiaro lo sforzo di guardare
alla cultura non come a un tabù a cui voltare le spalle, ma come a qualcosa di vivo e di cui è necessario
farsi carico.
Oliviero Ponte di Pino
A metà degli anni Settanta avviene una grossa frattura, che di fatto precede l’inizio del lavoro di tutti i
gruppi del Nuovo Teatro. A mio giudizio, le date simboliche sono la morte di Pasolini, nel 1975, e la morte
di Moro, nel 1978. Lo scenario cambia radicalmente, è un discorso tematizzato anche da Marco Belpoliti
nel saggio Settanta.
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Da questa frattura nasce quella che è di fatto una generazione senza padri, senza punti di riferimento,
perlomeno all’interno del panorama culturale italiano. Non saranno punti di riferimento, in quel momento,
i due schieramenti letterari e poetici contrapposti in Italia: l’esperienza postavanguardistica del Gruppo
63 e una sorta di neorealismo che affonda le sue radici negli anni Quaranta e Cinquanta.
Una data simbolica per la «ripartenza» culturale è il 1980, quando vengono pubblicati quasi
contemporaneamente Il nome della rosa di Umberto Eco, il primo romanzo italiano postmoderno di
grande successo, e Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli. Tondelli è costretto a fare la stessa operazione
dei gruppi del Nuovo Teatro: ripartire da zero, come se non ci fosse nulla a cui aggrapparsi.
La poesia in Italia è da sempre un terreno marginale, anche se di grandissimo livello e prestigio. In quel
periodo, una nuova generazione di poeti cerca di affermarsi con una serie di antologie e di manifestazioni
pseudospettacolari. Molti poeti non si accontentano più della poesia scritta, ma vanno nella direzione
della performance: si mettono in scena. Un altro evento che segna quel periodo è il festival che si tiene
nell’estate del 1979 a Castelporziano, organizzato fra gli altri da Simone Carella, dove alcuni poeti
leggono le loro opere. C’è una folla da concerto rock, il palco viene invaso dal pubblico che caccia in malo
modo i poeti italiani. Finché, a un certo punto, sale sul palco Allen Ginsberg che riesce a domare la folla.
Molti sono gli eventi di quegli anni che varrebbe la pena di raccontare. Al Festival di Parco Lambro, nel
1977, finalmente la poesia assume un altro valore e un altro peso. Inizia a intravedersi la possibilità d’uso
nelle relazioni sociali e nel campo performativo all’interno del panorama culturale italiano.
In quell’occasione (ero molto giovane), stavo scrivendo con Gianfranco Capitta il saggio sul poeta in
scena citato all’inizio dell’intervento. Fra le persone che avevo incontrato c’era Giovanni Raboni, che
allora dirigeva la collana di poesia della Guanda. Raboni diventa successivamente critico teatrale per il
«Corriere della Sera» e organizza una serie di eventi pubblici dedicati alla poesia, prima al Teatro di Roma
e poi al Piccolo Teatro di Milano. Raboni aveva una sensibilità poetica che gli permetteva di oltrepassare il
codice del proprio specifico letterario; era in grado di cogliere la qualità anche in esperienze teatrali in cui
la dimensione letteraria era marginale.
Un altro poeta che avevo intervistato in quell’occasione era Adriano Spatola, che nelle performance
Aviation-Aviateur e Seduction-Seducteur realizza una perfetta identificazione: poesia e poeta si
compenetrano perfettamente, diventano tutt’uno.
Il terzo fu Allen Ginsberg, durante un festival di poesia che aveva avuto il clou in una piazza di
Sampierdarena, Genova. C’era anche lì una folla da concerto rock e si era creata un’atmosfera magica
quando lui e il suo compagno, Peter Orlovsky, accompagnati da un organino, avevano cominciato a
recitare «Tiger, Tiger, Burning Bright» di William Blake. Una vera apoteosi. Quei due poeti americani
avevano una dimensione performativa e spettacolare di cui la poesia europea è, in genere, priva (con
l’ovvia eccezione dei russi). In quel momento l’attenzione è sulla poesia scambiata, una poesia che va
oltre la pagina scritta per recuperare un pubblico non tradizionale, il pubblico giovanile.
Siamo intorno al 1980, quando i Magazzini iniziano a teorizzare il loro teatro di poesia. Nel 1983 Tiezzi
pubblica sul Patalogo il suo saggio Per un disordine poetico della realtà, una sorta di manifesto a favore
del teatro di poesia. Più che al Manifesto per un nuovo teatro pasoliniano del 1968, Tiezzi si riferisce alla
distinzione – sempre pasoliniana – fra cinema di prosa e cinema di poesia. Tiezzi cita Ginsberg e Kerouac;
in quegli anni i Magazzini fanno il loro primo «spettacolo parlato»: Sulla strada, liberamente adattato
proprio dal romanzo più celebre di Kerouac. Lo spettacolo precedente, Punto di rottura, aveva un testo
organizzato intorno a frammenti di frasi utilizzate come fossero cliché: «Adoro il surf», «Prendi l’onda,
l’onda più alta...». Sulla strada è invece una sorta di grande oratorio, un testo che, in assoluta libertà,
parte da un romanzo e vi ritorna.
Quello spettacolo così «parlato» rompe un tabù. Di colpo, la nuova generazione dei teatranti si accorge
che un teatro senza parole pone dei limiti di sviluppo al lavoro sulla realtà e sul pubblico. Ogni gruppo,
coerentemente con la propria natura e la propria vocazione, cerca di superare il «mutismo». Giorgio
Barberio Corsetti lavora a lungo su Kafka, in una specie di immedesimazione, di corpo a corpo con lo
scrittore; crea una serie di spettacoli-diario, un’operazione che sposa la problematica metropolitana a una
soggettività lirica.
Mario Martone sceglie una direzione politico-civile e lavora soprattutto sulla tragedia; poi ha la fortuna di
incontrare un vero poeta: Enzo Moscato. Con lui crea Rasoi, uno degli spettacoli più belli che io abbia mai
visto, costruito sulla poesia di Moscato.
Il Teatro Valdoca si fabbrica – per così dire – il suo poeta all’interno del gruppo. I primi spettacoli,
totalmente muti, hanno un’enorme carica poetica. Poi, piano piano, emerge la personalità di Mariangela
Gualtieri.
La Socìetas Raffaello Sanzio è il gruppo che, in apparenza, resta più fedele all’orizzonte che abbiamo
delineato prima, lavorando sul mito. D’un tratto, però, anche Claudia Castellucci, una delle anime del
gruppo di Cesena, comincia a scrivere poesie e pubblica con Bollati Boringhieri il libro Uovo di bocca.
Per tutti loro, in ogni caso, la poesia rappresenta una possibile linea di sviluppo, una possibilità di lavoro
molto più forte, interessante e attraente della prosa.
Giovanni Agosti
Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, in quel momento, godono di una visibilità enorme, che sconfina dalle
pagine degli spettacoli e della cultura per diventare fenomeno di costume.
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Il genere di spettacolo, con le poche parole prese da Apocalypse Now di Coppola o da 2001: Odissea nello
spazio di Kubrick, si prestava molto a una circuitazione internazionale, poiché non c’era la barriera della
lingua. Esattamente come continuano a girare gli spettacoli della Socìetas Raffaello Sanzio, che non
hanno il limite della barriera linguistica.
Lo spettacolo del 1982, tratto da Sulla strada di Kerouac, a livello di pubblico fu un fiasco per un gruppo
che usciva da un grande successo nei festival internazionali. Uno spettacolo costosissimo con scene di
Tanino Liberatore, un disegnatore di fumetti in quel momento molto in voga.
Tiezzi supera il momento di difficoltà senza tornare agli spettacoli muti, che gli avevano garantito un
grande successo. Scrive egli stesso un testo in versi, una «tragedia barbara» dal titolo Genet a Tangeri,
richiamandosi a un poeta completamente fuori gioco: Carducci e le sue Odi barbare. Va a ripescare, nella
sua memoria di studente di liceo di provincia, un riferimento che scarta completamente rispetto alle
attese di un contesto generazionale. Genet a Tangeri, che con Ritratto dell’attore da giovane e Vita
immaginaria di Paolo Uccello forma la trilogia notturna Perdita di memoria di Tiezzi, è un grande successo
e segna il distacco dal sistema della moda, della pubblicità e dell’arredamento.
Oliviero Ponte di Pino
Nella prefazione ai testi, Franco Quadri cita D’Annunzio, Pascoli e Pound, oltre che Carducci: fa
riferimento a una tradizione poetica alta e propriamente scolastica dei primi del Novecento. Quello della
trilogia è un percorso che dura tre anni, in cui si fa teatro di poesia nel senso più completo del termine.
Nel corso di questi tre anni esplode il famigerato incidente del cavallo, citato da Pier Vittorio Tondelli in
una nota di Un weekend postmoderno. È l’estate del 1985 e siamo al festival di Santarcangelo di
Romagna. I Magazzini mettono in scena Genet a Tangeri nel mattatoio comunale di Rimini. Nel corso
della rappresentazione, viene ucciso e macellato un cavallo. L’abbattimento dell’animale per mano degli
operai del macello, già programmato, coincide con il brano sull’eccidio dei palestinesi di Sabra e Chatila.
È lo scandalo: il teatro finisce sulle prime pagine dei giornali – una cosa che capita ormai molto di rado –
e si scatena quella che i sociologi inglesi definiscono una «ondata di panico morale». La carriera del
gruppo rischia di essere stroncata. I Magazzini perdono il teatro che avevano a Scandicci, i finanziamenti
si riducono. Sul Patalogo di quell’anno un ottimo saggio di Ferdinando Taviani racconta la vicenda per filo
e per segno.
Giovanni Agosti
La macellazione avviene nel momento in cui Genet, quale personaggio della storia, racconta la visione
dall’alto della strage di Sabra e Chatila. È un articolo dell’autore francese, all’epoca non più residente in
Francia, che era uscito su «Le Monde» e che aveva suscitato grande scalpore. La descrizione dell’eccidio
perpetrato nei campi profughi libanesi si sovrapponeva a quella morte quotidiana, la morte di un animale
macellato perché cibo degli esseri umani.
Tondelli, con visione molto chiara della situazione, intervista i Magazzini sul «Corriere della Sera», il
primo giornale che aveva attaccato violentemente il gruppo con un articolo di De Monticelli. L’intervista
gli costerà il posto.
Oliviero Ponte di Pino
Quando Tondelli ripubblicherà l’intervista qualche anno dopo, in Un weekend postmoderno, scriverà:
Come fu chiaro dai molti, e deliranti, interventi che si susseguirono nell’estate del 1985, colpendo loro [i
Magazzini], ostracizzandoli, insultandoli senza cercare minimamente di capire, in realtà si tagliavano le
gambe a tutto il nuovo teatro italiano, alle formazioni della cosiddetta «postavanguardia» o «teatro della
nuova spettacolarità» che proprio in quegli anni cercava di reintegrare il testo letterario nel tessuto
spettacolare, risolvendo in modo nuovo la complessa sperimentazione visiva e musicale da cui era nato. I
Magazzini intrapresero questo percorso per primi, attraverso la Trilogia. Un bisogno di classicità e di
confronto con i grandi autori della drammaturgia novecentesca attuato nella riscoperta del verso e della
parola. (3)
Tondelli espresse molto bene e con grande chiarezza quello che stavano facendo i Magazzini, ma anche
altri gruppi in Italia. Di fronte a un teatro ufficiale che abdicava alla sua funzione di repertorio del
patrimonio tradizionale, i giovani gruppi si facevano carico di ricostruire il filo con la tradizione. Infatti
Tiezzi, dopo la trilogia Perdita di memoria, cerca nei suoi spettacoli dei testi-padre: Beckett con Come è,
Artaud con l’omonimo Artaud, e Heiner Müller con Hamletmaschine. Spettacoli-intreccio in cui la parola
ha un ruolo importante quanto la figura dell’autore. In quegli anni, in sostanza, Tiezzi lavora sull’intreccio
tra la biografia di questi «padri spirituali» e le loro opere.
Giovanni Agosti
Prima di questa fase, i Magazzini subiscono il taglio dei finanziamenti e la perdita del teatro di Scandicci,
comune alla periferia di Firenze dov’era stata allestita e montata la trilogia, almeno nei due segmenti di
cui abbiamo parlato: Genet a Tangeri e Ritratto dell’autore da giovane.
L’anno 1985-86 è un anno molto difficile. Federico Tiezzi, di fronte al taglio dei finanziamenti, decide di
realizzare i Ritratti di fine millennio, un progetto di video-teatro articolato in varie sezioni che
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comprendeva per ognuna di esse una serie di ritratti realizzati attraverso il video. È una fase
apparentemente minore, che resta sottotraccia, ma che definisce un pantheon di riferimenti. Edoardo
Sanguineti arriva in quel momento.
Oliviero Ponte di Pino
Siamo alla fine degli anni Ottanta. I Magazzini decidono di portare in scena La Divina Commedia e
chiedono a tre poeti, che non appartengono alla loro generazione, di adattare le tre cantiche per le scena.
Edoardo Sanguineti per l’Inferno, Mario Luzi per il Purgatorio e – tre anni dopo – Giovanni Giudici per il
Paradiso.
Nel dicembre 1988 Federico Tiezzi, che in quegli anni teorizza un «teatro di poesia», va a trovare Edoardo
Sanguineti per proporgli di collaborare a portare in scena l’Inferno di Dante. Il poeta genovese, più che
dall’idea di lavorare con la poesia sulla scena, sostiene di aver dato credito all’anima «criminale» del
gruppo, dopo il famigerato episodio del macello. Apprezza inoltre il titolo Commedia dell’Inferno, che
rimanda all’idea di travestimento, un termine che diventerà l’insegna della sua idea di teatro.
Il termine «travestimento» Sanguineti l’ha adottato esplicitamente per la prima volta per Faust. Un
travestimento (4), iperlibera riscrittura in versi della prima parte del testo di Goethe. Ma un
«travestimento» è già quello dell’Orlando Furioso, realizzato nel 1969 per Luca Ronconi: tanto è vero che,
nell’edizione critica del testo curata da Claudio Longhi (5), adotterà l’etichetta Un travestimento
ariostesco. In Faust. Un travestimento il concetto viene incorporato nel titolo, così come ne L’amore delle
tre melarance. Un travestimento fiabesco dal canovaccio di Carlo Gozzi (6), e ancora in Sei
personaggi.com. Un travestimento pirandelliano che metterà in scena Andrea Liberovici nel 2001.
Quello tra Tiezzi e Sanguineti non è un rapporto semplice. Tiezzi vuole «poesia», mentre Sanguineti gli
propone di «sabotare» il verso dantesco, di tagliarlo, di renderlo monco, di introdurre commenti.
L’aggressione alla terzina disturba il regista.
Il prologo è concepito come un circo. La scena è una sorta di arena in cui due pagliacci dicono le
didascalie. Sanguineti di solito non usa le didascalie, ma in questo caso sente la necessità di caricare il
testo di didascalie. L’incipit recita così:
Pista vuota sul fondo, coperta di sabbia. Un circo attrezzato nei modi consueti, tre gabbie con le tre fiere
impagliate, gigantesche. Le pareti e i lati della pista a fossa sono provviste di una scala laterale a
chiocciola variamente intrecciata e incrociata, a cui si accede da vani interni, collocati a diversa altezza,
chiusi da saracinesche da cui potranno apparire i personaggi. I due presentatori appaiono come due
imbonitori o clown, irrompendo, come in pista, a bandire lo spettacolo, parlano con grandi gesti, molto
velocemente, talvolta rubandosi la battuta, interrompendosi, sovrapponendo le voci. Tra quanto dicono e
la recitazione da comici di circo vi deve essere piena dissociazione, anche i loro abiti e i volti, colorati
vivacemente, devono corrispondere a una situazione circense.
Tiezzi adotta in parte le soluzioni suggerite, in parte le debilita e le attutisce, in parte le affida alle parole
dagli attori. Ma in generale le didascalie diventano parte del testo.
Naturalmente nel ridurre l’Inferno a un paio d’ore di spettacolo il problema principale è che cosa scegliere
all’interno della cantica dantesca. Commedia dell’Inferno è uno spettacolo teatrale, ma nel contempo
cerca di proporre un’idea molto precisa de La Divina Commedia. La prima scelta è quella di riprendere
alcuni dei passi più noti, quei brani che anche nei secoli della sfortuna dantesca sono rimasti celebri.
Sappiamo tutti chi sono Francesca da Rimini, il conte Ugolino, Farinata, Ulisse... Per Sanguineti la ragione
della loro notorietà è semplice: perché sono teatro, perché Dante è il primo autore teatrale della nostra
letteratura.
Ci sono monologhi: Francesca parla, Paolo piange; Ugolino racconta la sua storia, lo sventurato
arcivescovo resta zitto; Ulisse racconta, Diomede si limita a «fare» una delle lingue della doppia fiamma.
Ci sono dialoghi: Cavalcante e Farinata che parlano alternandosi; anche il contrasto fra maestro Simone e
maestro Adamo è un dialogo, con tempi totalmente diversi: un antico e un moderno che dialogano,
percuotendosi.
Per Sanguineti, Dante inventa il teatro. L’episodio emblematico è quello delle Malebolge: Alichino,
Farfarello e tutta la banda dei diavoli scalcinati sono vere maschere carnevalesche, dalle genealogie
perfettamente conosciute. L’intera cerimonia è carnevalesca, proprio nel significato che al termine ha
dato Michail Bachtin.
I lettori saranno sempre sedotti dalle scene teatrali. Dove non c’è teatro, secondo Sanguineti, le pagine
della Commedia dell’Inferno rimangono inerti. Ecco perché secondo lui il titolo Commedia dell’Inferno è
particolarmente azzeccato: perché La Divina Commedia è davvero una commedia, anche se naturalmente
sappiamo che Dante usava il termine «commedia» in senso stilistico. Dunque la scelta degli episodi
operata da Sanguineti, la sua intenzione interpretativa, è mettere in luce le pagine appassionate che
hanno attraversato i secoli, seguendo questa «linea drammatica».
Nel finale dello spettacolo, dove compaiono Dante e Virgilio, non ci sono più terzine, ma endecasillabi e
distici a rima baciata: la raccomandazione di Sanguineti è che quei versi siano letti come se fossero le
avventure del Signor Bonaventura sul «Corriere dei Piccoli». È evidente – e Sanguineti ci tiene a
sottolinearlo – la distanza che separa questa Commedia dell’Inferno dal Purgatorio e dal Paradiso,
rivisitati rispettivamente da Luzi e Giudici, che puntano invece più sul poetico dantesco.
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In secondo luogo (ma questo è un aspetto che interessa tutto il progetto dantesco di Tiezzi), Sanguineti
rivede la Commedia con gli occhi della contemporaneità. L’attualizzazione non consiste in una
messinscena in «costume moderno», piuttosto ad accenni sparsi alla cronaca contemporanea. O meglio,
si tratta di un Dante filtrato dalla cultura contemporanea, un Dante che conosce Artaud, che ha letto
Beckett e Genet, che ha visto anche Buñuel e Il pianeta delle scimmie, che cita Pound o riprende gli
stilemi del teatro Noh.
Giovanni Agosti e Oliviero Ponte di Pino
[tratto da: Poesia è teatro. La parola poetica in scena, a cura di Teatro i, Il principe costante Edizioni,
Milano, Dicembre 2007. Per gentile concessione.]
Note.
(1) G. Capitta - O. Ponte di Pino, Il poeta in scena, in Patalogo 2, Ubulibri, Milano 1980, pp. 109-110.
(2) F. Tiezzi, Per un disordine poetico della realtà, in Patalogo 5/6, Ubulibri, Milano 1983, pp. 176-179.
(3) P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno, Bompiani, Milano 2005 (1a ed. 1990), p. 236, nota 1.
(4) E. Sanguineti, Faust. Un travestimento, Costa & Nolan, Genova 1985; nuova ed. Carocci, Roma 2003.
(5) C. Longhi, «Orlando Furioso» di Ariosto-Sanguineti per Luca Ronconi, Ets, Pisa 2006.
(6) E. Sanguineti, L’amore delle tre melarance. Un travestimento fiabesco dal canovaccio di Carlo Gozzi, Il Nuovo
Melangolo, Genova 2001.
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Motus
SCENA E PAROLA
Il percorso di Motus ha sempre cercato di superare i limiti spaziali e temporali della narrazione per
comprendere la grande ricchezza delle orbite che un romanzo, qualsiasi tipo, contiene.
Il tentativo, che noi abbiamo sentito necessario e a cui lentamente siamo giunti, è stato quello di inserire
nello spaziotempo teatrale un nuovo registro, quello cinematografico. Per cinematografia non intendo
immagini filmiche o video, perché molto spesso la presenza del video nel teatro nulla ha a che fare con la
dimensione cinematografica. Quello che in tutti questi anni abbiamo cercato di fare è rendere lo
spaziotempo teatrale sempre più impuro.
Fin dagli inizi è stata in noi presente l'esigenza di rapportarci non con l’opera teatrale ma con l'opera
romanzo. Sicuramente abbiamo sempre avvertito un desiderio di libertà rispetto all'opera e più volte
abbiamo constatato che il romanzo garantisce una libertà maggiore.
Vorrei aprire una parentesi all'interno della categoria romanzo: parlo del romanzo di metafiction. Come
altre volte in passato, cerco di fare autoanalisi del processo in Motus e parto quindi dall'autore che guarda
se stesso e prova a ritrarsi dentro l'opera. Parlo di Motus come astrazione, cercando di individuare lo
«straniero interno» che abbiamo sempre fatto comparire nei nostri spettacoli, a partire da Catrame che
era legato al romanzo La mostra delle atrocità di Ballard. Lo straniero interno allo spettacolo spia, filma,
fotografa, descrive, commenta dal vivo o da un display luminoso (com'era appunto in Catrame) o entra
con la propria voce spezzando lo spettacolo (com'era in Twin Rooms). L’urgenza di ritrarre se stessi
dentro l'evento rappresentativo è un artificio eminentemente letterario, che appartiene a un tipo di
narrativa che cerca di mettere in crisi se stessa e lo fa sotto gli occhi del lettore: una narrativa
generalmente definita metafiction. Lo scopo primario è non far mai dimenticare al lettore che quello che
ha sotto gli occhi è innanzitutto un manufatto, un'opera costruita a tavolino e studiata attraverso
strategie narrative. Quest'opera gli ricorda che il realismo di tanta narrativa classica è solo presunto,
perché la pagina scritta per sua stessa natura non è la realtà e la finestra attraverso cui il lettore si
affaccia sul mondo fittizio del racconto non può mai essere neutra o inconsistente. La menzogna
letteraria, per citare il grande Manganelli, viene quindi messa a nudo fino al punto che in molti casi
l'autore finisce per divenire egli stesso personaggio del suo stesso racconto. Queste sono le opere
letterarie che in questo momento mi interessano di più, al di là del mio lavoro in teatro. L'autore compare
come personaggio nel racconto, con le sue crisi e i suoi dubbi sulla scrittura. Cerco di fare una
trasposizione di questa dinamica nel teatro e nella messinscena. Forse sarebbe corretto parlare di
metateatro, I sei personaggi di Pirandello ne sono un esempio epocale; ma preferisco utilizzare, per
quanto riguarda il tipo di lavoro disarticolato e scomposto che abbiamo fatto in questi anni, un termine
più vicino alla letteratura, un termine postmoderno: metafiction, appunto. Siamo sempre stati innamorati
della letteratura più che della drammaturgia. E quasi sempre i nostri spettacoli hanno avuto origine da
romanzi, film, opere filosofiche o quant'altro possegga una natura ambigua, doppia, controversa. L'ospite
è su Teorema di Pasolini, proprio per questa sua doppiezza. Pasolini stesso lo definisce un'opera anfibia,
visto che ha sentito il bisogno di scrivere un film e un romanzo parallelamente; c'è una lotta interna
all'opera, e all'autore probabilmente.
Provo a spostare la mia riflessione sulle opere che abbiamo presentato e penso in particolare a Rooms,
perché mai come in questo progetto abbiamo dichiarato così apertamente il nostro legame con la
letteratura e il cinema. Con una certa letteratura e un certo cinema, essenzialmente americani; e con una
certa America, quella che guarda se stessa e si ritrae all'interno delle proprie opere con cinismo e
crudeltà, senza pietà. Un'America che è patria indiscussa della metafiction, a cominciare dai primi
esperimenti di Barthes. Esistono anche illustri esempi europei, primo fra tutti Watt del nostro amato
Samuel Beckett. Il distacco dell'autore dalla sua opera è uno degli aspetti che ci ha sempre appassionato:
dal lavoro su Watt, opera su cui avremmo intenzione di lavorare ancora se non fosse così difficile averne i
diritti, a quello su Petrolio di Pasolini. Certo, non voglio dire che Petrolio sia un'opera di metafiction, ma
contiene delle domande che l'autore si pone esplicitandole direttamente dentro l'opera. Questa
caratteristica, a mio giudizio, la colloca nella dimensione della metafiction ed è uno dei motivi per cui
abbiamo sentito il desiderio di lavorare su Petrolio, al di là dei contenuti di questo romanzo «impossibile».
L'altra linea guida costante del lavoro dei Motus è la dimensione del viaggio. Faccio riferimento alla
letteratura americana postmoderna che abbiamo scelto come «compagna di viaggio». Ci ha guidato in
America, fra Los Angeles e Las Vegas, inseguendo con noi stanze di motel, visioni, cliché, déjà vu,
stereotipi e l'abbaglio di un paesaggio immenso, desertico. Da questo viaggio abbiamo attinto materiale
per un lavoro sulla “stanza”. Abbiamo scelto la stanza di un motel come leit motiv di un progetto teatrale,
come idea di nonluogo che rimane immutato e si presta a essere abitato da tante storie; storie diverse,
pezzi, appunti, frammenti. Questo progetto ha rappresentato la prima volta dei Motus con un testo, con
la parola. Prima avevamo sempre e solo lavorato su monologhi, citazioni, elenchi. Mai su un vero e
proprio testo, tanto meno un testo teatrale. Lavorando sulla stanza d'albergo, abbiamo cominciato a
lavorare sul dialogo dopo dieci anni di percorso in tutt'altra direzione.
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Parallelamente a questa attenzione, si è sviluppato un interesse nei confronti del pubblico: i nostri
spettacoli richiedono un lavoro allo spettatore perché interrogano, sottendono, a volte ammiccano con
l'intento di dare un ritratto non semplicistico e riduttivo del reale. La crisi del personaggio ottocentesco ha
intaccato la struttura stessa del romanzo. Se c'è crisi in teatro, questa non può non intaccare anche la
forma della rappresentazione. Ci tengo molto a ribadirlo perché spesso i Motus, come tutti i gruppi della
nostra generazione, sono stati accusati di eccessivo formalismo o eccessiva ricerca formale. Ma la ricerca
della forma è inscindibile dalla ricerca del contenuto, e la crisi dell'opera passa inevitabilmente attraverso
la sua forma. Quando si pensa a un'opera, si pensa anche al metodo con cui si decide di metterla in
scena. È inevitabile che si lavori sulla ricerca dell'espediente scenico di montaggio e della struttura che
possano rendere vivo lo spettacolo. Quindi drammaturgia non è solo un lavoro di scrittura, riscrittura e
rielaborazione a tavolino. È un lavoro che riguarda le forme, gli espedienti del fare e il lavoro dell'attore.
Fino al 2000, quando abbiamo iniziato a lavorare su Rooms, era impossibile per i Motus pensare alla
messinscena di un testo, credere al suo artificio al di là della bellezza, della pregnanza, dell'importanza
dei contenuti. Era impossibile credere a un personaggio, pensare di metterlo in scena, per un eccesso di
spirito critico e per una profonda noia verso un certo tipo di teatro. Ma sentivamo l'urgenza di “dire”, oltre
alle immagini forti che hanno caratterizzato spettacoli del periodo precedente, come Catrame o Orlando
furioso. Era necessario arrivare alla parola, ma non ne eravamo capaci. È servito il gioco di specchi della
metafiction letteraria per scoprire che anche nella narrativa sono scoppiate guerre interne, simili a quelle
che abbiamo condotto noi e tanti gruppi della nostra generazione e di quella precedente contro le
strutture rigide e usurate della messinscena.
Questo percorso ha aperto uno squarcio sul mondo della letteratura e del romanzo. Siamo andati oltre,
abbiamo superato anche gli espedienti, utili ma pur sempre espedienti, usati per affrontare il testo.
Abbiamo deciso di lavorare su Petrolio di Pasolini. Ancora un romanzo impossibile, impuro, come l'ha
definito Carla Benedetti. Il metodo di lavoro è più complesso e variegato, molto diverso dai precedenti.
Per avvicinarci a Pasolini abbiamo cominciato dalla fine, da un'opera incompiuta o volutamente aperta in
cui l'autore si mette in scena definitivamente. «Sono io, io stesso in carne ed ossa» scrive a Moravia nella
lettera di accompagnamento al romanzo. L’opera è permeata da una domanda continua sul senso del
romanzo rivolta direttamente al lettore attraverso note e rimandi. Del resto Pasolini stesso dichiara
esplicitamente di essersi ispirato a The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman di Laurence
Sterne (1760), un'opera su cui non mi dilungo perché occorrerebbe molto tempo. Dico solo che ne
abbiamo acquisito l'aspetto di fervore descrittivo: la descrizione dei fatti e dei luoghi in questo libro
raggiunge una perfezione abbagliante, crudele.
Vagando di arte in arte, da un mezzo espressivo all'altro, sempre alla ricerca di qualcosa di più autentico,
vitale, dentro quel qui ed ora tanto enunciato e rincorso in tredici anni di attività, un incontro: Pier Paolo
Pasolini. Dopo il progetto Rooms, con cui si è intrapresa un'anomala ed inedita ricerca sulla parola, su
un'oralità sofferta e sempre in bilico fra l'afasica rinuncia da un lato (Twin Rooms), ed il gusto per la
ritmica del testo (Splendid's di J. Genet), abbiamo scelto di rivolgerci a quel "poeta di cose" che è Pier
Paolo Pasolini... al suo caustico sguardo critico sul contemporaneo. Per Motus è stato doveroso
interrogarsi, tramite il teatro, sul momento politico, visto che tante riflessioni sulla società dei consumi e
la vita politica in genere elaborate da Pasolini assumono, ogni giorno, un'attualità sconvolgente, quasi
profetica. Abbiamo scelto di dar voce alla sua voce, di ospitare nuovamente le sue grida d'allarme,
amplificandole anche, con una peculiare commistione di mezzi che, forse, ai tempi delle sue esperienze
teatrali, non erano concepibili.
Come un cane senza padrone
A partire dal romanzo Teorema di Pier Paolo Pasolini, abbiamo compiuto un percorso trasversale attorno
a quelle opere in cui si materializza quell’elemento sacrale-distruttivo che assume forme diverse anche in
Porcile, San Paolo e Petrolio. Un itinerario lacerato fra la nuova periferia ed il deserto. Riflesso della
decisione di Pasolini di iniziare a scrivere di situazioni borghesi, personaggi per lui odiosi, - "ripugnanti", li
definisce nella lettera a Moravia in appendice a Petrolio «(...) si, anche il comunista è borghese. Questa è
ormai la forma razziale dell'umanità».
Il tema della crisi e della "banalità del male" nel quotidiano, dentro il nuovo totalitarismo consumistico,
era stato già fulcro di tutto il progetto Rooms, dove nelle analisi della borghesia attuate in chiave cinicoironica da DeLillo, (e da Genet) l'elemento traumatico era il compiere un atto estremo, come l'omicidio
per superare la paura della morte... in Pasolini invece è l'avvento di un fatto scandaloso esterno, quale
l'irruzione dell'ospite, o una visitazione angelica e demoniaca, come in Petrolio, a provocare lo
svelamento, la frattura...
In questo spettacolo tutti gli elementi compositivi sono denudati ed esposti
come su un tavolo operatorio, senza supporto di riflessione o scatola cinese o sottotesto filmico. Abbiamo
scelto di “descrivere” solo una parte del romanzo, lavorando sugli appunti 5962 che raccontano la
trasformazione sessuale dell'ingegner Carlo, il protagonista o pseudo-protagonista del romanzo, e la sua
relazione sessuale con il proletario Carmelo in un pratone di periferia. Il nucleo tematico è comune allo
spettacolo realizzato successivamente, L'ospite, tratto da Teorema. Anche per L'ospite l'accento è sulla
dimensione analitica, matematica, descrittiva, didascalica. Vi compare infatti la parola scritta, oltre alla
descrizione e alla didascalia, dando peso al farsi della scrittura sulla scena. Qual è il legame fra Come un
cane senza padrone e Petrolio? Per Motus era fondamentale far emergere la parola e questo ci ha
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condotto in un territorio inesplorato. Volevamo che il racconto, attraverso la voce della narratrice Manuela
Villagrossi, potesse toccare più corde emotive: non solo un teatro di narrazione, non solo un reading,
anche se il testo è rimasto praticamente immutato. Abbiamo affiancato alla lettura un film muto,
interamente fuori fuoco, girato mentre leggevo. Mi spiego meglio. Abbiamo iniziato riprendendo il lavoro
degli attori sulle azioni descritte nel romanzo. Io leggevo e loro eseguivano, cercando di rispettare ritmo
e scansione del racconto, affiancando azione e narrazione ma tenendole separate. Nello spettacolo gli
attori sono immobili e prestano il sonoro, secondo vecchie tecniche di doppiaggio, al film di cui loro stessi
sono interpreti, mentre l'azione che si svolge viene descritta dalla narratrice. II risultato non provoca un
effetto di ridondanza ma accumula la concentrazione sul racconto, sulla storia. Lo spettatore è incapace
di sottrarsi all'ascolto, tanto questa tecnica è invasiva e, a suo modo, violenta. La storia è cruda, una
relazione sessuale articolata secondo precisi rituali sadiani, descritta nei particolari più maniacali con i
registri della parola e dell'immagine che procedono paralleli, su due binari separati. Tale sezionamento,
tale autopsia del romanzo mirano a mettere in luce un Pasolini privo di ironia e spirito di
commemorazione, con un'attenzione scientifica focalizzata sulla sua disperazione e sul suo disincanto.
Pasolini stesso scrive che la crisi della letteratura postmoderna è condizionata dal declino delle ideologie,
e ciò mi sembra confermato dagli eventi verificatisi dopo la sua morte. Nell'appunto 84 l'autore, come
Pasolini definisce se stesso all'interno di Petrolio, si classifica fra gli «orfani» dell'idealismo politico che
scoprono il nulla sociale. Gli orfani sono diversi dagli scettici di sempre, conservatori o qualunquisti che
non credono in niente o per cui il nulla è naturale, e dagli idealisti ingenui, che scoprono il nulla filosofico
o cosmico. Da questo punto di vista l'io narrante, e io aggiungo l'autore teatrale, partecipano in
malafede, perché si presentano come una parodia. È una sensazione analoga a quella di Vitangelo
Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno, centomila. La sensazione che tutto sia un gioco, la sensazione
dell'impossibilità storica di proporre una visione univoca della realtà. Una sensazione che accompagna
anche il nostro fare artistico, spingendoci a moltiplicare le visioni e a complicarle su più fronti e livelli.
Sempre in Petrolio Pasolini scrive: «Questo non è un poema sulla dissociazione, ma è il poema
dell'ossessione dell'identità e della sua frantumazione». È con la frantumazione che dobbiamo e vogliamo
confrontarci, senza ricorrere alla sicurezza del teatro borghese e del romanzo borghese che, a nostro
giudizio, hanno esaurito la loro funzione ma che continuano a essere utile foraggiamento di autori e
pubblico che hanno poca voglia di correre il rischio di smarrirsi e cercare strade alternative.
L’ospite
La sollecitazione originaria per L’ospite è nata dal misterioso personaggio-protagonista di Teorema, il film
e soprattutto l'omonimo romanzo del '68, che forse più amiamo nella vasta e varia produzione artistica di
Pasolini. Ci ha colpito l'atmosfera provocatoria e profetica del testo, così terribilmente attuale per il
continuo interrogarsi sull'inconsistenza, anche spirituale, della vita borghese, assunta oramai a schema di
relazione totalizzante, a tutti i livelli sociali.
Abbiamo deciso quindi di iniziare a scrivere di situazioni borghesi, personaggi per lui odiosi, ("ripugnanti",
li definisce nella lettera a Moravia in appendice a Petrolio...). Ma non era la borghesia nella sua attualità
che poteva descrivere con matematica freddezza, aveva bisogno di un trauma che spogliasse i
personaggi delle loro inossidabili certezze: questo "scandalo" lo provoca mettendo il borghese a confronto
con il senso del sacro, anzi creando un corto circuito fra santità ed attualità.
Abbiamo tentato allora di realizzare un percorso trasversale attorno alle opere di Pasolini che, a partire da
Teorema, contengono questo elemento sacrale-distruttivo, che si materializza in forme diverse anche in
Porcile, San Paolo e Petrolio.
Il tema della crisi e della "banalità del male" nel quotidiano, dentro il "nuovo totalitarismo consumistico",
è stato già fulcro di tutto il progetto Rooms, dove nelle analisi della borghesia attuate in chiave cinicoironica da DeLillo, l'elemento traumatico era il compiere un atto estremo, come l'omicidio per
"guadagnare credito vitale", per superare la paura della morte... in Pasolini la prospettiva si rovescia: è
l'avvento di un fatto scandaloso esterno, quale l'irruzione dell'ospite, o una visitazione angelica, come in
Petrolio, a provocare lo svelamento, la frattura, la perdita di controllo.
L'ospite, l'apparizione, ha dunque una presenza duplice: da un lato si carica di un'aura mistica, con
precisi rimandi biblici, dall'altro va a rompere completamente le convenzioni delle relazioni sociali, specie
rispetto ai più diffusi tabù sessuali, per dare al corpo tutto il potere espressivo che gli compete e che
rimane tristemente represso, bloccato.
Ma se in Teorema i rapporti sessuali intrattenuti con l'ospite hanno per tutti un forte valore rivelatorio, in
Petrolio l'allegoria assume un connotato decisamente pessimistico. «L'eccesso, il disordine sessuale, la
rottura del tabù dell'incesto, non hanno più nulla di liberatorio». La sessualità acquista un segno
inequivocabilmente sadiano, il Sade di una smania fredda, scientifica, ripetitiva che fa tutt'uno con la
razionalità e l'ordine, inglobato nell'orrore nazista -e stragista-. È il Sade di Salò, di quella razionalità
strumentale, sostanzialmente irrazionale, tesa esclusivamente al dominio, al Possesso.
Carlo, il protagonista di Petrolio, grazie al suo "doppio" vive il momento più radicale dell'alterità,
trasformandosi in donna: fa così esperienza dell'essere posseduto, concedendosi al giovane guardarobiere
Carmelo... (un altro "ospite" che compare in Come un cane senza padrone). Simile esperienza è vissuta
dal padre industriale in Teorema che si lascia possedere dall'Ospite, ancora in un prato, «... egli ha
sempre, per tutta la vita, posseduto; non gli è balenato neanche mai per un istante il sospetto di non
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possedere...», ed anche la madre si abbandona prima all'ospite, poi con disperazione, a giovani
estranei...
C'è un sorprendente passaggio da una smania di tipo sadico ad una passività di tipo
masochistico.
«L'essere posseduti è una esperienza cosmicamente opposta a quella del possedere. Tra le
due cose non c'è rapporto; non sono semplicemente il contrario l'una dell'altra, (...) D'altra parte è fuori
discussione che il possesso è un Male, anzi, per definizione è Il Male: quindi l'essere posseduti è ciò che è
più lontano dal male, o meglio, è l'unica esperienza possibile del Bene, come Grazia, vita allo stato puro,
cosmico». (Da Petrolio, appunto 65)
L'ambiguità di questa riflessione sul potere sarà al centro de L'ospite, e tutti i personaggi che lo popolano
portano in sé questa spaccatura, questa sorta di frattura interiore. Anche la definizione che dà dell'ospite
Pasolini stesso ricalca questa angolazione: «Questo personaggio ha finito col diventare ambiguo, a metà
strada fra l'angelico ed il demoniaco. Il visitatore è bello, dolce, ma ha anche qualcosa di volgare (non
per niente è borghese anche lui). Ciò che è autentico invece, è l'amore che suscita, perché è un amore
fuori dai compromessi, fuori dei patti con la vita, un amore scandaloso, un amore che distrugge... questo
personaggio non è nemmeno identificabile con Cristo, semmai è più un visitatore silenzioso inviato da Dio
come nell'antico Testamento...».
È una figura silenziosa, e questo silenzio ci colpisce: Pasolini dichiara che Teorema era nato come testo
teatrale, poi «...ho rinunciato a fare Teorema in teatro perché il silenzio, cioè quel vuoto, era
infinitamente più adatto al cinema; se lo avessi fatto in teatro questo dio avrebbe parlato, e che cosa
avrebbe detto? Cose assurde. Invece adesso parla attraverso gli altri, attraverso la presenza fisica pura e
semplice, cioè il massimo della cinematografia». (da una intervista rilasciata ad Adriano Aprà - da Per il
cinema, I Meridiani, Mondadori, 2001).
Confessiamo che invece quello che più ci ha affascinato è proprio il tentativo di trasporre questo desolato
silenzio in teatro, così come la presenza fisica pura e semplice degli attori, anche se comprendiamo le
perplessità di Pasolini, che nelle sue esperienze teatrali partiva comunque da una essenziale priorità della
parola.
Per Motus è sempre fondamentale tentare delle ibridazioni, e in questo caso siamo andati oltre la stessa
storia di Teorema, incentrando tutto lo spettacolo attorno al concetto di Ospite e di ospitalità per lasciar
visitare noi stessi da quell'ospite assoluto e geniale che è Pasolini stesso.
Ecco: Motus ha aperto le porte a questo nuovo venuto e ha lasciato che egli ne sconvolgesse i processi
creativi...
In Pasolini l'ossessione per l'oralità giunge a toccare tutti gli estremi: «egli sembra voler offrire un
repertorio completo delle possibili emissioni vocali: respiri affannosi, rantoli, risate, sorrisi, declamazioni,
sottotoni, pianti, singhiozzi, sussurri, borbottii, letture, lamenti, interviste...». (da Voce e silenzio nel
cinema di Pasolini, Giacomo Manzoli, Pendragon, Bologna, 2001).
Il grido, per usare una bella definizione di Michel Chion, è uno squarcio nel tempo, rende palpabile un
fantasma di assoluto sonoro, è costante ossessiva anche nella scrittura poetica di Pasolini, dove voci
"neanche umane", celano richieste d'aiuto... Questo ossessivo sforzo vocale pare dirigersi verso una
disperata fuga all'indietro, il grido non è più contrapposizione, ma allegoria di un bisogno utopico di reimmergersi in una concretezza arcaica e barbara, ma reale, contrapposta alla piatta crisi della normalità
borghese, questa si, davvero terrificante.
Affiora il motivo metastorico del deserto, che in Teorema, Porcile, San Paolo e Petrolio acquisisce un forte
valore simbolico, facendosi segno dell'abbandono progressivo del mondo alla ricerca di una fondante
solitudine interiore «...Come è per esempio il caso del padre in Teorema, che dopo aver donato la sua
fabbrica trova attorno a sé il vuoto; in un certo senso il deserto è si una forma preistorica, ma soprattutto
questa forma è tale che ci si ritorna nel momento in cui si abbandona la società...». (dall'intervista
rilasciata a G.P.Brunetta).
Il mondo primitivo del Dopostoria è spaventosamente simile a quello mitico di prima della storia, dal
quale proviene Medea, fondamento di quell'urlo tremendo ed inorganico che racchiude in se tutte le grida
della poetica pasoliniana, ed è quello con cui termina il romanzo Teorema.
Tutti i nostri spettacoli sono attraversati da un urlo, a volte è deforme, eccessivo, come quello di Bacon in
Catrame, a volte è di follia bestiale, assoluta, come nell'Orlando Furioso, a volte è di dolore struggente
che si fa canto, come in Orfeo o di esaltazione mistica come in Visio Gloriosa... in Twin Rooms è
esplosione d'insofferenza, rivolta improvvisa verso l'incosciente esistenza borghese... è un grido che dice
anche basta.
È come se il grido di Pasolini in Ah, miei piedi nudi!, concentri in se tutte le grida esplose dentro Motus in
questi ultimi anni: «Ad ogni modo questo è certo: qualunque cosa questo mio urlo voglia significare, esso
è destinato a durare oltre ogni possibile fine».
... ed è all'eco di questo urlo di Pasolini assassinato da ben altri moventi del "delitto sessuale" che
abbiamo voluto dare voce, quest'urlo che ancora risuona all'idroscalo di Ostia, (anche se nessuno pare
averlo udito...), rimbomba assordante in tutte le periferie del mondo, e non si quieta e non si deve
acquietare, finché continuano ad esistere tali vergognose ingiustizie.
Lo spazio in cui l'urlo risuona è dunque un luogo vasto, aperto: il deserto. È simbolo di solitudine e
negazione della storia, cui l'uomo ricorre non per cercare il vuoto, ma quando scopre il vuoto dentro ed
intorno a sé: ci corre in mezzo il cannibale Pierre Clementi in Porcile, solitario, contro il fondo nero del
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vulcano; e ci corre in mezzo anche Massimo Girotti in Teorema, disperato, come se da quella situazione
di nudità, dove i pregiudizi, i classismi sono caduti, Pasolini volesse (ri)cominciare. Ma nei deserti
dell'Oriente ci va anche in spedizione Carlo, il protagonista di Petrolio, alla ricerca del nuovo "vello d'oro",
il petrolio, l'oro nero... ed è proprio nel deserto che oggi si disputa la guerra criminale per il controllo
dell'intero pianeta, è nel deserto che corrono i carrarmati statunitensi, che vengono scavate trincee, che
vanno in putrefazione i corpi atterrati dai bombardamenti, che bruciano i pozzi petroliferi per mesi...
Tutto viene dal deserto e tutto pare risolversi in esso, fra la sabbia ed il vento caldo.
Siamo andati in Tunisia a fare delle riprese nel Sahara ed allo straordinario lago salato Chott El Jerid: è
stato necessario andare, stare un po' nel deserto, prima di immergerci nell'ultima fase di lavoro a
Rennes, dove L'Ospite ha debuttato il 20 aprile 2004.
Ogni nostro nuovo spettacolo è sempre preceduto da un viaggio: Los Angeles ed i deserti americani per
Rooms ed ora il Sahara e le periferie tunisine, poi quelle napoletane e romane, sino alla nebbia della
Bassa Pianura padana per L'Ospite... Un viaggio in automobile, con una staffa con tre telecamere che
registrano in sincrono il paesaggio in movimento dal cruscotto: un grande trittico-cinetico-documentario,
che riproduce – componendolo - quel "Fuori" che ha sempre faticato a comparire nei nostri spettacoli.
Come un viaggio è stato andare fra le parole, i Dati e gli "appunti per" di Pasolini: occorreva lasciarsi
trasportare, lasciarsi in qualche modo possedere. Un viaggio che è partito da Teorema per giungere a
Petrolio. Un viaggio che termina, che viene interrotto dalla morte, la sola in grado di compiere il
definitivo, scioccante montaggio «sull'inarrestabile piano sequenza della vita. (…) È dunque
assolutamente necessario morire, perché, finché viviamo, manchiamo di senso (...) la morte compie un
fulmineo montaggio della nostra vita».
C'è il deserto di sabbia d'oriente o d'africa, luogo di esperienze mistiche e tragedie umane, ma ci sono
anche i deserti urbani, le terre di nessuno, i confini labili fra città e campagna, tra rurale e industriale,
dove gli effetti della globalizzazione forzata e di una certa spregiudicata speculazione edilizia, tutta
italiana, hanno partorito il loro mostri senz'anima, depositandoli sul terreno come alieni, senza prima né
dopo.
Stanno lì, e paiono domandare perché, certi folgoranti centri commerciali o palazzoni di città satellite che
fingono di riprodurre dinamismi tipici dei piccoli centri urbani con una piazza e negozi, ma che
mantengono sempre qualcosa di artificiale, forse artificioso, che li rende del tutto improbabili e
soprattutto in vivibili secondo dinamiche aggregative consuete. Ed è negli spazi lasciati vuoti dal cemento
aggressivo che prendono vita mondi paralleli, sottoboschi umani, nuovi percorsi di relazione e scambio fra
il deviante e l'equivoco, il degradato e l'ultra moderno. Cosa è vero, cosa no. Dove risiede ora l'attualità,
al centro o nella periferia?
Il finale dello spettacolo è stato uno dei punti più ostici nella nostra creazione… Come incarnare il trauma
della sparizione dell'ospite con il potere rivelatorio che egli ha celato in sé? I Corollari, le derive urbane e
suburbane dei membri della famiglia esplosa, erano effettivamente le conseguenze di una deflagrazione
delle certezze.
Abbiamo trovato una via affidando al figlio Pietro, al suo monologo sull'arte, sulla ricerca di nuove
tecniche, il passaggio chiave: con una mano lui si attacca agli schermi/parete/mondo e li fa crollare...
L'idea di crollo diviene centrale: crolla il teatro, la sua finzione, si rivelano le pareti nude e piene di
oggetti accatastati del palco, e il mondo, quello vero, invade la scena: i fatti storici di quegli anni, le
esplosioni di quegli anni, diventano i veri protagonisti; crolli e scoppi, sulla cui eco si propagano gli eventi
politici attuali.
Gli attori diventano piccoli, dispersi e disperati, Odetta sulla barella, il Padre urla le profetiche strofe da
Affabulazione13 poi defeca nella propria ventriquattrore, sostenendosi con l'asta spezzata della bandiera
italiana, fra le immondizie... La madre, che ha perso compostezza ed eleganza, legge sul fondo la
descrizione dell'incesto con il figlio in Petrolio, c'è un caos estenuato e liberatorio; restano tante
domande: quello che avviene in questa parte finale dello spettacolo non è descrivibile a parole, perché
fondato soprattutto sull'impatto psicoacustico nello spettatore che si trova dentro, improvvisamente
mangiato e trasportato nel caos della scena, che non è più scena, ma storia e tragedia.
Una conclusione così destrutturata e destrutturante è stata anche un riflesso della nostra stessa
esasperazione di fronte alle enormi difficoltà vissute nell'incontroscontro con Pasolini, così appassionante,
ma colmo di contraddizioni. Nel caos della fine si intuiscono sporadiche note del Requiem di Mozart e,
sulla voce indignata di Alberto Moravia ai funerali del poeta, il tulle del fronte si alza fra le immondizie e si
staglia come sopravvissuto sipario, che cela, ma non troppo, lo sfacelo retrostante... ma è ancora e di
nuovo schermo per l'ultimo, stremato film: la corsa assordante di DanyPaolo sul bordo del lago, con le
ruote dell'auto che lo assalgono come fu per il corpo del poeta. Poi la quiete, improvvisa, i passi nel vuoto
e il lungo piano sequenza del denudamento deprivato dell'audio nelle ultime parti.
Qui compare per la prima volta il silenzio, un silenzio attonito e intollerabile, che avvolge la sala, rimane
fra il pubblico anche dopo che le luci si sono spente e si attende un applauso difficile e timido.
Il febbrile lavoro di Pasolini è stato stroncato all'improvviso nel 1975 mentre scriveva Petrolio, stava
lavorando al suo nuovo film PornoTeoKolossal e preparava un intervento per il Congresso del Partito
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Radicale, al quale si presentava ancora «come marxista che vota Pci» ... e continuava a sentirsi pronto a
esercitare una critica incessante, sbagliando, ricredendosi, contraddicendosi, pur senza perdere mai il
contatto con i fatti e i continui mutamenti del sociale.
Concludiamo il nostro racconto sul progetto a lui dedicato con una frase estrapolata proprio dal suo
intervento per il Congresso Radicale che non ebbe possibilità di leggere pubblicamente. È un’esortazione,
un incitamento a continuare:
«Contro tutto questo non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il
che significa a essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi e continuare
imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi con il diverso, a
scandalizzare, a bestemmiare.»
Daniela Nicolò e Enrico Casagrande
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Societas Raffaello Sanzio
PELLEGRINI NELLA MATERIA. LA SOCIETAS RAFFAELLO SANZIO E LA POESIA DI ANDREA
PONSO
No alla poesia (“A teatro fa la parte della stupida” C. C.).
Romeo Castellucci
L’attività sfaccettata e ormai pluriennale della Socìetas Raffaello Sanzio, guidata da Romeo Castellucci, è
considerata ormai, a livello mondiale, come una delle esperienze estetiche (e non solo teatrali) tra le più
importanti e impressionanti. È assai arduo riassumere qui l’immensa portata di tale lavoro per intero:
cercherò quindi di concentrare la mia attenzione su alcuni punti particolari, in connessione con quella che
potremmo chiamare la pratica e il rapporto con la poesia e la scrittura.
Mi pare infatti che sia giusto parlare di rapporto con l’estetica e mai di totale assimilazione. Infatti, la
frontalità dei lavori del gruppo di Romeo Castellucci, si pone da sempre in un luogo che solo a posteriori
possiamo incasellare all’interno delle ristrette e ormai troppo sfilacciate categorie dell’estetico: pur
partendo dal luogo teatrale, e anzi, forse proprio per questo, la produzione di Raffaello Sanzio (già nel
nome del gruppo teatrale è insito un richiamo polemico e ironico/serissimo insieme al problema della
“bellezza”) si costituisce come tentativo di recupero (che è poi anche una sorta di rilancio profetico rivolto
al futuro) di un senso che si avvicina più al versante materico dell’antropologico e del rituale (mi verrebbe
quasi da dire, con una iperbole, della cultura materiale), fino a sconfinare nella fisiologia e nella pre-storia
di tutti noi, che è appunto la materia muta, inerte o mucosa - insomma, verso una visione elementare
dei processi primari, tra l’organico e l’inorganico. È una ricapitolazione furibonda e meticolosa, che ha una
capacità sintetica che dà le vertigini, ma sono vertigini del tutto diverse da quelle provocate dalla
nostalgia facile delle origini. Non c’è alcuna elegia in questi lavori, nessun rimpianto per un qualcosa che
non c’è più, per una condizione edenica o anche tragica dell’umanità (o addirittura del non umano, o
rovesciata nel post-umano): e il motivo principale è perché tutto è presente, nella sua inafferrabilità e
materialità o, meglio, nella sua materialità inafferrabile, che non concede mai la consolazione di un senso
e nemmeno quella sorta di consolazione opposta ma speculare, e in definitiva proveniente dalla
medesima radice, che è poi quella della combinatoria e del rimando interpretativo infinito che è tipica del
postmoderno - e casomai, da questo ultimo punto di vista, potremmo forse parlare di un corpo a corpo
(è proprio il caso di dirlo) con il caso: ma è più che mai un caso dagli incastri spigolosi, verticali, dolorosi
e improrogabili, un gioco serissimo, quasi spartano, cioè appartenente a quella comunità greca della
luminosità senza residui, della chiarezza e dell’ordine improrogabile dove non ci si può nascondere.
Un gioco nel senso più profondo e serio del termine quindi, atletico e agonistico, che ha più i caratteri
delle iterazioni chimiche e biologiche, sempre sommamente materiali, e che solo distrattamente e da una
posizione rinunciataria e, ancora una volta, difensiva, può essere interpretato come una sorta di gioco a
rimpiattino con le ombre del mistero, con un deposito di senso o di non senso (fa lo stesso) con cui poter
fingere e di-vertire: infatti, davanti ad uno spettacolo di Castellucci, non è consentito alcun di-vertimento,
alcun punto di fuga o di distrazione (e anche quando c’è qualcosa che potrebbe assomigliare alla fuga,
come ad esempio nella regressione autistica della riscrittura amletica, quella stessa linea di fuga appare
inesorabile quanto un ordine, e rimane pur sempre una azione determinatissima e rigorosamente
positiva, da cui, paradossalmente, non si scappa).
Tra i poeti del nostro tempo viene sicuramente alla mente l’esperienza unica e ancora difficilmente
catalogabile nelle sue giuste implicazioni di Milo De Angelis: rifiuto dell’elegia, anche e soprattutto nei
momenti che più la richiederebbero, materialità frontale, compresenza di passato-presente-futuro in un
“eterno presente”, inesorabilità di poesia e destino, rigore e agone atletico memore di Sparta, alla luce
del sole o del buio, senso del tragico come chiarezza e semplicità senza scampo, rifiuto di qualsiasi
nozione di origine che non contenga come sua pratica quella dell’adesso, del qui e ora - rapporto
conoscitivo di tipo chimico, potremmo quasi dire, fatto di materialità e di iterazioni rigorosissime,
algebriche, lontane da ogni semplicistica fuga dionisiaca (quel dionisismo, insomma, declinato in maniera
errata che sembra impregnare con la sua melassa tanta arte contemporanea):
c’è un’algebra stupenda - quando è letta al di fuori di ogni dionisismo - nella farmacologia, nello studio delle iterazioni
tra farmaci, nell’impossibilità di addizionarne gli effetti, nei rapporti di trasfert che si creano tra le sostanze stesse. In
questo senso è più interessante leggersi i quattro prolissi volumi dell’Aiazzi-Donatelli che non tutta l’opera di
Burroughs o di Ginsberg, per non parlare di Timothy Leary. Eppure è altrettanto chiaro che quei quattro volumi non
bastano, che sono soltanto un abbrivio per entrare nei reticoli della neorologia e per poi leggere la chimica senza più
neurologia. Vi sono sostanze - la fendimetrazina, il metilfenidato, il prolitano, la fencanfamina - lontanissime dalla
confidenzialità alcolica, potentemente concentrate sulla parola e sulla sua unicità, lontane anche dal gioco sbilanciato
degli allucinogeni o di altri dispercettivi, e lontane infine da un certo gesticolare tachicardico dell’amfetamina vera e
propria. Non lasciano scampo di fronte a un verso scritto: occorre fermarsi lì, anche per ore, finché non può non
esistere. […] Entrare nel gioco delle sostanze - entrarci senza un’idea stereotipa dello stare bene o dello stare male esige lo stesso scavo logico che può esigere un verso: nessuna riconoscenza e nessun merito. Quella formula di
struttura che ha saputo inoltrarsi nei numeri del corpo faceva già parte di un mito. Ora viene semplicemente trovata:
non c’è stato viaggio, né buono né cattivo. Dunque perché farne l’apologia?(1)
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Le riflessioni densissime che De Angelis raccoglie nel suo unico libro “critico”, Poesia e destino, sono
davvero molto vicine, per tanti aspetti, alla pratica messa in atto dal gruppo di Castellucci. Sarebbero
molte le citazioni da fare oltre a quella appena fornita. Ci limitiamo a segnare alcuni limiti che sono anche
coincidenze, come ad esempio, quando il poeta milanese sostiene:
Ecco il silenzio mitico, ciò che nasce quando cessa la domanda sulle sue cause e viene teso senza aspettative,
tantomeno la bieca aspettativa della prima parola annunciatrice e retroilluminante. Non è dunque il silenzio di Mirra o
dell’Agnese di Van der Meersch, qualcosa che si trattiene a fatica e cela un segreto. È appunto un silenzio senza
segreti, forse quello della Maria di Bilenchi o della Mite di Dostojevskj, figure cosparse di essenze taciturne più che
portatrici di una parola celata. Nulla dunque di più estraneo a tutta un’epopea letteraria contadina, dove c’è un
pullulare di abbandoni e di rancori trattenuti e dove lo zittirsi sembra crescere su di sé per strati, fino all’esplosione
omicida.(2)
E ancora, per fermarci solo a queste poche rifrazioni, una citazione che potrebbe davvero essere inserita,
mi pare, in un programma di scena della Raffaello Sanzio: De Angelis, infatti, con queste parole, cerca di
dire cosa sia Una lirica senza elegia:
Senza elegia significa anche senza il tentativo di abbassare le potenze arcaiche e di farne un risvolto dell’umano.
Alcmane, Campana e Barbu non sono la stessa cosa, come non lo sono il vedere limpido, la recisione e l’asprezza: ma
essi sanno che con le forze non c’è tempo di commuoversi e che occorre saper morire nettamente perché qualcuno
veda. Così, Campana, quando ha detto “io”, è stato animalità, trasformando davvero questa sillaba nel “raglio del suo
accento spostato” e ribadendo una voce di un uomo fino al punto di farne sentire le corde vocali, sue e di un altro. E
già fin dall’inizio Omero si era inginocchiato alle forze lasciandole grandeggiare. Barbu è un altro luogo ancora, tra gli
spigoli della materia, dove c’è una pressione potente e ruvida, che non si spalanca al mondo eppure non ne mostra la
nostalgia.(3)
Potrei naturalmente continuare, ma mi pare che questa ultima citazione sia una sorta di riassunto
anticipato di gran parte del percorso che poi Castellucci svilupperà nella sua produzione. Particolarmente
impressionante quel riferimento al raglio di Campana, al suo “accento spostato”, a quella “capacità di
farne sentire le corde vocali, sue e di un altro” che si avvera, ad esempio, nella endoscopica visione delle
corde vocali dell’attore in uno spettacolo centrale, mi pare, per tutta la produzione di Raffaello Sanzio,
che è il Giulio Cesare, o ancora, quell’inginocchiarsi alle forze, che mi pare una cifra cara anche al gruppo
di Raffaello Sanzio. Castellucci ci dice, proprio in riferimento al suo allestimento dell’opera shakesperiana:
[…] Voglio vedere la carne sessuale che genera le parole. Ripeteva Artaud che la voce non è solo soffio o spirito come
dicono i poeti, ma la voce viene dalla contrazione di un paio di muscoli: è carnale. È la carne sessuale della voce.
Voglio rovesciare un attore parlante senza, per questo, ucciderlo. Mi hanno detto che la voce è un organo sessuale
secondario. […] Voglio vedere la sua nudità di mucosa.(4)
In questo allestimento, tra l’altro, è possibile vedere come il pericolo della ricerca di una presunta
purezza come rifiuto selettivo e immunitario dell’impuro, e quindi come non accettazione della materialità
dell’esserci (cosa che anche nella poetica di De Angelis si declina in un altro tipo di purezza, che è
appunto proprio quella di una semplicità senza scampo, di una elementarità che non consente fughe e
rinculi verso un altro attimo ma che si consuma qui, nel gesso che segna la pista di atletica, il teatro del
gesto tutto al presente o, nel libro più recente, in quella ossessione iterativa del cemento e dell’asfalto)
non sia contemplata. È questo infatti un lavoro in cui a prevalere è un confronto tutto particolare con la
retorica, con la sua potenza, positiva e negativa, pura e impura. Scrive a questo proposito lo stesso
Castellucci:
La retorica è la sola pratica (insieme alla grammatica, nata dopo di essa) attraverso la quale la nostra società ha
riconosciuto il linguaggio e la sua sovranità. Essa si è imposta al di là delle ideologie che si succedevano come una
superiore ideologia della forma. Il potere appare tale solo là dove si riveste della forza della parola. Di parola retorica.
[…] Il potere è sempre retorico nella sua rincorsa dell’arte. Arte come controllo, là dove la forma dell’anfiteatro greco è
sovrapposta a quella, in tutto uguale, del senato. La retorica termina dove inizia il teatro? Il teatro inizia dove inizia la
retorica, forse. […] La retorica accetta e svela la corruzione del teatro: guarda il teatro in modo impietoso, scabroso;
ne esalta la vera faccia, che è, appunto, quella della finzione, della corruzione. In modo cinico, la retorica possiede due
volte la teatralità, nel senso che la impiega e la spiega. Ne disconosce la purezza; disprezza il teatro e l’attore nella
sua autonomia, e intanto lo ingloba in sé. Così, paradossalmente, se ne libera attraverso un procedimento omeopatico,
visto che l’artificio del teatro viene incamerato e rigettato nello stesso tempo; viene sfruttato perché utile alla verità
del discorso, e additato come finto, corrotto, nocivo. Ne nasce un discorso di verità eseguito con perfetta e
consapevole teatralità.(5)
Nonostante questo, il teatro non nasconde la potenza irrinunciabile e verticale della retorica stessa, la sua
capacità agonica, il suo irresistibile fascino, la sua necessità, la sua inesorabilità tragica e impura:
Guardo alla retorica come a una dura madre che mi insegna l’arte del teatro. Non credo al teatro semplice, al teatro
puro. Credo che gli antichi si siano dati il teatro per bisogno elementare di complessità; come la violenza contronatura
nell’agricoltura degli innesti, delle potature… ho bisogno di questa relazione asimmetrica, di qualcosa di preparato per
me in un chiuso; di figure in assetto, oggettivanti la mia devozione al bello muto e incomprensibile.(6)
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Questo corpo a corpo con la retorica ci porta poi nei paraggi della ricerca zanzottiana, soprattutto quella
che letteralmente esplode in un capolavoro come Il Galateo in bosco, dove il confronto con i codici retorici
aurei e necrofili della tradizione è fortissimo e diventa l’asse portante (o schiacciante) del corpo poetico
stesso della voce, anche nelle sue accezioni somatiche, nervose e fisiologiche, oltre che della genesi delle
istanze dell’io. Questa capacità di attraversare le retoriche e le ischemie della lingua quasi per trarne
nuova forza, seppure impura, trova sia in Castellucci che in Zanzotto l’esempio concreto fino allo spasimo
nella figura di Antonin Artaud. Ecco un’altra considerazione dello stesso Castellucci che, per chi è abituato
alla frequentazione dell’opus zanzottiano, non può non suonare come famigliare:
La parola diventa il coperchio di una tomba di bambina, di una bella addormentata che ha perduto il senso. Se la
parola diventa una lapide sul corpo, ecco spuntare il principe che bacia in bocca il cadavere; che ha questo coraggio. E
questo principe azzurro è, diciamo, Artaud.(7)
Ancora come vicina alla ricerca del poeta di Pieve di Soligo è forse questa profonda considerazione:
[…] vi è un palco asimmetrico rispetto alla polis, un palco come negazione del soggetto, che si dissolve nel mutismo
infantile dell’esperienza misterica o nella comunicazione corticale della parola-monumento (le oratorie) o del corposangue (le pantomime). Ma… - è solo un interrogativo, il mio - come mai Roma si rivolge, in termini di figura,
all’osceno, cioè al retro della skēnē greca? […] Tutto lo spettacolo di Roma vive sull’eccesso emorragico del retro della
scena. Sono rosse figure di back stage che sgombrano il campo dalla parola del poeta (non più epica, non più mitica).
L’indicibile è il guardabile che non importa più dire. Sangue e visioni date nella potenza musicale degli organi idraulici e
delle trombe da guerra. Il sacro di Eleusi e la decorazione di Roma: sono gli estremi che limitano la nostra condizione
scenica e che qui si toccano. Il teatro romano non si avvale della sublimità del verbo, ma è un teatro letterale, nel
senso che mette in mostra ed esegue “alla lettera” il mito che si ripresenta in forma di evento, ovvero il verbo che si
espone come (e attraverso il) corpo. Ancora una volta c’entra la retorica: nella retorica quello che conta è il connubio
tra verbo e corpo: il verbo “incarnato” o il corpo “letterale” sono la stessa cosa.(8)
Dove, tra le altre cose, è possibile rintracciare il senso di una profonda fascinazione per l’esperienza
kenotica tipica della figura cristologica che, non a caso, era pienamente presente anche nella lotta di
Artaud. Parola come caduta fisica dunque, trasformazione, anche deiezione, alchimia della metamorfosi
(Céline, Artaud). Castellucci sottolinea che
Anche il fatto eucaristico è un elemento che ritroviamo in Artaud: il fatto di trasformare un corpo, di fare a pezzi un
corpo, di liberare dagli organi un corpo; sono tutti elementi che derivano da una visione cristiana. […] Quindi, se il
grande regno delle possibilità appartiene a Dio, il fatto, invece, di congiungere e di fare accadere tutte queste
possibilità che rimarrebbero in un mondo inconsistente, la capacità di farle precipitare, appartiene, piuttosto, al peso di
un corpo; da qui la necessità che Dio si trasformi in qualcosa di carnale per fare precipitare, trascinare a noi,
attraverso gli elementi materici, carnali e nelle congiunzioni di questi, le possibilità. Si possono esperire le possibilità.
Si possono sperimentare. E le congiunzioni di queste possibilità sono un gioco chimico, alchemico. Il fatto delle
combinazioni può dare luogo ad altri mondi non solo possibili, ma sperimentabili, e la prova della loro sperimentabilità
è la scena. Il teatro non è qualcosa che si deve riconoscere. […] è un viaggio nell’ignoto, verso l’ignoto. Non si possono
calcolare queste congiunzioni degli elementi del possibile. […] Tutte queste modificazioni non devono fare altro che
modificare il tempo, che trovarsi in un altro tempo. […] Non mi riferisco a una cronologia, ma alla qualità del tempo.
[…] Il problema è anche la rinascita, la necessità di farlo davanti agli altri, di farsi vedere, di assumere i panni
dell’attore.(9) (p. 274)
Quasi a sottolineare che il palco essenziale è proprio quello formato dalle assi che sostengono e
inchiodano davanti ai nostri occhi il corpo morente di Cristo: la “caduta” più semplice e allo stesso tempo
più incomprensibile, in cui origine e fine, creazione e distruzione si incontrano in un medesimo tempo che
si ripresenta ad ogni istante nel mistero della celebrazione rituale e liturgica. Ed è questo che in qualche
modo dovrebbe fare anche il teatro:
Rispetto all’inizio e alla fine, è evidente che il teatro ha in sé, ontologicamente, nel proprio tessuto profondo, questo
problema dell’inizio e della fine, perché sono compenetrati. Il teatro, che è l’arte carnale per eccellenza, per
antonomasia, mentre c’è, finisce contemporaneamente. Il teatro, mentre nasce, contemporaneamente muore, e
viceversa.(10)
Allora, di questo senso che potremmo approssimativamente e impropriamente chiamare con il nome di
kenosi, di una caduta verso il basso, forse l’unica nostalgia, presente nei lavori di Castellucci, è quella nei
confronti del carnevale, quello studiato da Bachtin e da Rang. Infatti, il senso del basso, della teatralità e
della maschera, del caos come luogo di rigenerazione, diventa nell’epoca moderna e contemporanea
sempre più problematico - tutto cioè tende a spostarsi o verso un comico solo distruttivo e nichilistico,
oppure verso una rigidità cadaverica sempre più difficile da ricollegare al suo momento rigenerativo
(11) - e anche questo aspetto di un carnevale infero, sempre più in debito, in epoca moderna, nella sua
peculiarità semiogenetica, è una componente che ritroviamo nella poesia di Andrea Zanzotto, soprattutto
nella sua frequentazione inquietante delle Pasque e nello stesso Galateo in bosco. Del resto, per ritornare
al tema della retorica, il carnevale aveva anche sempre avuto un rapporto costitutivo con la legge e con il
potere, anche nella sua sospensione (prevista e dovuta) che non era altro che il modo per ristabilire un
nuovo ordine - e il teatro è o dovrebbe essere anche questo spazio della sospensione rigenerante.
L’indistinzione moderna della legge, la sua sospensione, il suo stato di eccezione diffuso provocano
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rivolgimenti problematici, ma forse anche, per alcuni, possibili nuove vie di uscita. Il nomos/logos della
parola corre gli stessi rischi e si apre alle medesime possibilità.
Il senso di un destino da portare a termine fino in fondo, di una caduta nella materia (che non ha nulla a
che fare con la caduta dovuta al peccato originale e, quindi, ancora una volta, con la nostalgia per una
condizione edenica perduta) fino alla sua caratteristica di scarto (ma anche questa parola, in effetti, non
è esatta, poiché è una parola “esclusiva” che dà quindi per scontata la presenza di un qualcosa di più
puro…) e di deiezione che la parola e il corpo stesso dell’attore condividono senza riserve: è questa la
fedeltà all’elementare che troppo spesso la poesia non sa abitare o che attua, basti pensare al
postmoderno, da una prospettiva che ne cancella il tragico e l’essenziale, appoggiandosi alla consolazione
e all’abbassamento di tensione di un negativo assunto come dato narcotico e tranquillizzante - niente,
infatti, è più lontano dal lavoro della Socìetas di un’arte combinatoria ed euforicamente funebre, dove la
forma viene scartata a priori per favorire quel gioco postmoderno che Antonio Moresco (altro nome che
sicuramente va avvicinato a questa esperienza estetica) ha giustamente chiamato “paradiso della
comparazione”, dove tutto dialoga con tutto, in una sorta di melassa onnicomprensiva e alla fine
censoria, lontana dalla vita come dalla morte. Il problema, anche qui, è sempre un problema di “forma”.
E lo stesso Moresco lo chiarisce in maniera fulminante:
Come non c’è nessuna salvezza nel rifiuto della forma, non c’è neanche nessuna salvezza nella forma. La forma è il
corpo. Il corpo del pensiero, il pensiero del corpo. La forma è il modo che noi abbiamo di essere nel (del) caos. Come
si fa ad essere per il corpo ed essere contro la (sua) forma, il suo corpo formale? Come si fa a difendere il corpo senza
difendere la (sua) forma? Ciascuno di noi ha un corpo, una forma (mai come adesso aggredita ed erosa dai processi di
virtualizzazione in atto). Noi non possiamo esistere senza una forma, una forma mortale. Chi ci chiede di essere senza
una forma, ci chiede di non esistere.(12)
È allora da questo angolo di visuale che la teatralità della Socìetas Raffaello Sanzio incontra la poesia,
smascherandone spesso l’inconsistenza e il carattere difensivo, smaterializzante e virtualizzante, troppo
spesso implicitamente connivente e parassitario, che in realtà si incarica di criticare e sovvertire o,
ancora, di una realtà che si prefigge di abbracciare per intero anche nei suoi momenti più abietti impresa che spesso rimane a metà, sospesa davvero a mezz’aria, quando invece occorrerebbe essere
per davvero pellegrini nella materia:
Ogni lavoro assume una qualità organica, va incontro a una sua propria specifica animalità. […] Questo animale è una
presenza, molto spesso un fantasma, che attraversa la materia, e io con lui. Il problema è essere pellegrini nella
materia. La materia è l’ultima realtà. È la realtà finale che ha come estremi il respiro del neo-nato e la carne del
cadavere. È un pellegrinaggio che facciamo nella materia. È, quindi, un teatro degli elementi. È un teatro elementare.
Gli elementi sono intesi come puro comunicabile, come la minima comunicazione possibile. È questo che mi interessa:
comunicare il meno possibile.(13)
La parola del poeta a teatro è quindi estremamente rischiosa, per i motivi che abbiamo qui solo in parte
cercato di delineare. O almeno questa è l’idea di Castellucci e la sua pratica teatrica lo dimostra a pieno
titolo. Chiudiamo quindi con le sue parole in proposito:
Io parto dal fatto che l’arte non è pura. Nessuno riuscirà mai a convincermi che l’arte libera l’uomo. La soteriologia
dell’arte mi sembra una menzogna da bancarella. L’arte, per me, assume, deve assumere, la propria condizione di
corruzione. […] La parola “vera”, la parola poetica, nel teatro non ha senso. Non ha senso perché il linguaggio, la
parola, è sempre fuori da me; non c’è più aderenza rispetto al mio corpo. Non è un’esperienza felice, il parlare, non lo
è mai stata. Le parole esprimono sempre un distacco, una freddezza. Mentre parlo non sono io. […] Quindi ho assunto
il linguaggio nella sua pletora, nella sua sovrabbondanza e dunque nella sua retorica. La retorica assume su di se,
consapevolmente, la propria corruzione e, in maniera spregiudicata, usa il mezzo della parola, della riformulazione di
un linguaggio. È come mettersi un costume: ancora una volta, è l’elemento del teatro.(14)
Andrea Ponso
Note.
(1) Milo De Angelis, Poesia e destino, Cappelli, Bologna 1982, pp. 19-20.
(2) Ibid., p. 7.
(3) Ibid., p. 15.
(4) Romeo Castellucci, Chiara Guidi, Claudia Castellucci, Epopea della polvere. Il teatro della Societas Raffaello Sanzio
1992-1999. Amleto, Masoch, Orestea, Giulio Cesare, Genesi, Ubulibri, Milano 2001, p. 207.
(5) Ibid., p. 205.
(6) Ibid., p. 206.
(7) Ibid., p. 221.
(8) Ibid., p. 207.
(9) Ibid., p. 274.
(10) Ibid., p. 273.
(11) E infatti, in uno spettacolo come Genesi, il confronto con il museo e la museificazione è molto forte: “Il museo è il
luogo in cui le cose giacciono separate dall’esperienza. Anche le creature, qui, riposano nella condizione della
conservazione. Non sono pensate per la prima volta. L’unica Genesi che posso concepire è a partire da un’idea di crisi
di creazione: posso solo conservare o catturare quelle immagini che ho sempre creduto potessero interessare uno
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come Dio. […] Questo museo è il museo delle vestigia stesse dell’artista che continuamente, in una commedia degli
equivoci, mette al mondo un’immagine che non è la sua”, ibid., p. 262.
(12) Antonio Moresco, La forma e la morte in Il vulcano. Scritti critici e visionari, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p.
42.
(13) Castellucci, op. cit., p. 271.
(14) Ibid., p. 276.
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Teatro delle Albe
NOTA SU NEVIO SPADONI E IL TEATRO DELLE ALBE
Il nome di Nevio Spadoni è ormai legato a doppio filo con le imprese del Teatro delle Albe, e in particolare
con la messa in scena del suo splendido monologo Lus, fatto da Ermanna Montanari, attrice e regista.
Non che questa associazione tolga niente all’autonomia dei suoi testi; anzi mi pare che nei testi affidati
dagli attori delle Albe l’orienamento di Spadoni si sia affinato e distinto più decisamente. Adesso non va
più in direzione della consueta poesia-poesia (con l’io del poeta che parla da poeta), o d’un moralismo di
tradizione romagnola (inaugurato da Torino Guerra), ma nella direzione del monologo drammatico – o
d’una specie di Sprachgesang, grazie ad Ermanna Montanari che lo eleva a forma di canto. Qui le cose
cambiano molto e il dialetto romagnolo di Spadoni si rivela una risorsa incomparabilmente più adeguata e
duttile, rispetto all’italiano letterario, scolarizzato in tutto il suo sistema espressivo.
Ci sono cose che con l’italiano scritto, non è più possibile fare. Una di queste è la ricerca di una lingua
plurale, abitata non da una sola voce (l’autore!), ma da tante voci sparse come echi del mondo. Tutto Lus
e L’isola di Alcina sono un intreccio di voci simili, eterogeneo e plurale, che sfiora sempre il puro delirio,
ma in realtà ci riporta al teatro-mondo delle situazioni estreme, dove ci si capisce per gesti, per
intonazioni, per sussulti, non per discorsi persuasivi. Ed è il dialetto come lingua plurale, per tutte le
stratificazioni che si porta dietro, nelle sonorità o calate caratteristiche, dove ad ogni espressione si
capisce che tipo di persona parli, con che gesti e che toni, in che posizione sulla scena del mondo. Penso
alle poesie di Raffaello Baldini, in un dialetto romagnolo diverso da quello di Spadoni, ma poesie che sono
tutte piccoli monologhi di un personaggio, mai la voce specialistica del poeta. Sono voci dell’ordinario
parlare nel comune teatro-mondo, nei comuni scenari della piazza, del mercato, del bar, della porta di
casa. È come se quella lingua portasse in sé tutto il teatro dei suoi parlanti, una pluralità di voci con i
racconti e gli scenari d’un dialogo perpetuo con gli altri.
Lus è il capodopera del dialetto di Nevio Spadoni, affiancato da altri monologhi, epici e dolenti: La Pérsa,
Sta nöt che al vós, La tromba, e soprattutto L’isola di Alcina, Come in tutte le poesie di Baldini, anche qui
il monologo diventa racconto, devia il lirismo verso la deformazione narrativa, attraverso le tonalità
emotive di un personaggio. Quello che fa Spadoni è riprendere l’antica tradizione del veggente, del
personaggio che enuncia le proprie visioni. In La Pérsa la narratrice racconta d’aver visto la donna scura
che radunerà tutti i persi e gli smarriti del mondo: “Sé, sé a v’degh / ch’a la j ò vesta…”. Ecco il lavoro del
veggente: vedere ciò che gli altri non vedono, presentire catastrofi e svolte del divenire, attraverso buoni
e cattivi presagi, diventare come un’antenna, come una cassa di risonanza di equilibri naturali mai
stabilizzati. Come nel caso della narratrice di La Pérsa e della fattucchiera di Lus, il veggente è qualcuno
che sta a metà strada tra il mondo civile e quello delle forze della natura – figura ai bordi del mondo
civile. Il che implica una solitudine estrema, come quella della Bêlda in Lus: una solitudine che fa tutt’uno
con le discipline del sentire, del percepire, e con l’uso magico di vibrazioni esterne.
Ma secondo me Lus spicca in modo eccezionale sugli altri testi, soprattutto dall’attacco-capolavoro dei
primi due versi “Ch’a m’so ardota a crédar / d’nö ësi gnânca tota”. (Ripresi da una precedente poesia di
Spadoni, mi pare). Quei due versi fissano qualcosa che riguarda l’ispirazione del loro autore ma anche
quella di Ermanna Montanari, come interprete dei suoi testi. Devo riprendere l’attacco, per dire di cosa si
tratta. In italiano, mia traduzione: “Che mi sono ridotta a credere / di non esserci neanche tutta / che mi
son vista più di una volta / e qua e là nella stessa fetta di tempo / una mattolica direte voialtri / e m’è
diventato stretto sto vestito / ostia, se m’è diventato stretto / e con più che passa il tempo / sta massa
s’intriga tutta / e allora vien quel giorno / che uno si stufa…”. Questo violento scatto di testa è come
qualcosa che salta fuori da un pensiero sepolto. La Bêlda dice né più né meno la condizione dello
sciamano quando va nel suo viaggio magico, trovandosi appunto in posti diversi nello stesso tempo: “ch’a
m’so vesta piò d’na volta / a cve e a lè int e’ stes zir ad temp”. (Succedeva anche dalle nostre parti, ad
esempio ai “benandanti” studiati da Carlo Ginzburg che in un periodo dell’anno andavano di notte a
combattere per i racconti, alla maniera degli sciamani asiatici). Ma per noi questo può essere solo delirio
e pazzia, isolamento sociale e solitudine estrema. Per il tipo di individui che vogliono che noi siamo, tutto
diventa una massa che si intriga nell’interiorizzazione, finché “non c’è scampo più per nessuno”, come
dice la Bêlda.
Se non mi sbaglio troppo per poca competenza della lingua, direi che la macchina poetica di Spadoni
mette in moto delle “reazioni di sostrato”. Il monologo o canto del veggente, che Ermanna Montanari
interpreta, riporta in vita modi di percepire e vibrazioni corporee che non hanno più corso da tempo.
Penso a quando Ermanna fa la voce da vecchia, da strega cattiva, come se fosse in un antro, ma anche
come se alle sue vibrazioni di gola crollassero i muri che proteggono l’uomo civilizzato. E un’altra cosa
che torna fuori attraverso la mcchina poetica di Spadoni è l’invettiva del veggente, invettiva senza
compromessi. A momenti la protagonista di Lus o quella della Pérsa fanno venire in mente i profeti biblici
che parlano della disfatta di Gerusalemme. E infine, in tutto questo, ciò che porge l’ispirazione è un
fondamentale animismo, anche quello fuori tempo, quasi impossibile per noi da capire. Un pensiero
animista è quello della Bêlda e quello dell’Alcina nell’ Isola di Alcina. È un pensiero dove niente può essere
negativo, perché tutto quello che per noi è negativo, il dolore e la disfatta, ha a che fare col sacro che è
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fuori di noi dovunque, in qualunque cosa. Il finale dell’Isola di Alcina canta il dolore e insieme la voglia di
perdersi nel fuori di noi, il fuori di tutto: “A m’so insmida / a m’so insmida / int la voia / d’pérdum tra dla
nebia.” [Mi sono inscemita, mi sono inscemita, nella voglia di perdermi tra la nebbia]… A m’so insmida / a
m’so insmida / guardend / cla lona in zil / malêda int e’ su coc.” [Mi sono inscemita, mi sono inscemita a
guardare quella luna in cielo, là malata nella sua tana].
Gianni Celati
[Il testo di Gianni Celati è stato pubblicato all’interno del volume: Teatro in dialetto romagnolo di Nevio
Spadoni, Edizioni del Girasole, Ravenna, 2003. Per gentile concessione]
111
Teatro delle Albe
MI SONO RIDOTTA A CREDERE DI NON ESSERCI NEANCHE TUTTA
1.
Sono nata in un villaggio vicino a Ravenna, Campiano. Nella casa che ora è dei miei genitori, un tempo i
contadini tenevano nell’aia, esposto agli occhi di tutti, un toro da monta legato alla catena. Quando
tornavo da messa, a volte mi fermavo sulla strada a guardargli il sesso. Altri bambini si fermavano con
me e lo facevano sbuffare. Elettrizzati, andavamo poi a baciarci nel “bosco sacro” della villa Corradini,
davanti al palazzo delle scuole elementari. D’inverno, in quel bosco, che a me sembrava così selvaggio,
fiorivano i calicantus e il loro odore purificava i nostri atti. Una strada, la via Petrosa, attraversava tutti
quei luoghi, e in fondo ci stava la casa dove sono nata. A pochi metri dalla mia casa, davanti al piccolo
borgo, se ne innalzava un’altra dalle finestre verdi sempre serrate. Vi abitavano due sorelle, entrambe
tradite dallo stesso uomo, uno straniero che i campianesi non avevano mai visto, ma di cui si tramandava
la bellezza. Marisa e Giorgina, questi erano i nomi delle sorelle dalle voci stridule, erano guardiane nel
centro cani da caccia, proprietà del veterinario stempiato del paese.
In un giorno di maggio, quando avevo poco più di dieci anni, atterrò un elicottero sul piazzale della
chiesa. Portava la statuetta della Madonna di Fatima, in ceramica bianca e azzurra, con due colombe
sotto i piedi, come una Venere venuta dal cielo. Allora officiava nell’antica pieve don Enzo Tramontani, un
eretico coltissimo, cacciato poi dalla chiesa perché aveva reso noto il suo amore per una giovane donna
venuta dall’est. Don Enzo mi insegnò ad amare le pietre antiche e scartare quelle nuove, a tracciare
percorsi inconsueti tra i campi. L’ultima volta che l’ho visto, nella sala d’attesa d’un massaggiatore
shiatsu, stava in piedi appoggiato a una poltrona di velluto giallo, in un completo scuro come un abito da
prete. Eravamo lì per curarci, un anno fa.
2.
Quando mi sono iscritta al liceo classico avevo quattordici anni, portavo alti calzettoni bianchi, una gonna
al ginocchio e una maglietta a righe. Le mie compagne invece indossavano calze trasparenti e minigonne.
Tutti gli studenti provenivano da scuole della città e si riconoscevano tra loro. Quando mi chiamarono
all’appello (già il mio nome suonava strano) io dissi ad alta voce da dove venivo: “Scuola Vittorino da
Feltre di San Pietro in Campiano”, e tutti si misero a ridere. A dire il vero, non ricordo se i miei compagni
di classe risero veramente, ma è certo che io li sentii ridere molto forte. Di lì imparai quanto fosse grande
la mia goffaggine, e gli anni del liceo furono per me un dramma.
Prendevo la corriera ogni mattina alle sette, arrivavo a scuola prima, assieme al bidello. I miei compagni
invece arrivavano tranquillamente in ritardo. Erano in quel luogo come a casa, mentre io ero lì come
un’estranea. Non avevo il loro linguaggio. Fino a sei anni ho parlato solo dialetto, l’italiano l’ho imparato a
scuola come una lingua straniera, come si impara l’inglese o il tedesco. Quell’essere campagnola, goffa,
dialettale, mi faceva sentire differente, creando in me orgoglio e disagio insieme. A vent’anni decisi di
lasciare la campagna, di abbandonare la famiglia. Ho abbandonato Campiano per fare teatro, ho
abbandonato la grande famiglia patriarcale, la mia infanzia di figlia con nome da maschio. Ho
abbandonato la loro idea di bellezza. Ho creduto di abbandonare. Campiano mi ha attanagliato ogni volta
che soffiavo una parola, che facevo un gesto, e con questo fastidio sono iniziati i miei lavori.
La via Cella lega Campiano a Ravenna. Ho percorso per anni questa strada, con la corriera per andare al
liceo, con la macchina per andare al cinema o a teatro, in bicicletta per fare visita ai nonni di Santo
Stefano. Scorre a mo’ di fiume in mezzo alle campagne di terra nera, barbabietole, peschi, viti, case
coloniche tipiche della Romagna, come quelle che si disegnano alle elementari, con la copertura a due
spioventi, piccole finestre e una porta. Attraversa Carraie, Santo Stefano, San Bortolo, Madonna
dell’Albero, piccoli paesi bui, la notte. Così era, oggi ha subìto anche lei la rovina.
In una notte del 1976, M. si incamminò per la via Cella verso Campiano, e arrivò alla mia casa nell’alba.
A quell’ora il nonno si alzava, come tutte le mattine, per custodire le bestie. Accolse M. in cucina, lo fece
sdraiare sull’ottomana, lo coprì con la sua capparella e gli disse di attendere il mio risveglio. Mia mamma,
che si alzava tutte le mattine alle sei per preparare la colazione, vide M. dormire in cucina e corse a
chiamarmi molto agitata, sicura che il babbo non avrebbe gradito quella presenza. Il babbo era convinto
che M. fosse un drogato perché era troppo magro e non aveva la patente. Io invece ero contenta che
fosse venuto a cercarmi, e ci chiudemmo nella “camera per ricevere”.
Decidemmo di dire alla mia famiglia che stavamo assieme, ci prendemmo per mano e andammo nella
cucina dove il nonno, la nonna, il babbo, la mamma e i miei fratelli stavano facendo colazione. Mio padre
diede un gran pugno sulla tavola, rovesciò il latte dalla scodella, qualcosa si ruppe. Lui bestemmiò in
dialetto e uscì fuori nell’aia. Gli altri restarono muti, gli occhi sulla tavola. Allora uscimmo anche noi. M.
mi caricò sul cannone della bicicletta del nonno e percorrendo la via Cella arrivammo a Ravenna.
Il senso di disonore ha accompagnato mio padre per molto tempo, dopo la mia partenza da Campiano. Mi
disse che per lui non sarebbe stato più possibile frequentare il circolo politico del paese, incontrare gente.
Se qualcuno gli avesse chiesto di sua figlia, cosa doveva rispondere? L’attrice? Non l’ha mai detto. Ancora
112
oggi non lo dice. “E la tu fiôla, s’a fala?” (e tua figlia cosa fa?) “La jé sempar in zir pre mond” (è sempre
in giro per il mondo).
3.
La cosa che desideravo di più era andare via da Campiano. Non ne potevo più dell’odore di stalla di casa
mia. “L’è una zengna” (è una zingara), diceva mio nonno. Quando dico nonno parlo sempre del padre di
mio padre, morto nel settembre 1992 dopo una dolorosa malattia. L’ho lavato e vestito nel giorno che è
morto, aiutata da mia mamma. L’ho vegliato nella “camera per ricevere”, insieme al babbo. C’era un
odore acido e dolciastro, pungente, quello del nonno mischiato a quello dei fiori. Il giorno del funerale, la
casa e l’aia erano piene di gente. Pochi mesi prima aveva perso nel campo l’orologio d’oro, a cui era
molto affezionato, e quando mi dissero che l’aveva perso pensai: Adesso muore. Infatti fu la fine.
Mio nonno paterno era il grande patriarca della mia famiglia contadina. Oggi so che è stato per me padre,
maestro e modello di vita. L’ho seguito, studiato, adorato come una pecora obbediente. Aveva
un’ossessione per le parole: che fossero quelle. Le scandiva e le pronunciava lentamente, quando
uscivano erano macigni, si creava un vuoto sacro quando parlava. A tavola era sempre il primo a parlare
e si rivolgeva solo a mio padre, che rispondeva dopo un attimo di riflessione, quasi avesse paura di
sbagliare. Le donne e noi bambine potevamo parlare, ma solo se avevamo qualcosa di importante da
dire. Era vietato ridere, a tavola non si ride. E dire una parola così, tanto per dire, vietato anche quello.
Ho imparato allora a distinguere le parole pesanti dalle parole leggere, le parole che feriscono da quelle
che passano, e il silenzio dalla chiacchiera. Passavo pomeriggi interi col nonno, sotto un solo bruciante,
mentre lui zappava la terra, o raccoglieva le pesche, o guidava il trattore. In silenzio, aspettavo che mi
dicesse: “Ven a qué” (vieni qui). Su quel suono ho modellato la mia voce. Come un’amante muta
desideravo il suo sguardo, avvertivo un sentimento carico di amore e di violenza. “Stugia, stugia” (studia,
studia) mi ripeteva instancabilmente, e io non lo deludevo certo. Ma non ha mai accettato la mia scelta di
vivere di teatro.
4.
Tenevamo su un panchetto della cucina, tra la finestra e il termosifone, una radio Geloso che
ascoltavamo raramente. Alla sera il babbo e il nonno andavano al circolo politico a giocare a carte, non
stavano a casa con noi. Nel 1965 i miei comprarono la televisione, acquistarono un mobiletto e misero la
radio sotto il televisore. Di sera la cucina si riempiva di vicini che venivano a trebbo per guardare le
trasmissioni. C’era confusione, si parlava contemporaneamente di altre cose, si ripetevano battute che
venivano dallo schermo. Qualcuno chiedeva cosa aveva detto, e io a volte traducevo, perché pochi
conoscevano l’italiano.
Il dialetto era la lingua di famiglia. In dialetto si davano gli ordini, si prendevano decisioni, si
raccontavano i fatti. In dialetto si parlava con i vicini e i parenti. Il nonno parlava un italiano stentato con
quelli che venivano da fuori, sensali, avvocati, medici. Noi bambini, dal momento che si cominciò a
frequentare la scuola, parlavamo tra di noi in italiano. A vent’anni ho voluto dimenticare il dialetto per
eccessiva identità, ma quando ho cominciato a fare teatro non avevo parole e le cercavo.
Così sono tornata al punto di partenza, al nonno, alla campagna. Dopo tante letture e prove, avevo
bisogno di ripartire da quello che conoscevo bene. Non avevo parole, se non aggrovigliate, e il mio
mutismo lo conoscevo bene. A me le parole mancano spesso. Alcuni anni fa a Gerusalemme, seguendo le
donne ebree che nascondevano tra le crepe dei mattoni del Tempio di Salomone i bigliettini con le loro
preghiere, piegati tante volte fino a farne una pallottola, io pensavo alla pallottola di parole che stavo
masticando e alla segretezza d’un linguaggio che faticava a uscire.
5.
Ho spesso cercato di emulare gli uomini, di imitarli. Ho desiderato di essere come loro, ho avuto per loro
una forte attrazione. Prima di tutto e sopra tutto ho voluto essere come il mio nonno, grande patriarca,
forte, indistruttibile, coraggioso. Ho sempre cercato di non deluderlo, ho sempre cercato di paragonarmi a
lui, anche fisicamente, a costo di fatiche indicibili a causa della mia salute cagionevole. Quando ho iniziato
a recitare mi sono accorta, non subito ma poi sempre di più, che in scena mi venivano in mente, come
modelli, le mie due nonne, queste nonne che non avevo mai considerato prima.
Avevo in mente la mia nonna materna, una donna furiosa e passionale. Piccola e gracile con un grande
naso e scura di occhi e capelli, analfabeta. Non parlava l’italiano, mi ha insegnato a bestemmiare.
Assorbita dal terrore della morte e dall’organizzazione del suo funerale, costruiva feticci e recitava il
rosario. D’estate, quando stavo da lei, dormiva abbracciata a me e mi raccontava storie paurose. Amava
affacciarsi ai pozzi e andare in giro con i capelli bagnati.
Sono tornata per tutti i funerali dei nonni. Quello della nonna dei pozzi fu il più teatrale, e scelsi il mio
abito più bello per accompagnarla. C’era la banda, ma non i sei cavalli bianchi come avrebbe voluto lei.
Seguimmo il feretro per poco più di un chilometro di strada sterrata fino alla Cella, e l’accompagnammo
in chiesa. Non credo che avesse mai assistito a nessuna messa, ma per l’ultimo viaggiò lasciò detto che
113
voleva esser protetta dalle parole di Cristo. I parenti in chiesa stavano muti dietro i banchi con le braccia
conserte.
Questa era la nonna Nora che si affacciava ai pozzi. Ma cosa cercava nei pozzi? Quando ero bambina, più
volte mia mamma mi ha allontanato dai pozzi dove volevo buttare mia sorella più piccola. Lei non voleva
affacciarsi, aveva paura, e per farla arrampicare cercavo di convincerla di quanto fosse bello ascoltare il
tonfo dei secchi nell’acqua. Un giorno ci riuscii, avrò avuto cinque anni, mia sorella quattro, ed eravamo
finalmente sedute entrambe sul bordo del pozzo che stava nell’aia della casa dei nonni di Santo Stefano.
Subito sentii mia madre urlare con affanno il mio nome, correndo dal campo verso di noi. Ci prese
appena in tempo.
Chi glielo aveva detto? Seppi poi che le mamme sono così, sentono prima ciò che deve accadere e ci
salvano. Così mi hanno spiegato. Ma quando anch’io cominciai ad ascoltare le visioni notturne che mi
facevano vedere ciò che sarebbe accaduto, le persone che sarebbero morte, seppi che si trattava di
qualcosa di diverso. Questo aveva a che fare con mia nonna dei pozzi. Il pozzo è una calamita, il centro
della terra, naturale esserne attratti. Di questi presagi è infettato il mio teatro.
6.
Cominciai a far teatro. Non avevo, allora, un’idea precisa di cosa volesse dire far teatro. Conoscevo solo il
teatro cosiddetto tradizionale, quello che programmano nei teatri municipali. Mi esaltava vedere in scena
gli attori e le attrici, persone in carne ed ossa che si muovevano, agivano, che recitavano davanti al
pubblico. Ma come recitavano? Qui il mio entusiasmo diminuiva. L’impressione è che stessero facendo il
compito. Come a scuola, senza energia, senza piacere profondo, che parlassero con parole d’altri senza
sentirle proprie. Erano tutti spaventosamente uguali. Amleto non era diverso dalla Locandiera, Otello
aveva solo la faccia un pochino più scura di Ofelia, ma recitavano tutti allo stesso modo. Ci davano tutti la
stessa insipida minestra, aprendo le e o le o alla stessa maniera.
Si vedeva che erano usciti tutti dalle stesse scuole, erano un po’ come le mie compagne di liceo che
vestivano allo stesso modo, calze trasparenti e minigonne. Quegli attori mi apparivano senza dramma,
superflui, forse non gli era mai capitato di sentirsi estranei, rospi. Grotowski un giorno ci ha detto che se
non avvertiamo profondamente il nostro essere rospi, non diventeremo mai principi, non saremo mai
baciati. Ecco, nel teatro cosiddetto tradizionale io non vedevo allora né rospi né principi, solo impiegati,
gente che fa il compito.
Quando debuttai, nel teatrino parrocchiale di San Rocco, su un palco di tre metri per quattro, recitavamo
un’opera di Harold Pinter. Io facevo la parte di Meg, una vecchia fragile di nervi, che chiedeva sempre:
“Sono bella? Sono bella?”. Indossavo il mio abito da sposa e mi spruzzavano i capelli di grigio con una
bomboletta. La mattina dopo andavo così a lezione, all’università, senza lavarmi i capelli. Meg era come
un ascesso di cui liberarsi, non volevo somigliarle, ma il fuori non contava. L’immagine di me stessa che a
volte ho avuto è menzognera, e se riaffiora devo svuotarla con estrema minuzia. Così ho fatto per Bêlda,
per essere pronta.
7.
Molti anni dopo Nevio Spadoni, poeta romagnolo, mi ha fatto leggere Lus, e ho accettato subito di
rappresentarla. Lus è una lunga, acre maledizione, sputata dalla bocca di Bêlda, guaritrice stregona.
Bêlda è davvero esistita, è vissuta a San Pancrazio, a cavallo tra i due secoli. Io ho visto Bêlda, furiosa e
imperturbabile, simile alle figure di certe reggitrici che abitano nelle nostre campagne. Immobile, solo la
voce vibra. Non c’è dramma, non c’è moto in Lus, tutto sta nella voce di Bêlda. Ora voce di scimmia, ora
di corvo, ora di lupo.
Ch’a m’so ardota a crédar
(Mi sono ridotta a credere)
D’no ësi gnaca tota
(Di non esserci neanche tutta)
Ch’a m’so vesta piò d’una vôlta
(Mi son vista più d’una volta)
A cve e a lè int e’stes zir ad temp
(Qui e lì allo stesso tempo)
Me a so la Bêlda
(Io sono l’Ubalda)
Me a so la Bêlda
(Sono l’Ubalda)
Avìv capì? Sé pröpri la Bêlda
(Avete capito? Sì, proprio l’Ubalda)
La fiôla dla pôra Armida
(La figlia della povera Armida)
E nö fasì cont ad nö capì
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(E non fate finta di non capire)
Ho studiato il testo di Bêlda in un teatrino alla periferia di Ravenna, in un centro per disabili, sotto la luce
d’un riflettore. Stavo lì dal pomeriggio alla notte. Quando canto Lus (perché d’un canto si tratta) a volte
non ci sono. Le parole escono da sole, eppure sono lucida, sono sospesa su una piccola sella, dentro un
deambulatore, le gambe nude penzoloni.
Anch’io come Bêlda, non ci sono mai tutta. Mi manca sempre un pezzo. Non mi vedo mai in scena, non
ho immagine di me se non a pezzi. I pezzi possono essere di tutti, un collo, un piede, un rene. L’intero
sta da un’altra parte, è un’architettura spirituale. L’essere fuori di sé come centro, è così.
In Senegal mi fermavano per strada, stregoni, guaritori. Mi dicevano di fare sacrifici con saponette,
camicie bianche, candele, e di darle ai mendicanti. Vedevano la mia ombra, il mio centro fuori di me.
Talvolta, viaggiando in treno, alcuni si sono messi a parlare con me, forse erano guaritori sensitivi. Si
sono messi a raccontare di me, anche se non li avevo mai visti prima. Avevano percepito la mia
immagine fuori di me.
8.
Sempre cerco un centro. Un grande elemento centrale e pesante. Sono attirata dal centro, come se ci
fosse una calamita che mi tira. Un carattere predisposto al chiuso, al nero, attirato dal centro, dal teatro.
Nascondersi per mostrarsi. Da una parte il letargo, dall’altra una specie di plus-vita. Convivono e si
abbracciano solo sulla scena, mai prima, mai dopo, soltanto in quel durante che ha vita breve. È il
durante della lingua madre, la lingua dietro la quale imparai a nascondermi senza più desiderare altra
conoscenza.
Così duro, vecchio, buio e incomprensibile, il dialetto romagnolo esprime con forza le azioni senza
separarle dalle parole. Potrei definirlo vento, ciò che precede la lingua della comunicazione, l’italiano. Poi
ci sono le immagini che vanno assieme al dialetto, soprattutto i teloni sui pagliai, i teloni che
proteggevano il raccolto, i teloni che coprivano i carri armati durante la guerra, i teloni così spessi e scuri,
attraverso i quali non passava l’acqua. I capannoni ne erano pieni, nelle campagne si moltiplicavano
d’inverno le loro forme, emanavano un odore di muffa e di terra.
Il teatro non più al centro, non c’è niente al centro. Se penso al palcoscenico lo vedo vuoto e la platea
piena di gente che attende. Qualcosa accadrà. Quel qualcosa non avverrà al centro. Mi vedo impiccata
per la caviglia sinistra al legno del proscenio, giù dal palco, rovesciata, con il collo sotto la suola delle
scarpe dello spettatore di prima fila.
Ermanna Montanari
Pubblichiamo qui alcuni testi di Ermanna Montanari e Marco Martinelli che documentano l’esperienza di
teatro di poesia che il “Teatro delle Albe” ha sviluppato assieme a Nevio Spadoni con i lavori “Lus” e
“L’isola di Alcina”.
LUS
di Nevio Spadoni
in scena, Ermanna Montanari e Stefano Cortesi
collaborazione drammaturgia, Marco Martinelli
luci e suono, Angelo Sintini
consulenza musicale, Vanni Montanari
regia, Ermanna Montanari
Il brano musicale presente in Lus
è la “Gran Scena del Sonnambulismo”
Tratto dal Macbeth di Giuseppe Verdi
Ci sono stati vicini con pensieri e suggerimenti:
Silvia Battistella, Cosetta Gardini, Elisabetta Gulli Grigioni, Mandiaye N’Diaye,
Michele Sambin e la Casa di Riposo Garibaldi.
Debutto: Ravenna, Teatro Rasi, 27 dicembre 1995
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“Fino all’età di sei anni conoscevo solo il dialetto di Campiano.
Mi vergognavo quando a scuola dovevo pronunciare il mio nome con due n, in italiano. Mi vergognavo
come mi vergogno a pronunciare l’inglese, un’altra lingua, straniera. Non è che il mio dialetto è più bello
di altri: è il mio.
Ragiono tutt’ora in dialetto, pur parlando in italiano, il mio ragionamento è più chiaro, più organizzato e
sobrio. Il romagnolo è duro e gutturale, così lontano dalle raffinatezze; esprime con forza le azioni, senza
saperle dalle parole. Il dialetto è un vincolo che comprende i gesti e i significati, raggiunge la crudezza
delle cose. Potrei definirlo vento, ruh, ciò che precede la tecnica ovvero la lingua della comunicazione,
l’italiano”.
Così scrivevo nell’86 mentre stavo lavorando a Confine. Da allora ho sempre utilizzato il dialetto in scena
soprattutto nei lavori scritti da Marco, da Bonifica a Incantati. Quando Nevio Spadoni, poeta romagnolo,
mi ha fatto leggere Lus chiedendomi di rappresentarla, ho accettato subito. Lus è una lunga acre
maledizione sputata dalla bocca di Bêlda, guaritrice stregone. Bêlda è davvero esistita, è vissuta a San
Pancrazio a cavallo tra i due secoli: ce ne racconta Eraldo Baldini, e alle sue pagine Spadoni si è ispirato
per comporre questo ritratto in versi. Ho visto Bêlda, furiosa e imperturbabile, simile alle figure di certe
reggitrici che abitano le nostre campagne. Immobile, solo la voce vibra. Non c’è dramma, non c’è moto in
Lus, tutto risiede nella carnalità della voce.
Mi è così naturale il dialetto che devo solo annullarmi per dirlo, ingabbiarmi nelle rime che Lus impone,
come se fossi dettata, suonata. Ora con voce di scimmia, ora di corvo, ora di lupo. Un concerto, sì,
ingorghi di parole, trascinata dalla bellezza della parlata romagnola, dal suo nero. Bêlda va nel senso
della tenebra e con lei va un’altra figura, quella su cui è stato fatto il maleficio, o quella guarita, o quella
che vive sotto il suo letto, o quella evocata o quella da cui succhia vita. Sospesa su un deambulatoretronetto, il cui utilizzo mi è stato suggerito da Stefano Cortesi, Bêlda non tocca terra, non può, e da
questo infimo grumo soffia la sua profezia, lus lus lus”.
Ermanna Montanari
Luce, e mondo
“Tutte le opere teatrali che ho poi composte, le ho scritte per quelle persone ch’io conosceva, col
carattere sotto gli occhi di quegli attori che dovevano rappresentarle. (…) E tanto mi sono in questa
regola abituato, che trovato l’argomento di una commedia, non disegnava da prima i personaggi, per poi
cercare gli attori, per poscia immaginare i caratteri degli interlocutori”(1).
Così scrive Carlo Goldoni, riflettendo sulla genesi del suo teatro. Goldoni parla per sé, ma la regola che
enuncia è centrale nella storia del teatro in Occidente: nelle epoche d’oro, attori e autori hanno sempre
congiurato insieme al fine di rendere vera (e non letteraria) la parola in scena: parola-pietra, parolasoffio, parola-fantasma, parola-sonda che scende nell’intimo, parola–scalpello che incide sulla realtà. La
locandiera fu tagliata sul fisico e sul carattere di Maddalena Marliani, nell’antica Roma Terenzio affidava i
suoi testi a Ambivio Turpione, Pirandello era spinto a scrivere da Musco e da Marta Abba: e così via. Una
delle più grandi sciocchezze che si possono dire o pensare, è che il teatro occidentale sia “un teatro di
parola”: l’unico “teatro di parola” possibile è quello radiofonico, là dove esistono solo le parole, e le
orecchie per ascoltarle. Il teatro occidentale è un’altra cosa: è carne, sono corpi vivi sui quali l’autore
scrive le proprie visioni. Sono sempre stato convinto che Shakespeare fosse una cooperativa, dice, più o
meno, un verso di Eugenio Montale. Il teatro è un gioco di squadra e, come nel calcio, le grandi squadre
sono quelle dove le personalità si esaltano a vicenda, senza annegare nel collettivo, senza perdersi nella
sterilità del virtuosismo individuale.
La Bêlda è nata in un intreccio di volontà e esperienze, nei suoi lineamenti furibondi sono riconoscibili il
poeta che le ha dato la parola e l’attrice che l’ha inspirata: entrambi arrivano dagli stessi villaggi,
entrambi hanno lavorato per anni (Nevio in poesia, Ermanna sulla scena) utilizzando la lingua delle Ville
Unite, quel dialetto che Schürr, insigne filologo e studioso delle parlate romagnole, riteneva il più puro e
arcaico. La figura di questa guaritrice e stregona, realmente vissuta a San Pancrazio a cavallo tra i due
secoli, più volte ricordata da Eraldo Baldini nei suoi studi antropologici, diventa nei versi di Spadoni uno
sciamano che si carica addosso i mali del mondo. Un Cristo-donna dalla lingua di fuoco, rifiutata e
disprezzata alla luce del sole, cercata e desiderata da tutti la notte, quando il male esplode, quando le
furie cieche della debolezza rovinano il corpo. La Bêlda guarisce tutti, tutti, senza eccezione, con erbe e
formule ritmiche; è portatrice di una magia bianca che la rende vittima sacrificale, una spugna messa lì
dal Creatore ad assorbire ogni stortura. Solo una volta utilizza la magia nera, per vendicare la madre
dall’oltraggio subìto dal parroco, che non ha voluto seppellirla in terra consacrata. Contro di lui, la Bêlda
farà il maleficio della “pédga taiêda”, dell’orma tagliata, e il prete morirà in agonia, come il rospo sotto la
pietra, trapassato da tre lunghi “spini del Signore”. Non è certo per stomachini tiepidi la Romagna
disegnata dai versi di Spadoni: l’ipocrisia regna nel paese, e il delirio della Bêlda, ora infuocato ora di
116
ghiaccio, smaschera i conformismi, le chiacchiere, le morali a metà che alimentano l’esistenza. Da alcuni
anni, il romagnolo sta reclamando i suoi diritti di lingua non solo poetica, ma anche teatrale: diversi sono
gli autori e gli attori che lo hanno portato in scena, talvolta solo, talvolta intrecciato all’italiano,
inventando una tradizione che non c’era, se non confinata nell’ambito delle filodrammatiche, e incapace,
fatte le debite eccezioni (Goldoni e pochi altri), di risultati d’arte (2). C’è in Lus una vena sofferente e
profetica che mi ha ricordato Testori: nel passare dalla poesia alla prima scrittura teatrale, l’autore è
rimasto fedele a se stesso, e questa antica donna romagnola ha “e’ côr int j oc”, come i protagonisti delle
liriche e dei poemetti, immersi in una campagna dura, selvaggia, poco cortese, tratteggiata con una
lingua dagli alti valori ritmici e musicali, come sottolinea Luciano Benini Sforza nel saggio che introduce
all’ultima raccolta poetica di Spadoni (3). A quei protagonisti, la Bêlda si affianca con la sua lunga, acre
maledizione: sola in scena, sa che andrà bene finché le sputeranno addosso, perché questo vorrà dire che
è ancora “la striga de’ paés”, sa che “e’ mêl e’ ciama e’ mêl e u t’ciapa tot / e lo u n’à ös pr incion”, il
male chiama il male e ti prende tutto, e non ha pietà per nessuno.
Icona interrogante e immobile, ci richiede luce, e mondo.
Marco Martinelli
Note.
(1) Prefazione al t. XI dell’ed. Pasquali, ora in Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di G. Ortolani, Mondadori, 1935,
vol I, p. 694.
(2) P. Parmiani, Il sorriso e la parola, Ravenna, Longo Editore, 1986.
(3) Gli spessori del tempo; in N. Spadoni, E’ côr int j oc, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1994.
Teatro delle Albe
in coproduzione con La Biennale di Venezia, Ravenna Festival, Ravenna Teatro
L'isola di Alcina
concerto per corno e voce romagnola
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
testo Nevio Spadoni
musica e regia del suono Luigi Ceccarelli
in scena Ermanna Montanari, Laura Redaelli, Francesco Antonelli, Luca Fagioli,
Roberto Magnani, Danilo Maniscalco, Alessandro Renda
progetto luci Vincent Longuemare
scene e costumi Ermanna Montanari, Cosetta Gardini
direzione tecnica Enrico Isola
assistenza luci Francesco Catacchio
assistenza suono Giovanni Belvisi
promozione Francesca Venturi
regia Marco Martinelli
L’isola di Alcina è liberamente ispirato alla figura di Alcina dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto
Debutto: Venezia, La Biennale di Venezia, Teatro Goldoni, 8 giugno 2000
L'istupidimento di Alcina
In un villaggio della campagna romagnola, poco distante da Ravenna, sono vissute due sorelle. La più
giovane, la prediletta dal padre, era da lui chiamata “la principessa”. La più grande si chiamava Alcina (il
padre, appassionato lettore dell’Orlando furioso, l’aveva chiamata come la maga di Ariosto). Un giorno il
padre le abbandonò: non lo videro più, di lui non seppero più nulla. Ereditarono il suo mestiere,
diventando le custodi del grande canile situato nel cuore di quel villaggio romagnolo. Un giorno arrivò in
paese un giovane straniero, si dice fosse bellissimo. Iniziò a frequentare la casa delle due sorelle, la
principessa se ne innamorò perdutamente. Dopo pochi mesi, così come era arrivato, all'improvviso, il bel
giovane se ne andò. Abbandonò la ragazza senza avvertirla e lei diventò matta, incapace di badare a se
stessa. Alcina decise di accudire la sorella nei suoi bisogni quotidiani e di tenerla con sé nella grande
casa. Le due si vedevano spesso passeggiare a piedi per la strada principale del villaggio, una a fianco
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all'altra, con le mani allacciate, arrivavano fino al canile, sostavano un poco davanti al cancello d'entrata
e poi tornavano a casa. Alcina aveva una voce profonda e roca, gesti autorevoli, incuteva timore,
salutava solo con un cenno degli occhi. Ora le due sorelle sono molto vecchie, alla principessa è rimasta
la voce acuta da adolescente, ride senza motivo, saluta i passanti cantando.
La gente racconta che Alcina, all'insaputa della sorella, si era presa piacere anch'essa col giovane
straniero.
"... e Alcina stia ne la sua pena". Orlando furioso
(X, 58)
È da qui, da dove la liquida Ariosto, che noi iniziamo l'istupidimento furibondo di Alcina. Il suo sembiante
crolla per incantamento o per fissità di destino in una Alcina romagnola, nel tempo fermo della sua più
funesta giornata, che sono tutte le giornate: il girare a vuoto della fissazione amorosa.
Alcina, nel VI canto, prima di perdere il suo potere di incantatrice capace di sedurre e trasformare gli
uomini, prima di ridursi a una pena straziante e immedicabile per Ruggiero, viene additata come
rappresentante di tutti i bugiardi e imbroglioni che ordiscono trappole per le dementi illusioni umane. È
signora di un mondo ridotto alla potenza magica dell'occulto, alle frodi comuni che permeano tutta la vita.
È un falso sembiante, il viso non corrisponde a ciò che è nel cuore, una disgiunzione tra immagine e
sostanza.
L'istupidimento di due sorelle della campagna romagnola, invischiate in un incantamento di trappole
amorose, ognuna in una propria mancata corrispondenza tra immagine e sostanza, come negli effetti
della magia, è stato da noi sovrapposto alla pagina del Furioso. A Nevio Spadoni, poeta in lingua
romagnola, abbiamo chiesto di scrivere il canto di questa nostra Alcina, pietrificata nella "pena", lamento
e maledizione. A Luigi Ceccarelli, musicista, di comporre una partitura capace di disegnare, coi suoni, il
terremoto interiore che squarcia la fata.
Anche la lingua muta sembiante e si fa dialetto, lingua selvatica, voce incaponita, suono indecifrabile,
invischiata nella "inestricabil ragna" (XIV, 52) del tormento amoroso, "int e' rispir longh de' vent/ch'e'
smesa l'acva int e' su pas".
Non c'è azione, non c'è dramma: solo l'errare della voce vagabonda, visione fabulatoria in cui ci si può
perdere come nello schianto dei sogni.
Marco Martinelli
Ermanna Montanari
Dove la musica è fondamento
Uno dei principali nodi di imbarazzo, nella costruzione dei nostri lavori, è sempre stata la visualizzazione
dello spazio scenico. Questo perché il punto di partenza è un nucleo di parole, un’intuizione oscura e nello
stesso tempo prepotente che richiede di farsi visibile come architettura delle figure nello spazio vuoto. I
corpi richiedono aria intorno, e spesso è nera, di tenebra. Lo “spazio” si fa allora molto, molto esigente
prima di manifestarsi come spazio scenico. Si inizia a lavorare in un perimetro stabilito a priori, neutro,
senza elementi e con luce fissa. Uno spazio crudo, scolpito. Ogni volta è così. Eccezionalmente si pensa a
dei colori, che corrispondano però più a un clima di spogliazione che di rappresentazione, attenti a ciò che
i corpi emanano.
Per L’isola di Alcina, dove la musica è fondamento, la rincorsa alla visualizzazione dell’elemento scenico è
stata davvero spiazzante. Ogni cosa in relazione ai corpi diventava ingombrante. La musica, quei suoni
irresistibili e inconsueti che Ceccarelli andava componendo e montando, intrecciandoli al canto non
addomesticato, alle parole divise, in dialetto romagnolo, di Ermanna, erano già un pieno, uno spazio
totalizzante che ci ha impedito per molto tempo la vista del benché minimo elemento scenico, così come
la plausibilità di movimenti descrittivi. Tutto si esauriva nell’orecchio. La vista faticava ad appagarsi.
Abbiamo subìto la pazienza degli occhi per giorni e giorni, cadendo in buchi d’ansia, con Ermanna che
sosteneva di essere muta, mentre aveva la bocca pregna di parole incomprensibili, alle quali dava forme
violente di espressione vocale, con Marco minacciato dalla pesantezza di cani-cavalieri poco persuasivi e
indecenti anche al buio.
Avevamo progettato, all’inizio, un muro d’oro, memori del palazzo alchemico di Alcina descritto da
Ariosto. Una volta alzato in scena, il muro fu impietosamente abbattutto nel giro di poche ore, con panico
e scoramento di tutta la squadra tecnica, e non solo. Restò, in un angolo del palco, solo un pannello
rettangolare ricoperto di tomelle d’oro su cui sbattere le note di quella musica insofferente, ma non
sapevamo cosa ne avremmo fatto.
Poi d’un tratto (come per miracolo… ma non è mai, un miracolo…), il pannello che sostava da giorni, triste
e improbabile, nell’abside del Teatro Rasi, venne rialzato su una gabbia metallica, alta 80 cm., nera come
ebano, e sotto, prigionieri, cinque cani-cavalieri dai movimenti informi e lentissimi, come larve.
Eccola, l’isola: un minuscolo diamante sospeso, vibrante di luce, nel vuoto denso d’aria. Un piano
orrizontale impercettibile (nero su nero) e uno più stretto verticale, ma d’oro. Ogni cosa in fronte all’altra,
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esposta in uno spazio bidimensionale puro e sontuoso fino alla decomposizione, quella che produce il
guardare.
Una volta arrivati lì… mancava ancora qualcosa! Quella purezza esigeva qualcosa di banalmente concreto,
un punto d’appoggio e insieme di copertura: quel diamante andava svelato poi, non dall’inizio, in modo
che fosse chiara la tensione apocalittica (nell’originario senso etimologico, apocalisse come “svelamento”)
della storia, l’oro come il lampo di un amore che ha travolto l’esistenza e l’ha accecata, per poi lasciarla
consumare nella sua cenere. Fu così che la pala dorata fu ricoperta da un velo di seta verde, e davanti un
divanetto in similpelle anni ‘60, sul quale Alcina e la sorella stanno, impuntite, come due naufraghe, ad
alludere a un interno campagnolo e ben tenuto, covo di sevizie di decenni. Solo nel finale, via il velo e via
il divanetto, mano nella mano, in piedi davanti a quel fulgore bizantino, le maghe che “morir sempre non
ponno”.
Quello che segue è uno stralcio dal diario delle prove, in forma di “dialogo in cucina”. Il muro d’oro era
stato appena abbattuto.
MARCO
Come va?
ERMANNA Come vuoi che vada? Che domanda è? Abbiamo distrutto dieci metri di scena, mesi di
progettazione, come vuoi che vada?
MARCO
ERMANNA
Già. Però abbattere I muri procura anche un brivido di libertà, non sei d’accordo?
Sì, sì…
MARCO Tanto è sempre così. Ogni volta procediamo a tentoni, ogni volta un intoppo sullo spazio.
Bisognerà pure farci caso. Così ci si scombina sempre il procedere. O questa volta stare in scena e
costruire lo spazio sta diventando per te troppo gravoso?
ERMANNA
MARCO
ERMANNA
MARCO
più giù.
Vorrà dire che non c’entro niente. Ècosì vero, è così?
Qual è la condizione di Alcina? “Ma le fate morir sempre non ponno”.
Sono solo parole. Dove sta il solido?
È una maga, no? Ancora una maga, ancora una condizione non allineata, poco più su o poco
ERMANNA
Agisce con, non agisce per.
ERMANNA
Le maghe stanno, sono lì, non hanno fine non hanno inizio. Vivono una stasi disperata.
MARCO
Cosa vuoi dire?
MARCO E respirano? Perchè in questi giorni di prove non ti sentivo respirare, forse era una impressione,
ma era come se tu recitassi senza respirare.
ERMANNA Troppi odori, troppa aria. A un certo punto ho deciso, non respiro più. Si sta in apnea. L’aria è
troppo solida, richiede un grande sforzo dividerla.
MARCO
Quindi anche nessun atto!
MARCO
Non mi sembra che ce ne sia bisogno… stavolta…
ERMANNA
Sì? Nessun atto?
ERMANNA Che bene! Nessun atto! Tutto è puro fuori, ma dentro, che succede dentro, così messi?
Perchè a me sembra che il dentro sia diventato solido e compresso come il fuori. Eccola Alcina, e la sua
condizione. Apnea. Impotente maga confinata in un’eternità vacua.
MARCO
“Ma le fate morir sempre non ponno…”
ERMANNA È questo lo strazio del sentire e guardare dentro e fuori, quel pochettino spaziale tra non
respirare più e espirare, per spirare la parola che divide l’aria, per gesti, per sussulti. Sono le parole che
dividono l’aria, perchè le parole sono loro stesse divise e lo sono in uno spazio di scrittura, nella pagina. E
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queste sono parole di poesia, sono parole in dialetto, lingua plurale, lingua antenna, lingua
destabilizzante, imparlabile. Non comunica un bel niente di senso. Come una cassa di risonanza.
MARCO
Bene bene.
MARCO
No, dico, ben detto.
MARCO
Epilettica è perfetto!
ERMANNA
Non lo so.
ERMANNA Cado in un’impasse creativa. Ogni volta. Non è la creatività che crea, è la sua dimenticanza,
il sottopelle, una disciplina del sentire, la velocità epilettica…
ERMANNA … inafferrabile di una parola nel vuoto, la sua manifestazione eretica oracolante. Quella
parola che la si dimentica, se non la si scrive subito, se non la si pronuncia immediatamente, perché è di
tutti e non è tua. Ecco, è questo che innesca Alcina, Alcina è muta come le pietre mute delle cattedrali.
Pensa se all’improvviso cominciassimo a sentire quello che hanno da dire, quello che hanno accumulato,
secoli di parole, confessioni, pianti, scalpiccii. Impossibilità di parole che abbiano senso, ammutolite in
mattoni di cattedrali dove è passato il mondo. Alcina non sarà silente in un’aria leggera, ma mutismo
compresso dentro un cubo dove nulla si manifesta oppure è costretto a esplodere in musica. Quindi un
solido pieno d’aria, pieno di parole e corpi diviso da parola e corpo. La sensazione del bruciore del
ghiaccio. È qualcosaltro che agisce, è qualcun altro che dice, meglio, che canta.
MARCO Allora la musica, quella musica prepotente e senza appigli, è la totalità dello spazio. È lo spazio,
il corpo, la voce, l’aria. Alcina è l’aria che si manifesta, sta lì da sempre, basta guardare bene. Non è l’aria
silente e pacificante, ma quell’altra sontuosa e maldicente di chi “morir sempre non può”. Alcina è
decervellata, come Madre Ubu1, solo che quella è un burattino nella sadica dannazione del movimento,
questa è un corpo esploso nella sua immobilità, esposta ai guaiti della musica che sono i sassolini del suo
cervellucolo che ronzano come orbite al di fuori e rimbombano.
ERMANNA Non c’è niente. È un’essenza, come la tuberosa indiana. È danza butho della lingua sotto il
palato. Tutto palpita e nulla si muove. Forse è così.
MARCO È così.
ERMANNA
È oro.
ERMANNA
Non vorrai mica rimettere in piedi il muro?
MARCO
Vedi che risalta fuori l’oro!
MARCO No, il muro no. Ma quel pannello nascosto nell’abside… quel pannello va rialzato, quello non lo
possiamo gettare via. E anche se non sappiamo ancora dove e come sarà sospeso, anche se ignoriamo
tutto della sorte dei cani-cavalieri, quel pannello voglio vederlo alle tue spalle, a inquadrare Alcina e la
sorella, abbacinante. Chiudiamoci in un metro cubo d’aria, facciamo un perimetro alle cui spalle alzeremo
la pala d’oro, e stiamo lì, ad ascoltare la tua voce e la musica di Ceccarelli combattere. Uscirà, quando
uscirà, il resto della scena. Così, per lungo tempo fermi. Ti va?
Marco Martinelli
Ermanna Montanari
[Il testo Mi sono ridotta a credere di non esserci neanche tutta di Ermanna Montantari è stato pubblicato
all’interno de: "Il Semplice", n. 4, Feltrinelli, Milano, 1996. Il testo Luce, e mondo di Marco Martinelli è
stato pubblicato all’interno del volume:
Lus di Nevio Spadoni, Lenuvole 16, Mobydick/Cooperativa Tratti, Faenza 1995. Per gentile concessione]
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Teatro delle Albe
DIALETTO E TEATRO DI POESIA
Vigono da più parti pregiudizi e opinioni secondo cui il dialetto sia lingua morta in questa epoca di
globalizzazione e massificazione, lingua comunque minoritaria, ormai surclassata da quella nazionale,
essa pure tristemente impoverita e omologata; che il dialetto sia oggi un idioletto e le contaminazioni si
sono rese inevitabili; che possiedano il dialetto come lingua propria e originaria solo coloro che, nati
prima della guerra, ne sono stati o ne sono custodi gelosi e puri; che il dialetto non si possa piegare a
registri alti e non possa esprimere quel sentire universale che ci si aspetterebbe dalla poesia e dal
linguaggio poetico. Per qualcuno, poi, la poesia dialettale di oggi dovrebbe tirar fuori la voce, il parlato, e
una poetica linguistica non è più sufficiente (anche se questo vale per l’italiano), e di qui, nasce il
coraggio di operare scelte alternative. Per molti poi, non ci si può allontanare da quel ‘sano realismo’ che
ha segnato tanta e anche importante letteratura.
La mia testimonianza è quella di una persona cresciuta nel dialetto, essendo nato in un paese della
campagna romagnola, dialetto che ho parlato come prima lingua fin dagli anni cinquanta, e che tuttora
vivifica il dialogo per una più schietta comunicazione.
Il mio però è uno dei tanti in Romagna, specificatamente quello delle Ville Unite (un agglomerato di paesi
che comprende S. Pietro in Vincoli – dove sono nato –, Campiano, S. Stefano, S. Zaccaria ecc), in un
idioma appunto che l’insigne glottologo tedesco Friedrich Schürr(1) ha definito il più puro in quanto
parlato in un’area lontana dai grandi centri di comunicazione (via Emilia per esempio), in zone comunque
rimaste discretamente isolate dal contesto urbano e dai grandi traffici, in paesi tuttora preminentemente
agricoli.
Il dialetto mi ha catturato fin da piccolo e già da adolescente ho misurato la mia esperienza di scrittura
con quella di personaggi già avviati nello studio e nel fare poetico. Cito i nomi di Gioacchino Strocchi,
Libero Ercolani, Bruto Carioli(2). Poi è giunto in età matura il giorno in cui ho lasciato la campagna, il cui
dialetto mi era stato trasmesso dai nonni e dai genitori contadini, e quel paesaggio che già aveva
suggestionato prima di me poeti e scrittori di grande statura: Giovanni Pascoli, Marino Moretti, Renato
Serra, Francesco Serantini, ma anche Olindo Guerrini, Aldo Spallicci, Nettore Neri, Lino ed Enzo Guerra,
fino ai poeti del secondo Novecento: Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Nino Pedretti, Mario Bolognesi,
Tolmino Baldassari, Giuseppe Valentini, Gianni Fucci, Walter Galli, Giuliana Rocchi, Sante Pedrelli e i più
giovani, Giuseppe Bellosi, Giovanni Nadiani e altri(3). Ho lasciato la campagna, per vivere in città dove
ragioni di lavoro mi chiamavano, a Ravenna, bella nella sua arte e nella sua storia, ma con tutte le
tristezze, angustie e contraddizioni del vivere di oggi. Nessuna nostalgia, però, nessun intimismo, ma una
inevitabile lacerazione mi ha indotto a rompere l’indugio e ad ascoltare quel mondo interiore di voci,
suoni, odori, realtà interiorizzata di un mondo che avevo lasciato dopo averlo assaporato, toccato,
scrutato, interrogato, e che strideva profondamente con la realtà altra di una città, anche se non
metropoli, che fa i conti con un tempo diverso, più frenetico, con una realtà insomma che non è più
quella civiltà rurale che già Pier Paolo Pasolini aveva presagito nel suo declino.
E proprio nella città, in questa “città del silenzio” che personaggi come Hermann Hesse(4) hanno visto
come muta da un millennio (“Se tu l’attraversi e osservi, le vie tristi e umide sono mute da un millennio e
ovunque cresce muschio ed erba”), mi si è fatto impellente il bisogno di comunicazione, un disperato
bisogno.
Di qui il coraggio di rendere pubbliche le mie esperienze poetiche e di camminare su quel solco. Già con
le prime raccolte si sono rese più chiare la mia identità e quella degli altri. Quando il bisogno nasce dalla
carne a volte lacerata e sanguinante, quando la fantasia poi trasfigura le cose non appena esse
scompaiono, è necessità scrivere per difendere – come diceva Maria Zambiano(5) – la solitudine in cui ci
si trova salvando le parole dalla loro esistenza momentanea e transitoria e condurle verso ciò che è
durevole. Testi come Par su cont (Per suo conto), Al voi (Le voglie), Par tot i virs (Per tutti i versi), A
caval dagli ór (A cavallo delle ore), E’ côr int j oc (Il cuore negli occhi), hanno segnato l’esperienza della
prima fase del mio lavoro poetico, fino a pochi anni fa. Ma già la misura breve, epigrammatica dei primi
testi, aveva ceduto il posto a poemetti sospesi – come qualcuno ha rilevato – tra visionarietà e
descrittività, con un linguaggio lirico-narrativo. Mi riferisco soprattutto a quelli contenuti in A caval dagli
ór (A cavallo delle ore, Ravenna, Longo editore, 1991).
Nel 1996 è uscita poi l’antologia Le radici e il sogno. Poeti dialettali del secondo Novecento in Romagna
(Faenza, Mobydick), curata da Luciano Benini Sforza e da chi scrive, dove il dialetto è stato affrontato su
un piano storico e critico.
Ed è a questo punto, e noi usiamo l’espressione “i cvel i va d’su pe” (le cose vanno di loro piede,
naturalmente), che è nata la collaborazione con Ravenna Teatro e in particolare con l’attrice Ermanna
Montanari e col regista Marco Martinelli. La cosa curiosa è che Ermanna viene dai miei stessi luoghi; lei è
di Campiano, a pochi chilometri dal mio paese di origine, e il dialetto è lo stesso, come uguale, direi, è la
visceralità della gente, con quel pizzico di follia che è stata tante volte tratteggiata in riferimento ai
romagnoli, anche da Guerra, Baldini, Pedretti, Galli.
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Ermanna ed io ci siamo frequentati da adolescenti e ci siamo reincontrati dopo vent’anni circa nella città
di Ravenna. E qui, spontaneamente, è nato Lus (Luce), monologo scritto su una figura di donna
realmente vissuta in Romagna a cavallo dei due secoli (fine Ottocento, inizi del Novecento), storia della
Bêlda, guaritrice, sciamano che si carica addosso i mali degli altri, figura di cui avevo letto in Memorie e
tradizioni di Romagna di Eraldo Baldini.
Questa donna, con una parola tagliente, fatta pietra – e mentre scrivevo già me la raffiguravo scagliata in
scena dalla voce politonale di Ermanna – è stato il frutto di un intreccio di volontà ed esperienze dove io
ho dato la parola all’attrice che me l’ha ispirata.
Un testo quindi, il primo, che ho scritto appositamente per lei, un abito che ho cercato di cucirle su
misura e provato quindi più volte in un lavoro di costruzione comune. Poi è uscito Perhindérion, trittico
peregrinante su testo di Martinelli e mio, che ha segnato con La Pérsa (La Perduta), contadina analfabeta
che attorno al 1100 profetizza l’arrivo dell’immagine della Madonna greca sulle rive dell’Adriatico dopo la
conciliazione di Ravenna con Roma, il mio secondo lavoro. Ma, diverso per tanti aspetti, è l’ultima opera:
L’isola di Alcina che fa parte del progetto Cantiere Orlando e che comprende Alcina, Baldus e Orlando
innamorato, anche se quest’ultimo non è stato rappresentato.
Partendo dalla lettura dell’Orlando furioso, L’isola di Alcina narra una storia tutta romagnola raccontando
di due sorelle, Marisa e Giorgina, della campagna ravennate, di cui mi aveva parlato Ermanna,
innamorate e poi lasciate dallo stesso cavaliere, un forestiero, capitato per caso in quel paese. Queste
sorelle, custodi di un canile, invischiate in un incantamento di trappole amorose, istupidiscono, ognuna in
una propria mancata corrispondenza tra immagine e sostanza, come nella magia. “E Alcina stia nella sua
pena” dice Ariosto nel X canto al verso 58, e da qui inizia il suo delirio.
Alcina è un essere pietrificato nella sua pena, e anche questo, come Lus, è un lamento e una maledizione.
La lingua stessa muta sembiante, e da quella ariostesca si passa a un dialetto duro, selvatico che l’attrice
interpreta con voce incaponita, acidula, sprezzante, ma anche con toni lirici. E qui il confronto con Lus
diviene inevitabile: in Lus, la Bêlda è la donna sciamano, Cristo-donna che si fa tutta per tutti e muore
invocando la luce; Alcina, invece, è sprofondata nella sua pena d’amore, nella sua notte; è una perdente,
vittima della sua rabbia, dei suoi malefizi, condannata come tutti a vivere nella sofferenza.
L’isola di Alcina è un lavoro nato in progress, non solo scritto, ma basato sul continuo confronto, partendo
dalle parole che si avvalgono della scena.
Per la scenografia ci siamo mossi da forti suggestioni musicali e iconografiche, con riferimento non solo
all’opera dell’artista americana Kim Dingle(6) (bambola dal volto malefico che esce da un muro come se
venisse da un tempo altro), ma anche da scene di Dosso Dossi(7) di fantasia ariostesca. E si possono
trovare riferimenti a Felice Casorati(8) più freddo, geometrico, quasi metafisico, e accenti espressionistici
che ricordano Otto Dix(9) e la nuova oggettività tedesca. Un dramma quindi, quasi un montaggio, frutto
di un lavoro sinergetico, osmotico, che grazie al pluristilismo del dialetto ha permesso una gamma di
tonalità diverse: invettiva, ironia, visionarietà, liricità. Nel 2003 per Ravenna Festival ho scritto il
melologo dedicato a Galla Placidia imperatrice del V secolo, archetipo e metafora del femminile nella sua
complessità, espressa anche attraverso il multilinguismo, pur con la prevalenza del dialetto. In lei infatti
convivono mondo greco, romano, cristiano e barbaro. Il testo, interpretato da Elena Bucci con la sua
stessa regia e la musica di Luigi Ceccarelli, è stato rappresentato nella Basilica di S. Vitale a Ravenna. A
questo melologo sono seguiti Francesa da Rimini, interpretato da Chiara Muti, con la regia di Elena Bucci,
e Lord Byron e Teresa Guiccioli, interpreto da Chiara Muti ed Elena Bucci con la regia di quest’ultima, con
musiche di Ceccarelli, per Ravenna Festival 2003 e 2004. Questi ultimi lavori sono scritti in italiano e
dialetto. Due altri lavoro teatrali: La tromba e Loreto, sono ancora inediti.
Dopo una esperienza pluridecennale col dialetto mi sento di condividere l’affermazione di Raffaello
Baldini(10): “Col dialetto si può parlare con Dio, ma non di Dio” a significare che la nostra lingua, se in
tanti contesti è di efficacia straordinaria, non si presta tuttavia al linguaggio della speculazione, tanto
meno a quello della tecnica. Il romagnolo, se ha perso terreno come lingua della quotidianità, rimane
oggi lingua della voce interiore nella ricerca di una “verità linguistica” che chi come me, è nato e cresciuto
nel dialetto, stenta a sentire con la stessa intensità nella lingua italiana imparata a scuola.
Nevio Spadoni
Note.
(1) Friedrich Schürr (Vienna 1888 - Costanza 1980), insigne glottologo austriaco, è il più importante studioso dei
dialetti romagnoli.
(2) Gioacchino Strocchi, medico condotto di S. Pietro in Vincoli (Ravenna), morto nel 1986, è autore di alcune raccolte
di poesie; Liberoi Ercolani maestro di Bastia morto nel 1988, ha pubblicato tra l’altro il Vocabolario romagnolo-italiano
italiano-romagnolo, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1971; Bruto Carioli, farmacista di S. Pietro in Vincoli (Ravenna),
morto nel 1983, è stato direttore per più di cinquant’anni del Gruppo corale “Pratella Martuzzi” di S. Pietro in Vincoli.
(3) Sui poeti dialettali del primo Novecento vedi G. Quondamatteo - G. Bellosi, Cento anni di poesia dialettale
romagnola, Imola, Grafiche Galeati, 1976; sui poeti del secondo Novecento vedi Le radici e il sogno. Poeti dialettali del
secondo ’900 in Romagna, a cura di L. Benini Sforza e N. Spadoni, Faenza, Mobydick, 1996.
(4) H. Hesse, Le donne consapevoli, in Ravenna una capitale, Bologna, Alfa, 1978.
(5) M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Milano,R. Cortina,1966.
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(6) Kim Dingle, artista nata nel 1951 a Pomona (California), vive a Los Angeles. Si fa riferimento ad una installazione
in cui una bambola dal volto malefico sembra uscire dalla breccia di un muro che sta attraversando.
(7) Dosso Dossi (pseudonimo di Giovanni Luteri), celebre pittore ferrarese, nato nel 1490 circa, morto a Ferrara nel
1542, impegnato prevalentemente presso Alfonso d’Este, è stato autore di dipinti iconologicamente complessi, dai
cromatismi intensi di ascendenza veneziana e di ispirazione sapientemente visionaria.
(8) Felice Casorati, nato a Novara nel 1883 e morto a Torino nel 1963, pittore tra i maggiori del primo Novecento, a
partire dagli Anni Venti, influenzato dalla pittura metafisica, fu autore di dipinti formalmente molto rigorosi, definiti
formalmente attraverso un impianto prospettico di precisa derivazione rinascimentale.
(9) Otto Dix,pittore tedesco nato nel 1891, scomparso nel 1969, è uno dei maggiori esponenti della nuova oggettività.
Fu espressionista lucido e impietoso nel mettere a nudo figure e aspetti tragico-grotteschi della società berlinese degli
anni successivi al primo conflitto. Fu perseguitato dal nazismo come artista degenerato.
(10) Raffaello Baldini, poeta, nato a Santarcangelo di Romagna nel 1924, morto a Milano nel 2004. Di lui scrive Pier
Vincenzo Mengaldo (nella presentazione della raccolta Ad nòta, Milano, A. Mondadori, 1995): “Se non restasse ancora
vivo il pregiudizio pigro per il quale un poeta in dialetto è un ‘minore’, anche quando è maggiore, Raffaello Baldini
sarebbe considerato da tutti quello che è, uno dei tre o quattro poeti più importanti d’Italia”.
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Teatrino Clandestino
IL CONTINUO NASCERE E IL CONTINUO MORIRE IN NOME DELLA POESIA
Tutti sappiamo cos’è uno spettacolo, come tutti sappiamo cos’è una poesia; che cosa sia il poetico
ognuno intimamente può saperlo se non ha deciso di lasciar perdere quel sentire per poi dimenticarlo.
Occorrono tutta la vita, tutte le arti e tutto il pensiero libero ed aperto per creare uno spettacolo, che
pure appare avere un tempo, una forma e temi delimitati. Uno spettacolo può essere una particolare
trasposizione delle infinite espressioni della realtà, ma essendo la trasposizione anch’essa espressione di
realtà uno spettacolo è il risultato di una conversione alternativa del reale. Questa conversione possiamo
chiamarla anche drammaturgia.
Tenterò qui di dare gli elementi per individuare i luoghi della poesia negli spettacoli del Teatrino
Clandestino, tratterò l’argomento come se dovessi tracciare una fenomenologia di un teatro di poesia
senza approfondire le necessità costitutive degli spettacoli e il processo di costruzione della
drammaturgia.
Chi condivide quanto sia divertente la matematica capirà bene che la creazione di uno spettacolo è
l’occasione per ricercare tutti i possibili dati utili per il giusto calcolo che darà la risoluzione finale. Si
tratta di un calcolo immaginato, ancor più leggero del pensiero, o - come tanti dicono - che si colloca
prima del pensiero. Come il pensiero esso non conosce lo sforzo, ad esempio, che si compie
nell’articolazione delle parole per un discorso e questo suo essere anche prima del linguaggio gli
garantisce una imprevedibilità espressiva e formale.
Per meglio spiegare la qualità dell’immaginato bisogna specificare che esso non è rappresentazione di
nulla né tanto meno la ricomposizione dentro la mente di un’immagine rimbalzata dalle infinite proposte
bidimensionali ma piuttosto l’essenziale anelito della creazione che “coglie gli autori nella loro più pura
attualità”. Se nella trasposizione al concreto ci si attiene con cura all’immaginato difficilmente non si
arriverà ad un risultato autonomo. Esso si muoverà nel ragionamento, esisterà poi come spettacolo e in
alcuni casi potrà farsi concetto. Questa è quella parte di strada dove si saprà molto chiaramente il tema
dell’opera, dove si accenderà calda la discussione sulla forma - alimentata dall’incessante costruzione di
nuovi strumenti per il contenimento del contemporaneo che favoriscono l’arretramento di forme troppo
sfruttate - e dove le discipline dell’arte finalmente disattente alla definizione dei propri confini metteranno
a disposizione tutte le loro grammatiche e la loro storia. L’immaginato che si muove è il luogo dove si
ipotizza la presenza o l’assenza di una narrazione e - nel caso positivo - si cerca di individuare a quale
ambiente sociale è necessario fare riferimento nel racconto, quali sentimenti occorrono, quale stagione,
quali colori, quali costumi, quali parole, quale interpretazione. Ma non è qui necessario completare
l’elenco degli elementi costitutivi la drammaturgia, sarebbe pressoché infinito come per la vita.
Considerando l’affinità del poetico con le operazioni che nell’intimità della creazione sono prima di
qualsiasi forma espressiva o di linguaggio, nel percorso fin qui tracciato già appaiono gli indizi di una
presenza di poesia, come se l’anelito iniziale verso la composizione di uno spettacolo muovesse da un
originale poetico.
Permettetemi un imprudente inciso: penso a come si svolge l’inizio dell’esistenza, al fatto risaputo che
fino ad un certo punto dello sviluppo embrionale tutti gli esseri viventi sono simili. Abituata a pensare
ogni manifestazione del mondo anche come prototipo per la creazione artistica ho sempre sovrapposto la
poesia a questo modo della biologia; potrebbe essere – quindi - che solo per complicazione
grammaticale crescano vite-opere diversificate. A causa di questo sfuocamento scientifico io nutro e
patisco il dubbio che nell’arte l’unica discriminante disciplinare sia il poetico come elemento determinante
l’esistere o no di una qualsiasi opera.
La prima traccia di poesia individuata negli spettacoli del Teatrino Clandestino è dunque posta alla
sorgente della creazione. L’opera-studio Prima l’Immagine poi il Titolo, che ha preceduto lo spettacolo
Madre e Assassina, nel titolo indicava proprio questa sua mantenuta prossimità al poetico. Certa di essere
il primo passo mosso sulla terra di un immaginato drammaturgico, questa breve opera si poneva come
una verifica relativa alla efficacia di un dispositivo fantasmagorico; un dispositivo adatto per scarnificare
il personaggio principale (la madre che uccide i suoi figli) sottraendolo così alla sua rappresentazione
sociale più consueta: quella che lo vorrebbe come mostro.
Nello spettacolo Madre e Assassina ciò che era stato presentato in Prima l’Immagine poi il Titolo viene
precisato sia tecnicamente che narrativamente. Madre e Assassina narra una storia ed abitua il pubblico
ad una percezione alterata degli attori sulla scena: la fantasmagoria pone lo spettatore davanti ad
un’immagine digitale ma gli attori continueranno ad essere percepiti come reali. La scarnificazione in un
contesto narrativo lineare sottrae sicurezza percettiva allo spettatore creando così il clima giusto per far
precipitare la storia ed accadere la tragedia.
Ne La Bestemmiatrice, un altro studio precedente Madre e Assassina, l’infanticida dialoga prima con
Satana e poi con Gesù Cristo rifiutando ad entrambi la paternità del suo gesto, dichiarando di non aver
agito né in nome di uno né in nome dell’altro, negando così al mondo una rassicurante giustificazione.
Questo lavoro si concludeva con le stesse parole con le quali in Madre e Assassina Maddalena Sacer (la
madre assassina) si congeda dallo spettacolo. Sono versi recitati in platea a ridosso del pubblico senza il
124
filtro dello schermo. A questo ritorno della presenza in carne ed ossa dell’attrice il pubblico reagisce con
paura, in questa enfatizzata prossimità tra animali l’attenzione si moltiplica, si condensa, si potenzia. La
precisazione contestuale attraverso la narrazione, lo svolgersi della tragedia e lo scarto percettivo creano
l’attenzione idonea alla parte esperienziale più semplice dello spettacolo, la poesia, che alleggerita dal
carico della narrazione e della rappresentazione aleggia al di sopra della drammaturgia permettendo così
di chiudere con un’apertura:
Anche se cercassi di spiegare non potrei / la cosa è così com’è / è una voragine vuota / io non esisto /
questo gesto mi supera / davanti all’incomprensibile / davanti all’incomprensibile ecco dove siamo / sono
stata io a fare questo?/ dovrei dire perché? Spiegare / io tacerò non dirò nulla / solo una cosa non
sopporto più di ogni altra / che si debba fare poesia di tutto / proprio non lo posso sopportare / e ora me
ne andrò via lontano / lontanissimo.
Dopo la presentazione de Il Fantasma dentro la Macchina, in cui si era voluta rendere sulla scena
l’inquietudine che sorge quando ci si confronta con i risultati degli esperimenti di Stanley Milgram
sull’obbedienza all’autorità, si è sentita la mancanza di un luogo dove poter parlare di come ipotizzare
questi risultati come salvifici per l’umanità. Si trattava di un sentire molto vicino all’utopia, di un luogo in
cui con determinazione e leggerezza si voleva incitare alla ribellione, nel quale era necessario fare
emergere l’intimo sgomento per quelle terribili rivelazioni. Un luogo dunque dove il pensiero degli autori
potesse esprimersi nella sua complessità senza però aggiungere peso alla drammaturgia. “Qualcosa che
toccasse la profondità senza smuovere la superficie”. Risoluti nel dare ascolto a questo sentire gli autori
hanno nominato questa mancanza come mancanza di poesia e hanno creato L’Alba di un Torturatore. La
poesia diventa così la parte riservata agli autori, al loro pensiero, diventa la parte che li riguarda
personalmente. In scena sarà un’archeologa incinta, soggetta alla meraviglia, che dinnanzi a reperti di
genocidi e di altre violenze di esseri umani fatte ad altri esseri umani reciterà la sua incapacità di
comprenderne il senso perché capace invece di pensare le cose diversamente. Teneramente, con la cura
di una madre, tenterà un invito alla ribellione:
Ho difficoltà a comprendere / Non è una grotta / È uno spazio concreto / Vedo il fondo / Il visibile attorno
a me sembra riposare in se stesso / C’è una differenza di temperatura, di pressione, di tensione,
d’intensità / Memorizzatore partito! / Analizzatore partito! / Che meraviglia / Ho paura che le cose
reagiscano al mio avvicinarmi / Campionatura completata! / Sta scansionando, si è fermato, dà segnale
positivo! / Ho una paura animistica di toccare questi oggetti / Più che un futuro è un’alternativa, una vita
contemporanea alternativa / una sorta di atto inutile / Sto parlando di ciò che vedo non di ciò che capisco
/ Ancora / C’è una persona / Certi pensieri, certe emozioni non sono nuove / (Mi senti, riesco a farmi
sentire?) / Vedo e parlo di qualcosa fatto in modo differente / Appare come l’espressione di una strategia,
che si accanisce ad analizzare il mondo e l’universo e così resiste allo scuotere l’assetto del discorso e
conferma un’immutabilità / (Riesci a scegliere e a chiarire i contorni di questo oggetto?) / Segni e sensi si
alternano in un vissuto confuso. Mi sembra insignificante / L’analizzatore funziona correttamente! /
Controllo il memorizzatore! / Questa mia indagine archeologica con la sua preoccupazione per la
sopravvivenza e per la cura della vita non può neanche essere un invito alla ribellione, forse è solo il
problema di come porre ancora una volta questo invito/.
Quando mi predispongo all’interpretazione vivo in una super esistenza, cerco di comprendere il mio ritmo
vitale e di immaginare il ritmo di ciò che devo creare, cosciente che la materia con cui crea un attore è la
stessa di cui egli è composto intimamente. Quando questi ritmi sono entrambi intuiti allora li sovrappongo
e questo è il momento per cominciare a recitare, ma prima ritorno per un istante a quel dubbio che tutta
l’arte sia in primis poesia.
E tu caro Pietro cosa ne pensi?
“Cosa potrei aggiungere che non sia il ribadire e il sottoscrivere ciò che già tu esprimi? Solo forse (e mi
assumo il rischio di apparire la parte oscura di questa luna), che una visione a me altrettanto limpida,
necessaria e cara di quella da te descritta, è quella che anche in extremis tutta l’arte è poesia. Ovvero
che non solo nel provenire, ma anche nell’estremo finire tutto torna ad esser uguale e che l’opera d’arte,
qualunque essa sia, trova la sua verifica di essenza poetica nel trapassare, nel non più essere. Mi piace
qui ricordare come esempio perfetto di questo la Psyche pascoliana, quel O Psyche, Psyche dove sei, ma
in questo caso la poesia sta essendo traghettata da Caronte verso l’altra sponda e Pan la sta occultando
col suo velo e si rivela qui, come essenza appunto, di poesia nel suo essere in trapasso. E tu lo sai che
non a caso scegliemmo il teatro come nostro fare poetico privilegiato poiché in esso sono naturalmente
impliciti questi due estremi, il continuo nascere e il continuo morire in nome della poesia.
E in quella che tu chiami super esistenza io ho sempre colto quell’essere in estremo, quel soggiornare
sulla soglia che rende l’attore quel che deve essere, uno spettro, in cui inizio, fine e poesia sono al
contempo in vita.”
Fiorenza Menni
(Attrice, autrice e fondatrice insieme a Pietro Babina del Teatrino Clandestino)
Ringrazio Andrea Mochi Sismondi e Gaston Bachelard perché è a loro che mi sono appoggiata per
correggere e precisare.
125
Teatro del Lemming
NOTE A MARGINE SU L’EDIPO
Che cosa accade normalmente, da un punto di vista comunicativo, nella fruizione di un evento teatrale?
Sappiamo che gli aspetti cognitivi e gli aspetti emotivi dell’esperienza teatrale, così per come la
conosciamo dalla tragedia greca fino ad oggi, sono estremamente correlati. Seguo l’atto, lo comprendo e
per identificazione successiva ogni qual tanto provo dei cortocircuiti emotivi. Ciò accade perché assisto
alla rappresentazione di un evento oggettivato fuori di me. È la conseguenza, appunto, del patto
rappresentativo.
Posso finalmente piangere alla fine del quarto atto della “Bohème” per la morte di Mimì, proprio perché
conosco la vicenda e questa vicenda immaginaria non mi appartiene, ma, allo stesso tempo, è proprio
grazie a questa distanza che mi è possibile riandare alla mia soggettività. Posso permettermi di piangere
perché ciò che accade non è vero, è solo una rappresentazione, tutto è sotto controllo, la mia amata,
fortunatamente, mi aspetta ancora viva a casa. E d’altronde ognuno di noi ha sempre un’amata morta da
rimpiangere. Proviamo ad immaginare invece che cosa accadrebbe allo spettatore se fosse chiamato a
dissociare l’aspetto cognitivo da quello emotivo. Quando, in altre parole, l’aspetto drammatico a cui
assistiamo viene liberato da un qualunque contesto di riferimento, tanto da offrirsi non immediatamente
intelligibile, e che pure si ostina a far appello e a porsi seduttivamente al nostro inconscio, al nostro
immaginario. Un evento, insomma (rovesciando l’assioma precedente), che tenda a provocare
continuamente in me che assisto dei cortocircuiti emotivi, ma che solo qualche volta questi segni sono in
grado di apparirmi immediatamente comprensibili (e in modo quantitativamente e qualitativamente
diverso in rapporto alla mia soggettività). In questo caso la scena continuerà a porsi come uno specchio,
perché sono io spettatore ad essere chiamato direttamente in causa a dar senso all’evento, ma i suoi
riflessi mi appariranno così potenti che a me non resterà che una pericolosa adesione o un netto rifiuto.
Mimì poco prima di risvegliarsi per morire fra le braccia del suo amato, dorme. Immaginiamo di isolare
questo momento. E di mettere in scena il suo sogno senza preoccuparci di denunciare prima allo
spettatore che si tratta di quel sogno, di quella vicenda. A chi apparterà allora quel sogno frustrato?
O ancora: immaginiamo una donna nuda e grassa seduta sopra uno scranno cosparsa di miele. E che lo
spettacolo a cui assistiamo si chiami “Medea”. In questo caso saranno le mie capacità cognitive ad essere
chiamate in causa. Riconosco il mito e sono chiamato a decifrarne il simbolo. Ma se mi appare, come in
un sogno, una donna seduta sopra uno scranno nuda e grassa, cosparsa di miele, e non conosco nulla di
lei, e non ho nessun contesto di riferimento da oggettivare, allora di chi si farà figura quella donna se non
di me, e direttamente, senza nessuna mediazione, del mio immaginario?
In una scena del nostro Cinque Sassi il corpo di un attore barcolla pericolosamente portandosi dal fondo
verso il centro della scena, attorno a lui altri cinque attori, come elettroni impazziti, gli ruotano intorno
reiterando un grido: “Io! Io!”. Di chi si fa immagine quel fragile corpo che avanza? A chi fa appello quell’io
fratto se non all’io di ogni singolo spettatore?
Da questo punto di vista la scena diventa davvero lo specchio in cui si infrange la soggettività dello
sguardo e della nostra presenza. Fra l’io dell’attore e l’io dello spettatore esiste una suggestiva
coincidenza. In un teatro senza personaggi e in cui la vicenda resti impronunciata e sottesa, può darsi,
quando non giunga il rifiuto, una assai temibile adesione.
È la struttura morfologica di questo evento a proporre il rovesciamento del rapporto comunicativo.
Alla struttura sintatticamente lineare del discorso rappresentativo si contrappone qui una struttura
paratattica: frammenti in sé conclusi e giustapposti a confermare il disegno complessivo.
Come per ogni singola cellula del mio corpo, che in sé ha natura propria e che pure contiene l’intero mio
essere: io sono in ogni mia cellula.
Esattamente come nei sogni che si danno per frammentazione appunto, e il cui senso è rintracciabile non
solo nel loro insieme ma anche in ogni loro singola parte costitutiva.
È spazio poetico. E quando parliamo di Teatro di Poesia intendiamo esattamente questo: cioè del modo
di organizzare i segni all’interno dell’architettura drammatica. La parola poetica è in sé persuasa, è
costruzione di mondo, è realtà concreta. Essa riverbera in noi più profondamente di qualunque
comprensione logica, perché non è alla nostra logica che si rivolge ma ad una assai più fonda profondità
di coscienza. E anche qui ciò è reso possibile dalla costruzione non lineare ma allusiva, paratattica del
discorso poetico. Come nel frontone occidentale del tempio di Aphaia a Egina: il tempo del teatro non è
solo diacronico quanto piuttosto sincronico, ogni sua parte isolata ha valore in sé e insieme è parte del
tutto.
A questo depistamento cognitivo (a cui concorre la scelta di un unico tema sotteso – che ha rilevanza
archetipale ma che non è mai palesemente denunciato - l’assenza di personaggi oggettivabili,
l’utilizzazione di una struttura a blocchi di frammenti giustapposti), si aggiunge lo spaesamento prodotto
dalla complessità dei segni da cui è costituita ogni singola parte. Ogni frammento riproduce, infatti, la
natura frattale del discorso complessivo. Parole, corpi, luci, suoni… Tutto ciò a rafforzare ma anche a
contraddire, a moltiplicare ma anche a sottrarre il senso, che perde così il suo statuto univoco nel
riverberare dei codici. Questo bombardamento di segni produce in chi guarda (così come accade appunto
126
nel discorso poetico) una sorta di accecamento, una con-fusione. CON-FUSIONE cioè FUSIONE-CON,
che mi chiama in causa senza nessuna mediazione possibile. Tutto ciò produce un rovesciamento
percettivo. Ora io non ho più, come accade nella rappresentazione, il dominio dello sguardo, non sono più
protetto da questa distanza: il discorso poetico e l’avvolgimento sensoriale mi fanno precipitare qui
dentro l’evento: sono così costretto alla fuga oppure ad un’assunzione di responsabilità. Poiché sono tutti
i miei sensi, in qualche modo, ad essere sollecitati e travolti.
Alle origini il Teatro è questo. Ed è singolare vedere come sia possibile far coincidere questa tensione, che
sta alla base delle utopie di tanto teatro novecentesco, con quella che possiamo supporre stia all’origine
del teatro prima della nascita della tragedia: i riti misterici, sacrali, iniziatici, in cui esiste una differenza
sottile fra officiante e fedele, entrambi fusi nell’evento.
Questa nostra ricerca, cominciata in qualche modo già con i nostri primi lavori, ha trovato soprattutto nei
più recenti Cinque Sassi e Il Galileo delle Api un ulteriore approfondimento. Ma se in Cinque Sassi era
quasi facilmente possibile rintracciare il filo di un disegno complessivo – l’irricomponibilità dell’infanzia –
così che ai frammenti giustapposti poteva venire ancora frapposta la distanza dello sguardo, ne Il Galileo
delle Api questo depistamento cognitivo veniva portato alle estreme conseguenze, e cominciava già dal
titolo: poiché non c’è traccia di nessun Galileo in scena. E lo stesso tema del lavoro, che è quello della
disintegrazione di un io di fronte ad un lutto, veniva del tutto sotteso, così che lo spettatore veniva
lasciato, proprio come davanti ad uno specchio o in un sogno, al percorso della propria personale
lacerazione.
Di fronte a questo tipo di evento, è importante sottolinearlo, lo spettatore tende spesso a porre un netto
rifiuto.
Proprio per questo l’ultimo nostro lavoro, EDIPO – Tragedia dei sensi per uno spettatore, si
preoccupa di scardinare ogni possibile difesa dello spettatore, per quanto messa in atto inconsciamente.
Non ci interessa in questo caso sottolineare il capovolgimento del rapporto attore-spettatore, visto che
colui che si ritrova a incarnare Edipo sarà proprio lo spettatore e ad essere testimoni della sua tragedia
saranno gli attori. Quanto rimarcare l’atto di fusione, direi meglio, di dispersione nell’evento che questa
esperienza provoca quasi inevitabilmente.
Durante questo lavoro io mi ritrovo bendato, la mia percezione è dilatata, così che il mio sguardo è rivolto
necessariamente all’interno di me. Qui non mi è più possibile sottrarmi all’evento a meno di una
clamorosa ammissione di personale inadeguatezza. Ed è proprio perché le mie capacità cognitive durante
l’evento tendono ad azzerarsi che sono spinto ad oltrepassare lo specchio. Non sto osservando un evento,
non mi limito ad esserne in qualche modo partecipe. Lo vivo.
Massimo Munaro
Rovigo 1997
IL TEATRO COME NEKYIA
Potrebbe sembrare – ad una reazione immediata – che NEKYIA suggerisca per noi, in qualche modo,
una fuoruscita dal Teatro.
Se Inferno, pur nella sua estrema radicalità d’impatto per lo spettatore, sembra ancora appellarsi,
denunciandola, ad una qualche forma di rappresentazione, il successivo passaggio al Purgatorio e poi al
Paradiso sembrano consegnarci ad una dimensione del tutto esperienziale.
Ma, come si sa, l’esperienza teatrale è tale proprio perché contiene in sé sia un dato di realtà sia un
dato rappresentativo. Un attore compie sempre in scena una concreta azione fisica, per esempio stringe
fra le mani un drappo rosso, ma contemporaneamente questa azione fisica riesce sempre a rimandare a
qualcosa d’altro. A teatro un drappo dovrebbe poter riuscire ad evocare qualunque cosa senza però
perdere quella sua particolare – direi materica – consistenza. Da questo punto di vista non c’è differenza
fra le tre parti di cui si costituisce la nostra Opera - che deve essere considerata nella sua complessità
unitaria. Perché persino i corpi degli spettatori toccati da altri spettatori, nel contesto del Paradiso,
accanto all’irriducibile e sconcertante dato di realtà, diventano pienamente dei corpi metaforici, evocano,
in altre parole, altri corpi, altre anime, altre presenze.
Non c’è dubbio però che proprio qui si compie un ulteriore passo nello sviluppo di una diversa relazione
con lo spettatore teatrale avviata da noi con la Tetralogia: dalla passività iniziale, drammaturgicamente
fondata in Inferno, egli è chiamato qui alla conquista di una progressiva assunzione di responsabilità. In
questa sorta di A Colono collettiva lo spettatore arriva nel Paradiso a potersi liberamente ricollocare,
come pienamente inscritto dentro l’Opera. Come uno stalker (una guida) l’attore conduce infatti lo
spettatore alla soglia di una libertà possibile. La drammaturgia del Paradiso non poteva prescindere per
noi dal lasciare lo spettatore a questa sorta di apertura e di sospensione (almeno apparente) da una
partitura. Lo spettatore, come un personaggio dello Stalker di Tarkovskij, si trova come sulla soglia di
una stanza dove la sua felicità personale può realizzarsi: sta a lui decidere di entrare, sta a lui trovare il
suo posto, il suo modo di stare, una sua possibile ascesi o il suo fallimento.
È qui che il Teatro sembra dissolversi nel Rito.
127
Ma, d’altra parte, se, come cerchiamo di testimoniare in Inferno, la nostra società è davvero diventata
una “società dello spettacolo”, invadendo qualunque espressione sociale, il compito del Teatro, a noi
pare, è diventato quello di affermare per sé uno statuto non spettacolare, poiché questa è l’unica via
onorevole, forse l’ultima possibile, per giustificare la propria esistenza. Riportare così il teatro ad una
dimensione rituale, da cui pure esso sgorga originariamente, significa affermare oggi la sua funzione e la
sua necessità. Da questo punto di vista il teatro – da tempo – dovrebbe essere considerato non più luogo
della finzione – che lasciamo volentieri all’infera spettacolarità diffusa – ma come luogo della rivelazione
(Theatron, appunto), dovrebbe essere cioè in grado di costituirsi come regno dell’Anti-finzione. In altre
parole: o il Teatro è in grado di proporsi come momento di Verità per una comunità di attori e spettatori
considerati nella loro singolarità personale – perché, come ha scritto Gabriel Marcel, “non vi è autentica
profondità che quando può realmente effettuarsi una comunicazione umana e una tale comunicazione
non può darsi in mezzo alla massa” – o il teatro non ha più alcuna ragione di esistere.
Ecco allora che il Teatro, ancora oggi, può proporsi nella sua esperienza, insieme concreta e simbolica,
come una nekyia, costituendosi cioè come un Rito di vita, per attori e spettatori, di attraversamento, di
morte e rinascita, che è poi ciò che da sempre costituisce il senso della sua permanenza fra gli umani e
della sua attualità per noi.
Ecco così che la nostra Nekyia è pensata anche come omaggio e fiducia e amore verso il Teatro e verso
le sue possibilità ancora inesplorate.
Massimo Munaro
Rovigo 2007
128
Teatro del Lemming
INTORNO AL “TEATRO DEL LEMMING”
Sono passati vent’anni, a cavallo di due secoli, dalla nascita di questa singolare esperienza
drammaturgica, definitasi “Teatro del Lemming”, esperienza che ha saputo diventare, man mano ma con
continuità, patrimonio non solo di sé stesso, ma anche di una comunità, grande o piccola che sia non
importa.
Per questo motivo la sola cosa che escluderei è che sia già giunto il momento di un bilancio, non perché
non sia stato un tempo sufficientemente lungo e pienamente vissuto, ma perché credo che quella del
“Lemming” sia una esperienza, fortunatamente, ancora in farsi, in evoluzione e che, forse, rifiuta ancora
di fare bilanci su sé stessa.
In effetti è una esperienza, una vicenda direi, che ha aperto e avviato molti discorsi, attivato molte
suggestioni, ma non credo abbia ancora voglia di conchiuderle o di interromperle; almeno questo
sinceramente mi auguro.
Ma se proprio devo chiedermi, in questa sede e per l’invito cortesemente fattomi, cosa, di più
significativo, di più fecondo il mio avvicinarmi a questa esperienza mi ha procurato, e se proprio devo
darmi una risposta da critico, da studiosa o da semplice spettatrice, comincerò col cercare di verificare
qui alcuni elementi che mi paiono essenziali nell’attività di Massimo Munaro e del Teatro del Lemming.
Anzitutto il segno di una profonda coerenza rispetto alle iniziali intenzioni, ai primi intendimenti che
portarono alla sua fondazione, coerenza che, peraltro, non è stata mai a rischio di diventare riproposizione sterile o accademia.
Tali intenzioni, dunque sempre confermate, paiono avere le loro radici nella ricerca, man mano elaborata
e sempre più consapevole, dell’essenza materica, direi fisica, della presenza in scena, quindi del teatro in
quanto manifestazione e rappresentazione.
È una ricerca che parte innanzitutto e si fonda sulla scelta di riempire la scena, non con scenografie o
trame di simboli più o meno suggestivi ed allusivi, ma direttamente con i corpi degli attori, da principio
quasi affastellati nell’angusto spazio della scena tradizionale.
Poi, l’inevitabile rottura di quello spazio angusto e l’esondazione del teatro verso i luoghi della comunità,
ed il riempire quegli spazi ancora con i corpi degli attori e con questi attaccare, in un certo senso, la
stessa fisicità degli spettatori, sfruttando e insieme sfidando le capacità sensoriali di questi, è stata,
credo, l’ulteriore tappa del viaggio del Lemming.
In questo contesto, l’immergersi nel mito, e in generale il suo confrontarsi con testi e soggetti di grande
forza (da Omero a Dante), è stata la chiave per penetrare ed immergersi nel corpo simbolico dello
spettatore ed il cavallo di Troia per giungere forse al suo stesso corpo fisico.
Mi piace a questo riguardo qui citare le parole, che condivido, di Franco Vazzoler e Marco Berisso, dal loro
Teatro del Lemming(1):
“Il profumo di borotalco, e il sapore di una mela, il soffio di un alito che sa di grappa, il contatto intimo e
prolungato con i corpi degli attori. E poi essere bendato per più della metà dello spettacolo; e agire in
queste condizioni, insieme agli attori…..sono sensazioni raramente provate a teatro, dove, dei cinque
sensi, di solito si mettono in funzione soltanto la vista e l’udito, e col tatto ci si limita a distinguere la
sensazione che dà il velluto della poltrona o la scomodità delle panche; l’olfatto è colpito soltanto
dall’odore di polvere o da qualche pezzo di plastica surriscaldata dai proiettori; e il gusto è quello della
caramella che si tiene in bocca per contrastare la noia, o quello che rimane del caffè bevuto nell’intervallo
per restare svegli.”
Non è questa l’occasione, il tempo lo impedisce, per ricordare le singole e numerose drammaturgie del
Lemming, la sua teatrografia come si usa dire, ma sta di fatto che queste mie brevi righe sono
accompagnate, fin dentro di me, dalla suggestione che alcune di tali opere ancora suscitano.
A partire, e per fermarmi, dall’ultima, Nekia viaggio per mare di notte, vista, anzi direi vissuta, qui l’anno
scorso e che chiudeva il passaggio dal mito greco a quello dantesco.
Sotto la metafora del viaggio, di cui in quest’ultima pièce la narrazione dantesca è potente
rappresentazione, si favorisce dunque, si stimola e si porta a compimento una trasformazione che va da
un lato a riguardare il piano personale, psicologico e soggettivo dello spettatore, significativo al riguardo il
simbolico denudarsi cui si è invitati per indossare la candida veste più adatta al rito, ma dall’altro va
anche ad inerire il suo ruolo, la sua funzione per così dire pubblica (all’interno del rito stesso) e collettiva,
di cui è fine e testimonianza la sua progressiva, spontanea integrazione nel procedimento
drammaturgico.
È stato in effetti, quest’ultimo periodo, un periodo di grande lavoro per Munaro e i suoi attori e, per noi,
di interessanti scoperte e stimoli.
Tra questi ultimi, e mi avvio a concludere, è essenziale ricordare quel vero e proprio ribaltamento di
prospettiva che è l’idea del “Teatro dello spettatore”.
È dunque il “Teatro dello spettatore” il passaggio attuale di un percorso che si è evoluto senza mai
tradirsi, che a partire dalla condivisione tra attori e pubblico delle più diverse ed intense esperienze
sensoriali, attraverso l’interazione tra i corpi, e tra i corpi e gli oggetti, ha teso alla trasfigurazione del
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segno letterario, della parola in genere e anche della parola scenica in segno corporeo e sensoriale in cui
transitano simboli e miti esistenziali.
La crudeltà del teatro (nel senso più sinceramente e profondamente artaudiano) è diventata con il
Lemming grammatica e sintassi della rappresentazione.
Segue naturale, così, il ribaltamento della prospettiva che fa dello spettatore non più il passivo fruitore
della drammaturgia, bensì il motore della rappresentazione, non solo fine ma anche scaturigine
dell’azione scenica.
Tradizionalmente tutte le attività sceniche sono apparse generalmente, e sono state vissute in una tal
maniera finora condivisa, considerare ed intendere lo spettatore come una sorta di specchio in cui
verificare l’efficacia della propria modalità e intenzionalità creativa, attivate sulla scena.
È a questo punto che si inserisce l’intuizione o la provocazione di Massimo Munaro, il “Teatro dello
Spettatore” appunto, e vi si inserisce attraverso l’iniziale e propedeutica presa d’atto che la crisi del
teatro contemporaneo italiano è innanzitutto una crisi di committenza, come già presagiva Edoardo
Sanguineti.
È per reagire e contrastare questa crisi, non di creatività, non di domanda di teatro, ma di committenza,
cioè di capacità di elaborare in maniera corretta ed adeguata questa stessa domanda di teatro, che
sembra essere divenuto necessario modificare, per quanto si può, i termini tradizionali di questa catena,
creativa e anche produttiva, che è il teatro.
Il “Teatro dello Spettatore” vuole dunque essere, penso, una risposta alla crisi della committenza, e lo
vuole essere in maniera innovativa, in quanto pare mirare al ribaltamento delle priorità e della
circolazione degli stimoli nel circuito teatrale, attraverso il coinvolgimento diretto, una sorta di
incorporazione appunto, dello spettatore.
Lo spettatore dunque che non più vissuto come terminale di un processo lineare, ma piuttosto come
elemento di una circolazione di energie che da lui partono e a lui ritornano, ricaricandosi come in una
dinamo.
Lo spettatore, dunque, deve essere coinvolto nel processo creativo, sia nel momento della sua
elaborazione, che non può prescindere dal considerare in relazione a sé, attore, la posizione di lui,
spettatore, sia nel momento della sua realizzazione scenica, durante la quale viene invitato ad
abbandonare ogni passività per contribuire alla rappresentazione, appunto, come suo motore al fianco e
alla pari degli attori.
Così lo spettatore diventa contemporaneamente anche, e con un significato nuovo, il committente del
lavoro drammaturgico, poiché è inteso non solo come recettore della creazione ma come portatore di
domande, esigenze e richieste cui il teatro è chiamato a dare risposte.
Come in una sorta di democrazia diretta, assembleare, e per questo purtroppo spesso numericamente
molto limitata nel suo farsi concreto, le domande della comunità al teatro, fondamento della
drammaturgia sin dalla sua alba in Grecia, non potendo o non riuscendo più ad essere elaborate
collettivamente e con delega, vengono portate direttamente dentro la drammaturgia dal singolo
spettatore o da sue micro-comunità.
Il teatro come a noi tutti noto vive un momento di semi oscuramento, la sua voce per così dire si perde
nel clamore dei media contemporanei, pertanto voglio ancora una volta augurare a Munaro e al Lemming,
ed al teatro di ricerca, anzi al teatro in generale, la forza per continuare a pronunciare parole efficaci.
Maria Dolores Pesce
[Intervento tenuto in occasione dell’incontro pubbico: VENTI ANNI DI LEMMING Incontro Pubblico Rovigo,
8 dicembre 2008 – Museo dei Grandi Fiumi]
Note.
(1) M.Berisso F.Vazzoler, Teatro del Lemming,Editrice Zona, Rapallo, 2001, p. 67
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Poeti e scrittori
131
IL PROCESSO DI TRASPOSIZIONE DE
DRAMMATURGIA.
(uno spettacolo teatrale costruito come un film)
L’OPPOSTA
RIVA
DA
SILLOGE
POETICA
A
La poesia è il teatro del pensiero.
È ciò che ho sempre pensato ed è forse questa la ragione per cui ad un certo punto ho iniziato ad
occuparmi anche di teatro portando avanti le due discipline – poesie e teatro – ma tenendole equidistanti,
separate.
È con l’invito ricevuto nel 2006 da Franco Costantini di recarmi a Ravenna per la rassegna Mosaico di
notte e presentare il mio libro di poesie L’opposta riva che ho supposto la possibilità di unire le due
polarità, fondendole.
Franco si era reso disponibile ad un recitato (è un fine dicitore e lavora spesso oltre che per il teatro
anche per la televisione) e stava muovendo i primi passi nel progetto Elebab (babele, scritto al contrario),
progetto che vede il Comune di Ravenna, una Associazione di volontari e lo stesso Franco Costantini
muoversi per l’integrazione degli stranieri residenti nella città di Ravenna e comuni limitrofi grazie all’uso
della poesia e del teatro. In attesa che il progetto prendesse il via, proprio Franco ha lanciato l’idea di una
“anteprima”, una lettura tratta dal mio libro per uno spettacolo che si chiamerà poi Aspettando Elebab.
Io non avevo bene in mente come o cosa avrei potuto fare per non presentare al pubblico il solito
reading, leggermente asettico, distante, se vogliamo anche scontato.
Mi sono confrontato con Franco che ha confermato la mia totale libertà d’azione. Gli ho proposto di
scrivere appositamente un testo tratto dal libro, dove il confine tra poesia pura - per come è espressa nel
libro - e recitato teatrale, fossero adiacenti.
La mia idea era un qualcosa, ma formulare un’idea è diverso dall’avere del materiale in mano, utilizzabile,
se non addirittura un prodotto finito.
Ho però iniziato a disfare quanto fatto nel libro e per il libro, per immaginare altro.
Gli spunti successivi sono stati molteplici. Il libro è composto come una Spoon River dei vivi: ogni pagina
è una poesia, ogni poesia è un racconto, ogni racconto è una voce. Le sento ancora le decine e decine di
voci che mi assediano, le storie di centinaia di persone che ho incontrato, che si sono rese disponibili
acchè il libro trovasse adesso la forma che ha.
Ma come mettere in accordo decine di voci e la possibilità di esporre la loro storia su un piccolo palco?
Ipotizzare la presenza di più attori non era pensabile e comunque avrebbe generato altre problematiche:
una regia prima di tutto, il coordinare più persone in movimento nel medesimo spazio nel medesimo
tempo e questo avrebbe richiesto tempo ed una costruzione per cui tempo non c’era...
E una storia sopratutto. Come coordinare più persone per una storia che prevede una arco di tempo
molto lungo? Il libro è suddiviso in tre sezioni, il prima che è poi il tempo prima dell’esilio, della fuga. È il
tempo del conflitto, della disgregazione della propria terra.
Il durante, che è il tempo del viaggio, dell’attraversamento di terre per arrivare alla riva da cui salperà
quel mezzo, quella nave che li porterà al di là, forse salvi. È il tempo del rischio e della scommessa, il
tempo della moneta gettata all’aria e dell’incognita...
Ed il dopo che è il tempo che i Clandestini vivono da noi, dopo il viaggio, dopo aver lasciato la famiglia, la
terra, le abitudini, dopo aver rischiato la vita per avere la vita, dopo aver camminato, viaggiato con mezzi
di fortuna, dopo aver trovato un approdo, dopo aver risalito la penisola per trapiantare qui e là, rendersi
invisibili per non toccare né le leggi che governano il nostro paese, né l’attenzione che loro rivolgiamo con
disgusto e fastidio.
Come rendere anche, la mia presenza all’interno di questi racconti, quella presenza che mi ha visto vivere
nelle più diverse condizioni per quasi tre anni, tempo che ho speso per ascoltare, vedere, cercare di
capire.
Troppi i piani narrativi che prevedono non la lettura di un testo dove i piani possono sovrapporre, ma una
fisicità materiale, uno spazio, un palco.
Un primo spunto, ma era ancora una volta soltanto un accenno, era dato dal come avevo costruito il
libro, il mio laboratorio poetico, se vogliamo. La composizione, come detto, è avvenuta con una trama:
ho immaginato la vita di UNA persona con la massima ampiezza di fatti e poi l’ho moltiplicata cercando
delle varianti. Il libro è stato poi assemblato cercando di mantenere una voce unica, come fosse un
Grande Padre parlante.
Durante la stesura ho lavorato immergendomi nelle immagini: un proiettore “sparava”sul muro di fronte
alla scrivania immagini riferite alle prime due sezioni: della guerra e dei massacri per la prima, del
viaggio per mare, dei naufragi, dei morti per affondamento per la seconda (qui c’è stato un lungo lavoro
preparatorio via Internet e a mezzo di conoscenze che hanno attinto a documenti conservati nelle
biblioteche), mentre per la terza ho optato un CD musicale di rumori: un amico musicista mi ha
“costruito-assemblato” un CD con rumori di fabbriche, officine, città, cena, traffico, rumori di bus e
metropolitane, passi, voci (quindi del parlato) e via dicendo che assemblati in random venivano sparati a
tutto volume tenendo in sottofondo altri due CD di musiche “tipiche” dei luoghi di presunta provenienza
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(Marocco e Pakistan, Costa d’Avorio e Balcani etc…). Questa confusione totale, questa immersione caotica
e straniante mi ha aiutato nel ricomporre i quadri situazionali, a riportarmi all’idea di meticciato culturale
che vede attori di diverse nazionalità condividere il nostro spazio. Le sovrapposizioni sono servite a
ritornare a quella stratificazione che avevo vissuto di persona. Infine, di fianco alla scrivania era posta
una grande lavagna piena di post-it e su ognuno era posto il nome di una persona incontrata. Guardarne
il nome riportava in vita un fatto, un episodio specifico e questo ha aiutato nella composizione finale,
dove le voci non sovrappongono mai, restano distinte, uniche, ognuna a raccontare una cosa, una vita.
Un secondo spunto è arrivato da un lungo scritto che avevo approntato - su invito - per la rivista
PaginaZero, scritto che ancora non aveva trovato spazio e che conservavo. Mi erano state richieste
25.000 battute per raccontare la mia “esperienza di vita” che ha portato alla scrittura del libro. Era un
articolo che partiva dall’idea di scrivere e che andava raccontando – in forma di prosa – le casistiche di
persone che avevo incontrato, una sorta di articolo vero e proprio se vogliamo, con dati statistici
sull’immigrazione, la mia esperienza mischiata allo stato di fatto delle leggi, il come e dove vivono,
l’interventismo o passività degli enti pubblici e privati che operano nel campo dell’immigrazione e via
continuando, tra situazione geopolitica e situazioni personali.
Ho cominciato ad avere qualcosa in chiaro soltanto quando – in non so quale occasione – ho sentito la
tanto famosa frase “se fossi nei tuoi panni”. Luogo comune, certo, ma luogo esatto!
Dovevo portare il pubblico nei panni e in quegli stessi panni – oltre che il pubblico - dovevamo esserci sia
Franco che io. Utilizziamo il plurale mi dico. Utilizziamo una forma che noi tutti includa. Se per il libro la
voce usata era il libero-indiretto, per lo spettacolo ribaltiamo tutto e diventiamo il testo.
Il punto non avrebbe dovuto essere ascolta.
Il punto era vivi con me.
Perché tutto funzionasse ho pensato di applicare delle tecniche proprie del cinema:
l’articolo per PaginaZero era comunque un buon punto di partenza. Ho iniziato a sforbiciare quanto
poteva occorrermi, mantenendone dei passaggi, con un lavoro di conversione e decoupage che
rimandasse inalterato il senso, che utilizzasse non più un linguaggio didascalico ma diventasse un parlato.
Andava preso il tempo e lo spazio del presente perché divenissero un mondo parallelo: un presente
trasposto.
Ho scomposto poi il libro - già diviso in tre sezioni portanti - in differenti sottosezioni, ognuna riferita ad
un preciso contesto/situazione.
Questa fase è stata l’adattamento.
Ho poi ipotizzato un testo in cui ci fossero solo due parti recitate nette e ben divise ma dovevano essere
ognuna il complemento dell’altra. Una, di prosa e l’altra fatta di poesie.
Questa fase è la cadenza.
Successivamente ho pensato ad una storyboard fatta da due sguardi: quello in prosa doveva essere un
pianosequenza, uno sguardo generale, un campo lungo che abbracciasse tanto la massa di persone che la
vicenda del singolo, ma sempre mantenendo l’orizzonte vasto, aperto, una coscienza non solo del vissuto
personale ma della comunione con le storie di altri..
Questa sarebbe stata l’inquadratura in oggettiva.
La poesia invece sarebbe stata la soggettiva, il framespot, lo zoom, il flash sulla vicissitudine personale,
la voce del singolo che ti racconta in presa diretta il sentimento in quell’esatto momento, la storia nel
momento spicciolo in cui accade, storia non inglobata nel campo lungo, la personalizzazione, il vestire i
panni.
Gli intervalli tra l’una e l’altra sarebbero stati la dissolvenza, acuita (o sottolineata) da uno stacco
musicale per mezzo delle percussioni che spesso fornivano un tappeto continuo, con minime variazioni di
tono, una sorta di battito cardiaco che ritmasse l’incedere della narrazione.
L’identità dei due recitati dovevano però risultare coesa. Franco ed io abbiamo provato l’intonazione, lo
stacco da un parlato all’altro, la cadenza ed il ritmo. Si sono cambiati alcuni vocaboli nel recitato di prosa,
troppo ostici e poco sonori su suggerimento di Franco, si è calibrato il tempo totale dello spettacolo
perché non risultasse troppo generoso, cosa che di norma porta ad un allontanamento dell’attenzione.
Abbiamo fatto il soundcheck proprio come si usa nei concerti di musica: le due emissioni sonore dai
microfoni dovevano essere eguali in relazione al tono vocale dei singoli. Medesima cosa per il tappeto
musicale.
Mi sono vestito con un abito che richiamasse un'altra persona: smessi i vestiti occidentali, ho indossato
gli abiti dello straniero che avrebbero avuto di fronte, che avrebbero sentito parlare. Ho ritenuto che non
bastasse la sola voce, ma che anche l’occhio avrebbe dovuto essere coinvolto perché la vista è un senso
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primo ed è quello cui affidiamo con più immediatezza la comprensione e vedere qualcosa di diverso
avrebbe incanalato oltre che l’attenzione, anche la curiosità.
Alle 21 siamo saliti sul palco, la piazza era gremita. La gente seduta all’aperto in una sera d’estate
ravennate è stata portata per mano verso tutt’altro luogo, dentro un altro mondo. Al terminare della
recitazione è seguito un lungo momento di silenzio e solo dopo sono arrivati gli applausi. Sono sceso dal
palco (Franco è rimasto, per procedere con la seconda parte della serata, con una lettura di Tahar Lamri
ove si sarebbero alternate letture in arabo ed italiano).
A terra mi sono accorto che la gente non aveva assistito ad un reading, ma ad un vero e proprio
spettacolo e che qualcosa era rimasto. Non l’abisso della parola che svanisce dopo la pronuncia, ma
qualcosa d’altro, un qualcosa era stato metabolizzato. Ero entrato dentro la pelle, ero rimasto
nell’attenzione.
La doppia voce – anche se ora, nelle letture, sono solo – è rimasta. Affronto ogni reading come una
riduzione dello spettacolo: parlare del dietro le quinte dei testi aiuta l’ascoltatore/pubblico a entrare in
una diversa dimensione, a creare quell’empatia che traghetta dentro il significato.
Ho l’illusione di portare chi ascolta su un’opposta riva.
Fabiano Alborghetti
[Apettando Elebab
Prima rappresentazione: 24 agosto 2006, Ravenna, rassegna Mosaico di Notte
Voci recitanti: Fabiano Alborghetti e Franco Costantini.
Percussioni: Tahar Lamri e Maurizio Asero.]
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NUDO DI GILDA
[la tragedia corre sul Lògos]
«Cessate, o poeti, il vostro teorizzare,
i contrasti furon da sempre insoluti;
con un piede metrico e l’altro in corpus,
mai furon costanti gli allori.
Dunque cessate, più non cavillate
e lasciate sentir chi lo fa;
e siate uniti e le diatribe mutate
in un vario trallallerollelollà.
Non cantate più strofe accaniti
non più canzoni trite pien di gara
i contrasti furon da sempre insoluti,
dacché la prima pietra mise verbo.
Dunque cessate, più non cavillate
e lasciate sentir chi lo fa;
e siate uniti e le diatribe mutate
in un vario trallallerollelollà»
[W.Shakespeare, Molto rumore per nulla, liberamente tradotto e – (re) interpretato]
***
C’era una volta il totale.
L’interazione artistica – per l’azione scenica. Poi la svolta: il bivo e sia scelta! – verso e palco avviano le
pratiche di divorzio. Attori e pièce da una parte, poeti e reading dall’altra. E il ring – da anello di fede, si
quadra: si depone la logica dell’insieme [con tanti saluti alla perfezione – performativa del cerchio, si
instaura l’oligarchia della cerchia]. E l’incontro si ribalta: è scontro. Corpus a corpo, chi cita e chi recita:
una riga netta. E si taglia fuori il drammaturgo. Esiste ancora? Resiste? Chi scrive cosa? Chi scrive per
chi? Perché? L’ansia da “definizione” ha infestato i campi e si recinta la libertà di spaziare. E chi
contamina? Al bando: niente giunture. E si scinde: la parola poetica e il teatro di parola.
La mia è una nota polemica, forse troppo acuta, ma la pratica dilaga: troppa teoria e poca aria
all’apertura mentale. Il De Profundis per i grandi del Passato [prossimo/remoto] dovrebbe amplificare il
frastuono della luce e non spegnere ogni fuoco – perché vano e fatuo “al confronto”. Accadiamo nel dopo
e il bagaglio culturale dovrebbe essere dote a sostenere, non peso a frenare. Si lamentano vuoto e
povertà nel conflitto di – lemma che rende il singolo un’isola [ben attenta: conoscere tutte le correnti e
non muoversi!].
Uno per tutti, il padre di tutti: Shakespeare. Non era Poesia – più che Poeta? E il suo teatro, rimane il
Teatro. L’aspirazione continua – verso un tale grado di eternità – sarà continuamente infranta, se non si
accetta e non si opera nel presente [donarsi costante]. Finché ci rapporteremo ai Glenn Gould, saremo
[brutte] copie Wertheimer: soccombenti.
È l’effettivo a sconfiggere l’effimero, sono gli autori viventi [i morti li abbiamo già tutti presi e ripresi] che
possono, dove si eserciti una reale volontà, riunire le p’arti.
***
Le poesie di Vivien Leigh. Canzoniere apocrifo [Marietti Editore, 2005] di Massimo Morasso [Genova,
1964], ne sono exemplum: l’autore, con abile artificio narrativo, lascia fraintendere siano le traduzioni di
originali ritrovati. Finzione nella finzione letteraria, con l’unica funzione: scenica.
E diffusione: scripta manent – circoscritte alla lettura privata – e verba volant – riflesso immediato del
timpano e dell’orecchio interno.
Il Canzoniere è solo una delle membra che sorreggono e investono l’ organico, interamente con –
centrato sulla figura dell’attrice di Gone with the Wind: versi, racconti, fanta-biografia interiore, et cetera
et altera…
Morasso piega il termine in tutte le sue accezioni – nel segno unico della resa, a più livelli. Ogni textus
confluisce nella trama di un copione: il baule di Viv. E il prodotto finisce al mercato – nella pubblica piazza
che valuta l’ibrido. Non più “poesia pura” – non solo “mera prosa”.
Declamare una strofa nel colore dell’ intenzione cambia la volontà autoriale? Toglie e falsa la verità del
testo? Lo spartito metrico esige il monocorde – più atono/acromo riproducibile? La lectura Dantis di
Carmelo Bene può confermare il contrario. Pur si può obiettare che non è più Commedia, ma Dramma.
Muta la sostanza?
Inutile cercare un capro per caricare e scaricare colpe: la tragedia corre – sul filo del Lògos, privato del
rosso, esangue, esente dal vivo della trasmissione.
135
***
L’accento non è forse nota? Privilegiare il senario o l’endecasillabo – non equivale a preferire i giri in
minore?
L’eco [che si perpetua] dipende dalle casse di risonanza, ma la musica è mutata [mutandis?]: in Italia la
poesia non ha il bacino “grande” – il lettore medio non è “educato” ed è [tra]crollo. Tempi e ritmi hanno
raggiunto velocità per cui il “subito” [subìto/agìto] è già oltrepassato nell’istante in cui si [ri]crea – è già
vecchio. E la guardia, anziché darsi il cambio, volge le spalle all’epoca che “fu” in nostalgico Requiem, con
presa di distanza nell’anti – patico mantra: «No, non voglio vederlo». Il cantautore, eletto nuovo Vate,
riempie lo stadio e scala [e scalza il lirico, perla chiusa nella nicchia di studio] – la classifica.
Il farsi classe attuale sembra distanziarsi sempre più dall’etimo e dall’intimo della gilda. E la rosa degli
eventi lo dimostra: crisi ad angolo giro. E il conto non tonda: la sfera magica dell’aretè non è sintonizzata
[ si cerca – non è traccia – certa – domani].
Le iniziative diluviano, ma lo sforzo universale è ancora lontano: post e posti al sole, siano vasti siano
angusti, non ammettono piedi estranei. Per quanto impegno frulli la Crusca: la voce collaborazione [conor
e labor per il fatto] è destinata al silenzio d’oblio?
Tutto è stato detto, scritto, re-suscitato: perché tutto non svanisca – la sola via di riuscita è coazione.
Ripetersi nel proprio, uniti.
Poeti – prestate parola – e il gesto di un attore sarà leva [per un nuovo modo].
Chiara Daino
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DIRE LA SCENA: IL TEATRO DELLA POESIA
Nella complessa e coessenziale interazione, genetica ed espressiva, propria del rapporto fra teatro e
letteratura, intendo qui brevemente ritagliare ed estrapolare un côté verticale, un apice profondo per così
dire, di questo rapporto: quello, appunto, fra teatro e poesia, in quanto forme che mi sono ormai
ugualmente care e congeneri nell'esperienza creativa ed operativa, anche se la pratica della poesia risale
per me ad anni infantili e quasi immemorabili, quella del teatro ad anni assai più recenti e maturi: se la
poesia è la mia radice e il mio tronco cognitivo, il “genere” della parola che mi ha espressa in principio e
tuttora mi esprime, il teatro ne è divenuto la “specie”, la mia chioma che muta e si rinnova
stagionalmente, fruttificando nelle varie pièces che ho composto nell'ultimo quindicennio. In questa
coinvolgente frequentazione - o meglio, come dicevano gli antichi teologi, in questa “inabitazione”
teatrale - ho potuto constatare, e l'ho sottolineato in altri interventi, che la mia persona di poeta diveniva
il ricettacolo, la coppa intagliata di figure e segni, la forma colorata, il frame (come si usa dire) rispetto
alla visione che mi abitava, scandendosi nelle “voci di dentro” che sorgevano nel bianco e nero assoluto
dell'interiorità, del secretum (sia nel senso agostiniano e petrarchesco di fòro interiore, che in quello di
secrezione, di linfa colante da una corteccia): un frame a cui poi regista, attori, scenografo, musicista,
tecnici ecc. avrebbero fornito nuova “carne e sangue”, complicando di molte potenze, oggettivanti e
risoggettivanti, questo “gioco dell'amore e del caso” massimamente interattivo.
La scena mi appare dunque ad un tempo come materia e come forma della visione teatrale nata dalla
poesia, come sua attiva e plastica incarnazione, dove le potenze dell'anima non restano in lei racchiuse come nella poesia lirica, solo implicitamente diretta al lettore - ma cercano appunto un drama e un poièin
esterno, la proiezione di una “fare” attivo, trans-personale, che leghi l'individualità profonda,
“l'esplorazione del proprio petto”, come dice Leopardi , alla coralità respirante delle emozioni e dei bisogni
etico-spirituali comuni, nel progetto di un destino personale e collettivo. Il teatro di poesia, o meglio il
teatro della poesia, nasce da questo mondo intermedio e fecondo, dal mundus ímaginalis di forme
simboliche, e direi senz'altro archetipiche, proiettate sulla scena fin dai tempi del teatro greco classico e
di quello barocco, in una galleria di personaggi esemplari (come le figure delle icone e dei tarocchì): la
madre, il padre, il figlio/figlia, gli amanti, l'amico (il confidente e la confidente), il malvagio e/o il
traditore, il sognatore, il politico, l'ignavo, e quella varietà di vinto-vinciore che, a partire dall'Amleto
shakespeariano, è ampiamente proliferato nella razza dell'“antieroe” o eroe negativo novecentesco:
forme archetipiche funzionali e consustanziali al doppio respiro dell'anima e della scena, le quali si
muovono entrambe, avventurosamente, cercando il loro linguaggio, fra essere e dover essere, sostanza e
apparenza, idillio e tragedia, maschera e volto, trasgressione e norma, grido e canto, voce e silenzio:
giacché anima e scena, poesia e teatro sono entrambe, per così dire, apparenze di sostanze, “forme
vere.”
Io credo, e spesso lo ribadisco, in un teatro che sia teatro di ricerca nelle idee e nell'anima, che privilegi
una parola che sia in sé un verso vivo, plastico, duttile, e che dia un verso sostanziante, portatore di
pienezza euristica, all'anima del nostro tempo così “virtuale”, in balia di un flusso caotico, violento ed
acritico di immagini illusorie (che, diceva Kafka, invadono la coscienza); una parola che sia non
puramente strumentale al plot della vicenda (come nel cosiddetto “teatraccio”) e agli effetti del mestiere
scenico (come nel caso di molti attori-registi tuttofare); una parola che non sia per così dire una tovaglia
di carta usa-e-getta, ma un saldo tavolo che sostiene e mostra le vivande, apribile ed estensibile a molti
generi di commensali e in molte direzioni dello spazio e del tempo: che sia cioè - come è sempre il miglior
teatro di poesia, e com'è nel mio ideale - totale e polisemica, esatta e plastica, ispirata alla compresenza
al di là dei generi che è propria dei classici antichi e moderni, così come della vita stessa, nel suo
movimento polare fra gravità e grazia, tragico e comico, evocatività e scientifica architettura (penso
naturalmente a Shakespeare, ma anche al binomio Da Ponte-Mozart, al quale mi sono spesso ispirata per
l'atmosfera delle mie commedie drammatiche, particolarmente per Agnodice). All'ethos profondo che è
intrinseco al linguaggio della poesia “riversata” in forma teatrale è implicito e connaturato un altro
elemento quasi sempre disatteso, ignorato o rimosso nel minimalismo rinunciatario di gran parte del
teatro contemporaneo (che fonde in una passíva mediocrità i due generi deprecati da Pasolini nello
storico Manifesto per un nuovo teatro del '68: il borghese “teatro della chiacchiera” e l'avanguardistico
“teatro del gesto e dell'urlo”): questo elemento è la catarsi di aristotelica memoria, ossia il viaggio
proiettívo e liberatorio, la con-vivenza e l'odissea interiore dello spettatore nel testo.
Ce ne offre esempi storicamente portanti e stratificati la storia letteraria che è alle radici del Novecento, e
che si è più attivamente intersecata con la poesia e col teatro, proiettandolo appunto nell'excessus fisico
e magico della parola, cioè nella scena della poesia: penso alle ancora legnose ma potenti allegorie dei
misteri medievali é poi a Dante (recentemente rivisitato da Tiezzi attraverso tre poeti italiani
contemporanei, Sanguineti, Luzi e Giudici): Dante nella cui Commedia - ma già nella Vita Nova l'esperienza esistenziale e spirituale si orchestra in forme altamente teatralizzate di narrazione evocativa,
che includono complesse scenografie simboliche (i cerchi, i gironi, i cieli, la Città di Dite, il nobile castello
del Limbo, l'Eden sulla vetta del Purgatorio ecc. ); penso all'epos favoloso dell'Ariosto come teatro della
fantasia combinatoria trionfante, e che fu oggetto di una famosa ricostruzione ronconiana negli anni '70;
penso alla poesia degli affetti e della psiche estremamente teatralizzata in senso pre-psicanalitico dal
barocco europeo e, da noi, dal Tasso dell'Aminta e della Gerusalemme, col suo “stile concitato” mimato in
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musica da Monteverdi (e penso in parallelo al visionarismo surreale e dolente di Calderón); fino al
titanismo e al solipsismo romantico dei personaggi di Alfieri, anch'essi oggi spesso rivisitati in chiave di
gridato disagio postmoderno; penso a quel grande monologo allocutorio, lirco e civile, che sono I Sepolcri
foscoliani, e, sul versante parallelo, al teatro intimo delle voci morali ragionanti, in cui ha tanta parte
l'ethos platonico e quello illuministico, delle Operette morali leopardiane (non dimenticando, sul terzo
versante, la spiccata valenza teatrale, in senso corale-pedagogico, del romanzo di Manzoni più che delle
sue tragedie); ma neppure sono da trascurarsi gli esempi dannunziani, non tanto quelli di un teatro di
voci estetiche, ritualizzate su enfatici coturni espressivi, dei personaggi di Superuomíni e di Femmes
Fatales, ma considerando piuttosto il monologo franto ed eloquente della Contemplazione della morte e
del Notturno, dove la “voce recitante” di D'Annunzio incarna una sorta di Dioniso e Crocifisso decadente,
fra dostojewskiano e hofmanstahliano; fino alla multipla illusion comique di Pirandello e al suo fin troppo
celebre “strappo nel cielo di carta” nella scena della coscienza, cosi nutrito dal teatro greco classico e
dalle fonti romantiche tedesche; e, da lui disceso “per li rami”, l'ethos civile e religioso inquieto, quasi
giansenista di Betti e poi, sulla sponda iperlirico-barocca, l'impurità grottesca di Bene e l'oltranza
drammatica di tipo espre sionistico di Pasolini e di Testori, con le loro ideologie della passione che
scagliano il lettore e lo spettatore così violentemente in fabula da riproiettarlo fuori da ogni catarsì.
Ma io sento assai vicini anche e sopratuttto esempi dì teatro di poesia non italiani, come quello di Eliot,
che è da riconsiderare come antecedente di Luzi, e che è anch'egli assai trìbutario del teatro greco: nel
saggio sulle “tre voci” della poesia Eliot considerava appunto come la più teatrale la voce
“semidrammatica”, né puramente lirico-soggettiva né del tutto oggettivata, e in quanto tale capace di
uscire dall'io del poeta-drammaturgo per animare plasticamente i personaggi, conservando però la
tensione metaforica dell'autore-testimone (in questo senso fanno testo non solo il Murder in the
Cathedral e i drammi successivi, ma tutta la migliore poesia eliotiana, dalla Waste Land ai Four Quartets,
i cui monologhi corali vedrei bene in una suggestiva chiave sceníca). Ma, in senso letterale e letterario, fa
testo per me anche l'incompiuta e imperfetta Venise sauvée di Simone Weil, anch'essa recuperata
suggestivamente da Ronconi qualche anno fa: non per caso alla vita di Simone Weil, vero esempio di
itinerario drammatico, spirituale e civile, sullo sfondo dell'Europa in preda alle lacerazioni delle dittature e
della guerra, ho dedicato il complesso affresco del primo dei miei drammi in versi, La fonte ardente, che,
scrítto nell' '85 e uscito nel '91, fu allestito dal Teatro di Rifredi. Sulla linea di evoluzione di questo primo
testo stanno gli altri due miei vasti affreschi epocali successivi, l'Andrej Rubljòv scritto in forma di
prosimetro nell' '87, ispirato alla grande figura proto-umanistica del pittore di icone russo a cui anche
Tarkowskij aveva dedicato un famoso film; e, interamente in versi, La Fenice, uscita nel '91, centrata
sull'altro dramma d'epoca e di coscienza di Sor Juana Inés de la Cruz, la “Decima Musa” del Messico
barocco coloniale, interprete subilme e vittima sacrificale del suo tempo, lacerato anch'esso fra
oscurantismo e lumi (il dramma ebbe due versioni sceniche, a Milano e a Firenze).
Come “rami” di queste vaste sintesi sono rampollati da un lato i miei due lavori in prosa di ispirazione
intimamente civile e di stile più umile, ma frutto anch'esso di attenta costruzione: il primo, L'albero delle
parole (Premio Giangurgolo 1989) era ispirato all'esperienza pedagogica radicalmente innovatrice di Don
Milani e della sua comunità giovanile, l'altro, La Minima, dedicato ad una beata del popolo, Madre
Margherita Caiani: quest'ultimo è anche il mio unico lavoro scritto su commissione, per una sorta di sfida
all'eredità romantica che postula l'assoluta libertà di ispirazione, che piegai ad un soggetto di pietas
francescana e quotidiana (assai diffìcoltoso da affrontare drammaturgicamente, proprio perché “senza
storia” e antisublime); dall'altro lato, il versante lirico-monologico del mio teatro si è concentrato nel
testo Lo Spettro della Rosa (1992), rappresentato in Svezia tradotto in quella lingua ed uscito in rivista e
in volume, ispirato al personaggio e al diario di Nijinskij, un altro “Dioniso” cruciale e cruciato del nostro
tempo, che esprime la leggerezza angelica trafitta dalla violenza delle passioni e dall'orrore della Grande
Guerra, in un conflitto fra grazia e gravità che anima anche il trittico o trilogia dei miei Versi per la danza
scritti in seguito (Stanze, Trasparenze, Sensi) dove rispettivamente un personaggio maschile, uno
femminile, e le proiezioni simboliche dei cinque sensi animano un teatro della coscienza in forme assai
ritualizzate anche in senso simbolico e mimico-gestuale. Su questa stessa linea polimorfa si colloca il mio
testo più recente, il Dialogo di Natura e Anima (uscito alla fine del 1998) il cui titolo è quello di una
“operetta morale” poi mai scritta da Leopardi. E al côté della mia ricerca che più spiccatamente attinge al
mito classico, liberamente elaborato, debbo i testi Specchio doppio, ispirato al mito di Eros e Psiche e
vincitore l'anno scorso al Festival Magna Grecia; e Il figlio, complemento ideale del precedente, che vinse
il Flaiano nel '92 ed è ispirato al mito di Altea e Meleagro, ossia a1 rapporto creativo-distrutttivo della
madre verso il figlio, proiettato sullo sfondo degli effetti della guerra (quella del Golfo del '91, oggi
tristemente reincarnatasi in quella jugoslava). La punta più avanzata in direzione filosofica di questo mio
complesso approccio mitico è l'Eraclito del '97 (sottottitolo: Due risvegli) che attraverso questo arcaico e
modernissimo filosofo, insieme occidentale ed orientale la cui vita semisconosciuta ho reinventato,
affronta le antinomie della coscienza di fronte all'amore, all'amicizia, alla conoscenza, al potere; l'altra
“punta” è il “mito futuribile” Guerra di sogni (Premio Betti 1999) che è senz'altro il mio lavoro più
sperimentale, frutto di un'invenzione linguistica molto spinta, tesa a mimare un mondo convulso e cupo,
un po' orwelliano ma per nulla remoto, dominato da un totalitarismo genetico e virtuale, che viene
riscattato dalla creatività amorosa e sacrificale dei protagonisti, i qua1i non per caso conservano i nomi di
Febo e Cassandra. Ma il mio testo più “mozartiano” resta senz'altro Agnodice (vincitore del “Fondi La
Pastora” 1996) dedicato ad un'affascinante figura di donna-medico di un'età alessandrina assai vicina alla
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nostra; qui ho potuto intrecciare verso e prosa, spirito aristofanesco-terenziano e comedy of erorrs
shakespeariana, lacerazioni della protagonista e humour nei personaggi di contorno (il servo, le
matrone); un testo di sintesi equilibrante, che considero assai vicino al movimento polifonìco intrinseco
alla vita e al suo “doppio” teatrale, mosso e interpretato dalla poesia.
Maura Del Serra
[Già in “Sipario”, n° 606, dicembre 1999]
139
IL TEATRO NELL’ANIMA
(Una passeggiata per Roma)
Conoscete zi' Nicola(1)? Io l'ho incontrato tardi, a Roma, all'Eliseo. Zi' Nicola l'ha inventato il grande
Eduardo nel 1948, e da allora passa ogni tanto per una ribalta, intatto. A lui la parte riesce sempre
benissimo, perché non parla affatto – non parla più. Non parla più, perché l'umanità è diventata sorda,
ma non rinuncia affatto a esprimersi per questo: no, lui si esprime con i fuochi d'artificio. Castagnole e
tricche tracche e girandole, scoppi e frizzi e fischi e lampi e fumo: sono orazioni furenti o battute al
vitriolo, ma anche dissensi veementi e litigiosi puntigli. Non è per nulla malinconico, zi' Nicola, è
appassionato e bisbetico: suo nipote, l'unico che capisce il suo linguaggio, a malapena riesce a
interloquire, fra un razzo e una gragnuola, quando lui intavola una delle sue infuocate conversazioni. Zi'
Nicola è di Napoli, ma io l'ho incontrato a Roma, io che vengo da Milano: e uscendo per la via Nazionale –
non è strano – con le tracce sulfuree della sua eloquenza negli occhi, ecco, mi sono ritrovata in patria.
Tutti gli smozzicati eroi della parola-rottame, tutti gli ipocondriaci e nebulosi Krapp e Clov d'altri e più
nordici deserti urbani non valgono niente accanto a zi' Nicola. Non sono mica veri come lui. Non per noi.
Patria? Vi sembrerà una parola fuori luogo, questa che mi s'era ficcata in un emisfero del cervello, mentre
nell'altro imperversava la stizzosa festa pirotecnica di zi' Nicola. E man mano che il tempo smorzava nella
memoria le punte più arcigne della sua oratoria, ecco, le sue girandole m'illuminavano le vie di Roma, che
ha il teatro nell'anima e l'anima tutta visibile... Colpa dell'illusoria luce dei suoi lampi, e della svagata
ventura degli incontri, se anche i pensieri prendono il corso improvvisato di una passeggiata.
Ecco un capolavoro minimo che la riassume, quest'anima tutta piazze e scale e fontane e rovine, questa
interminabile scenografia barocca: una sua immagine minuscola e graziosa, dovuta alla benigna ironia del
Raguzzini... La piazza S. Ignazio: ma dove al mondo una chiesa dedicata a un santo così atrocemente
introspettivo e mistico sarebbe attorniata dalle quinte leggiadre e dolcemente pronube di tre palazzetti da
commedia degli equivoci?
Eppure questo è l'aspetto più evidente della nostra anima, là dove riesce a darsi forma, a farsi idea. La
forma è sempre scenografica, l'idea sempre illusionistica, e la vertigine del sacro è indistinguibile dal
brivido dell'effetto scenico. E non parlo degli effettacci, no: dove il sacro è più profondo, là è più leggero e
– per così dire – immortale il colpo di scena. Non vale questo perfino, anzi non vale soprattutto per
l'interno di San Pietro? Ma non è ancora il momento di entrarci.
E` vero che più in armonia con questa forma e idea, nel suo punto più alto, è Raffaello – più di
Michelangelo e più di ogni altro genio. Basta guardare l'opera che tutti, ma proprio tutti, imparano a
conoscere fin sui banchi di scuola: la Scuola di Atene, il grande affresco che rappresenta il Convegno
Ideale della filosofia. Ciò che più conta in questa celebre composizione è forse la mossa di danza, il pas
de deux delle due figure centrali: Platone e Aristotele a braccetto, come l'intelligenza di cose divine, e
quella delle umane. Questo passo di danza è come la matrice coreografica di tutta la scena: e una
scenografia umana è appunto una coreografia. E non solo queste due figure, ma tutte le altre vivono
ciascuna nel gesto che la identifica. Vivono di gesti, molto più per intima consonanza alla regia del tutto,
che per motivi iconografici o didascalici. Tutte le figure di tutti gli affreschi della Stanza della Segnatura,
del resto, vivono del loro gesto ovvero recitano il loro ruolo in questo universale spettacolo dello spirito,
delle sue Arti e della sua Storia, che ha nel cielo l'autore, sul trono di Pietro il regista e in Raffaello lo
specchio plaudente. Dio, il papa, l'artista: tutta gente di teatro. Il mondo è teatro: le architetture della
Città sono, proprio come negli affreschi, le inquadrature scenografiche del suo dramma. Forse quando
quegli affreschi vennero eseguiti, appena prima che il monaco tedesco cominciasse a imperversare lassù
a Wittenberg, e la stagione dei papi laici (principi spietati ma grandi registi dell'idea rinascimentale)
declinasse nell'autunno della Controriforma, senso, liturgia e recita quotidiana della propria parte erano
tutt'uno.
C'è aria, tanta aria nelle coreografie di quella Stanza raffaellesca. Non vuoto: aria. Le architetture
profilano uno spazio pieno di respiro. Non c'è affatto un vuoto di cui avere orrore, da riempire il più
possibile di carne e di forze. Questa pare l'idea (registica, per così dire) a cui il monaco furente sbarrò la
strada: che il teatro del mondo fosse arioso. Che fosse un gioco, serio e drammatico e pieno di senso, ma
pur sempre un gioco: cioè, come dice un dotto, "un'azione ... che impegna in maniera assoluta, che ha
un fine in se stessa, accompagnata da un senso di tensione e di gioia". Che ha un fine in se stessa: non
come, più tardi, lo Spettacolo inscenato dalla Trascendenza per insegnarci che la vita è sogno, e che
dietro le sue sorridenti Parvenze ghignano i teschi, o che ciò che par vero è teatro e ciò che par teatro nel
teatro, o finzione al quadrato, è invece ombra del Vero Invisibile... Queste complicazioni della
drammaturgia barocca vengon dopo, ma ci riguardano veramente, in fondo? Resta il fatto che fu sbarrata
una via di conoscenza che la nostra mente aveva preso come per sua spontanea inclinazione all'alba
dell'età moderna. Lo si vede dalla vita di quei papi e delle loro corti meglio che dai trattati dei filosofi, che
gli uomini colti avevano già imparato a giocare – ma senza alcun cinismo, alcuno scetticismo, e
soprattutto senza alcuna ipocrisia – con i simboli del divino. Se ne facevano abiti di eleganza umana,
figure della propria intelligenza e del proprio potere, ma anche metafore dei fondamenti non dominabili,
"trascendenti" di ogni vita, Natura, Amore, Fortuna, Morte. Tuonava Lutero: "Infine – oggi ancora – noi
vediamo che più si ha scienza e spirito e più ci si prende gioco di questa dottrina che viene considerata
140
una favola, e apertamente". Perché, non sono ciò che gli uomini hanno di più serio, le favole? Ma tanto
peggio per quell'impresa che era già quasi riuscita del tutto: riconciliare, nei molti volti del simbolo e
nell'unità del pensiero, Iddio e gli dei, la sacra follia e l'esperta saggezza. Perché la mente non si
risolvesse, presa nel duplice, smodato orgoglio di un'ascesi morale interiore e di un dominio razionale
delle cose, a "purgarsi" di tutte le immagini che le fingevano Idee nelle Apparenze. Tanto peggio per le
litterae – ("O saeculum, o litterae, iuvat vivere", cantava il Cavaliere Heinrich von Hutten, l'amico tradito
di Erasmo, ma sarebbe invece morto così giovane e già così solo) – tanto peggio per questo gioco
simbolico fatto per vivere nel decoro delle forme il proprio turno sulla scena realissima del mondo, senza
assoluti né di dogma né di matematiche. Com'è che gli spazi ariosi diventano spazi vuoti di cui avere
orrore? Perché tanta calca di carni nel cielo e nell'inferno di Michelangelo? Forse, purgandolo dell'anima e
delle sue immagini sacre e profane, il mondo visibile è bell'e pronto per diventare pura, infinita e vuota
Sostanza Estesa.
E` come se la Scuola di Atene ci dicesse: per noi, per la nostra anima che rifugge dal senso non visibile,
fuori di queste architetture piene d'aria e di queste coreografie grandiosamente liturgiche non resterà
forma né senso, ma pura vita soltanto e informe divenire. Se Raffaello in quell'affresco rende omaggio a
Leonardo prestando il suo volto a Platone, Michelangelo appare nel ruolo di Eraclito. Geniale intuizione,
che di lì a poco si vedrà in qualche modo confermata dal fluidificarsi dello spazio in una sorta di plasma
per ogni forma provvisoria e cangiante, o fonte sorgiva e inesauribile di sempre nuove visioni: e Roma si
scioglierà e scorrerà defluendo nelle sue fontane, dalle forme più mobili dell'acqua stessa e più mutevoli
della luce. Vedere Eraclito in Michelangelo è intuire nel suo tormento il seme del Barocco.
Ma nessuna interiorità anche profondissima sfugge alla logica teatrale della nostra anima. Come una delle
prime opere di Michelangelo, il bassorilievo della battaglia dei centauri, così il suo capolavoro, il Giudizio
Universale. Anche qui si tratta di coreografie, scenografie umane: non dell'Ordine, qui, ma
rispettivamente del Caos e della Fine – ed entrambe, in termini michelangioleschi, coreografie del Vortice.
E in entrambi i casi il vuoto, il centro del vortice – quel vuoto da cui forse rifuggiva l'orrore dei suoi tardi
eredi, che non lasciò di vuoto, a Roma, che il cielo – quel vuoto è creato da un gesto. Il gesto violento e
onnipotente di un dio, sia Apollo o Cristo, che imprime un moto vorticoso all'universo. Forse anche il
gesto di un terribile direttore d'orchestra, o piuttosto – poiché la musica del pittore è per gli occhi – di un
regista.
Del resto, per continuare questa meditativa passeggiata per Roma, un confronto fra San Pietro e uno dei
modelli ispiratori del progetto di Michelangelo, il Pantheon, aiuta molto a comprendere la logica teatrale
anche dei nostri più celebri interni – purché pubblici. Al Pantheon si entrava per leggere l'orologio del
cielo: non un solo particolare della forma, della collocazione, dell'interna scansione di pieni e vuoti nel
rivestimento interno della cupola era privo di un senso funzionale: liturgico anche, ma in quanto carico di
informazione. Il tempio era una rivelazione quotidiana del dio-natura, un sistema di decifrazione di quel
cielo, col suo orologio e il suo calendario solari, che la lucerna aperta lasciava in comunicazione con la
terra e con la casa sacra della Città.
I pagani non avevano bisogno d'altra messa in scena per partecipare, attraverso quel foro circolare, alla
divinità del tutto – quasi quel foro fosse ovviamente e visibilmente l'apertura ontologica di cui
favoleggiano le elucubrazioni della tarda metafisica tedesca – o più semplicemente la bocca aperta di un
"oh!" di stupore, il segno della meraviglia che si dice sia madre del filosofare.
Ora, già usurpando al mondo antico quello spazio, i cristiani ne fecero, da perfettamente autosufficiente o
in sé sacro che era, un teatrale contenitore di sacre rappresentazioni: vi si rappresentavano le Ascensioni,
e al popolo incapace di percezioni astratte si offriva lo spettacolo da fiera di divinità carrucolate su per la
volta, e poi nel cielo, attraverso quella che ormai era divenuta la lucerna di una soffitta teatrale.
L'idea fu resa stabile, quasi sacra rappresentazione permanente, nello spazio omologo di San Pietro.
L'immenso baldacchino del Bernini, fatto col bronzo rubato al Pantheon, è nelle sue spirali ascendenti,
una sorta di ascensione congelata, eternizzata. E` un evento divenuto nunc stans, gloria perenne: e
gloria pura, fasto senza visibile soggetto, teatrale apoteosi pronta sulla scena di ogni replica, per ogni
officiante. E` il trionfo della scenografia, che da inquadratura dell'Azione si fa essa stessa Azione
Intemporale, Dramma e Svolgimento attuale e perenne, Atto Puro.
Come puro, metafisico e teatralissimo emblema – il Potere in sé, o meglio la Maestà in quanto tale, a
prescindere da chi li recita – è la gigantesca poltrona, o come si dice la cattedra, che in questo tempio
occupa il fuoco di tutti gli sguardi, il punto di fuga di ogni prospettiva, insomma il centro illuminato della
scena, perennemente avvolto nella luce sfolgorante del riflettore d'alabastro. Vuota, sospesa in aria,
circonfusa di gloria – una poltrona. E c'è teologia più palmare e insieme più teatrale di questa, che un
oggetto ad un tempo concretissimo e simbolico sia levato alla gloria dei cieli, e insieme significhi e
rimpiazzi la divina maestà che non si vede? Che una sedia, ed una sedia vuota, significhi e rimpiazzi Dio?
Ecco, in questa sedia glorificata, sfolgorante di lucido disincanto eppure anche di misteriosa potenza
illusionistica si contempla – tragico e devoto, numinoso e beffardo – il più metafisico dei nostri coups de
theatre.
A San Pietro - perfino a San Pietro - la nostra anima si riconosce, e non sa se applaudire, inginocchiarsi o disperare.
Roberta De Monticelli
141
Note.
(1) Si tratta naturalmente dell'enigmatico personaggio de Le voci di dentro di Eduardo de Filippo, rappresentata
ultimamente a Roma nel gennaio 1992, con C. Giufré e M. Scarpetta.
142
IL GUANTO DEL DOTTOR WHITE.
Il teatro, la poesia, il loro pubblico. Alcune tesi
I miei testi “emettono” una critica come l’uranio
produce radiazioni: quel minerale ha anche altre proprietà
(M. Crimp)
You have no values.
With you it’s all nihilism,
cynicism, sarcasm, and orgasm.
(Deconstructing Harry, W. Allen)
Stiamo espellendo materiale più velocemente di
quanto la natura riesca a riciclare
(Richard Crowther, QinetiQ, industria britannica)
I. Esordiamo con un orrore, e con un assassinio abbastanza vieto, di cui forse abbiamo imparato a
conoscere il killer: il teatro è pur sempre rappresentazione, la poesia pur sempre espressione pura, il
teatro è morto ieri, colla rappresentazione borghese, la poesia è tanto decrepita per i più, come modalità
di artificio linguistico (e prodotto da scaffale librario), eppure pare tanto giovane, oggi, nel recupero
dell’oralità, della performance, dell’indisciplina. Orrore secondo (inevitabile, forse arginabile):
l’incomunicabilità tra la ricerca teatrale e la ricerca poetica. Per un teatro che va verso l’atto puro, la
parola esplosa e (s)forzata, dopo Artaud, Beckett e tutta la geniale banda a delinquere del teatro
dell’assurdo (il quale non ha affatto alimentato un sovrappiù di parole, ma le ha in effetti esaurite come in
un atto di rigurgito anti-narrativo), o verso la danza e il concetto (o la danza che si fa grado zero della
danza; v. Virgilio Sieni, Jérôme Bel, Kinkaleri), o verso un’intrinseca espansione multi-mediale, multidisciplinare, eteronoma di una certa scena emersa negli anni ’90 (Motus, Teatrino Clandestino, Fanny &
Alexander in primis) la poesia, rispetto a queste nuove scene, non può che essere una traccia
d’ispirazione (o meglio, respirazione), un segno che perde il suo senso, la sua forza icastica, facendosi
musica, suono, messa-in-scena, rap-presentazione, arte da trovatore rinnovata, anche se relegata nel
proprio ambito di nicchia. Due direzioni opposte, oggi: il teatro sembra perdere le parole, quasi per
sconcerto di fronte al mondo che sta fuori – un atto di circospezione e il ristabilimento di un hortus
conclusus della performance – la poesia le recupera come atto sociale – seppur nella sperimentazione rivolta a riacciuffare un pubblico, che deve essere risvegliato, rintronato, shockato.
II. Nel teatro diciamo “contemporaneo”, lo shock è bianco: è dato soprattutto dall’indifferenza,
dall’informalità dell’atto, un atto privato e domestico, di studio e ricognizione (si pensi a Hey Girl della
Societas Raffaello Sanzio oppure all’ultimo lavoro dei Motus su R. W. Fassbinder), nel quale lo spettatore
pare un intruso o un voyeur ed al quale non si concede né lacrime né risa, né sollievo né ressentiment, al
massimo un buffetto snob (a tratti radical-chic), con un po’ di sarcasmo e parole sussurrate, ferite,
soffocate. Lasciamo qui da parte le attuali tendenze narrative e dialettali, dove ci si impegna, salvo rari
casi – vedi Dissonorata dei calabresi Scena Verticale - unicamente in un’impostura del dramma, con
inquietanti ed implicite derive conservatrici, mascherate da volontà di testimonianza (una volontà che
deve essere, chissà per quale dettame, quanto più nazional-popolare e a bassa definizione, per essere
spacciata per onestissima e senza altri fini...). Una restaurazione imbarazzante, etichettata come
impegno civile, a partire dal livello di studio della lingua e della scena, ridotta ad uno spazio immobiliare
popolato da sedie-confessionali...
Nella poesia diciamo “contemporanea”, lo shock è rosso, squillante. Ciò che si insegue (pare che la poesia
contemporanea possa essere così accomunata ad un inseguimento estenuante, una battuta di caccia
feroce: nei confronti del pubblico, in primis; ed anche nei confronti di un senso rinnovato della
comunicazione testo-lettore) è questo recupero della voce, se possibile voce alta o amplificata, voce che
viene dal ventre piuttosto che dalla testa (seppur con varie gradazioni di “volume”) , voce acefalica di un
nuovo soggetto privato che si mimetizza nell’autore e lo rende funzione comunicativa nei confronti del
lettore o spettatore, ego obliterato che si fa segno. Lasciamo qui ovviamente da parte i neoorfismi, i neoermetismi, le parole innamorate o invaghite, forse anche certa esasperata sperimentazione, che più che
un metodo energico diviene plagio sterile e inconcludente collage.
Nel teatro, dunque una chiusura. Dalla scena verso la platea. Nella poesia, una disperata richiesta di
scena. Come è possibile un loro incontro?
III. L’orbita dei segni: si pensi ai rifiuti di vario genere, grandezza e pericolosità che, fin dalla fine degli
anni ’50 del ‘900 lo Sputnik o la stazione aerospaziale Mir – solo per citare alcuni casi - , hanno distribuito
a migliaia di chilometri di distanza dalla terra, oltre ad altri satelliti in disuso, sacche di immondizia,
testate di missili, scorie etc. Oggetti che sono, o potranno essere tra moltissimi anni, rischiosi, oggetti
che stanno lì ad orbitare senza controllo, un tempo parte di un loro personale percorso prestabilito (alcuni
balistico, altri “organico”, altri ancora di ricognizione o informazione), adesso obliati. Nel 1965,
l’astronauta della Gemini 4 Edward White, perse un guanto nella sua camminata stellare. Per un mese il
143
suo innocuo guanto divenne, mantenendosi in orbita ad una velocità di circa 28000 km/h, il più pericoloso
innocuo guanto della storia! Il teatro, la poesia: due modalità differenti di gestione di queste orbite di
segni, di questa discarica orbitante del linguaggio.
III. 1. Il teatro e la poesia, come operazioni sul linguaggio – vuoi come cancellazione o estenuazione il
primo, vuoi come amplificazione e fa(e)gocitazione, ma pur sempre lì ad agire come virus, troyan,
hackering della Langue - si trovano di fronte ad una massa di oggetti-segno in orbite impazzite, parole,
gesti, costrutti del linguaggio ordinario, espressioni corporali, lapsus linguae e tic da recuperare, da
assemblare nuovamente, con un assiduo studio, una costante “masticazione”. Per questo, il moltiplicarsi
di raffinati e ossessivi esercizi sulla presenza scenica, sullo sguardo indiscreto dello spettatore, sulla
dissociazione tra testo e gesto, così come i frequenti studi sulle possibilità orali delle parole, dei sintagmi,
nella poesia contemporanea, eredità della neoavanguardia. Per questo anche la persistente idea di test,
un test a volte a crocette, ma con risposte multiple, a volte un ipertest(o) dove cliccare per (non)
raggiungere il senso, la conclusione del mosaico. Questo spettacolo, questa poesia, sta parlando di noi? O
sta parlando solo di sé? Mi sta bellamente ignorando? Richiede una mia partecipazione?
III. 2. Non esiste in ogni caso alcuna scena vergine, alcun gesto-testo vergine, alcuna parola vergine,
alcuna orbita primordiale. Non possiamo liberarci della spazzatura prodotta! Alcuna attitudine artaudiana,
defecatoria-esplosiva può completarsi – nella sua coda di silenzio - senza che prima non si sia ingurgitato
abbastanza. Nessun vagito dell’ego poetico, nessuna vera nascita o parto della lingua, avvengono
tralasciando una necessaria fecondazione violenta. Ci siamo oramai rassegnati al fatto che la lingua
seconda di Mallarmé sia un’idea un po’ vecchiotta e il rapporto tra linguaggio (e situazione) ordinario(a) e
linguaggio (e situazione) poetico(a) sia una questione di emergenza (e l’emergentismo, in filosofia della
mente, è fondato su di una teoria della complessità che non permette né riduzionismi materialistici né
metafisiche pure) piuttosto che di esclusione e negazione. Teatro e poesia emergono (differentemente,
vedremo) per selezione e combinazione dal linguaggio e lo mandano in corto, lavorando sui suoi oggetti
orbitanti impazziti.
IV. Personalmente: ho scritto (o meglio, riscritto) L’evoluzione del Capitano Moizo (Zona, Arezzo 2006 –
ma contenente testi compresi tra il 2001 e il 2003 - con una prefazione molto calzante di Tommaso
Ottonieri) come una sorta di canzoniere free-form che si auto-mette in scena – le varie sezioni del testo
sono accompagnate da note alla messa in scena debordanti e surreali, dal momento che la scena è il
linguaggio-mondo che popola Firenze e il suo Altrove (il viaggio da e per il Parco Giochi griffato del
Rinascimento), nel linguaggio-mondo qualcosa non quadra e l’Autore del Testo è solo una funzione
estetica che il lettore assegna ad un coacervo di sensazioni e citazioni, a tratti un capro espiatorio che
lancia messaggi maniacali a donne, politici, generali, personaggi televisivi, altresì Alessandro Raveggi in
persona, ma à la Pound. Un atto ironico e drammaturgico sui miei primi testi, volto a dimostrare ed
enfatizzare quanto la poesia cerchi di raggrumare la macroscopia del villaggio globale, spacciandola per
un’esperienza (finzionale) intima e microscopica, ma sempre aperta e violata dal pubblico, amplificata, a
tratti vilipesa. Un bijou esposto e graffiato dal pubblico dominio. Dove ci installiamo con un cinismo
attivo, e non un lacrimoso patetismo. Il cinismo di una scena che non può rappresentare la tragedia o la
commedia dell’esistenza se non declinandola in una tragicommedia astratta. Il cinismo di una poesia che
sa di aver perso l’origine autoriale e la base emotiva della sua produzione, trovandosi a lavorare di bisturi
sugli arti del linguaggio.
Il Moizo corrisponde così anche ad un mio atteggiamento nei confronti di quella domesticità del teatro, di
quella artificialità imposta alla situazione e al linguaggio ordinario (uno per tutti, considero il
drammaturgo inglese Martin Crimp un maestro assoluto in questo: si vedano i testi Attempts On Her Life
o The Treatment o la breve caustica piece Fewer Emergencies). Più che aspettarsi un déshabillement o un
dénouement finale, si mette in scena così una strategia dimessa originaria e priva di catarsi, che fa
emerge dall’ordinario una funzione estetica nuova, attraverso varie detonazioni calibrate nelle slogature
del linguaggio disponibile sotto il sole.
V. Come gestire quindi la spazzatura spaziale orbitante? Il teatro come dispositivo elettromagnetico che
passa (e fa passare i detriti, i satelliti in disuso) dalla Macroscopia alla Microscopia, dall’Universo
sconfinato all’infimo spazio imploso di una Terra ridotta a cantuccio e mono(g)locale. Un’operazione che
in una scena astratta lavora e inquadra dall’universale al dettaglio. La poesia come dispositivo
elettromagnetico che dalla Microscopia di un nascondiglio egotico vuole esplodere nel macroscopico
Universo dei segni-rifiuto. Un’operazione che da un foglio-spartito smessaggia dal dettaglio intimo
all’universale. Due configurazioni ricettive che invitano il lettore-spettatore ad alzare gli occhi al cielo (o a
direzionarli attorno, dietro l’angolo o a molte miglia di distanza) oppure a strizzarli nel particolare.
Alessandro Raveggi,
maggio 2007
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IL TEATRO, LA POESIA E LA CONVERSAZIONE DRAMMATURGICA
Quando per tenere un seminario all’Università di Yale, mi occupai di rileggere alcune esperienze e alcune
delle più accese riflessioni sul teatro di poesia, mi accorsi che quanto sosteneva le pur diverse pagine di
un Testori, come di un Luzi o di un Raboni, e finanche di un Pasolini e di Artaud come del giovane attore
e poeta Wojyila, resta una delle questioni più affascinanti della vita e del destino del teatro.
Anche oggi, il concentrarsi sulla natura drammatica della parola poetica, sul suo aver luogo in teatro, e
sulla qualità di incarnazione di un testo, permette di mettere in crisi l’arte teatrale. Di metterla in quella
crisi che è la sua salute, cioè che strappa una forma d’arte dal compiacimento di se stessa e dei suoi
risultati, e per così dire la obbliga a misurarsi con la sua ragione d’essere e con il suo destino. Arrivavo e
tornavo a quelle pagine di poeti e cari e in alcuni casi amici –come Testori e Luzi- tremando in una mia
specialissima per quanto breve esperienza di poesia teatrale. Monologhi spesso nati per occasioni d’arte,
come una mostra su Elisabetta Sirani, splendida e misteriosa figura di pittrice del ‘600 bolognese. O
come, violenta e radicale, la contemplazione in versi ebbri e visionari del quattrocentesco Compianto di
Niccolò dell’Arca. O ancora la visione dei vorticosi affreschi dei maestri del trecento riminese in Tolentino,
o uno splendido battistero restaurato a Nocera. Altro avevo fatto, sulle assi di un palco. Mille letture, con
musici e attori, o un fortunato spettacolo per ragazzi che ha fatto centinaia di repliche, sull’uomo che
dipinse il cielo, Giotto. E soprattutto mi abitavano ancora le emozioni e gli stupori di aver frequentato il
Testori degli anni di Interrogatorio a Maria, di In exitu, e dei Promessi sposi alla prova. Lui e poi Franco
Parenti, Lucilla Morlacchi invitavano il giovane poeta che ero a vedere le prime, a star dopo a cena. Avevo
visto, nelle visite a Testori in via Brera o a Luzi in via Bellariva e nella lettura, nelle realizzazioni e nella
amicizia con molti dei loro attori, da Lombardi a Branciaroli, da Cauteruccio alla Forte, da Soffiantini a
Palmieri, il farsi di un’esperienza di teatro di poesia radicale e controcorrente.
Arrivavo dunque a Yale e a Palermo con un diario interiore ricco e deviante, confuso e stupendo. Ma si
trattava ora di creare un testo per uno spettacolo. Una piccola ma interamente dedicata produzione. Una
commissione importante. E un regista di nome, due bravi attori, un suggestivo teatro, il Bellini, pronti a
lavorare e dar rilievo ai corpi sulle parole di un mio testo.
Non ne avevo idea. Insomma non sapevo cosa sarebbe stato lavorare con un regista di lungo corso come
Carriglio. Certo, le precedenti sue esperienze con Luzi e con Raboni erano per così dire un certificato di
garanzia. E l’azzardo era in definitiva stato tutto suo. L’azzardo dico di chiamarmi e coinvolgermi in un
lavoro così impegnativo.
Ma quasi vent’anni fa, in una delle mie prime poesie, davo voce a lei, la poesia, che diceva: “Non dalla
solitudine nasco”. Mi sembrò strano averla scritta, e proprio negli anni in cui è più aspro il senso della
propria individuale vocazione. Eppure si tagliò, come su una pietra, e non è mai andata via. Non dalla
solitudine nasce l’arte, anche se la solitudine ne è una condizione. Ma le radici, le carburazioni, o
insomma i motivi che misteriosamente muovono un gesto d’arte non sono mai generate dalla pura
solitudine. Un dramma prevede sempre almeno due termini, due volti, due corpi. L’alterità – quella di cui
ogni poeta grande fa radicale esperienza, come mostra il Dante che nel Purgatorio indica in Amor che
ditta dentro l’origine dei suoi versi o il Rimbaud che esclama: j’est un autre.
Il teatro nasce conversando, se la conversazione è tessuta di dramma. Il problema è che ormai troppo
spesso la conversazione tra gli uomini, e anche tra gli artisti, non è tesa da nessun dramma, non è
esperienza di alterità, è chiacchiera, e dunque poco genera come fatto teatrale. Invece, la conversazione
con Carriglio, che è uomo percettivo e concentrato, un intellettuale colto e curioso, e un artigiano vasto e
puntiglioso, un uomo che scarta dal consueto e che conosce le deviazioni, è sempre generativa. L’idea di
“Le linee della mano” fu più sua che mia. Disse di amare la mia poesia, di sentirla vicina e dunque la sfidò
a farsi composizione drammaturgica.
Io, da principio, volevo fare altro. Mi ero innamorato di un’idea che però non trovava forma. Lo sviluppo
di un mio poemetto “Non sei morto, amore” che andavo leggendo in giro, accompagnato da un blues man
e che mi pareva avesse interiori possibilità di aperture e svolte. Ma la conversazione, se è tale, è nutrita
di smentite, di scoperte. E dunque fu accantonato quel mio sogno acerbo e su una suggestione di
Carriglio ci mettemmo a lavorare a quel che sarebbe diventato uno spettacolo affascinante e che lasciava
interdetti –in quel silenzio interdetto che a mio avviso è segnale che qualcosa succede tra palco e astanti.
Si sarebbe chiamato “Le linee della mano”, espressione che veniva da un verso del mio libro “Avrebbe
amato chiunque”. Ho scoperto in seguito che lo stesso titolo diede l’importante critico letterario francese
Gaetan Picon a un suo volume della fine degli anni ’60 che trattava di pittura.
La conversazione condotta con frequenti visite a Palermo, in quel formicaio splendido e misterioso che è il
teatro Biondo, seguiva il nascere e il disporsi del testo. Lavorai sodo, una immersione. Che quando è
nella poesia significa almeno per me una faticosa ed inebriante e mostruosa calata, una discesa in stanze
inferiori o forse in rovesciate aeree arcate, piene di suono, di tensioni, di tormentose e poi felici risonanze
di significati e di movimenti. Insomma nel caos o circo visitato di improvvisi silenzi. Nel caravanserraglio.
Nella fornace o, come qualcuno ha scritto, in quell’andar su e giù in mille ascensori a cui somiglia
l’esistenza del poeta quando scrive…
E poi arrivavo in teatro, o nella stanza dell’hotel Mediterraneo dove il maestro alloggia. E dove le pagine
nel leggerle trovavano conferme e crisi, e la conversazione, ancora una volta, dava forma, o la
riconosceva nei molti luoghi dove già era persuasiva. Un lavoro di sfumature e di precisione. Cioè di
145
passione e di ricerca. Che ci ha accompagnato poi fino all’antro buio e nudo, del dolcissimo teatro bellini
ricostruito dopo il danno, e però ancora scabro nei suoi cementi, nelle sue cecità e sospensioni. Sala tutta
tesa a essere teatro, per quanto ferita. Lì nelle settimane delle prove è stato un corpo a corpo, un lavoro
continuo sul testo e sulla delicatissima disponibilità degli attori, costituiti fortemente dalla loro lunga
esperienza e pur bambineschi nel mettersi a rischio e in prova nella novità d’una voce, d’un ritmo, e
d’una vicenda mobilissima tra intimità e visione.
La notte nel supermercato ci ha assorbito. Ci ha succhiato in lei, nel suo stralunato miracolo e nel
ventaglio dei suoi registri tra il dolente e il grottesco. Notte di trovate e di balli disperati, di montare di
aspre ira e di stupefatte sospensioni. Carriglio concentrato e premuroso, ricorrendo a volte ai ferri del
mestiere artigianale o lasciando crescere gesti e nuvole e panorami di parole nuovissime, conduceva,
chiedeva, taceva. Ho l’impressione che si sia divertito, pur nella difficoltà di condurre in porto uno
spettacolo con un testo così, e in mezzo a mille impegni. In Linee della mano ha messo alla prova la
elasticità, se così posso dire, del suo teatro. Ha lavorato sulla prova d’attore –in questo caso durissimasulla forza suggestiva della scenografia che doveva accordarsi a una lingua non d’uso e nemmeno d’uso
teatrale, e dunque non poteva risultare mai in quanto sola scenografia. Lo aiutava, qui come in altri suoi
allestimenti, una visione pittorica della scena. La poesia non sopporta i fondali, le quinte, nessuna
cartapesta o trucco, e dunque la scena e la parola dovevano essere “una”. A meno che non sia il teatro
in versi al modo di Shakespeare o di altri antichi che avevano per così dire dalla loro la “convenzione” del
teatro, e quindi della mobilità narrativa e del luogo, la poesia portata sulle assi di una scena la costringe
in un certo senso a trasformarsi in quadro, ovvero in una opera d’arte totale.
Poi Carriglio ha lavorato a lungo sulle calibrature. Poiché la poesia è voce che non ha momenti secondari,
non ha pause per riprendere fiato, non ha momenti di “passaggio”. E anche là dove erano previste risa o
veri colpi di scena o una canzone, la trama poetica –che è diversa da qualsiasi altra trama- non poteva
cedere. Dunque calibrare il tempo e le durate, le battute e il ribattere, il gesto e il vero, richiede una
capacità di intonazione interiore tra la nascita del teatro e la nascita della parola. Per questo credo, come
a verificare non tanto le sue scelte di regia ma la misura della sua intonazione interiore con i motivi del
mio testo, era a tratti fitto il dialogo, il bisbiglio in platea tra noi due su quanto veniva formandosi in
scena.
Nel suo lavoro ho veduto come la ricchezza di un testo in poesia, la sua necessaria varietà di sensi, e le
possibilità di lettura, crescono in atto. Nell’atto dell’interprete, che è uno nell’attore, uno anche
nell’autore, e che invece inizia a diventare molti nel regista. Per poi diventare ancora più largamente e
drammaticamente molti in coloro che hanno la cortesia e il coraggio di assistere.
Davide Rondoni
Parigi, settembre 2007
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ALLA MORTA POESÌ
Sento di essere DAVANTI alla porta della soluzione,
ma non riesco a vedere sufficientemente chiaro da poterla
aprire. È una situazione particolarmente strana, che non
avevo mai provato prima d’ora così chiaramente. –! –!
Ludwig Wittgenstein, Diari segreti, 16.11.’14
La poesia scritta è la noia, disposta su linee. Ma un gesto di Trisha Brown – è un esempio empio,
nel mondo dei poeti – Trisha Brown è un esempio, qui – è poesia.
Il gesto non colpisce come la parola piatta, e il teatro tradizionale è «indicativo, indiretto,
simbolico», secondo Vittorio Gassman. Se il teatro urla o si denuda, fallisce: questo è un luogo di
evocazioni, non di «mitragliatrici», dunque il lavoro del Living Theatre è «generoso, addirittura
eroico, ma utopico»: Beck e Malina non hanno armi (Intervista sul teatro, a c. di Luciano Lucignani,
Sellerio, Palermo 2002, pp. 159-160). Beck e Malina hanno armi.
Di per sé, la poesia non è sinestesia, oggi (lo fu, finché fu cantata e suonata e danzata; e finché
tutto il teatro fu [di] poesia). La commistione sensuale o sensitiva in poesia è retorica, cioè
simulata. La danza è sinestesia (udito e vista). Il cinema è sinestesia (udito e vista). La scultura è
sinestesia (vista e tatto; ma se Federico Zeri leccava una statua per sentirne la patina vera o falsa
– anche gusto). Al limite, la poesia è una partitura vocale, per Antunes o Waugh o Lo Russo – ed è
già un limite spinto molto in là, per noi.
Bisognerebbe porsi immobili su una scena e farsi aggredire, come in Yellowbelly di Brown (1969):
un gruppo di nemici, di amici beffardi (o di spettatori) arriva, urla: forza, forza, muoviti! E muoviti.
Tutti oltraggiano il tuo coraggio, che manca. Bisognerebbe che il movimento esplodesse per rabbia:
ho dimostrato loro che posso muovermi e che non ho paura. La mia fresca urina spargo tuoi piedi,
ma io danzo, danzo, e giro, giro: così Amelia Rosselli, quasi al suo inizio.
In Primary Accumulation (1971) Brown «resta supina al pavimento per i 18 minuti di durata della
danza» e libera «le gambe dalla responsabilità di supportare la parte alta del corpo» (Rossella
Mazzaglia, Trisha Brown, L’Epos, Palermo 2007, p. 71). Bisognerebbe appiattirsi sul pavimento,
aderire come animali a ciò che si calpesta. Essere immondi, ma consapevoli, nel mondo. Lasciarsi
calpestare in realtà, come Attilio Bertolucci pregava di lasciarlo «sanguinare sulla polvere». Ora, le
mirabili metafore sono morte, e in questa posizione si muovono solo le «numerose zampe,
pietosamente esili» dell’insetto Gregor Samsa: abbastanza per una «estenuante ripetizione» su una
superficie. Se su quella polvere le donne di Trivandrum vendono banane, ogni giorno, per ore,
anche tu – puoi starci.
Bisognerebbe darsi in pasto a chi guarda, a chiunque – offrire gli strumenti, anche atroci, come
Marina Abramović: sii libero di farmi ciò che vuoi, anche cose atroci – purché tu creda, avendo
visto. Beato chi crederà, senza aver sperimentato lame su Marina.
Questi gesti e altri (la pittura con la vagina, il teatro come rito, il rifiuto della rappresentazione) non
sono recenti. È storia di trenta o quaranta anni fa. Allora Fluxus poté tutto, quando tutto era ancora
inconsueto, come nel castello delle 120 journées de Sodome. Sade dice: Mio Lettore, non ti
annoierai al mio convito, ti mostro 600 perversioni che sono 600 canovacci ripetibili – parla il
regista che sarà al centro del Marat-Sade di Weiss –, e tu scegli! Lì, allora, tutto era inconsueto
perché non simulabile in una realtà virtuale: tra fare e non fare si poneva l’immaginazione. Oggi –
tutto è possibile e non scandalizza; e non io, ma il mio avatar può camminare su una parete, senza
imbracatura; tutto è possibile – dunque non interessa più. Tra fare e non fare c’è l’automa che fa
per me. E se un uomo lo fa, lo fa a titolo personale. Fine del gioco. Dunque la poesia ritorna a tanta
noia e non sale il dilettoso monte ecc.
La porta della soluzione non mancherà. Tra il poeta legislatore del mondo e il poeta demiurgo si
pone una terza via. A questa, totalmente volgare e barbarica e non-latina – ma NON PRIVA DI
CULTURA –, tende la morta poesì, perché alquanto surga. Veramente il futuro non è l’attore o il
poeta-attore. L’attore non si improvvisa. Il futuro è un poeta capace di essere poeta in ogni gesto,
di debolezza e di forza. Volerà con le stampelle, benché disabile, come lo ha visto Pippo Delbono,
magnificando un’impossibilità. Sarà dunque uno sciamano carismatico, un/una monaco/a, un
animale-angelo – ma più Zarathustra che Jodorovsky. Sia chiaro: tu non vuoi nulla, né sei potente.
Chi può è sempre un altro, che opera per te. Dunque nessuna esagerazione carismatica: questo è il
disegno di una porta stretta, dove tu non sei nulla.
Un «teatro di poesia» può essere la coreografia che tu inventi e trasmetti, senza esserne sempre
l’attante-attore. Tu non cerchi lettori, dunque non hai lettori. Ora considera le voci, i corpi, i
numeri, il tempo lungo. Non essere ingenuo: dire «io sono» è tautologico, nel migliore dei casi, o
blasfemo, quasi sempre. Di’ «io scrivo», metti la tua voce, trova chi parli al posto tuo, da’ all’avatar
il senso sacro che gli compete, confondi l’Italia degli Italiani, ecc. Questo è il «teatro di poesia»,
necessario e non virtuosistico: anche se la poesia fosse solo Rio Bo (e non è poco).
Massimo Sannelli
147
ORALITY SHOW
Quando mi è stato chiesto di scrivere un intervento sul rapporto tra poesia e teatro, la prima cosa che ho
fatto è stato riaprire l'ultimo cassetto della mia scrivania e riguardare la mia collezione di "inviti". Si tratta
di qualche centinaio di biglietti, cartoncini e dépliant pubblicitari di "eventi" poetici fra i più disparati
raccolti a partire dal 1997. Molti riguardano presentazioni di libri. Altri, la maggior parte, sono "letture di
versi". Da anni penso che dovrei disfarmi di tutta questa roba ma sembra che la mia indolenza stavolta si
sia rivelata utile: ad un'attenta analisi, infatti, mi accorgo che su di essi sono riportate
indiscriminatamente le diciture "performance", "lettura", "happening teatrale". Ho assistito a moltissime
letture e teatralizzazioni varie, molte non le ricordo neppure. Ma ancora mi colpisce la grande capacità
inventiva di alcuni organizzatori.
Credo sia abbastanza inutile stilare un catalogo con relative glosse illustrando le caratteristiche che
differenziano una lettura di poesie da una performance o da un "happening": si tratta di etichette spesso
arbitrarie che potrebbero confondere il lettore. In realtà, a parte qualche piccola variante, si tratta
sempre della stessa cosa: un tipo o una tipa si presentano di fronte ad un pubblico con un testo e lo
fonetizzano.
Fonetizzare un testo è un'azione apparentemente semplicissima: il testo è una partitura, la voce lo
strumento, tutto si riduce, in definitiva, alla produzione corporale del suono. Ma proprio come accade con
la musica (dal bel canto al rock, dal jazz al punk), si tratta di procedimenti interpretativi: il lettore ad alta
voce ha la possibilità di modulare la partitura testuale aggiungendo del suo. È il principio della cover:
Mina che canta Battisti, ad esempio, offre al fruitore delle sfumature differenti dall'interpretazione
dell'autore originale. Patty Pravo, nel San Remo del 1997, interpretò una canzone di Vasco Rossi,
canzone che da un punto di vista compositivo presentava tutti gli stilemi tipici di Rossi, ma le doti
interpretative della Pravo le permisero di appropriarsi di quel pezzo, di farlo vibrare attraverso le sue
corde (non solo vocali): "... e dimmi che non vuoi morire" ci piacque perché proveniva da un
"personaggio" come Patty Pravo. "Personaggio" e "Interpretazione" sono appunto lemmi che ritroviamo
nel gergo teatrale: il teatro è rappresentazione che si serve del personaggio per esprimere la parte
testuale davanti ad un pubblico; l'attore a sua volta interpreta il personaggio aggiungendo la propria
filologia all'intelligenza del testo.
Un'interpretazione che si rispetti coinvolge l'attore nell'apprendimento del testo (non solo dal punto di
vista mnemonico), l'attore ricerca tramite l'immedesimazione un modo per comunicare con il pubblico e
se il tutto è ben orchestrato quest'ultimo riuscirà a sperimentare quella straordinaria esperienza
empatica, un misto di piacere, terrore e consapevolezza, che è in definitiva la magia del teatro fin dalle
sue più remote origini.
Ora: canzone, teatro e poesia hanno un comune denominatore. Per funzionare hanno bisogno di una
voce. Ricordo la prima apparizione sugli scaffali della collana "InVersi" Bompiani, diretta da Aldo Nove,
forse il primo tentativo su larga scala di abbinare al "prodotto-libro di poesia” un supporto audio. Già
allora molti poeti accompagnavano la loro opera con supporti audio ma ciò era visto come una
stravaganza, una scelta artistica, una sperimentazione e non come parte integrante dell'opera, sua
estensione naturale: per quanto ne sappia, Bompiani fu il primo editore su scala nazionale a
commercializzare non solo la pagina testuale ma anche il supporto necessario all'ascolto di tale opera.
Ovvio: un testo letterario, tanto più se poetico, non sempre ha la necessità di una fonetizzazione ma
penso non vi siano dubbi sul fatto che la letteratura ha un suono e che questo suono può avvenire in un
teatro, in una libreria, in una stanza o semplicemente nella mente di un lettore. Si tratta principalmente
di preferenze di fruizione del testo letterario. Testo fondamentale sull'argomento può essere considerato
"Spazi metrici" di Amelia Rosselli, il primo poeta italiano che abbia considerato l'aspetto "musicale" del
suo lavoro come parte integrante di esso, inserendolo in una ricerca di un "linguaggio universale".
Ogni cd del catalogo “InVersi” presentava un'introduzione vocale di Alda Merini (all'epoca all'apice della
sua popolarità post-Costanzo Show) che mi sento in dovere di riportare:
“...perché la poesia è un fatto di compartecipazione fisica del
poeta a quello che dice, di empatia, di sentimento... di oralità!”.
L'oralità quindi come empatia emozionale per il testo. Il poeta come produttore non solo di senso ma
anche di suono fonico. La comunicazione orale del testo che tenta di farsi trasmissione emozionale.
L'essenza del teatro è anche questa.
Nel panorama attuale della poesia italiana (per limitarci agli ultimi anni) autrici come Mariangela Gualtieri
e Ludovica Ripa di Meana hanno sperimentato una scrittura in cui la teatralità era basilare prosopopea
finalizzata ad una reale messa in scena. Rosaria Lo Russo ha impostato la componente poematica del suo
148
lavoro basandosi su un'oralità affabulante che di teatro e personaggi si nutre. Lello Voce è riuscito a
produrre forse il primo esempio di illustrated word italiana (fondendo la spoken word con esperienze
sonore di pregio). La teatralità della lettura ad alta voce coinvolge esperienze poetiche diversissime:
penso a Massimo Sannelli che nella sua lettura riproduce l'asprezza grammaticale dei suoi testi con una
pacata armonia, penso a Patrizia Valduga che interpreta la sua metrica rigorosa con una ferocia auto
ironica, a Vivian Lamarque e a quella sua solo apparente semplicità espositiva. Si tratta ovviamente di un
elenco carente che tuttavia suggerisce che, in molti casi, la scrittura, al di là dell'esperienza performativa,
si attua attraverso una sorta di respiro mentale, di evocazione sonora, di polmonare ri/composizione della
parola poetica.
Per quanto riguarda la mia personale attività di scrittura, ho iniziato a concentrare la mia attenzione sul
rapporto fra testo cartaceo ed esposizione fonica dello stesso nel 1999, con una piccola compagine il cui
titolo aveva già una precisa connotazione musicale: Notturno per grondaia e fili della luce non era
pensato come rappresentazione performativa ma come tentativo di elaborazione di un metodo grafico che
potesse riprodurre, possibilmente, una sua eventuale fonetizzazione ad alta voce. Sulla base di questa
esperienza mi accorsi delle potenzialità che un qualsiasi testo poetico avrebbe potuto esprimere
all'interno di una situazione in cui fosse coinvolto un pubblico. Varie esperienze diverse, successivamente,
mi portarono alla convinzione che il cosiddetto “teatro di poesia” altro non fosse che una riproposizione di
una realtà stabilita dall'autore durante la scrittura e che la sua “messa in scena” costituisse non tanto una
probabile finzione interpretativa (atto che poteva presupporre una rielaborazione) quanto l'ammissione in
presa diretta del testo alla realtà in cui avveniva. Non v'era insomma simulazione scenica: il teatro, la
libreria, il luogo della fonetizzazione era realtà e il testo accadeva nell'ambiente senza una regia stabilita
a priori. Se questa dinamica da una parte permetteva una duttilità interpretativa molto ampia,
presentava comunque alcuni limiti: l'auditore, privo di una contestualizzazione che non fosse critica ma
scenica, poteva sperimentare uno smarrimento alla fruizione, una sensazione di depistaggio da parte
dell'esecutore e la causa, a mio parere, era da ricercarsi nell'assenza di una esplicitazione del
“personaggio”. La scrittura di Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste attraversò molte fasi diverse
(in origine si trattava di una sestina lirica e solo dopo molte rielaborazioni iniziai a pensare ad un
monologo drammatico rappeggiante). Stesura dopo stesura mi accorsi dell'importanza di creare una voce
adeguata al personaggio di Sebastiano. Mentre scrivevo, ogni verso era poi ripetuto ad alta voce, in modo
che mi fosse possibile, pagina dopo pagina, tenere sotto controllo la dicibilità orale del testo. Ma più che
di “controllo” dovrei parlare di “deragliamento”, poiché il poemetto affronta il tema dell'abbandono e
dell'abbandonarsi (dell'essere abbandonati, insomma e dell'abbandonarsi a qualcos'altro). Le effusioni
retoriche che vi si possono rintracciare erano finalizzate alla riproduzione per lo più fedele di uno stato
mentale confusionale e tuttavia ossessivamente determinato. Sebastiano è senz'altro un “personaggio”
ma credo (spero) riesca a comunicare sia al lettore che al fruitore auditivo le sue ragioni. Mi sono avvalso
dell'uso di una mitologia codificata per fini comunicativi, di modo che fosse più semplice stimolare un
processo identificativo. Le varie inserzioni di testualità teatrale che accompagnano il poemetto sono per la
maggior parte riferimenti mentali per una corretta fonetizzazione da parte dell'autore-esecutore, in teoria
non avrebbero dovuto comparire nell'edizione a stampa ma pensai che, seppur stravaganti, potessero
comunque suggerire al lettore alcune modalità intrpretative, che potessero stimolarlo ad una sommaria
interpretazione ritmica anche durante una lettura mentale. La “messa in voce” del poema costituiva non
tanto una rappresentazione quanto una riproduzione del testo così come era risuonato nella mente dello
scrivente durante la stesura. Dire un testo è, in pratica scriverlo oralmente. Nonostante il poema
funzionasse praticamente come un copione, per quanto possibile la sua esecuzione doveva restar fedele
alla realtà della scrittura in quanto realtà sonora, più che scenica. Il progetto multimediale che ha
accompagnato le varie esecuzioni di Sebastian ha potuto usufruire di una buona dose di situazionismo: se
infatti la prima esecuzione avvenne clandestinamente in un club privato per soli uomini con
l'accompagnamento di cubisti coperti solamente di perizoma in ecopelle a simulare un esperimento di
teatro-danza, presto mi accorsi che ogni apparato scenico, musicale (dal sottofondo techno alle
improvvisazioni con la viola) e iconografico aggiungevano ben poco al dramma che già avevo concepito
come grottesco, barocco, volutamente trash. Tale pesante e feroce (auto)ironia era già nel programma di
impostazione vocale che eseguivo: basandomi sul timbro della mia voce, già allora reso roco da una
quantità smodata di nicotina, avevo dato molto spazio a soluzioni allitterative che ad un mero livello
fonosillabico potevano titillare l'attenzione dell'orecchio un po' smarrito dell'auditore. Non sta certo a me
giudicare o esprimere un parere definitivo su quanto questa mia operazione sia riuscita ma posso
limitarmi a suggerire che un certo intento catartico che vi stava alla base si è pienamente realizzato.
Marco Simonelli
149
GLI AUTORI
150
Il teatro dei poeti
151
NIETZSCHE
LA DANZA SULL’ABISSO
Di SONIA ANTINORI
Personaggi
N
E
L
M
A
I
C
C1
Il filosofo
Sua sorella, minore di due anni
L’amica Lou
Il medico
La serva Alwine
L’infermiera
La cameriera
Un cavallo
REQUIEM
Il filosofo, la sorella, Alwine, il medico
N Sì è questa l’aria delle cime
l’odore celeste del ghiaccio
ultima solitudine.
Quanta parte di mondo sento ora sotto di me
adagiata nell’ombra dura della montagna
nella stanza umana del soccombente
Io felino e predatore
Cristo dalla pelle maculata
Senza patria
Io che solo nella grande ora
davanti al pericolo dei pericoli
sento la mia anima quietarsi
e così mi racconterò la mia vita.
M Non è niente: funzioni corporee.
N Come un ramarro notturno
Guardo ciò che un giorno era una stella
E ora è diventata una macchia.
E Apra la finestra.
A È il corpo. Il corpo abbandonato.
E Non ce la faccio.
A Esca.
E Apra.
N Chi è che bussa?
Rinoceronti con proboscidi da elefante?
Niente domande
Che importa delle parole!
Vengo da cento abissi
in cui nessuno sguardo ancora
s’è avventurato Conosco altezze
a cui nessun uccello è volato
nel ghiaccio ho vissuto
da cento nevi sono stato bruciato
Caldo e freddo nella mia bocca
paiono altre parole.
E A volte, solo a volte una leggera esitazione nel pronunciare la consonante d’inizio di una parola.
A Il colorito è molto pallido.
M Terreo.
A Le mani non riescono più ad afferrare gli oggetti.
E Ha lasciato cadere il suo bicchiere senza accorgersene.
A Con lo sguardo accigliato come se si rendesse conto.
M Apomorfina. Idroclorato 0,05 Acqua distillata. Glicerina. Un cucchiaio ogni tre ore.
A Ho sistemato contro il letto lo schienale della sedia.
152
E Perché non cada.
M Si sbilancia nel sonno?
E È già caduto.
A Da allora metto sempre la sedia contro il letto.
E Così mio fratello è sicuro.
A Ha cominciato a rifiutare il cibo.
E Ma prima ha mormorato: fichi. Ha detto fichi. Quando maturano i fichi?
N Ecco miei pazienti amici
si celebra l’ingresso nella Storia
Quella per cui lo stomaco
aduso alle piccole digestioni
deve approntare succhi
atti a scomporre più ponderose molecole.
Le mani che stanno per essere qui incrociate
non sono impasti semplici di ossa e muscoli
ma sublimi strumenti per la gloria del mondo.
Lo spettacolo sarà grandioso
stupendamente orchestrato
da una madrina d’eccezione
E Non ho scritto dei bei libri? Mi ha chiesto. Hai scritto i più bei libri che siano mai stati scritti. Gli ho
risposto. Lisbeth, mi ha chiamato. Sì. Gli ho risposto. Se dovessi morire promettimi che attorno alla mia
bara ci saranno solo gli amici, non i curiosi. Mi ha detto. Quando non potrò più ribellarmi fa che nessun
prete e nessuno in assoluto pronunci menzogne sulla mia bara e fammi deporre nella tomba come un
vero pagano. Mi ha detto e io giurato. Lisbeth mi ha chiamato. Come potrei non tener fede alla parola
data. In pochi ci riuniremo qui nella dimora di Silberblick attorno al suo corpo. In pochi amati fedeli
godremo dell’ultimo sguardo. Il mondo lo accompagnerà nella terra quando il suo viso sarà già celato per
sempre.
N In questo giorno perfetto
In cui il sole stende i suoi raggi
E In questo giorno triste
In cui il sole spegne i suoi raggi
N …sull’ultimo movimento
della mia coperta…
E …sull’ultima ora di un grande
figlio della nostra patria…
N …come potrei non essere grato
alla mia vita tutta…
E …come potremo non chiedere
perdono sopravvivendo alla sua morte…
…se non lodando il Signore.
L’ORA DEL TÈ
E Povera Elisabeth
Ha raccolto tutte le lettere
Duemila marchi a Malwida
Quasi tremila marchi al vecchio editore
E l’incarico di far decifrare gli ultimi scarabocchi
Per raccogliere qualche diritto
E procedere infine al rammodernamento della casa
Perché tutta la Germania viene a Silberblick
Studenti in pellegrinaggio
Artisti scrittori poeti
E l’intera generazione di sangue blu
Perché non c’è giornale in tutta Germania
che non parli di lui
Povera Elisabeth
Sotto la bella società
Sopra il malato
Sotto i ricevimenti
Sopra le grida
Sotto il tè
Sopra il cloralio
Per Lui solo per Lui
153
Fortunatamente c’è qualcuno che l’aiuta
Un cuoco un maggiordomo un autista
Il suo segretario privato
I giardinieri
E a volte
solo a volte
i quattro editori
A L’angelica signora
non fa che destabilizzare
tormentare torturare
chi la circonda.
L’angelica signora
non scende più in città
ma esce con la sua carrozza
con il suo autista il maggiordomo
e le loro livree tirate a lucido.
L’angelica signora
è diventata una vera dama
Ed è molto amata per le sue
Brillanti conversazioni
E Il lama è un animale singolare
Porta spontaneamente i carichi più pesanti
Ma quando lo si vuol costringere
O lo si maltratta
Rifiuta di prendere il cibo
E si sdraia a morire per terra
Così la chiamava suo fratello
Il Lama
Trovava questa descrizione così adatta
Che quando aveva bisogno di aiuto
La chiamava così: il Lama
Curioso è che il lama
A mo’ di difesa
Sputa contro l’avversario la saliva
E il foraggio digerito a metà!
Povera povera povera Elisabeth.
GIANT’S CAVE
N In silenzio parlo ora dal mio tempio
La prigione dell’irrequieto
Senza sembrare il malato
né il lunatico che sono
che sono sempre stato
piuttosto un uomo morto.
Si disimpara completamente a tacere
Quando si è stati così a lungo soli
Come talpe.
Chi va per la sua via
Non incontra mai nessuno
E di ogni pericolo
Caso, delitto, perturbazione
Deve venirne a capo da solo.
Ha per sé la sua via
E l’amarezza, il disgusto
Della solitudine
La consapevolezza che gli altri
Gli amici persino
Non possano indovinare
Dove egli sia
Dove stia andando
E talvolta si domandino
“Èancora in cammino?
Ha ancora una strada?”
154
Mentre quello discende in profondità
Come una particella pesante
Per toccare il fondo del mare
E scoprire che è fatto di cenere.
In principio era il blu
Ma io non ho mai avuto il piacere
Di una sensibilità spiccatamente cromatica
Quindi la nostalgia non attecchisce
Sulle mie pupille
Così come sulla mia anima
Non cresce romanticismo
Fleur de decadence
E lasciate che sia io a dirlo
Io che della decadence ero il figliol prodigo
Quello con lo sguardo rivolto a Mezzogiorno
E alle spalle le rovine d’Europa
Come altri
Prima e dopo di me
Stirpe di giganti
Costretti a scegliere
Siderali distanze
Ultimi filosofi
Dopo gli ultimi uomini.
Costretti a parlare a se stessi
Per ascoltare nella propria voce
L’eco di una umana felicità
E inventare la moltitudine
E l’amore
Per non arrendersi a credere
Che l’amore è morto
E parlando commettere
Ancora una volta
Lo stesso delitto
Perché niente può essere manipolato
Come le parole
E noi abbiamo continuato a parlare
Quando piuttosto avremmo dovuto vivere.
LISTA N.1
I Registrazione presso l’Istituto di igiene Mentale di Jena, granducato di Sassonia
1 Data d’ingresso: 18 gennaio 1889
2 Cognome: Nietzsche Nome Friedrich
3 Luogo di nascita: Röcken
4 Data di nascita: 15 ottobre 1844
5 Stato di famiglia: celibe
6 Fede: evangelica
7 Professione o mestiere: docente a riposo
8 Ereditarietà: eventuale per linea paterna
9 Altre cause: sifilide
10 Diagnosi: paralisi progressiva
Dati fisici
1 uomo distintamente alto: 171 centimetri
2 muscolatura e corporatura: media
3 capigliatura: scura lievemente diradata
4 iride: verdebruno
5 orecchio destro: lunghezza 5,8; orecchio sinistro 5,6
6 circonferenza cranica: 57 centimetri
7 viso: fortemente arrossato
8 battito cardiaco: debole e regolare
9 apice del polmone: normale
10 molteplici ghiandole infiammate nella zona inguinale
155
Calendario
Venerdì 14 giugno: prende il capoguardiano per Bismarck
Sabato 16 giugno: chiede più volte aiuto contro le torture notturne
Lunedì 17 giugno: esegue movimenti ginnici, si tiene chiuso il naso per ore, si produce in continui giochi
di parole.
Martedì 18 giugno: parla in tono ringhioso, lezioso, a volte patetico
Venerdì 21 giugno: più tranquillo
Sabato 22 giugno: la piccola ferita che si è procurato è in via di guarigione
Mercoledì 26 giugno: sempre alla stessa ora in giardino
Martedì 2 luglio: urina nel bicchiere
Giovedì 4 luglio: rompe un bicchiere “per difendersi al passaggio con le schegge di vetro”
Martedì 9 luglio: salta, fa smorfie, solleva la spalla sinistra
Sabato 27 luglio: si stende vicino al letto sul pavimento
LA GRANDE SALUTE
N Verde
Sui rami scheletrici
Dell’autunno insolitamente esultante
Verde
Nei sentieri sassosi
Dell’inverno convulso della disperanza
Nell’aria fatta limpida
Come non credevo possibile
sulla terra Ogni giorno
la stessa indomabile perfezione
La solitudine non ferisce
matura
per questo la stella del sole
deve esserti amica all’alba
del primo giorno dell’anno primo
Quando la rinascita impone
Un nuovo sistema nel calcolo del tempo
perché un dio ti ha rovesciato nel mondo
con occhi tanto grandi che l’intero mondo
ti ha annegato.
DIONISO ZAGREO SULLE RIVE DEL FIUME PO
E Tre interi fogli ha riempito
delle sue più selvagge fantasie.
Dioniso Zagreo sbranato dai suoi nemici
che torna come un Cristo resuscitato
a camminare lungo il fiume Po.
Dioniso Zagreo che vede tutto ciò che ha amato
ridotto ai piedi di quelli che
un tempo gli erano stati cari.
Fino qui in Paraguay deve raggiungermi
la sua testa matta e tormentare me e
mio marito e come se non bastasse
quella povera donna di mia madre in patria.
Wagner Schopenhauer Bismarck
l’Imperatore il professor Overbeck
l’allievo Peter Gast Frau Cosima
Wagner mio marito mia madre e me
Tutti tramutati nei porci
che gli affollano la mente
E firma le sue lettere:
Dioniso, La bestia o
Quello che è stato crocifisso.
N Cercando qualcosa
di perfettamente antitetico a me
156
qualcosa per rappresentare
l’inesauribile meschinità dell’istinto
mi sono sempre e nuovamente imbattuto
in mia madre e mia sorella
Credermi imparentato con canaille
di questo genere è
una bestemmia contro
la mia natura divina.
Mia madre e mia sorella
sono l’obiezione biologica
al mio pensiero dell’”eterno ritorno”
Il trattamento
che ho sperimentato da parte
di mia madre e mia sorella
mi incute un terrore
inesprimibile È
una perfetta macchina infernale
pronta a ferirmi
a sangue
proprio in quei momenti
che sa calcolare
con infallibile precisione
proprio nei momenti più alti
nel tempo in cui le forze non bastano
per difendersi
dai vermi velenosi.
E Anche quegli appunti contenevano
brani di notevole bellezza,
pur essendo nell’insieme
il prodotto di una mente delirante.
Quei fogli furono distrutti
da mia madre Pensava che Fritz,
con il suo buon cuore e il suo gusto
raffinato avrebbe sofferto troppo
se avesse dovuto ritrovare
quei fogli in futuro
RAPSODIA DI TORINO
N Nel mio stato
allegro e maligno
mi diverto a raccontare tra me e me
sciocche spiritosaggini
e ho tante intuizioni private da pagliaccio
che a volte mi capita di andarmene per strada
con il volto piegato nella smorfia
del sorriso
per una mezz’ora intera.
Io Felix Fallax
Tiranno di Torino
Questa gran dama nient’affatto moderna
E io suo aristocratico naturale
A cui presagi manifestarono la prospettiva
Di una fine animale
Che è come dire
Retrocedere o procedere
Alla festa del corpo
Mangiando e godendo
Come forse avrei dovuto fare
In stagioni non sospette.
C Lo straniero viene sempre a mezzogiorno
Legge il giornale e ordina da bere.
Lo straniero è un uomo pacifico
e gentile sotto i suoi baffi malinconici.
157
Lo straniero ama tanto Torino, che l’ha eletta a sua seconda casa.
Lo straniero ama tanto il nostro clima che passeggia ore e ore lungo il fiume.
Dice lo straniero che nessuno raggiunge noi italiani nell’arte della preparazione alimentare
Una tale perizia nel reperimento degli ingredienti
E nell’allevamento delle bestie da consumo
Non trova paragoni in nessun luogo europeo.
Dice lo straniero che per questo il nostro bel paese è così straordinariamente ospitale
Perché le nostre budella sono accarezzate da processi di rielaborazione assolutamente inimitabili
E i nostri corpi animati da allegria rinascimentale
Quindi di lunga e valente tradizione.
Dice lo straniero che la cucina della sua terra
È responsabile dei disordini intestinali, musicali e politici del suo popolo.
Perché è facile capire che una nazione che bolle la carne all’eccesso
Rende le verdure grasse e farinose, cuoce dolci che degenerano in fermacarte
Non può che appesantirsi lo spirito fino all’autodistruzione.
Dice lo straniero che anche la dieta inglese e persino la francese ammalano corpo e anima
mentre invece nelle cucine italiane e più ancora nelle piemontesi
vige il principio della leggerezza.
La carne di vitello è tenera quanto la carne d’agnello.
Le minestre asciutte o in brodo sono la quintessenza della delicatezza.
L’acqua abbonda in tutte le fontane.
E nei caffè si gode del gelato e ci si innaffia di musica.
N Il filosofo tragico voleva essere un pagliaccio
Ma è un pessimo attore
E un musicista indigesto
Lei ha stuprato Euterpe
Con la sua aberrante scorribanda
Nel campo della composizione
Il barone von Bülow - Hanswurst
Come i suoi teutonici amici
Lizst e Wagner
La prego per il futuro di inviare
le sue giudiziose missive
al mio nuovo indirizzo
che per il momento supponiamo possa essere
Palazzo del Quirinale Roma
nel cuore dell’Imperium Romanum
del resto è stata mia moglie
Cosima Wagner a condurmi qui
Seigneur von Bülow
Ma ora la mia unica salvezza
è l’operetta spagnola
da Madrid
squillante di felicissime canaglie
al di là del bene e del male
colma di avventurieri
in grande stile
La Carmen sì
Schumann no
Offenbach sì
Il nibelunghismo no
Il maestro Jommelli sì
Brahms no
Non so fare differenza
tra la musica e le lacrime
non so pensare la felicità e il sud
senza brivido di terrore
Stavo sul ponte
ora nella notte bruna
da lontano veniva un canto
gocce d’oro sgorgavano
perse sulla distesa tremante.
Gondole, luci, musica –
ebbre sciamavano nel crepuscolo…
La mia anima, una corda
toccata dall’invisibile
158
a sé cantava in segreto
una canzone di gondolieri
tremando di beatitudine multicolore.
- Qualcuno l’ha mai ascoltata?…
Di sera al Caffè Livorno
dalle tre alle cinque Caffè Fiorio
non al Roma no libreria Löscher
Non mettere gli occhiali per strada!
Non acquistare libri!
Non andare in mezzo alla folla!
Di sera per il giardino del Valentino fino al Castello
poi di nuovo dentro il giardino
fino alla fine di Piazza Vittorio e al Caffè Livorno.
In teatro provare la Galleria numerata!
Non scrivere lettere!
Non leggere libri!
Portarsi qualcosa da leggere al Caffè.
Taccuino!
Bere acqua
Mai alcolici
Ogni tanto rabarbaro
La mattina una tazza di tè: lasciar raffreddare!
Di notte, un po’ più caldo!
In teatro galleria posto numerato
Niente occhiali per strada
Niente L öscher
Niente Roma
Non scrivere lettere
Di sera abiti caldi
Torino: Albergo Nazionale Via Lagrange
Tovagliolo a colazione
Cucchiaio per il tè
Lastra di marmo per il tavolo
Spiritus
Zucchero
Candele
Bottiglia da un litro
Cucchiaio
Cassetta
Di notte una coperta più calda
Soprabito
Stivalare
Alla fin fine avrei preferito
continuare a essere professore a Basilea
piuttosto che diventare Dio
ma non ho osato spingere
il mio egoismo fino
a rinunciare
alla creazione del mondo.
Dopo l’abdicazione del vecchio Dio io regnerò
Io la personalità dominante di tutti i millenni
getterò in prigione il papa e tutti gli antisemiti
stringerò il Reich in una camicia di forza
e lo provocherò a una guerra di disperazione
Se i tedeschi potessero inventare
una Siberia dove confinarmi
lo avrebbero già fatto
Il mio vangelo sia pubblicato
in un milione di copie
e gli si procuri un bel vestito alla francese
prima che sia tradotto anche in inglese
groenlandese
e tutte le lingue esistenti
sotto il cielo di questo nostro pianeta morale
159
Chi oggi ride bene
ride anche in ultimo
e io Carlo Alberto
quest’autunno
vestito il più leggero possibile,
sono stato due volte presente alle mie esequie
la prima come Conte di Robilant
che poi è mio figlio
e poi come Principe di Carignano.
Io Duke of Cumberland
Io Friedrich Wilhelm der IV
Io nemico di me stesso
Io crocifisso
Io Anticristo
Io Edipo
Io Dioniso
L’ululante
Il boato
Il tonante
Gloria mundi
Getta la maschera pagliaccio
Sei diventato triste come Shakespeare
Per aver bisogno di fare il buffone a quel modo
Perché sono state le certezze
E non il dubbio che ti hanno ridotto
a diventare tu stesso l’abisso
su cui ti illudevi di danzare
Chi ha parlato?
Quell’uomo ha un berretto da buffone
La mia vita per quel berretto
Che io mi possa vestire dei panni
che mi si addicono
via via questi stracci
voglio una veste multicolore
che mi si adatti al petto
come un mazzo di fiori
dovrebbe ornarmi i calzoni
Dove sono le donne?
quelle creature perfettibili
che diventano così belle
quando compaiono come navi lontane
scivolando su un mare di vetro.
C1 Io l’ho visto e ho letto nei suoi occhi
quel terrore oltreumano
del corpo che cadeva
restando tuttavia
incatenato alla vita
N In agguato
Aggomitolato
Fra due nulla incurvato
Un enigma per rapaci
Ti scioglieranno certo
Ti svolazzano già intorno
C2 L’ho visto e ho letto nei suoi occhi
il grido umano troppo umano
degli orfani di Dio
che tuffano labbra tremanti
alla fonte di luce
N Eccole
è l’alba dei molti soli
che insieme si alzano
e fanno il giorno e la notte
160
in un’unica danza
C L’ho visto e ho letto nei suoi occhi
Il lamento umano d’essere condannato
dalla propria natura stellare
a uccidere l’uomo dentro di sé
Mi si è gettato al collo
mentre il padrone mi alzava la frusta
sul muso e sugli occhi
e nello strepito è scivolato giù
portato dall’acqua del fiume.
AN DIE FREUDE
N Maturati tuffati nel fuoco, cotti
sono i frutti e sulla terra provati
Troppo a lungo ho vissuto
Selvatico in selvatici esili
Per non tornare a te
mia patria solitudine!
Sii compagna della mia notte
O azzurra solitudine
Ora che la campana nell’aria fredda
mi dice i suoi segreti rintocchi
Ah nero mare desolato sotto di me!
Ah gravida irrequietezza della notte!
Ah, mare e destino! Verso di voi devo
scendere ora giù in basso.
Non l’altezza ma la discesa è spaventosa
È notte
Rovesciata è l’eterna clessidra dell’esistenza
Oggi per la prima volta felice
di aver vissuto
tutta la mia vita
conto con gioia ogni granello di sabbia
Il mondo dorme ora
Anche il mare dorme
allagato dal sonno e straniero
getta il suo sguardo su di me
ma il suo respiro è caldo lo sento
e sento anche che sta sognando
e sognando si gira e rigira su cuscini ruvidi
Ricordi tristi! Tristi speranze?
Poco alla mezzanotte
Sono pronto
“Ancora una volta!”
voglio dire alla morte
E ripudiare ogni stanchezza
Ecco qui la barca
argentea come un pesce
si prepara all’altra sponda.
Forse nel grande nulla
Senza suono sarà il suo naufragio
È notte
Ma io mi guardo dal chiamare il sonno
Non vuole essere chiamato il sonno
Piuttosto cullato dai pensieri del giorno
Verrà a bussare alle mie palpebre
Che cadranno pesanti
e mi sfiorerà la bocca
fino ad aprirla
Ecco gli ultimi rintocchi
Io passo in mezzo agli uomini
Come in mezzo a frammenti d’avvenire
161
Di quell’avvenire che annuncio
Cometa alata nel mio tramonto
È l’ora senza voce
È l’ora in cui i sogni mi salgono
Sul dorso e galoppano sfrenati
Verso il segreto del mattino
Verso l’aurora
Verso la verità
Uno!
Uomo! Attento!
Due!
Che dice la mezzanotte profonda?
Tre!
“Dormivo, dormivo…
Quattro!
Da un sogno profondo mi sono svegliata:…
Cinque!
Il mondo è profondo,
Sei!
Più profondo che nei pensieri del giorno.
Sette!
Profondo è il suo dolore…
Otto!
Piacere… più profondo della pena del cuore:
Nove!
Il dolore dice: passa!
Dieci!
Ma ogni piacere vuole eternità…
Undici!
… vuole profonda, profonda eternità!”
Dodici!
E ora stropiccia via il sonno dai tuoi occhi, e quando sarai sveglio, resta sveglio in eterno.
VIRTU’ NAUMBURGHESE
E Che cos’è una menzogna? Nulla
Un abuso di fiducia? Nulla
Quattro settimane sono passate
che io vivo nella più grande solitudine
e non oso tornare a casa
perché nessuno veda il mio dolore
e i miei occhi arrossati dal pianto.
Perduto il mio ideale non so consolarmi.
Quella donna gli si è attaccata alle falde
come una zecca Quella russa
è cresciuta tra noi come un’ortica
perché lei È
non posso negarlo
la personificazione
della filosofia di mio fratello.
Egoismo felino
che abbatte tutto quanto gli sbarra la strada
Quella russa non si è accontentata
di appropriarsi
della filosofia di mio fratello
quale ornamento alla sua bassa natura
Quella russa ha cercato di appropriarsi
dell’anima di mio fratello
trascinandolo nella squallida esperienza
del concubinaggio
Dividere tetto e tavola
due uomini e una femmina
per la mia delicatezza d’animo un tormento
per l’innocenza della mia vita un martirio
162
Amare ammirare mio fratello lavorare
per lui solo per lui
ecco il compito della mia vita
E quella donna
Quella russa ha strappato le ali
del mio unico incanto
Da quando quella donna
è entrata nella sua vita
Fritz ha cominciato a mentire
e a intessere con lei discorsi vergognosi
Che cos’è un dovere compiuto? Una sciocchezza
E un’offesa ad amici fedeli? Un buon giudizio
La compassione? Spregevole
Perché in fondo che cos’è un filosofo
Terra di nessuno
Ma se quella baldracca
pensa di sventolare ancora la
bandiera del suo malcostume
su quel che resta del nostro nome
si sbaglia
perché io le tesserò tutt’attorno
una fitta cortina di bava maleodorante
tanto che ognuno dovrà staccarsi da lei
come il sano dal lebbroso
E dovessi perdere la salute
per questa lotta giuro
che non mi fermerò.
GHOST SONATE
N Se solo mi figuro le conseguenze
riposte in ogni profondo sospetto
le paure e i brividi
dell’isolamento in cui è murato
chiunque sia affetto da una assoluta
diversità di sguardo
allora so che niente
avrebbe potuto essere altrimenti.
Quante volte
per curarmi da me stesso,
per dimenticarmi
ho dovuto cercare rifugio
nell’incantevole sospetto dell’affinità
credendo di non essere solo
di non vedere da solo.
E quando non trovavo
ciò di cui avevo bisogno
me lo sono dovuto procurare
artificialmente
falsificandolo
inventandolo
come fanno i poeti
A che scopo esisterebbe un’arte
nel mondo?
Mi si potrebbe accusare della raffinata
abilità del falsario.
Ma chi sa
chi può sapere
quanta superiore astuzia
sia contenuta in questo autoinganno
Io sono ancora vivo
e la vita vuole inganno
vive di quello.
Così una volta
163
quando ne ebbi bisogno
mi inventai gli spiriti liberi.
Gli spiriti liberi non esistono
non sono mai esistiti
ma io ne avevo bisogno
per restare di buon umore in mezzo a cose cattive
come buoni compagni e fantasmi
coi quali si parla e si ride
quando si ha voglia di parlare e di ridere.
L Ha sentito anche lei?
N Cosa?
L Zitto: ascolti!
Silenzio. Un tonfo sordo
N L’ho sentito.
L È successo anche ieri. Si ricorda?
N No. Sì. Avevo mal di testa e mi ha dato come una fitta.
L Ma non era più successo. Voglio dire ieri sera dopo che lei è uscito e neanche oggi prima che lei
entrasse.
N Non mi permetterei mai di giocarle uno scherzo così inopportuno.
L Non credo che sia uno scherzo.
N Neanche Elisabeth si azzarderebbe mai.
L Elisabeth è uscita. (C.S.) Senta: ancora.
N Saranno i cacciatori.
L Non sembra che venga da fuori.
N E allora?
L Non mi nasconde niente?
N No, gliel’ho già detto.
L Mogli appese in soffitta che si lamentano e pestano i piedi non appena lei entra nella mia stanza.
N Lou!
L Povere fanciulle invischiate nella tela delle sue parole.
N Per favore!
L Confessi, non le resta altro da fare. (C.S.) Sente: continuano. Impazziscono di gelosia.
N Hai tradito la mia fiducia.
L Non avrei mai potuto.
N Sei salita all’ultimo piano.
L No, giuro.
N E allora dammi la chiave che ti ho consegnato stamattina.
L Non posso. L’ho perduta.
N Cosa nascondi lì dietro?
L Niente.
N (batte a terra con il piede) Un altro colpo. Mostrami quello che hai in mano.
L Ora è stato lei.
N Non è vero.
L Falso. Bugiardo.
N Non si permetta certe espressioni.
L Era solo un gioco.
N Non lo so. Io volevo vivere da solo. Ma poi il caro uccello Lou mi traversò a volo la strada e io la credetti un’aquila. E
volli avere quest’aquila attorno a me.
L Chi può dire di averlo conosciuto? All’osservatore frettoloso la sua figura non presentava nulla che
desse nell’occhio: un uomo di media statura, dagli abiti estremamente semplici, ma curati, dai tratti
distesi e i capelli castani pettinati all’indietro. Il contorno della bocca, sottile e quanto mai espressivo,
veniva quasi interamente nascosto da grossi baffi spioventi; aveva una risata sommessa, un modo di
parlare senza fragore e l’andatura cauta e meditabonda di chi non si mescola alla folla. I colpi degli spiriti ci funestano solo quando siamo insieme. Dobbiamo avere in comune anche questa
maledetta facoltà.
N C’è un fascino particolare nell’incontro degli stessi pensieri, delle stesse idee e sensazioni; ci si capisce
quasi a mezze parole. Credo che l’unica differenza tra noi due sia l’età. Abbiamo vissuto e pensato nello
stesso modo.
L Siamo del tutto vicini? No, malgrado tutto no. C’è sempre come un’ombra che si insinua tra di noi e ci
divide. E in qualche profondo recesso del nostro essere ci dividono distanze incolmabili. Nietzsche
nasconde in se stesso, come una vecchia rocca, alcune oscure segrete, sotterranei nascosti che non
risultano a una conoscenza superficiale, ma che pure possono contenere la sua più vera essenza. È
strano, ultimamente sono stata colpita con improvvisa violenza dal pensiero che forse un giorno
potremmo fronteggiarci come nemici.
N Io nascondo in me stesso, come una vecchia rocca, alcune oscure segrete, sotterranei nascosti che
164
non risultano a una conoscenza superficiale, ma che pure possono contenere la sua più vera essenza.
L È strano, ultimamente sono stata colpita con improvvisa violenza dal pensiero che forse un giorno
potremmo fronteggiarci come nemici.
N Sii saggia, Arianna!…
Tu hai orecchie piccole, hai le mie orecchie:
mettici dentro una parola saggia!
Non ci si deve prima odiare, se ci si vuole amare?…
AMICIZIA STELLARE
L Le tue mani erano così belle da attirare involontariamente lo sguardo, mani rivelatrici. Come i tuoi
occhi, semiciechi, che sembravano custodire autentici tesori, muti segreti che nessuno avrebbe dovuto
violare. Occhi rivolti verso l’interno e al tempo stesso lanciati in vertiginosa distanza, nei mondi
dell’anima con le sue infinite possibilità. Ma ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera che come
una scorza, pur tradendo l’esistenza del frutto, ancor più accuratamente lo difende. E in te c’è sempre
stato il gusto del travestimento: mantello e maschera per una vita interiore quasi mai messa a nudo.
Quando ti parlai la prima volta –era aprile, nella chiesa di San Pietro a Roma – nei primi istanti fui colpita
e tratta in inganno dalla tua compitezza ricercata. Poi cominciai a domandarmi che cosa questa tua
solennità, questa maschera maldestra con cui l’uomo che viene dai monti e dal deserto indossa la giacca
dell’uomo di mondo, dovesse nascondere. Era l’uso della solitudine che nell’incontro con l’altro ti
costringeva a simulare una superficie, per poter essere inteso. Mi dicesti solennemente “Cadendo da quali
stelle siamo stati spinti qui, l’uno incontro all’altra?” Ora ci ritroviamo nell’orbita che abbiamo sempre
abitato, al di là del presente contatto, nella gioia sublime di uno sguardo tra eterni, sussurrandoci e
bisbigliando le parole di una lingua che non ci appartiene più e che ci è propria ormai soltanto nei sogni.
In questo sorriso di sole che ci si scolpisce sul viso, ora che non temiamo più niente l’uno dall’altra, ora
che la vicinanza e la lontananza sono sconfitte dall’ovunque assoluto del nostro cielo comune, i nostri
desideri si sciolgono, niente più contano le maschere dell’indifferenza e della rassegnazione e noi stessi
diventiamo la bianca armonia della pietra, della spuma, della nube e del lampo.
IL RANDAGIO E LA SUA OMBRA
N Ho perso la mia valigia
In nessun posto
Sono un fugitivus errans
e faccio il cercatore di paesaggi
Di ogni luogo misuro temperatura e pressione atmosferica
precipitazione e grado di umidità
con igroscopio e idrostato
Abito ogni piazza dalla luce spietata
che scarnifica le cose come la
lama dell’immane coltello orizzontale.
Abito la crosta del ghiaccio
nell’attimo preciso in cui si spezza
Da un male nero sono abitato
che scava e raschia
e smuove e graffia
e mi dissoda l’anima
e la riconquista
Parossistica cefalea cecità
indipendenza dell’anima o angelo
malvagio A volte non so più se sono
la Sfinge che interroga o quel famoso
Edipo che viene interrogato
Gliela faremo recapitare signore
Dove vive signore?
Dove alloggia signore?
È sufficiente un indirizzo signore
Nella sua condizione di salute
potrebbe visitare St. Moritz o
trattenersi a Venezia
fare una cura termale a Marienbad
o visitare la riviera
165
E due sono le chances che ho per l’abisso
Ubi pater sum ibi patria
Solo niente Germania
Odio la terra quando è senza cielo
Sopporto la vita al mattino
ma non il pomeriggio e la sera ancor meno
Niente preoccupazioni per il futuro
Il mio tempo potrebbe strapparsi di colpo.
Non bisogna che il destino si accorga di quel che vogliamo
Vago da solo come il rinoceronte
Una città nuova mi spaventa come una bestia feroce
Non un uomo ma un conglomerato di uomini
Scrupoloso controllo dei processi digestivi
Evitare ogni eccessivo sforzo fisico e intellettuale
Astenersi da ogni forte stimolo luminoso
Oppure amico mio…
Oppure?
Genova Roma Montecarlo
Vicenza Tunisi Sorrento
L’aria del mare
Lo scirocco il vento australe
La prossima estate il prossimo inverno
Ha perso la sua valigia?
Dove è diretto?
Qual è il suo recapito?
Viaggia da solo?
Un bagno?
Una scrivania?
Una lampada?
L’infinito?
AUTUNNO 1878
N Piano di vita per duecento settimane
Ogni settimana piano settimanale
Stabilendo
il cibo
le ore di lettura
le passeggiate e i loro orari
le letture.
La mattina della domenica
resoconto settimanale con crocette
e nuova settimana. Tutti i mesi revisione.
Dalle sei alle sette passeggiata
dalle sette alle otto colazione
dalle otto alle nove preparazione
dalle nove alle dieci passeggiata
dalle dieci alle undici lezione
dalle undici alle dodici sullo Pfalz o con Burckardt
dalle dodici e trenta all’una e trenta pranzo
dall’una e trenta alle quattro a casa amici sonno lettura
dalle quattro alle sette fuori
dalle sette alle otto cena
dalle otto alle nove e trenta silenzio.
A pranzo brodo Liebig un quarto di cucchiaino prima del pasto
due panini al prosciutto e un uovo
sei o otto noci col pane
due mele due zenzeri due biscotti.
La sera un uovo col pane
cinque noci
latte zuccherato con una fetta biscottata
o tre biscotti.
Progetto per i prossimi quattro anni!
166
AIR D’ETERNITÈ
Dunque è così:
avemmo il tempo infinito
per nascere ed è in questo nostro
momento che viviamo
e non possediamo
se non un brevissimo
oggi
per mostrare il fine a cui
siamo nati e vivere
secondo propria legge e misura.
Così dico:
che ognuno viva in modo tale da dover
desiderare di rivivere
Quello a cui l’aspirazione
dà il sentimento supremo
trovi qualcosa a cui aspirare
Quello a cui la quiete
dà il sentimento supremo
trovi il modo di potersi quietare
Quello a cui l’obbedienza
dà il sentimento supremo
trovi qualcuno a cui obbedire
E ognuno lotti per conquistare
la coscienza di ciò che per lui
è il sentimento supremo
e non rifugga alcun mezzo
È in gioco l’eternità!
LA CONSACRAZIONE MATTINALE NEL GIORNO DELLA BATTAGLIA
CORO Come se la natura fosse stracciata
In milioni di brandelli lacerata
E ogni petalo dell’immenso fiore
levasse un sospiro a ricomporre il canto
Così ora dalle bocche spalancate
nascono parole risa lamenti
che in unico fiume m’attraversano
Non sono più molte le labbra
Non sono più diversi i profili
Non sono gli sguardi altrimenti colorati
E la moltitudine delle voci
è cristallo scintillante di luce
scoccato dall’arco del mattino
Se questo è un sogno voglio continuare
a sognare finché di piacere sarò
trafitto e di dolore E poi più niente.
LIBERTA’ AFRICANA
N Essere contagiato nel cuore
e nell’anima da queste piccole parigine
quale grandiosa redenzione
dalla névrose nationale
che fa del nostro vecchio mondo
una policromia di staterelli meschini.
Ah, grandioso davvero!
Un inizio grandioso
167
grandioso all’africana
Un inizio degno di un leone
o di una scimmia urlatrice con istinti morali
Ed ora sono qui
vicino al deserto e nel deserto ingoiato
da questa minima oasi
che spalancò sbadigliando
la sua boccuccia
la boccuccia più profumata
E io ci caddi dentro
giù in fondo, attraverso, fino a te
o dolcissima amica.
Viva viva la balena
che trattò il suo ospite
così bene!
Viva il suo ventre
se era un’oasi
piacevole come questa
Ed eccomi qui ora
in questa oasi da nulla
simile a un dattero
bruno gonfio di zucchero e d’oro, voglioso
di una rotonda bocca di fanciulla
E più ancora di gelidi nivei taglienti
incisivi: per quelli infatti smania
il cuore di ogni dattero ardente.
Ed eccomi qui ora
ad annusare l’aria migliore
davvero un’aria di Paradiso
aria leggera striata d’oro
Mai dalla luna scese
aria così buona!
ORGOGLIO PRUSSIANO
E Artigliere a cavallo avrebbe voluto diventare
Il coraggio è sempre stato il suo primo carattere
A scuola quando un giorno i compagni parlavano
di Muzio Scevola e uno dei più paurosi
disse che era onorevole e tuttavia
impossibile farsi bruciare così placidamente la mano
Lui domandò perché e si accese un mazzetto di fiammiferi
sul palmo tendendolo senza tremare
Artigliere avrebbe voluto diventare
ed è stato solo per quella caduta da cavallo
che siamo riuscite a trattenerlo
Che cosa faresti tu ora se fossi un uomo
Lisbeth? mi ha detto
mentre risuonavano i colpi dei cannoni
L’indegna tigre francese deve essere ridotta al silenzio
Naturalmente andrei in guerra gli ho detto
ma non nelle tue condizioni Fritz ho dovuto dirgli
Infermiere di campo è diventato
Incaricato e responsabile della colonna sanitaria
Di lazzaretto in lazzaretto
Di ambulanza in ambulanza
cercando nei campi fumanti di battaglia
i feriti a cui porgere l’ultimo aiuto e conforto.
Quanto deve aver sofferto il povero cuore
continuando a udire
dentro di sé i lamenti
e i gemiti dei camerati in fin di vita
a lungo non volle dire.
168
ROMEO AND JULIET
N e E bambini a letto.
N Ora hai un occhio solo.
E Quello è un gigante. Io sono piccola. Non sono come lui.
N Per quello ti ho fatto un occhio solo, così gli assomigli di più.
E Non voglio fare il gigante. È cattivo.
N Non è cattivo. Non bere ancora. È il mare.
E Ho sonno.
N Solo una volta ancora. I pezzetti di pane sono le capre. Questo più grosso è l’ariete. Il libro è un
nascondiglio. E la tua tazza di latte è il mare.
E E tu chi sei?
N Io sono Nessuno. Tu devi dire: “Forestieri chi siete?”
E “Forestieri chi siete?”
N “Venite dal mare?”
E “Venite dal mare?”
N “Siete forse pirati?”
E Siete pirati? Posso mangiare le capre?
N Mangia le capre. Non tutte però.
E Le capre vanno a fare il bagno dentro il mare e allora io me le mangio.
N Se le mangi tutte finisce il gioco.
E Dopo, domani, giochiamo ancora. Lo vuoi bere tu il mare?
N Tu non lo vuoi?
E Io lo do a te.
N Allora lo beviamo insieme. Un po’ tu un po’ io.
E E poi spegniamo la candela. Ho tanto sonno.
N Io no… Lisbeth.
E Che vuoi?
N Contiamo?
E Contiamo?
N Per addormentarci. Contiamo le capre. Una.
E Una.
N Due
E Due
Tre
Tre
Quattro
Quattro
Cinque
Sette
Sei
Otto
Sette
Dodici
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Lisbeth… Lisbeth!
Dormi già?... Sei sull’isola delle capre?
C’era una volta un’isola dove vivevano solo capre. Non c’erano uomini su quell’isola, né pastori, né
contadini, ma c’era l’erba e c’erano le capre che belavano e mangiavano l’erba. Vivevano su quell’isola i
Ciclopi, creature così grandi e forti e selvagge… come … non ci sono… più… sulla terra… (Si assopisce).
E … Ancora… Mi racconti ancora… Fritz… Fritz! Ti sei addormentato. Io ti avevo fatto uno scherzo. Non
era vero che dormivo. Fritz… Mi è passato il sonno.
Una
Due
Tre
Quattro… Quattro…
N No!
E Che c’è?
N La campana! Non hai sentito la campana di mezzanotte?
E Non ho sentito niente.
N Allora era un sogno. C’era l’organo che suonava dalla chiesa. Sembrava una veglia funebre. Una
tomba si spalanca e ne esce un uomo. È nostro padre… avvolto nel sudario. Corre in chiesa e torna con
un bambino in braccio. Poi rientra nella tomba, il coperchio si chiude, l’organo s’interrompe e la campana
tace. (E si alza e si allontana) Lisbeth!
E Tu vedi cose che non ci sono. Cose brutte.
N Non dirlo a nessuno.
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E
N
E
N
E
N
E
N
E
N
E
N
E
N
E
N
E
N
E
N
E
Hai sognato papà.
Non dirlo a nessuno.
Hai sognato un bambino malato.
Non era lui.
Era il nostro fratellino Joseph.
Non dirlo a nessuno.
A te chi te l’ha detto?
Nessuno.
Ora la stanza è piena di mostri.
Mandali via.
È impossibile.
Chiudi gli occhi.
Così è buio.
Dammi la mano. Il buio se ne va.
Un puntino di luce.
Una stella?
No si muove. È un girino. Nuota.
Una cometa.
Guarda come cresce.
Cambia di colore.
Ora è tutto bianco.
REQUIEM
Il filosofo, la sorella, Alwine, il medico.
N Steso a terra scosso da brividi
tremante per i tuoi dardi di ghiaccio
braccato da te dio sconosciuto
Tu che non sei mai stanco
dell’umano martirio
Colpisci non torturarmi
ancora con dardi spuntati.
E Chiudi quella finestra.
M Il battito è molto debole.
A Un tuono. Sta arrivando il temporale.
E Avete sentito?
N Il cielo è fiamma
La strada è esplosa di fiori pietrosi
Il latte si tinge di nero
non leoni ma cani
non gazzelle ma topi
e notti illuni
Applausi riecheggiano
nelle stanze della menzogna
la tua è la casa del delitto
Senza spade mi hai trafitto gli occhi
Mi hai coperto le ali di calce
e mi hai eretto monumento
Al tuo amico Hitler hai donato il mio bastone
e per ricompensa hai la tua quota di immortalità
Tu l’indomita donna germanica
Tu mio più fedele becchino
Non farmi guardare oltre
Dio carnefice
Agli uomini non è concessa tutta questa verità.
16/11/00
Notizia.
Sonia Antinori, attrice, autrice e regista teatrale, ha ricevuto per i suoi lavori teatrali diversi
riconoscimenti tra cui il Premio Tondelli per la drammaturgia per L’Ospite (1993), il Premio Riccione per Il
sole dorme (1995), il Premio Mravac come miglio spettacolo straniero per Berlinbabylon (Mostar- Bosnia
1997) e il Premio Candoni per Nel tempo insolito (1998). I suoi testi sono tradotti in inglese, tedesco e
170
francese e sono stati presentati tra l’altro al Traverse Theatre di Edinburgo, allo Schauspielhaus di
Amburgo, al Warehouse di Londra, al Teatro nazionale di Kiev. Giorgio Albertazzi, Carlo Cecchi, Ugo Chiti,
Roberto Guicciardini, François Kahn, Cesare Lievi, Valter Malosti, Cristina Pezzoli, Carmelo Rifici, Mario
Scaccia, Serena Sinigaglia, Valeria Talenti e Luca Valentino sono alcuni dei registi con cui ha collaborato.
Ha inoltre firmato lo spettacolo musicale MoZzart per il Lugo Opera Festival. Tra i suoi ultimi lavori
teatrali La Controra (testo e regia, prod. Piccolo Teatro di Dioniso – Bari 2005); Matakiterangi (Occhi che
guardano il cielo) (testo e interpretazione, prod. Malte 2005/07), Terra di Mezzanotte (testo e
interpretazione, prod. Malte 2006/07). Tra i suoi ultimi testi per il teatro La Global Comedia e L’astratto
principio della speranza. Da diversi anni svolge inoltre attività di docente di recitazione e drammaturgia
collaborando con teatri (ATP, Teatro Stabile delle Marche), università (Venezia, Urbino) e scuole
specializzate (Scuola Holden di Torino, Teatri Possibili di Milano). È inoltre impegnata come pubblicista
(“Primafila”, “Inscena”). Dal 2005 è coordinatrice del progetto di residenze artistiche del Teatro Mestica di
Apiro (MC), in collaborazione con AMAT. È membro della giuria del Premio Ugo Betti per la
Drammaturgia.
171
LUIGI BALLERINI
Sabato 7 settembre 2008 si è tenuta la rappresentazione teatrale di “Cefalonia”, monologo a due voci
tratto dall’omonimo libro di poesie di Luigi Ballerini (Mondadori, 2005). Con riduzione teatrale e regia di
Marco Rebeschi, musiche di Glauco Zuppiroli e Marco Rebeschi, con Lucia Falcone e Marco Rebeschi,
coreografie di Laura Gibertini, con Alessia Sanguanini, Gianluca Avella e Laura Gibertini, prodotto da Lo
Sguardo dell’Altro.
Raccogliamo qui il libretto di sala con un’introduzione di Marco Robeschi e Marinella Bonaffini e uno scritto
di Luigi Ballerini, il testo originale e la riduzione teatrale con le note di regia di Marco Rebeschi.
**
IL TEATRO DEL DISINCANTO
Quando il fatto letto o vissuto è suscettibile di divenire mito, il mito si traduce in principio di conoscenza e
si innesta su una frontiera spirituale di “parte”. Cefalonia di Luigi Ballerini rappresenta una linea di
confine, uno smarrimento nella poesia, un’evocazione attraverso il corpo di un linguaggio alchemico che
fa emergere ciò che altrimenti si sarebbe dissolto in automatismi divulgativi. Cefalonia contiene in
potenza la teatralizzazione dell’evento. Le metamorfosi liriche sono disvelamenti drammatici, continue
sorprese, segrete messe in scena. Gli spostamenti allegorici di tempi e luoghi non sono né narrativi né
didascalici ma sospensioni drammaturgiche. Il raccontare non raccontando dà luogo al segreto. La poesia
contiene i connotati del proscenio e si insinua nella storia senza mai essere pretesto letterario. E poiché la
storia non è sempre un elenco di fatti, l’ermeneutica del ricordo si installa su un confine di
interpretazione.
Tutto questo coincide con l’idea (la nostra) che la finzione dell’arte sia il ponte verso il riferimento
emozionale, verso la pura seduzione del concetto. Più è fredda la messa in scena più si ha la possibilità di
esprimere la profondità del sentimento da cui deriva. I nervi devono lavorare sul concetto se vogliono
esprimere emozioni. Per sua natura il teatro è la scena della brutalità perché una delle sue aspirazioni è
quella di forzare la meschinità della vita quotidiana ma quando si immerge in se stesso subisce
fatalmente un infarto creativo perché non fa altro che esistere come doppio della realtà rappresentando
l’inutile fantasma del vissuto quotidiano. Le funzioni troppo esplicite riducono l’efficacia delle emozioni che
diventano grottesche e si allontanano dall’arte. Tutto ciò che non pare essere rappresentabile andrà in
scena attraverso la musica, attraverso la poesia ... Andrà in scena il pensiero stesso.
Marco Rebeschi, Marinella Bonaffini
ALLE NOZZE DI PELEO CON TETI FURONO INVITATI TUTTI GLI DEI TRANNE LA DISCORDIA...
... Il presidente Carlo Azeglio Ciampi, a Cefalonia, in data 1 marzo 2001, si augura che il Governo tedesco
chieda ufficialmente scusa all’Italia per l’eccidio dei soldati italiani compiuto dalla Wermacht nel
Settembre del’43 quando la divisione Acqui, forte (si fa per dire) di oltre diecimila uomini, aveva “deciso”
di affrontare il nemico, ovverossia l’ex alleato, rispolverando, si può starne certi, motti di spirito la cui
vituperante ineleganza, oggi come allora, se da un lato rivela un momento di decompressione nell’animo
di chi dei tedeschi ne ha, o ne ha avuto, abbastanza, dall’altro ribadisce il senso di inferiorità e anzi la
fottutissima paura che la vista della loro uniforme militare comportava (e tuttavia comporta?)
inevitabilmente.
Ma se affrontare un nemico degno di questo nome (e i tedeschi lo erano senz’altro), è sempre e
comunque, pericoloso, affrontarlo “a lancia e spada” – ovverossia con armi inadeguate, e dopo avergli
ceduto posizioni strategiche senza il controllo delle quali la vittoria non era neppure ipotizzabile – è segno
o di pura dabbenaggine, o di un valore che anche il più sottile e variegato dei cataloghi stenta a porre tra
il novero degli oggetti e/o delle idee che si possano acquistare impunemente. Il Barbarossa, questa volta,
era possesso di stukas e munito di navi d’appoggio.
Stante il tardivo e letargico messaggio (quasi peggio d’un silenzio) del “traditore” Badoglio, specializzato
in abbandoni e appollaiato al di là dal mare (quello stesso Canale di Otranto che con sfacciata frequenza
gli albanesi nostri contemporanei traversano in gommone, ma che, a quei tempi, dovette ritenersi
ostacolo più invalicabile delle colonne d’Ercole), e stante altresì gli avvilenti risultati in cui sfociarono i
tentativi del comandante generale Antonio Gandin di trovare una soluzione pacifica, l’idea di cadere
sull’arma anziché cederla, secondo che recitava una massima sublime assai in voga in quegli anni, poté
sembrare la sola accettabile.
172
La scelse come titolo per il capitolo di un suo libello (I martiri di Cefalonia, Milano, Rizzoli, 1952, poi più
volte ristampato) anche l’invitto don Luigi Ghilardini che, in quanto cappellano supremo della divisione
non fu tenuto a optare né per l’una né per l’altra delle due terribili strade. Né del resto lo furono i
cappellani suoi sottoposti. Presumibilmente di armi egli s’intendeva ancor meno che di quattrini, almeno
di quelli che rastrellò, per l’erigenda fabbrica di un monumento ai caduti (poi effettivamente fabbricato,
da altri, a Verona) dalle saccocce di vedove e madri e reduci in occasione dei vari raduni nazionali che
annualmente organizzava perché l’Italia non dimenticasse i suoi ultimi martiri (in ordine di tempo), e
durante i quali baciava pubblicamente un orfano o due. Sfoderando un senso di realismo senza pari,
sosteneva , il nostro, che i militi dell’Acqui avessero scelto di combattere contro i tedeschi per onorare il
giuramento fatto al re. In base a queste premesse non si esclude che egli (se morto) venga presto
proposto per la gloria degli altari.
Se di un gesto, che implica un suicidio, un sacrificio di se stessi, non si trova ragione nelle asserzioni
palesi di chi lo compie, o di quelle a lui maldestramente attribuite, è preferibile cercarle altrove, nei
recessi di ipotesi che se non suffragate da fatti incontrovertibili, ci eviteranno quanto meno l’imbarazzo di
dover avallare quelli assurdamente inventati, per loro tranquillità (ma anche qui il diavolo finisce sempre
col metterci la coda) da testimoni oculari sospetti di inerzia mentale quando non ciechi affatto. Una cosa
è comunque certa e cioè che nessuno, sano di mente o bene informato (ma le due cose non sempre
coincidono), potè supporre, nemmeno lontanamente, di vincere, vincere, vincere (e vinceremo...), non
più di quanto ritenga di potersi rialzare, rialzare rialzare (e ci rialzeremo) dal marciapiede chi vi sia
giunto, precipitando dal venticinquesimo piano.
Resta dunque solo il fatto, inoppugnabile, che i soldati dell’Aqui si fecero ammazzare, e che questo
dovrebbe comportare, da parte di chi ha ancora voglia di parlarne, qualche curiosità non banale, qualche
speranza, magari, di rinvenire nel gesto, nella “piega” degli avvenimenti, la presenza di una pulsione di
morte, insomma di una “spiega” che allontani almeno l’amaro calice delle scemenze con cui puntualmente
si riempiono la bocca i politici di professione quando si fanno portavoce delle sofferenze umane. Il recente
subbuglio che ha scosso la più alta, e si suppone più dignitosa carica dello stato, non è tuttavia dovuto al
fatto che i fanti della divisione Acqui, fildelissima legio, venissero uccisi in combattimento, ma che ne
venissero messi al muro diverse migliaia di quelli che, dopo aver combattuto, avevano preferito
arrendersi e quindi interrompere gli effetti del “cupio dissolvi” che si era, come un demone, impossessato
di loro qualche giorno avanti.
Ora a parte il fatto che i tedeschi (di allora, naturalmente), non si lasciavano scappare occasione per
dimostrare di essere abominevoli, non si capisce bene perché, oggi, i brillanti cinquanto-sessantenni che
reggono le sorti della rinata e prospera e democratica Germania (e che dunque nel ’43 non erano
neppure nati) avrebbero dovuto forzosamente rimettere nelle mani dell’allora ottantreenne Carlo Azeglio
(che invece, nel ’43, da qualche parte doveva pur essere) delle scuse che non inficiano minimamente le
regole che l’istituzione italica, di cui gli era appunto stata affidata la tutela, condivide con quella
germanica, reggendosi entrambe su principi di censura intesi a punire solo deviazioni per difetto, ma mai
quelle per eccesso**. E la deviazione dei tedeschi della Wermacht non fu un venir meno alla legge
dell’ammazzare il nemico, ma un’applicazione eccessiva dello scopo omicida per il quale quella legge era
stata creata.
Anziché presumere di poter contare sul rispetto che un nemico inferocito dovrebbe avere per le regole del
gioco guerresco, sarebbe stato assai più utile che “la più alta carica” dichiarasse pubblicamente il proprio
disgusto per l’idea stessa di quella violenza legalizzata che va sotto il nome di esercito, marina e
aviazione e bomba atomica... chi scherza col fuoco, caro (si fa per dire) Ciampi... la sua richiesta,
esaudita o meno, non avrebbe tolto nulla all’assurdità della violenza, che lei in sostanza, avrebbe voluto,
solo un po’ meno violenta di quella che i tedeschi scatenarono a Cefalonia (e a Corfù).
Insomma ammazzare va bene, purché si ammazzi secondo la convenzione di Ginevra.
C’è di più. Questa insistenza a farsi porgere delle scuse è, nel caso specifico, doppiamente ridicola. Eh si,
perché la storia a volerla raccontare, non dico tutta, ma almeno senza occultare episodi che, sia pure a
posteriori, potevano gettare luci assai significative sul reale svolgimento del massacro di Cefalonia,
avrebbe rivelato invece l’assoluta coriaceità coscienziale di uomini di governo (almeno due ministri della
Repubblica Italiana (“nata dalle rovine del Fascismo”), due uomini dabbene i quali erano al corrente di
fatti che avrebbero preferito non sapere e che, soprattutto, desideravano che nessun altro sapesse. La
Repubblica italiana non era solo nata sulle e dalle, ma anche colle rovine del Fascismo.
Furono infatti i ministri Gaetano Martino (esteri) e Paolo Emilio Taviani (difesa) che a cavallo tra il 1956 e
il 1957 decisero di insabbiare un’inchiesta avviata dal giudice istruttore della procura militare della
Repubblica operante presso il tribunale militare territoriale di Roma. La balordaggine delle ragioni da essi
avanzate non è meno perniciosa e diabolica dell’efferatezza di cui erano accusati trenta militari
appartenenti alle forze armate tedesche e ritenuti responsabili, appunto, “dell’esecuzione dei noti eccidi”
173
come scrisse il primo inquilino della Farnesina allo stratèga “che avvennero a Cefalonia e Corfù nel
settembre del 1943 ai danni dei soldati italiani. “Sono convinto” continua l’illuminato statista “che coloro i
quali presero parte a così barbare azioni non meritano personal-mente alcuna clemenza. Non posso
tuttavia nascondermi, come responsabile [sic] della nostra politica estera, la sfavorevole impressione che
produrrebbe nell’opinione pubblica tedesca e internazionale una richiesta di estradizione da noi avanzata
al governo di Bonn, alla distanza di ben 13 anni da quando i dolorosi incidenti surriferiti ebbero luogo...”
La preoccupazione dell’onorevole, absit iniuria verbis, Martino di non urtare la sensibilità della Germania,
diventa un po’ meno struggente quando egli confessa le ragioni vere della sua reticenza a consentire che
l’inchiesta proceda: “Ma a parte le considerazioni negative che potrebbero farsi su questo nostro tardivo
[doppio sic] risveglio, non ho bisogno di sottolineare a te (Taviani), che segui da vicino i problemi della
collaborazione atlantica ed europea, quali interrogativi potrebbe far sorgere una nostra iniziativa che
venisse ad alimentare la polemica [triplo sic] sul comportamento del soldato tedesco. Proprio in questo
momento infatti tale governo si vede costretto a compiere presso la propria opinone pubblica il massimo
sforzo allo scopo di vincere le resistenze [chi ha orecchie per intendere, intenda] che incontra oggi in
Germania la ricostruzione di quelle forze armate. Di cui la Nato reclama [basta, basta] con impazienza
l’allestimento”.
Si aggiunga soltanto che tale allestimento aveva una sua ben precisa funzione antisovietica. In altre
parole: stiamo tranquilli, che la nostra vigliaccheria e pigrizia psicologica sono al riparo: ci guida una
fulgida ragione di stato. Come resistere alle mielate lusinghe di questo pervicacissimo Gaetano Martino
che, se anche noi, come il Manzoni potessimo fingere di trovarci tra le mani il “dilavato e graffiato
manoscritto” di un “buon secentista” ci affretteremmo a chiamare un “giovine, scellerato di professione”?
Impossibile. Tant’è che il Paolo Emilio Taviani cui erano dirette, e che nel nostro manoscritto potrebbe
fare la parte che in quello, eminentissimo, faceva la Signora, al pari di quella “sventurata” rispose...
concordando pienamente con il collega.
A questo punto il discorso si biforca, come i due rami di un lago ottocentesco. Lungo le sponde dell’uno si
depositano i tragicomici detriti di una performance presidenziale forse non isterica, ma certamente
velleitaria. Carlo Azeglio Ciampi non sapeva che Taviani... Non era suo dovere saperlo, visto che quando
apre ufficialmente la bocca parla a nome della nazione intera? Se soltanto avesse saputo... avrebbe avuto
il coraggio di consigliare, ingiungere, persuadere Taviani (altro che i tedeschi) a chiedere scusa?
Figuriamoci... Sulle sponde del secondo si depositano invece i detriti di una stoltezza ministeriale (ma
cosa aspettarsi da chi si fregia di un titolo definito da minus, senza rendersene conto o, ancor peggio,
fingendo che sia magis l’etimo del proprio mandato?). E ciò è tanto più sconcertante in quanto Taviani (è
ancora di lui che si parla) seppe pur dare, almeno in apparenza, qualche segno di dignità istituzionale, e a
godere della stima di alcuni che combatterono nelle file della Resistenza. Non solo, ma proprio a
proposito dell’Acqui, c’è chi giura di averlo visto commuoversi, in pubblico, fino alle lacrime.
Ah vedi, dirà il buonista di turno. Vedi un corno risponde il parodista secondo cui il senatore (a vita
suppongo) non sarebbe stato altro che un ennesimo melenso esempio di doppia coscienza, o che fa lo
stesso di cattiva fede. La Signora, di cui al prefato manoscritto, di cui fu poi rifatta la dicitura, qualche
ragione per rispondere allo scellerato almeno ce l’ aveva... dopo tutto quel che le avevano fatto... Ma a
quale monacatura è stata mai costretta la coscienza dell’esimio pluridicasterizzato? Cosa gli avranno mai
fatto papà e mammà per indurlo a vivere doppiamente, vittima di uno scollamento, di una cultura che
ama suddividere la psiche umana in fitti ordinamenti, distinguendo l’anima dal corpo e dallo spirito e dalla
mente? E la politica dalla vita degli uomini, e la grammatica dal linguaggio, e il metalinguaggio dal
linguaggio, quasi non ne fosse invece espressione perversa del perverso desiderio di controllarlo?
Non sarà il caso, per una volta, di denunciare la miseria filosofica di un discorso politico fatto di strategie,
anzi di stratagemmi, che prescindono dall’uomo. Non è ancora venuto il momento di metterli in
manicomio questi macchiavellucci da strapazzo per cui la ragione di stato non è che l’applicazione di una
legge che consente di accogliere i propri sintomi (i propri tranquillissimi deliri) come occasioni per
confermarsi nell’idea che il mondo, presto o tardi, finirà col corrispondere ai sentimenti che da sempre ne
hanno, di cui automaticamente si avvalgono, privi al tutto di curiosità profonda?
E la legge cui si ispirano questi nati imparati, come dicono leggiadramente ben al di sotto della linea
gotica, non è forse sempre quella stessa che postula il bene riponendolo in una superiore volontà, in un
irraggiungibile raggiungimento? Che strano... questi signori che sanno, che credono, che professano,
esistono solo come espressione di un programma fatto di promesse automatiche, ripetute, svuotate, non
connaturate alla sensuosa matrice di un dire inteso ad esprimerle. Non vivono in fatti nel senso della
promessa
perché nella realtà intima del loro corpo-mente-anima-spirito, le loro incaute promesse non hanno
assolutamente la stoffa per diventare profezie.
174
Ma anche dentro le miserabili angustie di questa legge che traduce in conformismo anche i propri eccessi,
guardandosi allo specchio, non si saranno mai chiesti i Taviani di questo mondo se la faccia che hanno di
fronte non abbia le fattezze, piuttosto che della Signora, di don Abbondio? Che differenza esiste infatti tra
i balbettii di un ex ministro che si giustifica dicendo “il mio consenso contribuì certamente a creare la
cosiddetta ‘sepoltura della giustizia’. Ma la guerra fredda imponeva scelte ben precise”, e quelli del prete
che sostiene che “il coraggio, uno non se lo può dare”?
... la quale, per vendicarsi , gettò sul tavolo del convito una mela d’oro (colta nel giardino delle
Esperidi?) con su scritto “alla più bella”... da cui il giudizio di Paride, da cui la guerra di Troia,
da cui Omero ...
una storia che sanno anche i bambini di un anno... tranne quelli nati a latitudini insperate: i figli della
tundra, delle steppe, delle favelas, delle bidonville dell’Africa e dell’Asia e delle baraccopoli di Tijuana.
Diranno magari anche loro “pomo della discordia”, ma con su scritto “al più tragico” e penseranno magari
ai cachi, alle papaya, alle banane... la banana della discordia, non è male. È piuttosto per loro, o, per dire
meglio, pensando a loro, gente per cui una storia vale l’altra, purché siano ugualmente disperate, che si è
pensato, qui, di rimettere le mani nel mito reale di Cefalonia.
Convinti anche noi che agonia e agone siano segni compatibili e capaci, anzi, di un’unica deissi, abbiamo
affidato i valori emergenti, a distanza, da quel tragico avvenimento a un modello diegetico pressoché
infallibile e certamente universale, oggigiorno: la partita di calcio. Nell’incontro Italia-Germania svoltosi a
Cefalonia nel Settembre del 1943 ma durato fino al 2 giugno 2001, l’Italia vince 4 a 1. (primo tempo 2 a
1). Meglio quindi che a Città del Messico nel ’70 (4 a 3), e perfino meglio che a Madrid nell’82 (3 a 1).
L’unico problema è che per la partita-eccidio di Cefalonia si sono dovute sostituire le reti con gli
abbandoni, con i tradimenti. Vinsero i più traditi, i più abbandonati.
Radiocronaca e commento di Ettore B (soldato italiano caduto, si presume, in combattimento) e Hans D
(uomo d’affari tedesco nato con la camicia e funambolo, ovvero capace di cadere sempre in piedi). Il
rapporto che lega i due “personaggi” ai fatti “realmente accaduti” è assai diverso: reale e finale quello di
Ettore B; decisamente surrettizio quello di Hans D. La loro convocazione in queste pagine ha senso,
quindi, solo sul piano simbolico. Vittima diretta il primo, carnefice non diretto il secondo: che deve
tuttavia farsi carico del sospetto fortissimo (e pericolosissimo) che i carnefici esistano solo laddove abbia
corso la cultura del disprezzo di cui egli è parte integrale. E una cultura dell’invidia, è necessario
aggiungere, qualora i disprezzati riescano, quasi contro se stessi, a comportarsi in maniera più eroica dei
loro persecutori, cioè di coloro che dei valori tragici si erano sentiti portatori, apoditticamente, fin
dall’inizio. Si tratta di un intollerabile spiazzamento. Lo spiazzante, arruffato, con la barba lunga, un tipico
Alberto Sordi da prima e seconda guerra mondiale, sublima tragicamente la sua miserabile comicità
trasferendola sullo spiazzato che, impeccabile nella sua divisa militare, si vede, per così dire, “scavalcato
a sinistra”, e reagisce con furore al venir meno della sua tragica presunzione. Che il destinato al comico
possa essere più tragico del destinato al tragico è un’opzione su cui il lettore e, adesso, anche lo
spettatore di Cefalonia, è invitato a meditare. Perché tale invito possa essere accolto e messo a frutto è
necessario che alle parole sia concesso di urtarsi, di ammaliarsi vicendevolmente, di strofinarsi le une
contro le altre, stimolate da una forte emozione e da una sete non spuria di verità. Alla pseudocatarsi in
cui inciampa, inevitabilmente, l’autorevole superficialità dei tutori di regole rattrappite dall’abitudine, si
oppone dunque la modesta proposta di un discorso poetico, in cui le funzioni del riferire e del nominare,
tanto in chi parla, quanto in chi ascolta, non vengano schiacciate l’una sul-l’altra in un disperato tentativo
di certificare la realtà, ma vivano piuttosto come occasioni di senso, come tuffi lunghi e ragionati (e
sregolati) nel mare dell’inconscio, forse, ma non dell’incoscienza.
Luigi Ballerini
**
LE POESIE DAL TESTO ORIGINALE:
ETTORE B
sulla mia morte non ci sono dubbi. Ne rimangono invece
intorno ai modi: caduto, secondo la vulgata, su di un’arma
quasi bianca, e dopo giorni di attacchi rinviati, insidiosa
corre anche voce che sia stato messo al muro. Non poteva,
l’incertezza, non turbare chi del mio silenzio s’era fatto
una specie di ragione, sia pure a mezzo di sarcasmi e scatti
175
di non trattenibile violenza (come assente ho suscitato attese
di esperienza che sarei stato fiero di evitare). Sforzandomi
di contare come vivo, ho comunque istigato non illeciti
e non sospetti annusamenti di verità: che è una mala fede,
per dirne una, si osservi meglio se un ribrezzo intermittente
soggiace alle lusinghe di un dio massaggiatore, o quando
non gracchia al modo delle rane, né urla s’ode a destra uno
squillo di tromba cui risponde uno squillo, a sinistra. Sapersi
maschere dipana sintomi di parossismo, di chiaroveggenza
(esserci, starci, cantare per farsela passare, per capire chi ha
chiesto impunemente il conto, la zavorra).
Vivi o morti, e da vivi che si tenta di tornare sui passi del
proprio delitto, che ci si torna, untuosi, fingendosi morti.
HANS D
scrupoli non ho che siano duri e molli come paraffina o come
olio di canfora, o di merluzzo e diano abbrivio alla rimonta,
al rinnovamento ideale che viene a galla o slitta nel dare e avere
di un’afosa teoria di santi e di megere: da ogni punto di vista
il mio è l’esempio più subdolo e inattaccabile, più ostinato e più
affetto di ritrosia. Mio, per capirsi, come “me la tengo stretta”
e “parlo per denegare tracce di connivenza privilegiata, di luce
che avvilisce la penombra del senso”. Sono tracce che non c’è
bisogno di seguire fino in fondo: perfino i miei pro tempore,
le mie magagne affossate, possiedono la lugubre destrezza
di un esilio dove il filo spinato si confonde con i rami spinosi
di un cordoglio, di una passione imprecisa. Mio, come lo stile
con cui elargisco ceste febbrili di pane bianco. E poiché nulla
si può elargire aldilà di allarmanti somiglianze, mio come
“vicariamente”, o lettera nascosta sotto il naso di tutti, caduti
e fucilati, nei giorni di un settembre che la pioggia non cessò
di picchiare, argentina, sui tegoli del tetto sul fico e sul moro
ETTORE B
fronda non direi ma un surrogato di mezza stagione, una pallida
ecchimosi adorata in luogo di tremore, di tumore arrogante, o con
voglia di scherzare. E neppure doppio gioco, doppio incastro di una
volontà che si attiva tuonando parole d’ordine (tracciare con l’aratro
il solco, difenderlo con la spada, fare la guardia ai fusti di benzina).
Meno che mai martirio per cui si accede, anche non battezzati (che
ne basta il desiderio), alla gloria di santi che sapranno intercedere
presso la madonna pellegrina, la quale saprà intercedere anche lei
presso la divina podestà, modificando gli esiti di una disfatta logica
prima di tutto. Teniamoci quindi ai fatti emergenti della certezza
dell’altrui vacillare, all’inganno pregiato che divide l’intenzione
dal suo dichiararsi; e salpiamo solamente a partire da elisioni
che schiumano nel brodo di referenti spostati e condensati, cui
vanno soggette alcune affabulazioni compensative: “Essere dei
nostri” potrebbe voler dire aver trovato Dio ed essersi
sottratti al suo disdegno, all’invito di decifrare l’emblema del suo
distendersi nel mondo per darsi luce. Lasciamo per tanto a chi le
merita (per ceto e usanza) le stellette che noi portiamo e culottes
che invece non portiamo e sono la fottutissima croce di noi soldata
HANS D
non sono di quelli che tirano mattina per dire che la faccia di un Jack
Palance è la prova che dei buoni ce n’era perfino tra i nazi e ce n’è
tuttavia, sontuosamente affrescati con la luger in mano e le bretelle.
Sostengo, questo sì, che per aggiungere “me ne vanto” a “me ne frego”
(e farsi conoscere dallo straniero) non è necessario invocare i vantaggi
176
di una coerente lungimiranza: basta convincersi di aver vinto una volta
la tentazione di figurare in prima persona. Chi oserebbe parlare
di Zeitgeist per dei rami di pesco che vende al quadrivio una vecchia
“mentre piove e spiove sotto l’aspro alternare delle ventate?”Quand’anche
non avesse un suo figlio mangiato dal pane azimo, non sarà questa
filologia da rimasto a galla, a tenerlo lontano dai pericoli di un latitante
apoteosi:La lugubre voglia di incidere nel sociale si ottiene osservando
chi con ciclica disinvoltura si pente di errori commessi illustrando il ritmo
inarrestabile del proprio emanciparsi: regina di cuori è diverso da regina
prematura, da prezzo elevato che non dura, che non può durare, diverso
per natura, dal disprezzo che amo, da cui debbo astenermi con cura
ETTORE B
o incominciando con donne che latrate di dolore, che indossate le brache
rosse di un debito d’amore, e continuando con singhiozzi da cui traspare
una ricerca di stile tirata con i denti:do re mi, mi re do... Se raspando nel
cuore stravede (o straparla) il debito che cresce, la sua virtù “a quell’ora”
ripopola una voglia di salti, di saltargli addosso a qualcuno per mostrargli
l’inconsistenza delle sue conclusioni e del suo vantaggio. Bello o brutto
che sia, non è che un ascolto, un facchinaggio di rompersi l’osso del collo.
HANS D
se coscienza sopita dal consenso, da piena e solidale avvertenza,
rivelasse colpa grave o deleteria, se gettasse vituperio sui modi
precipui dell’acquisto, morirebbe anche in noi la voglia di non
sapere degli ultimi di noi, di volgere in tenebra e silenzio il fou-rire
che succede all’incanto per rinascere per forza. Se fosse nudo il re,
il suggeritore, il nato per supporre di sapere, se fosse l’idiota di turno
l’erede del programma in cui concrescono debito e capitale, verrebbe
a noi pure il sospetto che padri e madri sopraggiunti con la piena dei
canali e vaghi di oltranzismo, nulla potessero davanti all’urto di una
somiglianza redentiva che regge le sorti dell’uomo (e della donna
di lui più evasiva e sparsa e feudo più smembrato). Stendere per terra
un tappeto, metterci sopra un seggiola e sedersi. Agitarsi insoddisfatti
rizzarsi,tastare, tentennare, riflettere e infine calzare la seggiola con
un biglietto da visita sotto una delle quattro gambe. Rimettersi seduti
e iniziare a dondolarsi. Dondolarsi sempre più forte fino a cascare
a gambe levate. E’ il requisito che manca non la sua requisitoria,
l’incubo che a egregie cose il forte animo accendano l’urne de’ forti.
ETTORE B
Al sole si respira, questo è un fatto, e sono i fatti che danno
senso alle cose, che spingono a dirle prima che a qualcuno
venga in mente di schedarle, di addormentarne l’angoscia
e tradurne in orizzonti più vicini, più adesivi, la sfida che
ne promana che sgrana e non ingrana, la legge fuorisacco,
la tregua del loro smarrirsi. Si può dire: “siamo e saremo
animali di successo, pechinesi dagli occhi di saccarina”
e non morire mai; oppure “You disappoint me Mr. Bond”
e finire morti con la propria fortuna (sfacciata) alle spalle:
in un campo mezzo grigio e mezzo nero ci sono papaveri
e mammalucchi; mammaliturchi e mammole; ci sono anche
papere d’ingegno che l’affittano a metà con i dindi, che però
non ci sono, stante che per arrivarci bisogna attraversare
un fosso. E’ irriverente? Non è di sinistra? O è santo, santo,
tre volte santo, il tempo in cui fischiando il vento (soffiando)
e tuonando la bufera (nevicando la frasca), anche per noi
si tacerà degli ultimi di noi, vedendo iscritta nell’idea
di modello la scomparsa dell’idea di festa? Non sono mai
stato di quelli che godono dell’altrui male (ma irritarmi,
177
mi irrita assai), e davanti a una strage di fanti che tacciono
per andare avanti, dico che perduto è quello che la spunta,
che si sfrega le mani per farne uscire l’odore della morte.
HANS D
fortunato al gioco, in amore, con i libri che ho letto e non ho letto
non sto qui a sifolare l’Aida giorno e notte. Il problema è che una
Deutschland uber alles sorride, implacata e vile, nel volto idiota
del presidente texano, con abito medio, macchina e moglie medie.
Nessuno è più libero di non strafare, nessuno che abbia diritto
di sapere come andrebbe a finire se amore fosse amare per forza
chi ci ama o ci guarda da sotto in su per ricordarci chi è che comanda.
Non è peccato, no, per carità, non è peccato, ma giocare per vincere,
sapere di avere già perduto, questo, mi dispiace, non era nei patti
CORO
noi siam li tristi accalorati, le formicuzze,
il forellin dolente, noi siamo le tristi penne scalcagnate
ch’abbiamo copiato quel che voi scrivete, noi siam
le tristi penne imminchionite, e a dire il vero neanche
ben pagate, ch’abbiamo finto quel che voi smentite.
Noi siamo queste bellezze sderenate, queste orrende
soffiate malpartite, noi siamo queste ideuzze scavalcate
per cui da un po’ si azzuffano le fate. Or vi diciàn
perché noi siam partite, avviticchiate dolorosamente,
da quelle mezze strade malfamate dove eravamo penne
travestite e siamoci poste sì presso a la morte ch’altro
di noi non resta che sconcezze in tutt’altre faccende
ETTORE B
“qui lo dico e qui lo nego” e per concludere “spalmami ma bene,
dove non arrivo”. (Saltò giù dal tram ma gli furono subito addosso
e gli fecero sputare i denti; a quell’altro gli spararono proprio sotto
le finestre della scuola e mandarono tutti a casa.) E’ lo stesso che dire
“l’ho visto e non l’ho visto”. Significa che il secondo posto nessuno
ce lo toglie, significa che c’è una pausa nel corto circuito dell’obbedienza, nel
dissesto armonico della sequenza. (Ora il quindici tira diritto fino a
Ronchetto delle rane, ben oltre la centrale che le bombe non l’hanno
nemmeno sfiorata... colpirono ca’ della paura che sorgeva, e sorge
tuttavia, tra logge metifiche in località Campazzo.) Più in alto, ecco lì
è perfetto; il mare è traditore, se non ti spalmi ti vengono le piaghe
HANS D
un campo qualunque va bene, meno quello a fianco dell’alzaia,
col pallone che finisce nel Naviglio e le partite che durano
giornate. E’ uno scempio per la psiche umana dispendiosa
dispettosa, aleatoria, che nega che si possa negare e farla
franca. A chi torna gli viene naturale di credersi al centro
di un teatro di salti mortali davanti ai quali impallidiscono
le cerimonie del punto di vista o dell’indagine: è come un
vaccino, una miccia minima di lebbra, per tenerne in vita
le insinuazioni, le carie del do ut des. Non fu per ragionata
e lunga e demiurgica iattura che segnammo noi per primi,
abbandonati dal sublime Bad dog leo, ma per colmare con
abilità e rancore un vuoto paronomastico: per tendere l’arco
delle promesse sulla corda verace delle premesse, per insistervi
quasi si trattasse di lettere sfuse in cerca di obiettivo. (Come
neve al sole scomparve anche l’arbitro cornuto, richiamato
178
ai ruoli d’origine che un silenzio non ammetteva, e tuttavia
non ammette ripensamenti). Fu galeotto il vantaggio ma durò
lo spazio di un mattino. e quelli che hanno l’alibi, o sono
quasi sempre via, o vivono all’ombra di una legge che magari
autorizza, ma non può legittimare, ce l’avranno la voglia
di affermare come in quel tempo di vagoni per “cavalli otto
e uomini quaranta si contassero (e anche adesso si possono
contare) al posto dei goals, le negligenze più colpevoli, i più
laceranti disinganni? Che se la Champions’ League non c’era,
c’era l’idea del nemico e della barriera e, del pallone, di farne
una bandiera, uno specchio sordido (una preghiera, un puzzo,
un lazzo, una ruera) e di abbattere con una sola e fottutissima
cadenza d’inganno (più le amare oscillazioni del suo valore
di scambio) il cardine sciamanico della lusinga (e della paga)
intera. Dell’idillio e della scienza esatta del paradosso, i primi
a rallegrarsi furono gli addetti della ripetizione, i lunatici fissati
con il catasto, con il buon umore, gli osceni del tutto esaurito.
VOCI ANONIME NEGLI SPOGLIATOI
Ieri ho ricevuto due lettere e l’ultima era in data 25
7 cioè il giorno prima che eventi di grande importanza
avvenissero in Italia. Sono però fiducioso che tutto ciò
non abbia per nulla intralciato il tuo progetto, e che
mentre io ti scrivo tu sia già***, per goderti un po’
di quel meritato riposo che tu meriti... Mi fa piacere
sentirmi dire...e ti garantisco non vedo l’ora...
poterlo ancora prendere in braccio e rivederlo
con i miei occhi. Ma anche quel giorno dovrà venire, Dio
non potrà disporre altrimenti, sarebbe troppo brutto
negarmi di abbracciare i miei cari, almeno per una
volta sola. Ma è meglio che cambi discorso altrimenti
scendo in una china che potrebbe rattristarti, mentre
io desidero che tu ti mantenga quella che io ho in mente
io e così al nostro ravvicinamento non ci sarà da dire
nulla di questo tempo perduto, ma faremo come se
non ci fossimo mai lasciati. O mia cara, vorrò amarti
fino a stancarti e tu perdonerai queste mie prepotenze
................................................................................
................................................................................
ce n’è che strisciano, che scavano, che si contorcono,
che dicono di essere matti da legare, che non fanno
più parte del progetto di adeguare il mondo all’idea
ma c’è più odore di bruciato che di non sapere; ce n’è
che insistono a parlare di denaro inviato; e ce n’è anche
noi no, noi eravamo con voi. Ma, gli uni
e gli altri si contano ormai sulle dita di mani annerite,
oleose, cadute per via da un carro di assiomi putrefatti.
CORO
chi organizza la propria vita ed è un ritorno la vita che organizza,
a lui gli tocca entrare in ogni fuga, restare con un pugno di mosche
chi trasferisce negando l’attesa dl padre in figlio e si sgomenta
nel figlio, può fingersi maschio abbattuto in un campo di stoppie
chi per tutta la vita ritorna, ed è godimento in lui lo struggimento,
del non tornare, la sua vita è lo stesso che passare da esasperato
senso a suono che suscita un riso: se basti, per ridere, occultare
il varco per cui si accede al gioco delle parti, alla ridda del tenere
a bada (fatto di gomma come sono, se gioco, gioco in porta, dove
179
anche i paranoici hanno diritto di sentirsi minacciati). Nel cretto
impassibile del segno (per cui si vince) che più si dipana e più
minaccioso dimora, il Duce ha sempre ragione, sempre, i tedeschi,
torto. Latine loquitur?Ufun pofocofo... insomma me la cavo,
ma è chiaro che non c’è rimedio a ciò che si acquista fuggendo
(Da “Cefalonia”, Mondadori, 2005.)
**
LA RIDUZIONE TEATRALE CON LE NOTE DI REGIA:
CEFALONIA
teatro musica - atto unico
La traduzione di Cefalonia di Luigi Ballerini in uno spettacolo di teatro avviene attraverso la trasposizione
in musica della dimensione poetico-evocativa delle metamorfosi liriche, degli spostamenti allegorici di
tempi e luoghi, delle sospensioni drammaturgiche che Cefalonia contiene.
Tutto, in scena, subisce contrasti e paradossi poetici sempre nel rispetto dell’integrità delle liriche di
Ballerini. I movimenti sono lenti, quasi estenuanti, affinchè venga esaltata la profondità dei versi ma
anche perché la staticità in scena sia un riferimento emotivo.
Più è fredda la messa in scena più si ha la possibilità di esprimere la profondità del sentimento da cui
deriva.
Le funzioni troppo esplicite riducono l’efficacia delle emozioni, diventano grottesche e didascaliche, e si
allontanano dall’arte.
La tragedia del ’43 e la sua lettura storica si fondono nella musica e nella danza. L’intenso dialogomonologo tra i due personaggi avviene sulla musica e dentro la musica, in parte suonata dal vivo, e
soprattutto musica che nasce per Cefalonia come veicolo e complemento per la narrazione.
Personaggi:
Ettore B.(Spettro)
Hans D.(uomo d’affari tedesco)
3 spettri(danzatori)
Contrabbasso in scena
Oggetti di scena:
Un tavolo con macchina per scrivere, zaini militari e varie macerie
Il sipario si apre dopo poche note di contrabbasso, che introducono Ettore B. seduto al tavolo sul
proscenio. È un soldato, lo spettro di un soldato caduto.
ETTORE B sulla musica
sulla mia morte non ci sono dubbi. Ne rimangono invece
intorno ai modi: caduto, secondo la vulgata, su di un’arma
quasi bianca, e dopo giorni di attacchi rinviati, insidiosa
corre anche voce che sia stato messo al muro. Non poteva,
l’incertezza, non turbare chi del mio silenzio s’era fatto
una specie di ragione, sia pure a mezzo di sarcasmi e scatti
di non trattenibile violenza (come assente ho suscitato attese
di esperienza che sarei stato fiero di evitare). Sforzandomi
di contare come vivo, ho comunque istigato non illeciti
e non sospetti annusamenti di verità: che è una mala fede,
per dirne una, si osservi meglio se un ribrezzo intermittente
soggiace alle lusinghe di un dio massaggiatore, o quando
non gracchia al modo delle rane, né urla s’ode a destra uno
squillo di tromba cui risponde uno squillo, a sinistra. Sapersi
maschere dipana sintomi di parossismo, di chiaroveggenza
(esserci, starci, cantare per farsela passare, per capire chi ha
chiesto impunemente il conto, la zavorra).
Vivi o morti, è da vivi che si tenta di tornare sui passi del
proprio delitto, che ci si torna, untuosi, fingendosi morti.
180
Entra HANS D (è un uomo d’affari tedesco) sulla musica
(con piglio deciso)
scrupoli non ho che siano duri e molli come paraffina o come
olio di canfora, o di merluzzo e diano abbrivio alla rimonta,
al rinnovamento ideale che viene a galla o slitta nel dare e avere
di un’afosa teoria di santi e di megere: da ogni punto di vista (solenne)
il mio è l’esempio più subdolo e inattaccabile, più ostinato e più
affetto di ritrosia. Mio... (pausa) per capirsi, come (pausa) “me la tengo stretta”
e “parlo per denegare tracce di connivenza privilegiata, di luce
che avvilisce la penombra del senso”. (attesa della musica) Sono tracce che non c’è
bisogno di seguire fino in fondo: perfino i miei pro tempore,
le mie magagne affossate, possiedono la lugubre destrezza
di un esilio dove il filo spinato si confonde con i rami spinosi
di un cordoglio, di una passione imprecisa. Mio (pausa) come lo stile
con cui elargisco ceste febbrili di pane bianco. E poiché nulla
si può elargire aldilà di allarmanti somiglianze, mio (pausa) come
“vicariamente”, o lettera nascosta sotto il naso di tutti, caduti
e fucilati, nei giorni di un settembre che la pioggia non cessò
di picchiare, argentina, sui tegoli del tetto sul fico e sul moro.
ETTORE B
(Tutto ritmico sulla musica)
fronda non direi ma un surrogato di mezza stagione, una pallida
ecchimosi adorata in luogo di tremore, di tumore arrogante, o con
voglia di scherzare. E neppure doppio gioco, doppio incastro di una
volontà che si attiva tuonando parole d’ordine (E.B. si avvicina ad H.D. si appoggia alla spalla di H.D.)
(tracciare con l’aratro il solco, difenderlo con la spada, fare la guardia ai fusti di benzina). (quasi cantato)
Meno che mai (lunga pausa) martirio per cui si accede, anche non battezzati (che
ne basta il desiderio), alla gloria di santi che sapranno intercedere
presso la madonna pellegrina, la quale saprà intercedere anche lei
presso la divina podestà, modificando gli esiti di una disfatta logica
prima di tutto (fermata sulla musica).
Teniamoci quindi ai fatti emergenti della certezza
dell’altrui vacillare, all’inganno pregiato che divide l’intenzione
dal suo dichiararsi; e salpiamo solamente a partire da elisioni
che schiumano nel brodo di referenti spostati e condensati, cui
vanno soggette alcune affabulazioni compensative. ( voce fuoricampo)
“Essere dei nostri”... (nuovamente dal vivo) potrebbe voler dire aver trovato Dio ed essersi
sottratti al suo disdegno, all’invito di decifrare l’emblema del suo
distendersi nel mondo per darsi luce. Lasciamo per tanto a chi le
merita (per ceto e usanza) le stellette che noi portiamo e le culottes
che invece non portiamo e sono la fottutissima croce di noi soldata
(E.B. cade sulle ginocchia e lentamente si siede al limite del proscenio mentre H.D. incalza).
HANS D
(con immediatezza... sarcastico)
non sono di quelli che tirano mattina per dire che la faccia di un Jack
Palance è la prova che dei buoni ce n’era perfino tra i nazi e ce n’è
tuttavia, sontuosamente affrescati con la luger in mano e le bretelle.
Sostengo, questo sì, che per aggiungere “me ne vanto” a “me ne frego”
(e farsi conoscere dallo straniero) non è necessario invocare i vantaggi
di una coerente lungimiranza: basta convincersi di aver vinto una volta
la tentazione di figurare in prima persona. Chi oserebbe parlare
di Zeitgeist per dei rami di pesco che vende al quadrivio una vecchina (lirico)
“mentre piove e spiove sotto l’aspro alternare delle ventate?”
(cambio di registro... con sarcasmo)
Quand’anche non avesse un suo figlio mangiato del mio pane azimo, non sarà questa
filologia da rimasto a galla, a tenerlo lontano dai pericoli di una latitante
apoteosi: la lugubre voglia di incidere nel sociale si ottiene osservando
chi con ciclica disinvoltura si pente di errori commessi illustrando il ritmo
181
inarrestabile del proprio emanciparsi: (H.D. si china al limite del proscenio, su E.) regina di cuori è
diverso da regina
prematura, (rapidamente incalza) da prezzo elevato che non dura, che non può durare, diverso
per natura, dal disprezzo che amo, (scandito) da cui debbo astenermi con... (esce lentamente sulla
quinta di destra rispetto alla platea gettando un’ultima occhiata ad E.B.) (fuoricampo) cura.
ETTORE B (ancora seduto sul limite del proscenio)
Entra un danzatore alle sue spalle muovendosi sulle parole come fossero musica, sottolineandone il
ritmo.
Non c’è musica.
o incominciando con donne che latrate di dolore, che indossate le brache
rosse di un debito d’amore, e continuando con singhiozzi da cui traspare
una ricerca di stile tirata con i denti:do re mi, mi re do... Se raspando nel
cuore stravede (o straparla) il debito che cresce, la sua virtù “a quell’ora”
ripopola una voglia di salti, di saltare addosso a qualcuno per mostrargli
l’inconsistenza delle sue conclusioni e del suo vantaggio. Bello o brutto
che sia, non è che un ascolto, un facchinaggio da rompersi l’osso del collo.
HANS D
Non c’è musica.
Fuoricampo, da dietro la quinta, sorprendendo E.B.
se coscienza sopita dal consenso, da piena e solidale avvertenza,
rivelasse colpa grave o deleteria, (entra da sinistra con passo cadenzato sulle parole che seguono)
se gettasse vituperio sui modi precipui dell’acquisto, (pausa, poi si china su E.B.)
morirebbe anche in noi la voglia di non sapere degli ultimi di noi, di volgere in tenebra e silenzio il fourire
che succede all’incanto per rinascere per forza. (si rialza, sempre rivolto a E.B.)
Se fosse nudo il re, il suggeritore, il nato per supporre di sapere, se fosse l’idiota di turno
l’erede del programma in cui concrescono debito e capitale, verrebbe
a noi pure il sospetto che padri e madri sopraggiunti con la piena dei
canali e vaghi di oltranzismo, nulla potessero davanti all’urto di una
somiglianza redentiva che regge le sorti dell’uomo (e della donna
di lui più evasiva e sparsa e feudo più smembrato).
(H.D. esegue ogni azione con precisione didascalica mentre E.B. lo osserva sorpreso alle sue spalle).
Stendere per terra un tappeto, metterci sopra una seggiola e sedersi. (seduto, pausa) Agitarsi
insoddisfatti
rizzarsi,tastare, tentennare, riflettere (pausa, poi crescendo) e infine calzare la seggiola con
un biglietto da visita sotto una delle quattro gambe. Rimettersi seduti
e iniziare a dondolarsi. Dondolarsi sempre più forte fino a cascare
a gambe levate. (E.B. trattiene la caduta. Pausa. Poi verso E.B.)
È il requisito che manca non la sua requisitoria (H.D. esce lentamente dalla quinta di destra descrivendo
un ellisse) l’incubo che a egregie cose il forte animo accendano l’urne de’ forti.
(E.B. siede sulla seggiola che era stata di H.D. e vi resta immobile. Entrano in scena i danzatori).
DANZA sul brano “Funeral Earth”
Due danzatori restano in scena seduti immobili sul palcoscenico sulla quinta centrale.
ETTORE B (ancora seduto accanto al tavolo...)
Al sole si respira, questo è un fatto, e sono i fatti che danno
senso alle cose, che spingono a dirle prima che a qualcuno
venga in mente di schedarle, (musica sotto alle parole) di addormentarne l’angoscia
e tradurne in orizzonti più vicini, più adesivi, la sfida che
ne promana che sgrana e non ingrana, la legge fuorisacco,
la tregua del loro smarrirsi. Si può dire: “siamo e saremo
animali di successo, pechinesi dagli occhi di saccarina”
e non morire mai; oppure “You disappoint me Mr. Bond”
e finire morti con la propria fortuna (sfacciata) alle spalle:
in un campo mezzo grigio e mezzo nero ci sono papaveri
182
e mammalucchi; mammaliturchi e mammole; ci sono anche
papere d’ingegno che l’affittano a metà con i dindi, che però
non ci sono, stante che per arrivarci bisogna attraversare
un fosso. È irriverente? Non è di sinistra? O è santo, santo, (entra H.D. trascinando lentamente una sedia
che posiziona, poi si muove verso E.B.) tre volte santo, il tempo in cui fischiando il vento (soffiando)
e tuonando la bufera (nevicando la frasca), anche per noi
si tacerà degli ultimi di noi, vedendo iscritta nell’idea
di modello la scomparsa dell’idea di festa? (E.B. trascina la sedia su cui era seduto verso H.D. con
violenza) Non sono mai stato di quelli che godono dell’altrui male (ma irritarmi,
mi irrita assai), (crescendo) e davanti a una strage di fanti che tacciono
per andare avanti, (verso la platea) dico che perduto è quello che la spunta,
che si sfrega le mani per farne uscire l’odore della morte.
(H.D e E.B. si siedono sincronicamente sulle rispettive seggiole)
DANZA su “Winds”
I danzatori srotolano le lunghe maniche di E.B. e creano l’allegoria di una crocifissione inchiodando le
maniche sulla quinta centrale.Pochi secondi, poi E.B. si libera.
HANS D verso E.B.
Ancora seduti
fortunato al gioco, in amore, con i libri che ho letto e non ho letto (si alza verso E.B.)
non sto qui a sifolare l’Aida giorno e notte. Il problema è che una
Deutschland uber alles sorride, implacata e vile, nel volto idiota
del presidente texano, con abito medio, macchina e moglie medie.
Nessuno è più libero di non strafare, nessuno che abbia diritto
di sapere come andrebbe a finire se amore fosse amare per forza
chi ci ama o ci guarda da sotto in su per ricordarci chi è che comanda.
Non è peccato, no, per carità, non è peccato, ma giocare per vincere,
sapere di avere già perduto, questo, mi dispiace, non era nei patti
Gli attori restano immobili sulla scena.
Entrano i danzatori anche loro immobili sulla quinta centrale.
Voce fuoricampo, sovrapposizione delle voci in scena.
CORO
noi siam li tristi accalorati, le formicuzze,
il forellin dolente, noi siamo le tristi penne scalcagnate
ch’abbiamo copiato quel che voi scrivete, noi siam
le tristi penne imminchionite, e a dire il vero neanche
ben pagate, ch’abbiamo finto quel che voi smentite.
Noi siamo queste bellezze sderenate, queste orrende
soffiate malpartite, noi siamo queste ideuzze scavalcate
per cui da un po’ si azzuffano le fate. Or vi diciàn
perché noi siam partite, avviticchiate dolorosamente,
da quelle mezze strade malfamate dove eravamo penne
travestite e siamoci poste sì presso a la morte ch’altro
di noi non resta che sconcezze in tutt’altre faccende
Escono E.B. e H.D.
DANZA su musica di Hindemith
ETTORE B
Rientra in scena E.B. e siede sulla ribalta. Una danzatrice rimane in scena poi entrano gli altri. Entra
anche H.D. e si siede a sua volta sulla ribalta, accanto ad E.B.
“qui lo dico e qui lo nego” e per concludere (rivolto alla danzatrice alle sue spalle) “spalmami ma bene,
dove non arrivo”. (solo di danza alle sue spalle, senza musica)
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(Saltò giù dal tram ma gli furono subito addosso
e gli fecero sputare i denti; a quell’altro gli spararono proprio sotto
le finestre della scuola e mandarono tutti a casa.) È lo stesso che dire
“l’ho visto e non l’ho visto”. Significa che il secondo posto nessuno
ce lo toglie, significa che c’è una pausa nel corto circuito dell’obbedienza, nel
dissesto armonico della sequenza. (Ora il quindici tira diritto fino a
Ronchetto delle rane, ben oltre la centrale che le bombe non l’hanno
nemmeno sfiorata... colpirono ca’ della paura che sorgeva, e sorge
tuttavia, tra logge metifiche in località Campazzo.) Più in alto, ecco lì
è perfetto; (E.B. si alza sotto il proscenio e conducefuori dalla scena sotto braccio H.D, e come se
svelasse un grande segreto:)
... il mare è traditore, se non ti spalmi ti vengono le piaghe.
DANZA su “Fuga dal presente”
HANS D
Rientra a braccetto di E.B.
un campo qualunque va bene, meno quello a fianco dell’alzaia,
col pallone che finisce nel Naviglio e le partite che durano
giornate. E’ uno scempio per la psiche umana dispendiosa
dispettosa, aleatoria, che nega che si possa negare e farla
franca. A chi torna gli viene naturale di credersi al centro
di un teatro di salti mortali davanti ai quali impallidiscono
le cerimonie del punto di vista o dell’indagine: è come un
vaccino, una miccia minima di lebbra, per tenerne in vita
le insinuazioni, le carie del do ut des.
(Con determinazione malinconica... come se volesse evocare un episodio che non ha vissuto. Gli attori si
muovono descrivendo un percorso circolare sul proscenio. Prima lentamente poi accelerando il passo.
Fermandosi bruscamente e riprendendo il passo ad intervalli regolari.)
Non fu per ragionata e lunga e demiurgica iattura che segnammo noi per primi,
abbandonati dal sublime Bad dog leo, (verso la platea) ma per colmare con
abilità e rancore un vuoto paronomastico (scandito, algebrico): per tendere l’arco
delle promesse sulla corda verace delle premesse, per insistervi
quasi si trattasse di lettere sfuse in cerca di obiettivo. (Come
neve al sole scomparve anche l’arbitro cornuto (lieve ironia), richiamato
ai ruoli d’origine che un silenzio non ammetteva, e tuttavia
non ammette ripensamenti). Fu galeotto il vantaggio ma durò
lo spazio di un mattino. e quelli che hanno l’alibi, o sono
quasi sempre via, o vivono all’ombra di una legge che magari
autorizza, ma non può legittimare, ce l’avranno la voglia
di affermare come in quel tempo di vagoni per “cavalli otto
e uomini quaranta si contassero (e anche adesso si possono
contare) al posto dei goals, le negligenze più colpevoli, i più
laceranti disinganni? Che se la Champions’ League non c’era,
c’era l’idea del nemico e della barriera e, del pallone, di farne
una bandiera, uno specchio sordido (veloce...quasi futurista) (una preghiera, un puzzo,
un lazzo, una ruera) e di abbattere con una sola e fottutissima
cadenza d’inganno (più le amare oscillazioni del suo valore
di scambio) il cardine sciamanico della lusinga (e della paga)
intera. Dell’idillio e della scienza esatta del paradosso, (controscena di E.B. ironica, di compiacimento)
i primi a rallegrarsi furono gli addetti della ripetizione, i lunatici fissati
con il catasto, con il buon umore, (cambio di registro... più serio) gli osceni del tutto esaurito.
VOCI ANONIME NEGLI SPOGLIATOI
Nessuno in scena. Voce e musica fuoricampo.
Spot sul contrabbasso.
Ieri ho ricevuto due lettere e l’ultima era in data 25
7 cioè il giorno prima che eventi di grande importanza
avvenissero in Italia. Sono però fiducioso che tutto ciò
non abbia per nulla intralciato il tuo progetto, e che
mentre io ti scrivo tu sia già***, per goderti un po’
184
di quel meritato riposo che tu meriti... Mi fa piacere
sentirmi dire...e ti garantisco non vedo l’ora...
poterlo ancora prendere in braccio e rivederlo
con i miei occhi. Ma anche quel giorno dovrà venire, Dio
non potrà disporre altrimenti, sarebbe troppo brutto
negarmi di abbracciare i miei cari, almeno per una
volta sola. Ma è meglio che cambi discorso altrimenti
scendo in una china che potrebbe rattristarti, mentre
io desidero che tu ti mantenga quella che io ho in mente
io e così al nostro ravvicinamento non ci sarà da dire
nulla di questo tempo perduto, ma faremo come se
non ci fossimo mai lasciati. O mia cara, vorrò amarti
fino a stancarti e tu perdonerai queste mie prepotenze
................................................................................
................................................................................
ce n’è che strisciano, che scavano, che si contorcono,
che dicono di essere matti da legare, che non fanno
più parte del progetto di adeguare il mondo all’idea
ma c’è più odore di bruciato che di non sapere; ce n’è
che insistono a parlare di denaro inviato; e ce n’è anche
noi no, noi eravamo con voi. Ma, gli uni
e gli altri si contano ormai sulle dita di mani annerite,
oleose, cadute per via da un carro di assiomi putrefatti.
Tutti rientrano con tuniche bianche plissettate come negli antichi cori di Euripide.
Descrivono sulla scena una traiettoria circolare. Coro ritmico fuoricampo.
CORO
chi organizza la propria vita ed è un ritorno la vita che organizza,
a lui gli tocca entrare in ogni fuga, restare con un pugno di mosche
chi trasferisce negando l’attesa dl padre in figlio e si sgomenta
nel figlio, può fingersi maschio abbattuto in un campo di stoppie
chi per tutta la vita ritorna, ed è godimento in lui lo struggimento,
del non tornare, la sua vita è lo stesso che passare da esasperato
senso a suono che suscita un riso: se basti, per ridere, occultare
il varco per cui si accede al gioco delle parti, alla ridda del tenere
a bada (fatto di gomma come sono, se gioco, gioco in porta, dove
anche i paranoici hanno diritto di sentirsi minacciati). Nel cretto
impassibile del segno (per cui si vince) che più si dipana e più
minaccioso dimora, il Duce ha sempre ragione, sempre, i tedeschi,
torto. Latine loquitur? Ufun pofocofo... insomma me la cavo,
ma è chiaro che non c’è rimedio a ciò che si acquista fuggendo
Musica... finale
Notizia.
Poeta, traduttore e saggista, Luigi Ballerini è nato a Milano nel 1940 e vive a New York. Insegna
letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università della California di Los Angeles. Ha
pubblicato numerose raccolte di poesie tra cui eccetera. E (1972), Che figurato muore (1988), Il terzo
gode (1994), Uno monta la luna (2001) e Cefalonia (2005). Come critico si è occupato soprattutto di
avanguardia storica: si veda, tra l’altro, La piramide capovolta (1975) e le sue edizioni di Gli indomabili
(2000) e di Mafarka il Futurista (2003). Ha curato antologie di poesia italiana ed americana tra cui La
rosa disabitata (1981), Shearsmen of Sorts (1992) e The Promised Land (1999).
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IL TEATRO SENZA TEATRO
Breve nota preliminare alla “Santa Giovanna” di Corrado Costa
Io sono il dio morente
che deve essere ucciso
(C. Costa, Santa Giovanna Demonomaniaca)
La “Santa Giovanna” di Corrado Costa va considerata tra le opere nate da quel particolare desiderio
scenico che ha condotto il poeta a ricollocare frequentemente la sua scrittura nella forma teatrale o
narrativa. Sebbene la struttura e la lingua di questo specifico lavoro non ne suggeriscano una immediata
traduzione in scena, il testo si collega in modo naturale alle opere scritte da Costa per quella o altre
analoghe destinazioni “pubbliche”, apprestate in modo del tutto particolare, come nel caso di alcune
poesie divenute oggetto di lettura drammatizzata o di performance.
Pubblicato nel 1973 per le edizioni Magma di Roma, la Santa Giovanna Demonomaniaca è costruita
sull’unione di due narrazioni mantenute distinte anche graficamente: sulle pagine di sinistra (quasi un
testo originale a fronte), c’è la narrazione interiore di Giovanna; a destra la narrazione del processo. La
prima è scritta in corsivo ed è costituita dal monologo con cui la fanciulla racconta ai suoi animali la sua
vicenda storica, prima che questa accada. Viene alla luce il carattere autentico della vita scentrata di
questa fanciulla contadina, animata da un senso religioso panteistico, meravigliato; se ne leggono le
emozioni inconfessate, i soprassalti dell’infanzia, e poi il silenzioso commento al processo che si dispiega
più volte al suo ascolto.
La seconda narrazione è scritta in tondo e riporta il dialogo tra Giovanna e i giudici. Questi sono visti quali
strumenti del disegno divino, ma anche come maldestri esecutori della imperfetta e vanagloriosa legge
degli uomini. Lei si difende e attacca, ma soprattutto non consente agli uomini di questa storia di entrare
nel suo mondo.
Il poeta salta dall’una all’altra pagina - dall’una all’altra narrazione – alternando una scrittura del diritto o
della disputa religiosa alle repliche immediate della ragazza, la quale non appare punto sprovveduta
davanti ai suoi persecutori, perché forte di una conoscenza assoluta: vale a dire la consapevolezza della
propria fine che precede l’esistenza stessa e che costituisce il copione al quale lei non vuole sottrarsi.
Nel quadro culturale suggerito dal poeta in questa opera, la religione occupa il posto di un fondamento
antropologico rivelato nelle linee esili di una sinopia: un'allegoria del destino, una inquieta sensibilità che
si ritrova in alcune poesie di Pseudobaudelaire (1964), come Parusia oppure Autocritica; e più fortemente
in testi di poco successivi alla “Santa Giovanna”, come Storia di una storia non scritta o La scarsa
conoscenza (entrambe del ’74, entrambe visitabili oggi nella raccolta dell’opera di Costa: The complete
films. Poesia prosa performance, edita da Le Lettere di Firenze)). Lo interessa, lo trattiene, della
dimensione religiosa, la fede senza oggetto dei primi abitanti del mondo, l’idea di una visione
intermittente dell’ultraterreno, di una vita a contatto stretto con il sacro, con il dio sconosciuto, il senza
nome; così come lo angustia la paura di tutto questo.
Nella “Santa Giovanna” è già preannunciato il più celebre copione “bruniano” del 1988 – le
Decomposizioni esemplari, ispirato al teatro di Bruno e messo in scene a Parma -, ma con una pervasività
dell’elemento religioso maggiore che in quello, perché rimesso in qualità di autentico e solo motore
scoperto del dramma. Dopotutto, per il poeta, Giovanna e Bruno sono storicamente protagonisti di
vicende analoghe: distrutti entrambi da una religiosità personale e vitalistica, anarchica ma sofferta,
manifestata in privazioni, slanci, solitudini. Ma Santa Giovanna è figura che si assenta dalla scena, che
raccontando la sua storia non parla mai di sé, ma sempre di quella persona che veste i suoi panni (e
come la Giovanna dei Macelli di Brecht muore di sfinimento lottando tra due anime del mondo):
protagonista di un teatro senza teatro che non trova mai corpo, mai pagina, ma sempre solo voce, solo
eco immateriale, profezia, declamazione fuori scena. Personaggio di una continua sottrazione, erosione
del corpo teatrale, che ha i suoi eroi maggiori nella scrittura di Samuel Beckett.
Del resto, il teatro e il cinema sono per Costa i due grandi maestri di letteratura degli anni di formazione
a Reggio Emilia, quando, nel dopoguerra, partecipa ai lavori delle prime compagnie teatrali locali (ancora
attivo lì Romolo Valli) e di un Circolo tra il politico e l’estetico che diffonde il nuovo cinema italiano e
europeo. Dal teatro e dal cinema gli verrà la maschera del mago o del folletto irridente che sbuca dietro
ai più celebri dei suoi versi, ma soprattutto la capacità di immaginare quegli stessi versi nella forma della
scena: il copione, la partitura, sono rimasti modelli formali della sua opera e, soprattutto, delle
conseguenze della sua opera – la declamazione, la performance, la poesia a voce.
Eugenio Gazzola
186
***
CORRADO COSTA
SANTA GIOVANNA DEMONOMANIACA (1973)
1 - IL PROCESSO
Il mio potere è il vento che urla
(J. De Angulo)
Il racconto di Giovanna d’Arco è stato raccontato innumerevoli volte.
Per fortuna, due di questi racconti si dispongono temporalmente, non a una certa distanza dei fatti, o
qualche tempo dopo l’esecuzione, ma uno è all’interno dei fatti, mentre si svolgono, l’altro addirittura
prima dei fatti stessi.
Intendo parlare di due racconti non di due testimonianze:
a) il racconto della storia di Giovanna (ciò che effettivamente accade: la favola) è un racconto che è stato
fatto prima dell’inizio della storia di Giovanna. E non solo era già stato raccontato prima, ma era già stato
raccontato prima anche a Giovanna. Basta osservare:
– durante il processo, Jean de la Fontaine, le chiede di parlare «dei sogni» di suo padre. Giovanna
risponde che «più volte le fu detto» dalla madre che suo padre aveva sognato la partenza di Giovanna
(«me ne sarei andata, io, sua figlia, con i soldati»). La madre («mia madre e nessun altro mi ha
insegnato ciò in cui credo») riportava, dunque, i sogni del padre alla figlia, invece di nasconderglieli.
– il fratello, poi, «raccontava che a Domremy si mormorava: Giovanna ha appreso quello che fa presso
l’albero delle fate». Giovanna cita «le profezie del bosco, chiamato Bois-Chenu»: di lì doveva uscire una
fanciulla che avrebbe fatto dei miracoli.
– Giovanna ammette nel processo, senza esitazioni, che sapeva già cosa le sarebbe successo: la ferita, la
cattura, il martirio.
– Giovanna sa, quando riconosce, a Vaucouler, Robert De Baudricourt, che, dopo due rifiuti, la terza volta
avrebbe avuta la scorta.
– Il Re «prima di mettere all’opera la fanciulla» ha molte apparizioni e rivelazioni.
– Etc., etc.
È evidente che Giovanna conosceva benissimo la propria storia e che altre persone nel suo villaggio e a
Corte, la conoscevano già.
La storia di Giovanna, dunque, era stata raccontata prima.
Da questa osservazione si può dedurre:
1) Solo i narratori che vengono prima di Giovanna conoscono la portata del racconto di Giovanna, il suo
fine, l’importanza sociale.
2) I primi narratori del racconto, per infrangere il divieto di raccontare, al punto di raccontare il racconto
alla stessa protagonista del racconto, hanno considerato ormai perduta la loro vita, la vita stessa del clan
e della tribù. Giovanna era la loro ultima carta.
3) Giovanna conosceva integralmente la propria storia, ma col vincolo del segreto.
b) Il carattere segreto del racconto della storia di Giovanna (si tratta del modo in cui Giovanna ne ha
preso conoscenza: il soggetto) viene ribadito da Giovanna, all’interno della sua storia, prima della
conclusione del processo.
Giovanna dichiara di distinguere fra ciò che appartiene al processo e ciò che non appartiene al processo.
«Su suo padre e su sua madre, sulle sue azioni in Francia» ben volentieri presta giuramento.
Sulle «rivelazioni», cioè su tutti gli altri elementi della storia che la
racconta, non intende mai prestare giuramento.
La storia che le è stata raccontata, la storia di se stessa, è una storia che non può essere raccontata.
Se ne deduce che il soggetto del racconto è legato a una segreta funzione sociale, a un rito ancora vivo e
vitale, per il regime che ha creato il soggetto, al momento che Giovanna ne parla (o meglio, non ne
parla).
Anche se contiene molti elementi del racconto di fate, il racconto di Giovanna non ha subito la riduzione a
fiaba.
Non è staccato dal rito. Il silenzio di Giovanna, la sua risoluzione a rivestire abiti maschili, il rogo, sono la
prova concreta che il segreto investiva il rito. Il processo di cristianizzazione in corso non era riuscito ad
effettuare ancora il distacco del racconto dal rito e la sua riduzione a fiaba.
2 - I GIUDICI
Nel processo (relativamente a ciò che è stato narrato) troviamo numerosi elementi e circostanze della
favola di fate. (v. PROPP, Le radici storiche dei racconti di fate). La reclusione della fanciulla. La sventura
che ha colpito il reame. L’equipaggiamento dell’eroe partente. Il travestismo. «Non so». Il divieto di
vantarsi. I doni fatati. Il
cavallo ripudiato e barattato. Il morto riconoscente. L’anello fatato. La bacchetta. Il riconoscimento della
persona cercata. etc. etc.
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Tutte queste circostanze e tutti questi elementi sono evidentemente già noti ai giudici. La deduzione è di
estrema semplicità. Solo alla fine del processo Giovanna viene interrogata sulla fede. Durante tutto il
processo i giudici si perdono in una serie di particolari, che, per un processo di eresia, sono totalmente
insignificanti, ma per un processo di magìa sono essenziali. Il verbale dibattimentale non ha altra
possibile lettura. Per questo ho pensato di renderlo integralmente (con opportuni tagli) riprendendolo
dagli atti del processo.
Il testo non ha né oscurità, né segreti, se riteniamo che i giudici conoscessero completamente ed
esattamente sia il rito della storia segreta di Giovanna, sia lo schema di questo «racconto di fate» che
comincia con il danno recato al reame di Francia e si sviluppa attraverso la partenza della protagonista
dalla casa paterna, gli incontri con i donatori, l’offerta di un mezzo fatato, l’avventura e l’incontro con i
fratelli che la gettano in un precipizio (la sua congrega).
Secondo la tesi di M.A. Murray (Il Dio delle streghe, Roma 1972) i giudici stessi non sono stati
protagonisti indiretti della storia e, per così dire, non sono stati sorpresi nella loro buona fede, ma
avevano a loro volta «una funzione» nel racconto, quella di guidare Giovanna al suo tristo destino.
Meglio: quella di obbedire a Giovanna, che li obbligava a condurla al suo triste destino.
Quando Mons. Cauchon insiste con Giovanna, perché reciti il Pater Noster, che Giovanna assolutamente
non vuole recitare, il Vescovo chiede: «Se io vi conducessi qui uno o due notabili di nazionalità francese,
recitereste davanti a loro il Pater Noster»? (trad. G. Morandi). La domanda così proposta è insensata.
Tutte le parti del processo sono francesi. A sua volta tradurre «del partito del Delfino» non ha senso. È
evidente che la versione giusta è nel manoscritto di Orleans, quella da tutti scartata: «della vostra
congrega» o, ritornando, alla Murray «di questa congrega», – Giovanna, fa parte, per i giudici, di una
congrega e addirittura i giudici sono uomini di congrega (cioè un gruppo di persone sempre al servizio del
Dio cornuto). Il riconoscimento del Re, perde il suo carattere miracoloso, se – a Corte – vi sono uomini
della congrega e il Re è fra questi e ne porta il segno.
Anche se la congrega non può aiutare Giovanna nel processo, i giudici certamente l’aiutano. Ma è un
aiuto particolare e interessato. Non ci possono essere dubbi. Un secolo dopo, in un qualsiasi processo di
magia, Giovanna sarebbe stata subito condannata per non avere recitato il Pater Noster. La stessa
verbalizzazione delle risposte è sospetta. C’è un modo di aiutare (che i giudici conoscono) con le
domande, che nel processo è stato utilizzato. Ci sono risposte che hanno subito correzioni. O sono state
verbalizzate «in un certo modo».
3 - GIOVANNA
Ogni volta che i giudici indagano sugli elementi del «racconto di fate» e dal racconto sembrano risalire al
rito, Giovanna rifiuta di rispondere. Così, per esempio, sappiamo tutto della spada dissepolta a
Vaucouleur, possiamo dedurre che non era una spada («quella del Borbuona a dare colpi robusti»)
Giovanna gognone era una vera spada da soldato, ci dice dei suoi tre foderi, delle cinque croci, di non
averla mai posata sopra un altare, etc. etc. Sappiamo così che si tratta della verga di ferro (o di bronzo?)
che non serve da arma, che non viene usata come arma, che si logora nel viaggio verso il paese dei
morti. Si tratta della bacchetta magica che simboleggia il potere e il rapporto magico con i morti. –
«Avevate la vostra spada quando siete stata catturata?» «No» risponde Giovanna. I giudici sanno che
diversamente non sarebbe stata catturata. Ma Giovanna non dirà mai a chi è stata restituita, «dove l’ha
lasciata» –. Tutti questi continui rifiuti costituiscono il processo. Le risposte vanno integrate col non detto.
Le deduzioni che possiamo trarre sul personaggio di Giovanna sono univoche:
1) essa riconosce ai giudici una funzione nel racconto, anche se ritiene d’essere salvata dal martirio.
2) Essa riconosce a se stessa la funzione di re-fanciulla, che afferma col travestimento.
Ne consegue – nel processo per recidiva – che Giovanna riconosce
di essere stata narrata e di non potere non permettere l’inevitabile conclusione del racconto nel rito della
morte del sostituto del re, per consentire al re di continuare a vivere e regnare e al potere divino di
restare continuamente giovane. Essa traduce, allora, il racconto in azione.
Il processo diventa così il racconto, fatto da Giovanna ai giudici, del racconto che era stato fatto dai
vecchi narratori a Giovanna. Allora nel cerimoniale del Sabba e adesso per il cerimoniale del Sabba di
Maggio.
È su questo rito, in cui ha il ruolo di Vittima Divina, che Giovanna tace. Non ne può rivelare il significato.
Per concepire il segreto di Giovanna, dobbiamo, allora, tenere presente una fede che
1) non era cristiana, proprio perché «non faceva differenza» fra i Santi della Chiesa e i Santi delle
Apparizioni
2) non aveva (ancora) accettato di se stessa l’interpretazione demoniaca, che ne dava il cristianesimo
3) apparteneva, come patrimonio culturale, alle prime popolazioni europee di cacciatori e pastori non
nomadi, dell’età della pietra e del bronzo, distrutti dall’invasore celtico, nell’età del ferro.
Giovanna parla di Nostro Signore, di «Voci», di apparizioni. Non ci sono connotazioni.
L’assenza di dati connotativi della divinità fa pensare che Giovanna riporti il racconto di tribù
estremamente primitive, del tipo osservato da Jaime de Angulo, (I racconti indiani, Milano 1973).
Niente toteismo, niente sacerdozio (l’insegnamento religioso proviene dalla madre) forse solo la società
segreta.
Neanche veri tabù – Giovanna non sembra distinguere fra magia bianca e magia nera.
188
Appare in Giovanna (formulato con parole prese in prestito dalla religione cattolica: il Signore, i Santi)
vivissimo ed esclusivo «il senso del prodigio, il riconoscimento della vita come potenza, come forma
misteriosa, onnipotente». Come dice De Angulo: «da qualche parte, nei boschi, esiste un particolare
animale, un particolare cervo, o una certa locusta, una certa donnola, una qualche creatura selvatica,
insomma, che ha il vantaggio di possedere una dose particolarmente forte di potenza vitale. Andate nei
boschi e trovatelo. Cercatelo nei luoghi solitari, vicino alle sorgenti. Chiamatelo. Tornateci. Affamatevi fin
quasi a morire e tornate. Chiamatelo. Cantate la sua canzone». Secondo Giovanna anche fra gli uomini
esistono questi esseri particolari. Essa li chiama «angeli». Secondo Giovanna: «essi vengono spesso tra i
cristiani, senza essere veduti; io li ho visti spesso
tra i cristiani».
Questa frase non significa solo la separazione, ovvia, fra Giovanna e i cristiani, ma sottolinea il quotidiano
e intimo contratto di Giovanna con «il protettore invisible», anche nel processo e in carcere. Il protettore
invisibile è il potere di Giovanna. «Quando fugge da te – continua De Angulo – perdi la tua potenza, te ne
accorgi subito, la tua fortuna è bell’e andata, è inutile giocare, è inutile cacciare, poi anche perdere la
vita».
Giovanna ha stabilito questo rapporto di amicizia col protettore, modellandolo su forme che, secondo
Giovanna, non differiscono da quelle elaborate dal cristianesimo. E il suo potere non l’abbandona,
neanche in carcere, dove Giovanna continua a vederlo e sentirlo.
Questo doveva essere il parere dei giudici, i quali hanno compreso e recepito che il valore della vita è
affermato da Giovanna, misticamente, come potenza.
Questo è stato certamente l’insegnamento della madre alla figlia. Non posso fare altro che concludere,
ancora una volta con De Angulo, che di questo insegnamento religioso riporta due preghiere, quella del
padre e della madre (cfr. Montagna Rossa di F. Beltrametti e J. Dancinger, 1971). «Poi Orso chiamò,
Buona notte, Montagne, ci dovete proteggere questa notte. Siamo stranieri ma siamo brava gente. Non
vogliamo fare del male a nessuno Buona notte, Signor Pino. Siamo accampati sotto di te. Ci devi
proteggere questa notte. Buona notte, Signor Gufo.
Penso che siamo accampati a casa tua. Siamo brava gente e non cerchiamo guai, siamo solo in viaggio.
Buona notte, Capo Serpente a Sonagli. Buona notte a tutti. Buona notte, gente Erba, abbiamo steso il
nostro letto su di voi. Buona notte, Terra, siamo sdraiati proprio sulla tua faccia. Devi proteggerci,
vogliamo vivere a lungo».
Volpe dormiva tra i suoi genitori, e tra lui e Antilope c’era la bambina Quaglia. Volpe disse, «Oh,
guardate! Il sole sta tornando dall’altro lato!»
«No, quella è la luna, ragazzino. È la sorella maggiore del sole e lavora di notte».
«Ohoh! Allora buongiorno, Signora Luna».
«No, sciocco, vuoi dire buona notte».
«No, non voglio. È buongiorno per la luna».
«Va bene. Dormi». Orso già russava.
Antilope si raddrizzò. Guardò nelle ombre e cantò dolcemente una canzone alla notte.
Diceva: «Sogna per il mio bambino che avrà potere».
*
Avvertenza: Ho usato come «materiale» i verbali del processo (trad. it. di Morandi, Bologna 1953).
I tagli, in genere, riguardano le inevitabili ripetizioni e le lungaggini della procedura.
Come testo a fronte: il monologo di Giovanna ancora nella casa paterna alcuni anni prima del processo e
dell’avventura. Giovanna racconta così anche la parte segreta della sua storia, agli animali protettori, ai quali racconta
il processo.
Racconta tutto ciò che tacerà ai giudici e nello stesso tempo racconta la storia come la racconterà ai giudici. Il testo
così dovrebbe risultare completo.
Salvo due lacune intenzionali: la resurrezione del fanciullo e la restituzione del cavallo.
1.1. - GIOVANNA ALLATTA I SUOI ANIMALI
GIOVANNA - Il riccio. Il topo. La rana. Il corvo. Lo scoiattolo che mangia le castagne. Anche la gazza
nera. Tutti! Ci sono tutti! Non manca proprio nessuno. Il corvo dice che non si chiama corvo. E la rana
dice che non si chiama rana. Oggi dicono che si chiamano signori giudici. Questi sono i miei signori
giudici.
Il riccio dice che si chiama Jean Beaupère. Il topo dice che è Jean de la Fontaine. E frate Jean Le Maistre
è uno scoiattolo che rosicchia castagne. Il mio gattino assomiglia a un frate che sta nascosto dietro tutti
gli altri. Mi fa dei cenni con gli occhi e con il dito. Cerca di aiutarmi. Io faccio la riverenza davanti ai miei
signori giudici e riconosco la loro autorità.
Hai dure spine, Jean Beaupère, che stai chinato su te stesso. E tu, Jean de la Fontaine, che tremi tutto,
come un topo davanti al gatto. Cominciamo dunque a parlare del processo. Cosa dite? Dite più forte, dite
con me «piacque alla di-vi-na prov-vi-den-za che ...».
189
GIOVANNA - Anche Jean de la Fontaine assomiglia a un gatto. Frate Jean Le Maistre, invece, sembra un
furetto. Fura fura, cosa c’è da furare? Furetto stai nel cassetto. Tieni sotto la testa, con il naso marrone,
che nessuno ti veda. Hai sentito che bellissimi nomi dicono di avere i miei animaletti?
GIOVANNA - Ho una bella scorta di barattoli. Come tiro via il coperchio loro saltano su, i miei animaletti
che mi vogliono sottoporre a giudizio! Raccontiamo allora il racconto del processo che si farà.
1.1.
(Mercoledì 21/2/1431)
MONS. P. CAUCHON - A TUTTI COLORO CHE QUESTO SCRITTO VEDRANNO, NOI, PIETRO, PER LA
MISERICORDIA DIVINA VESCOVO DI BEAUVAIS, E FRATE JEAN LE MAISTRE, DELL’ORDINE DEI FRATI
PREDICATORI, DELEGATO DAL REVERENDO JEAN GRAVERENT, GRANDE INQUISITORE DELLA FEDE E
DELLA PERVERSITÀ ERETICA PER IL REGNO DI FRANCIA,
SALUTE IN GESÙ CRISTO NOSTRO SIGNORE.
M.P.C. - Piacque alla Divina Provvidenza che una donna, Giovanna, comunemente chiamata la fanciulla,
venisse catturata e imprigionata, da soldati onorati, dentro i confini della nostra diocesi, sotto la nostra
giurisdizione.
In molti luoghi si era sparsa la voce che questa donna, dimenticando la dignità che al suo sesso si addice,
incurante di ogni verecondia di ogni femminile pudore, si fosse vestita, con singolare e mostruosa
aberrazione, di abiti insoliti, adatti solo per gli uomini; e si diceva che la sua presunzione fosse giunta al
punto di sostenere proposizioni contrarie ad articoli della fede cattolica. Questi delitti sono stati commessi
non solo dentro i confini della nostra diocesi, ma anche in altre località del regno. Quando furono
conosciuti dai dottori dell’Università e da frate Martin Billorin, Vicario generale dell’Inquisitore, queste
Eccellenze hanno pregato il Duca di Borgogna e Giovanni di Lussemburgo che l’avevano prigioniera, di
consegnarla a noi come sospetta di eresia.
I miei servi mi servono per il servizio del processo. Processo. Procedimento di chiacchiere. Guillaume
Erard, dottore in teologia, è chiuso in un vasetto di vetro, spalmato d’unto, addormentato nella lana.
Jean de Chatillon, reverendo arcivescovo di Evreux, l’ho incontrato in Lorena, da una donna che era
chiamata la Rossa. Lo teneva legato per le zampe, contro il tavolo, come una gallina nera. Le loro
signorie arcivescovili sono forse un poco troppo spennate. I frati fanno le fusa e ci sono in giro preti con
le ali tagliate, che si mettono in cerchio.
GIOVANNA - Oggi non vi ho messo il latte nella ciotola. Ho capito che non volete leccare latte freddo.
Oggi vogliono roba calda. Sangue, goccia a goccia che viene fuori dalle ferite. Succhiano il sangue
direttamente dalla ferita, magari da un forellino di uno spillo. Gli animaletti, i piccoli animali che sono in
nostro servizio vengono, per il loro servizio, nutriti con il nutrimento di gocce di sangue fresco. Come se
fosse la bocca di un bambino, appoggiano il becco, le labbra, la ferocissima smorfia contro la carne del
seno. Noi restiamo in amicizia così con gli animali che ci servono. Uno per uno, io li nutrirò tutti i miei
animali giudici, con il mio sangue vivo anche se lo desiderano, anche se lo vogliono tutto.
GIOVANNA - Niente latte invece per te famoso capitolo di Rouen e niente per te, Vescovo di Beauvais,
Dottore in Teologia, Monsignor Pierre Cauchon, dal viso umano! Tu non servi me. Il tuo capitolo non mi
serve, ma sono io che sono soggetta al vostro servizio. Ogni cosa a suo tempo! Inutilmente sono arrivati
giudici-ranocchie, che volano di notte, o vengono giù dal muro giudici-corvi che saltano sulle pietre, e
giudici-anguilla che nuotano sotto terra. Nessuno di questi servi mi può aiutare. Solo tu, Pierre Chauchon
che hai diretto la cosa, tu che fai finta di non vedere e vedi dove andremo a finire, tu che fai finta di non
sentire e sai cosa viene dopo le parole, aiutami e fa’ presto!
190
M.P.C. - Quanto a noi, Vescovo fedele ai doveri della missione pastorale e desideroso di fortificare a
qualsiasi costo la fede cristiana, abbiamo pensato fosse opportuno inquisire senza alcuna limitazione su
tutti i fatti e procedere secondo diritto e ragione. Abbiamo chiesto allora alle loro signorie il Duca di
Borgogna e Giovanni di Lussemburgo, che questa donna venisse consegnata alla nostra giurisdizione
spirituale per essere giudicata.
M.P.C. - E il Serenissimo e cristianissimo principe nostro re Enrico di Francia e di Inghilterra, da parte sua
ha rivolto identica richiesta. Desiderando concorrere al rafforzamento della fede cattolica il Duca e
Giovanni di Lussemburgo hanno accettato volentieri di consegnare la prigioniera al Re, che ardente dal
desiderio di proteggere la vera fede, la ha consegnata a noi. Il venerabile, famoso Capitolo di Rouen che
esercita vacando il Seggio Episcopale, l’amministrazione spirituale, ha voluto accordarci il diritto di
risiedere in questa città, al fine di istruire il processo.
1.2. - GIOVANNA RICEVE IL SIGILLO
GIOVANNA - Mia madre comandava gli animali selvatici. Comandava l’orso, quando c’era ancora l’orso.
Sapeva le parole del cervo, quando c’erano ancora le mandrie dei cervi. Comandava i lupi! E sapeva da
che parte dirigere gli uccelli. Un giorno mi ha regalato i miei piccoli animali, ha parlato con loro e ha
chiesto loro di aiutarmi. «Dovunque voi siate – ha detto – voi dovete correre e vi dovete mettere in un
solo circolo, in un solo posto, e dovete scegliere quello più forte di voi che dovrà aiutare la mia figlia
Giovanna».
GIOVANNA - Io conosco bene la lingua degli animali. Ma in questo processo non mi serve né lingua del
lupo né la
(Con queste domande il Vescovo mi vuole perdere).
(Non so cosa vogliono scrivere con questa storia di mio padre e di mia madre. Io discendo da mia madre,
sono figlia di mia madre).
(Forse non se ne sono accorti).
(Una sola volta).
1.2. -
MONS. PIERRE CHAUCHON - GIURATE SUL VANGELO DI RISPONDERE LA VERITÀ ALLE NOSTRE
DOMANDE.
GIOVANNA - Non so che cosa volete sapere da me. Ma ci possono essere domande alle quali non
risponderò.
M.P.C. - GIURATE SUL VANGELO DI DIRE LA VERITÀ.
GIOVANNA - Su mio padre e su mia madre e su quello che ho fatto in Francia io presterò volentieri
giuramento. Ma su quello che mi è stato rivelato con rivelazioni che vengono da Dio, io non ne ho mai
parlato e le conosce soltanto Carlo, il mio re. Anche se mi si dovesse tagliare la testa, io non parlerò. La
mia congrega segreta mi ha proibito di farlo. Prima di otto giorni saprò se sono autorizzata a farlo.
M.P.C. - GIURATE SUL VANGELO DI RISPONDERE LA VERITÀ ALLE DOMANDE.
GIOVANNA - Giuro sul vangelo di dire la verità sulle questioni della fede e soltanto su quelle.
191
Al mio paese mi chiamavano Giovannina. Da quando sono in Francia mi chiamano Giovanna. Non conosco
il mio cognome. Non conosco il mio cognome.
Mio padre si chiamava Giacomo d’arco. Mia madre si chiamava Isabella.
Sono stata battezzata
con l’aspersione dell’acqua sopra il capo.
Tutti i bambini vengono battezzati così, e mia madre era d’accordo che si dovesse fare perché si era
sempre fatto così nel fiume e nella chiesa, con tutti i bambini, come volevano le donne.
GIOVANNA - Vescovo! Che fretta hai! Tu mi vuoi perdere in fretta. Come posso recitare davanti a questi
cristiani la preghiera al Padre Nostro, io, io che gli ho messo al collo corone di fiori e ho avuta da lui la
pelle lacerata sulla spalla sinistra! Il taglio della pelle che mi ha fatto il caprone con la corona in testa e io
incoronata gli stavo al fianco. Il Re del branco c’era, con il mantello nero, le corna attorcigliate.
GIOVANNA - Vienmi a parlare da solo, Vescovo, ti reciterò la preghiera per la tua salvezza. Hai il processo
è finito qui. Non c’è nulla da aggiungere. Mia madre... mia madre non insegnava il Pater Noster, Vescovo.
Mi insegnava, mia madre un altro Pater Noster, in questo modo:
PADRE NOSTRO CHE STAI SOTTO TERRA. CHE IL TUO NOME NON VENGA MAI DETTO. MANTIENCI IL
REGNO. FA CIÒ CHE VOGLIAMO. COSÌ IN TERRA E SOTTO TERRA. DACCI OGGI IL NOSTRO PANE DI
DOMANI. E LIBERACI.
Io sono stata battezzata da bambina nella chiesa di Domremy. Una delle mie madrine si chiamava
Agnese, un’altra Giovanna, un’altra... Sibilla. Uno dei miei padrini si chiamava Jean Lingué, un altro Jean
Barrey. Ma ho avuto altre madrine oltre a queste, a quanto diceva mia madre. C’erano tutti, anche il
prete del villaggio, c’era padre Jean Minet, almeno lo credo. C’erano tutti perché mia madre era una
donna importante. Ho diciannove anni.
È da mia madre che ho imparato il Pater Noster, l’Ave Maria, il Credo. Mia madre e nessun altro mi ha
insegnato ciò in cui credo.
M.P.C. - RECITATE IL PATER NOSTER PER FAVORE.
GIOVANNA - Tutto ciò in cui credo me l’ha insegnato mia madre.
M.P.C. - RECITATE IL PATER NOSTER.
GIOVANNA - Ascoltatemi in confessione, ve lo reciterò volentieri.
M.P.C. - RECITATE IL PATER NOSTER.
GIOVANNA - Se mi conducete due o tre persone della mia congrega: non reciterei il Pater Noster. Che mi
si ascolti in confessione.
M.P.C. - RECITATE IL PATER NOSTER.
GIOVANNA - NO
2.1. - GIOVANNA VA AL SABBA
GIOVANNA - Le fate filano e tessono le loro stoffe, come voi miei piccoli servi sapete bene. Entrano nelle
case e si siedono al telaio.
Tessono per delle intere giornate. Le fate fanno dei bellissimi vestiti. Fanno delle tele sottili verdi e
bianche. Da loro ho ricevuto i miei abiti da uomo. Le fate escono fuori dai boschi e delle volte ci
conducono nei boschi. Parlano con noi e nessuno di noi ha paura di loro. No, io non avevo paura né degli
elfi, né delle fate, ma ho avuto paura di questi stupidi aratori, degli abbattitori di foreste, dei costruttori di
strade, degli edificatori di città, di conventi e di chiese. Che hanno spaccato in due la foresta e colmato di
terra le libere sponde dei fiumi. Per intere bufere il fulmine ruota in cielo e sussulta sui tetti di cemento.
192
Non porta il fuoco alle radici! I campi arati assorbono inutilmente la pioggia dove una volta gli alberi
continuamente parlavano.
Il fuoco del cielo non è condotto alla radice!
2.1. (GIOVEDÌ 22/2/1431)
(SABATO 24/2/1431)
JEAN BEAUPERE - SONO INCARICATO DA MONSIGNOR VESCOVO DI INTERROGARVI. RISPONDETE LA
VERITÀ, COME AVETE GIURATO.
GIOVANNA - Possono esserci domande a cui risponderò secondo verità, altre a cui non risponderò.
J.B. - NOI VI CHIEDIAMO DI GIURARE DI DIRE TUTTA LA VERITÀ, NIENT’ALTRO CHE LA VERITÀ SULLA
MATERIA DEL PROCESSO.
GIOVANNA - Ah! Se foste bene informati sul conto mio, tutti dovreste augurarvi che io non fossi in mano
vostra!
J.B. - VI CHIEDIAMO DI GIURARE DI DIRE TUTTA LA VERITÀ.
GIOVANNA - L’ho già fatto. L’ho già fatto. Deve bastare. Io non ho agito che per rivelazione. Avevo, che
età avevo? Non lo so. Da giovane avevo imparato a filare e cucire. Per filare e cucire non temo nessuna
donna di Rouen.
A causa dei Borgognoni, ho abbandonato la mia casa e sono andata a Neufchâteau in Lorena, da una
donna ch’era chiamata la Rossa. Vi sono rimasta quindici giorni.
Quando vivevo con mio padre, mi occupavo delle faccende di casa: non andavo nei campi con le pecore e
le bestie.
J.B. - AVETE CONFESSATO I VOSTRI PECCATI ALMENO UNA VOLTA ALL’ANNO?
GIOVANNA - Sì, al signor Curato. E se era impegnato, a un altro prete, con il suo permesso. A volte
anche, – due o tre volte, se ben
GIOVANNA - (Ecco che io congiungo l’inizio e la fine della storia e adesso, ancora prima che io parta è
come se io fossi già arrivata. Ma io devo partire perché il popolo dei boschi soffre continuamente. Devo
dire al re che il cervo e l’orso non trovano più la loro tana e il lupo è rimasto senza nascondiglio. Il popolo
degli uccelli è colpito dallo spavento e i branchi sono paralizzati dalla paura. La preda esita a seguire il
cacciatore e il cacciatore è diventato cieco. Il cacciatore non attira più il bersaglio. Per due volte il re dei
boschi non si è fatto vedere. E anche voi ricci, topi, rane e scoiattoli, è come se aveste sete e non avete
sete. È come se aveste fame e non avete fame. Sotto il piede degli alberi che stanno per essere abbattuti
la terra viene spaccata e distrutta. Il corvo cade sulla strada con le ali che non gli spuntano più. IL falco è
stato catturato. Cammina in una trappola A OGNUNO È STATO SOTTRATTO IL SUO REAME. Il vento
dondola lame di metallo. Le lepri scorticate fuggono sopra l’erba falciata. Inutilmente, il capriolo, la
fanciulla cercano d’essere catturati dal cacciatore).
ricordo, – mi confessai a frati mendicanti: a Neufchâteau, allora. Per Pasqua, ricevevo il sacramento.
J.B. - E LO RICEVEVATE PER ALTRE FESTE OLTRE CHE A PASQUA?
(TUTTI GLI ANIMALI RIDONO)
GIOVANNA - Passate ad altro.
Quando avevo tredici anni, mi giunse una voce proveniente da Dio, che mi indicava come condurmi. La
prima volta, ebbi una gran paura. La voce venne sul mezzogiorno; era d’estate. Nel giardino di mio
padre. Notate che non ero a digiuno, né avevo digiunato il giorno prima.
Ho ascoltato la voce, a destra, dalla parte della chiesa. Quasi sempre, vi è una luce che l’accompagna.
Questa luce è dalla stessa parte in cui si ode la voce; e li, di solito, vi è un grande chiarore.
Quando ero in Francia udivo spesso la voce.
La prima volta ho visto della luce.
J.B. - COME POTEVATE SCORGERE QUELLA LUCE, DACCHÉ VENIVA DI LATO?
GIOVANNA - Passate ad altro.
193
Anche se fossi in un bosco, udrei ugualmente la voce venire a me...
Pensavo che ascoltare la voce fosse cosa buona. Io credo che essa fosse inviata da Dio. Dopo averla udita
tre volte, compresi che era la voce di un angelo...
La voce mi ha sempre protetta, e io l’ho sempre compresa bene.
Ma per oggi non riuscirete a farmi dire sotto che forma la voce mi era apparsa.
Due, tre volte la settimana la voce mi diceva che io, Giovanna, dovevo andarmene e venire in Francia.
Che mio padre nulla avrebbe saputo della mia partenza.
La voce mi diceva di venire in Francia e io non potevo più restare dov’ero! La voce mi diceva di liberare
Orléans dell’assedio. Essa mi disse: «Presentati a Robert de Beaudricourt a Vaucouleurs, il capitano della
piazza». Egli doveva affidarmi uomini armati che mi avrebbero seguito.
Risposi: «Sono una povera ragazza, che non sa andare a cavallo, né fare la guerra». E poi andai da mio
zio; volevo restarvi qualche tempo. Vi rimasi otto giorni circa. Dissi a mio zio che dovevo andare a
Vaucouleurs. E mio zio mi ci condusse.
Quando giunsi a Vaucouleurs, riconobbi Robert de Braudicourt: e tuttavia mai lo avevo visto prima; fu la
voce a farmelo riconoscere; la voce mi disse che era lui. Gli dissi, a Robert, che dovevo venire in Francia.
Due volte egli rifiutò di ascoltarmi e mi respinse; la terza mi concesse degli uomini. La voce mi aveva
avvertita che le cose sarebbero andate così.
Il Duca di Lorena ordinò che fossi condotta dinanzi a lui. Vi andai. Gli dissi che volevo venire in Francia. Il
Duca mi domandò se sarebbe guarito. Era ammalato. Gli risposi che non lo sapevo. Del mio viaggio parlai
appena. Gli dissi di darmi suo figlio e degli uomini perché mi conducessero in Francia e promisi che avrei
pregato Dio per la sua salute. Ero andata dal Duca con un salvacondotto e nello stesso modo ritornai a
Vaucouleurs.
Dopo Vaucouleurs, raggiunsi Saint-Ubain e dormii all’abbazia. Vestivo abiti da uomo. Baudricourt mi
aveva dato una spada, non avevo altre armi; uno scudiero e quattro sergenti mi accompagnavano.
Poi passai da Auxerre; udii la messa nella cattedrale; in quel periodo, udivo di frequente le mie voci.
J.B. - CHI VI CONSIGLIÒ DI INDOSSARE ABITI DA UOMO?
J.B. - CHI VI CONSIGLIÒ DI INDOSSARE ABITI DA UOMO?
J.B. - CHI VI CONSIGLIÒ DI INDOSSARE ABITI DA UOMO?
GIOVANNA - Passate ad altro.
Non cederò a nessuno un fardello tanto grave!
Robert de Baudricourt aveva fatto giurare ai miei compagni di guidarmi e proteggermi.
A me, Robert disse: «Va’, – era mentre mi congedavo da lui, – va’, e che sia quel che Dio vuole!»
La voce mi aveva promesso che il Re mi avrebbe ricevuto subito al mio arrivo. Quelli della mia congrega
compresero che la voce mi era stata inviata veramente da Dio; poterono vederla e conoscerla, la voce:
questo, io lo so, ne sono certa. Il Re, e molti altri come lui, poterono udire e vedere la voce che veniva da
me. Era presente Carlo di Borbone con altre due o tre persone.
Non passa giorno ch’io non oda la voce, e ne ho tanto bisogno. Mai le ho chiesto altra ricompensa che la
salvezza della mia anima. Fu la voce a dirmi che dovevo fermarmi a Saint-Denis in Francia.
Ed io volevo restarvi. Ma i capi mi condussero via contro la mia
GIOVANNA - (Sono gli alberi sapete, sono le voci che sono nascoste fra le foglie degli alberi, che bisogna
ascoltare. La voce delle piante dei boschi. La mia scorta è il topo. Anche il riccio. Anche il frassino. Il
frassino è il mio albero. Prima nel bosco si impara la lingua degli uccelli, poi la lunga conversazione delle
foglie. Poi i ragionamenti dell’acqua. Per giorni interi ho sentito le narrazioni dell'erba e i discorsi degli
insetti. Poi. Poi c’è, c’è chi può sentire la voce delle pietre).
GIOVANNA - Non è il clero cristiano, giudici, che decide la mia condanna, giudici-servi, quando mi sarà
comandato d’essere condannata. E questo basti.
volontà. Tuttavia, se non fossi stata ferita non avrei lasciato Saint-Denis; ero stata ferita sui fossati di
Parigi, quando vi giunsi da Saint-Denis. Ma in cinque giorni ero guarita. Avevo fatto fare una scaramuccia
contro Parigi.
J.B. - QUESTA SCARAMUCCIA, FU IN UN GIORNO DI FESTA?
GIOVANNA - Credo proprio che fosse un giorno di festa. Se ritengo di aver agito bene, attaccando in un
giorno di festa?
194
Passate ad altro.
In fede mia, voi potreste domandarmi cose che io non vi dirò. Oh, davvero! Potreste rivolgermi domande
su certi punti ed io non risponderei la verità. Soprattutto riguardo alle mie rivelazioni. Perché forse, voi
potreste costringermi a rivelare ciò che io ho promesso di tacere e commetterei spergiuro. È a questo che
volete portarmi?
Io ve lo dico: badate a voi! Voi che vi compito; voi vi accanite troppo contro dite mio giudice, voi
assumete un grave di me.
J.B. - FATE UN SEMPLICE GIURAMENTO.
GIOVANNA - Passate ad altro! Per ben due volte ho già giurato.
Ah, tutto il clero di Parigi e quello di Rouen non potrebbero condannarmi, se non ne avessero avuto
l’autorizzazione!
J.B. - CHIEDETE DUNQUE AI VOSTRI GIUDICI SE DOVETE GIURARE O NO.
GIOVANNA - Dirò volentieri la verità sulla mia venuta e questo è tutto. Non parlatemene più.
J.B. - VI RENDETE SOSPETTA, RIFIUTANDOVI DI GIURARE.
GIOVANNA - Sulla mia venuta dirò volentieri la verità.
J.B. - GIURATE SENZA RISERVE.
GIOVANNA - Dirò volentieri quello che so e neppure tutto quanto. Io sono venuta per ordine di Dio; non
ho nulla da fare qui. Mi si rimandi a Dio, da cui sono stata inviata. Ieri e oggi. Tre volte, la mattina, il
pomeriggio all’ora dell’Ave Maria alla sera, ho udito la voce
GIOVANNA - (Sono gli alberi sapete, sono le voci che sono nascoste fra le foglie degli alberi, che bisogna
ascoltare. La voce delle piante dei boschi. La mia scorta è il topo. Anche il riccio. Anche il frassino. Il
frassino è il mio albero. Prima nel bosco si impara la lingua degli uccelli, poi la lunga conversazione delle
foglie. Poi i ragionamenti dell’acqua. Per giorni interi ho sentito le narrazioni dell’erba e i discorsi degli
insetti. Poi. Poi c’è, c’è chi può sentire la voce delle pietre).
venire da me. Dormivo. Essa mi destò, senza toccarmi. Non so se era nella mia camera. Certamente era
dentro il castello.
Mi sono seduta sul mio letto, ho congiunto le mani. Le ho reso grazie. Questo avveniva dopo che io ebbi
implorato aiuto. E la voce mi disse che io rispondessi arditamente.
Le chiesi consiglio su ciò che dovevo rispondere. La pregai che chiedesse consiglio a Nostro Signore. La
voce mi rispose: «Rispondi arditamente, Dio ti aiuterà».
Fu dopo il mio risveglio che la voce mi disse di rispondere arditamente.
Badate a voi, voi che vi dite mio giudice! Badate a ciò che fate. Poiché la verità è che io ho ricevuto da
Dio la mia missione e voi vi ponete in grave pericolo!
J.B. - LA VOCE HA FORSE UNO SGUARDO? LA VOCE, GIOVANNA, HA FORSE UNO SGUARDO, DEGLI
OCCHI?
GIOVANNA - Non ve lo dirò. C’è un proverbio tra i ragazzi, che dice: «a volte gli uomini sono impiccati
per aver detto la verità».
J.B. - GIOVANNA, SIETE SICURA DI ESSERE IN STATO DI GRAZIA?
GIOVANNA - Se non sono in grazia di Dio, ch’Egli mi ci metta; se lo sono, che Egli mi ci conservi! Sarei la
creatura più infelice della terra se sapessi di non esserlo. Se fossi in peccato mortale, la voce non
verrebbe, io penso. Ed io vorrei che tutti quanti la udissero come l’odo io. Fu all’età di tredici anni, press’a
poco, che la voce per la prima volta venne a me.
Al tempo della mia infanzia, andavo nei campi con le altre fanciulle.
Vi andai qualche volta, ma non ricordo più a quale età.
J.B. - CONDUCEVATE LE BESTIE A PASCOLARE NEI CAMPI?
GIOVANNA - Vi ho già risposto un’altra volta. Quando fui cresciuta, dopo l’età della ragione, in generale
non pascolavo le bestie, ma aiutavo a condurle al prato, e a un castello che chiamavano l’Isola, quando
avevamo paura dei soldati. Non mi ricordo se da fanciulla io le portassi a pascolare o no.
J.B. - E QUELL’ALBERO, SAPETE?... QUELLO VICINO AL VILLAGGIO.
GIOVANNA - Si presso a Domremy c’è un albero; lo chiamano l’albero delle Dame, o l’albero delle Fate, a
volte; accanto c’è una fonte. Ho inteso dire che i malati vanno là a bere e ad attingere acqua, per
ottenere la salute. Questo io stessa l’ho visto.
Ma se guariscano o no questo non saprei dirlo!
Ho anche inteso raccontare che i malati, quando possono alzarsi,
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GIOVANNA - Lo so cosa vuoi sapere. Vuoi sapere se frequentavo il popolo degli elfi e delle fate. Gli elfi e
le fate non coltivano la terra. Allevano animali domestici e conducono al pascolo le mandrie. Nelle colline i
tori degli elfi scalpitano nei recinti. Io stavo in casa. Non li conducevo al pascolo, nei prati. Ogni tre mesi,
per la candelora, la vigilia della notte di agosto e la vigilia di novembre, mia madre prende la scopa e la
depone nel letto, per avvisare mio padre. Voliamo. Preparava pane, vino, ova cotte, un galletto e dei
piccioni arrosto in una sporta, io porto due torte e partiamo per il Sabba, con le altre donne del villaggio e
ci sediamo attorno all’albero. Stendiamo delle bianche tovaglie e tutti portano vino, carne arrostita e
dolci, attendiamo che arrivi il corteo, la
vanno a passeggiare vicino all’albero.
È un grande albero, chiamato il Faggio, è quello della festa di Calendimaggio; appartiene al Cavaliere
Pierre de Bourlemont. A volte vi andavo con le altre ragazze e facevo ghirlande per la statua della
Vergine di Domremy. I vecchi raccontavano – non i vecchi del mio tempo – che le fate venivano lì a
chiacchierare. Ho sentito da Jeanne Aubry, che era moglie del sindaco e madrina mia, di me che vi parlo,
l’ho sentita raccontare che essa vi aveva visto le fate. Ma non so se sia vero o no. Quanto a me, che io
sappia, non le ho mai viste, le fate, accanto all’albero; se le ho viste da qualche altra parte, di questo,
parola mia non ne so nulla!
Ho visto delle ragazze posare ghirlande sui rami dell’albero, ed anch’io, qualche volta, l’ho fatto insieme a
loro; a volte le portavamo via con noi, a volte le lasciavamo là.
Quando seppi che dovevo venire in Francia, non dedicai più molto tempo ai giuochi e agli svaghi. Il minor
tempo possibile. Non so se, dall’età della ragione, io abbia danzato accanto all’albero; è possibile ch’io lo
abbia fatto assieme alle altre ragazze; vi ho certamente più giuocato che danzato.
C’è anche un bosco, lo chiamano il Boise-Chenu; lo si scorge dall’uscio di mio padre, ed è a una mezza
lega. Non ho mai udito dire che le fate vi andassero a chiacchierare; ma mio fratello raccontava che a
Domremy si mormorava: «Giovanna ha appreso quello che fa presso l’albero delle fate».
Non era vero. Gli ho detto che non era vero. E quando mi mossi per andare dal Re, ve n’erano che
chiedevano se al mio paese si conoscesse un certo bosco chiamato il Boise-Chenu: perché di li, secondo
alcune profezie, doveva uscire una fanciulla che avrebbe fatto dei miracoli. Ma io, Giovanna, non vi ho
creduto.
processione, una fila di uomini e di donne, fianco a fianco, arrivano ballando e in cerchio tutti balliamo,
cantando in giro tondo attorno all'albero, e il Re della Festa suona il flauto.
Ha una pelle di capra sul dorso e al suo fianco, a destra, siede la fanciulla. Sono io. Insieme guidiamo la
danza in giro tondo. Poi il giro tondo si rompe in tante coppie che ballano sul prato. Il Re, il Dio che suona
il flauto, balla con la fanciulla. E tutti insieme mangiamo, beviamo, e balliamo fino al mattino, attorno a
grandissimi fuochi.
3.1. GIOVANNA RICEVE IN DONO UNA SPADA
3.1.
(MARTEDÌ 27/2/1431)
J.B. - VOGLIATE PRESTAR GIURAMENTO.
GIOVANNA - Presterò giuramento sulla materia del processo. Non su tutto quello che so.
J.B. - DOVETE GIURARE DI DIRE LA VERITÀ SU TUTTE LE DOMANDE CHE POTRANNO ESSERVI RIVOLTE.
GIOVANNA - Presterò giuramento per quel che riguarda il processo. Dovete accontentarvene. Ho già
giurato abbastanza!
J.B. - DUNQUE GIOVANNA, COME VA DA SABATO SCORSO?
GIOVANNA - Vedete bene. Va come può andare. Alla meno peggio.
J.B. - avete osservato il digiuno ogni giorno di questa quaresima?
GIOVANNA - Ciò riguarda forse il processo?
J.B. - SI, CIÒ RIGUARDA IL PROCESSO.
GIOVANNA - Bene, allora: ho osservato il digiuno durante tutta la quaresima.
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J.B. - DA SABATO SCORSO, AVETE PIÙ INTESO LA VOCE?
GIOVANNA - Eh sì, molte volte.
J.B. - SABATO L’AVETE FORSE INTESA NELLA SALA IN CUI CI TROVIAMO?
GIOVANNA - Questo non riguarda il processo.
J.B. - MA VIA...
GIOVANNA - Sì, l’ho intesa.
J.B. - E CHE COSA VI HA DETTO?
GIOVANNA - Non la comprendevo bene. Né compresi alcuna cosa che io debba dirvi, finché non fui
ricondotta in prigione.
J.B. - E CHE VI HA DETTO LA VOCE NELLA VOSTRA CAMERA, QUANDO VI SIETE RITORNATA?
GIOVANNA - Di rispondervi arditamente! Le chiesi consiglio sulle vostre domande. Ben volentieri dirò
quello che il Signore mi ha concesso di rivelare. Ma, sulle mie rivelazioni al Re di Francia, nulla dirò senza
il permesso della mia voce.
J.B. - LA VOCE VI HA FORSE PROIBITO DI PARLARE?
GIOVANNA - Questo non l’ho ben capito.
J.B. - CHE VI HA DETTO LA VOCE, INFINE?
GIOVANNA - Le chiedevo consiglio su alcune domande che mi avevate rivolto.
J.B. - E LA VOCE VI CONSIGLIÒ?
GIOVANNA - Su alcuni punti, sì. Su altri, mi si potranno rivolgere domande a cui non risponderò senza
autorizzazione. Se rispondessi senza averne il permesso, forse non avrei più le mie voci come protettrici.
Ma quando otterrò il permesso da Dio, allora non avrò paura di parlare, poiché sarò certa della loro
protezione.
J.B. - LA VOCE ERA QUELLA DI UN ANGELO? OPPURE DI UN SANTO O DI UNA SANTA? O ADDIRITTURA
DI DIO? SENZA ALTRO INTERMEDIARIO?
GIOVANNA - Erano le voci di santa Caterina e santa Margherita. Le loro teste sono incoronate di
splendide corone, assai ricche e preziose.
J.B. - COME POTETE SAPERE CHE SI TRATTA DI QUELLE DUE SANTE? LE DISTINGUETE L’UNA
DALL’ALTRA?
GIOVANNA - Ma certo che lo so! Sicuro che le distinguo!
J.B. - COME LE DISTINGUETE L’UNA DALL’ALTRA?
GIOVANNA - Dal saluto che esse mi rivolgono: sono ben sette anni ch’esse sono accanto a me per
governarmi. Le conosco anche perché mi dicono il loro nome.
J.B. - LE SANTE SON FORSE VESTITE DELLO STESSO PANNO?
GIOVANNA - Non vi dirò niente di più per il momento; non ne ho il benestare.
J.B. - HANNO LA STESSA ETÀ, LE VOCI?
GIOVANNA - Non posso dirlo.
J.B. - LE SANTE PARLANO ENTRAMBE CONTEMPORANEAMENTE, OPPURE UNA DOPO L’ALTRE?
GIOVANNA - Non ho il permesso di dirvelo. È da entrambe che ricevo sempre consiglio.
J.B. - QUALE DELLE DUE VI È APPARSA PER PRIMA?
GIOVANNA - Io non le ho riconosciute subito! Lo sapevo un tempo, ma l’ho dimenticato.
E un grande conforto, l’ho avuto anche da San Michele.
J.B. - QUALE DI QUESTE APPARIZIONI È VENUTA PER PRIMA?
GIOVANNA - San Michele.
J.B. - QUALE FU LA PRIMA VOCE CHE GIUNSE A VOI, QUANDO AVEVATE CIRCA TREDICI ANNI ?
GIOVANNA - Fu San Michele ch’io vidi dinanzi ai miei occhi. Non era solo, ma accompagnato da angeli del
cielo. Io sono venuta in Francia solo per ordine divino.
J.B. - SAN MICHELE E GLI ANGELI LI AVETE VISTI REALMENTE, IN CARNE E OSSA?
GIOVANNA - Li ho visti, visti con i miei stessi occhi, così come vedo voi tutti. Quando essi mi lasciavano,
io piangevo, e avrei tanto desiderato che mi portassero con loro.
J.B. - CHE ASPETTO AVEVA SAN MICHELE?
GIOVANNA - Non ho il permesso di rispondervi.
J.B. - LA PRIMA VOLTA, CHE COSA VI DISSE SAN MICHELE?
GIOVANNA - Non ho il permesso di rispondervi.
J.B. - LA PRIMA VOLTA, CHE COSA VI DISSE SAN MICHELE?
GIOVANNA - Non otterrete risposta, oggi. Le voci mi hanno detto di tenervi testa senza paura.
J.B. - QUAL SEGNO AVETE VOI RICEVUTO CHE COMPROVI CHE LA VOSTRA RIVELAZIONE PROVIENE DA
DIO? CHI VI PROVA CHE SIANO SANTA CATERINA E SANTA MARGHERITA A PARLARVI?
GIOVANNA - Ve l’ho già detto tante volte, che sono santa Caterina e santa Margherita. Dovete credermi!
J.B. - VI È STATO PROIBITO DI PARLARNE ?
GIOVANNA - Non ho ben capito se mi fosse proibito o meno.
J.B. - MA COME POTETE SAPERLO, ALLORA?
GIOVANNA - Su alcuni punti avevo chiesto il permesso e l’ho ottenuto. Preferirei esser squarciata viva,
piuttosto che essere venuta in Francia senza l’assenso di Dio.
J.B. - È DIO VI HA ORDINATO DI PORTARE ABITI MASCHILI?
GIOVANNA - L’abito non è nulla; è cosa secondaria. L’abito da uomo, nessuno al mondo mi ha consigliato
di portarlo. Non ho indossato quest’abito, non ho fatto nulla, se non per consiglio di Dio e degli angeli.
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J.B. - E RITENETE VOI CHE IL CONSIGLIO CHE VI È STATO DATO DI INDOSSARE ABITI MASCHILI. SIA
... LECITO?
GIOVANNA - Tutto ciò che ho fatto, lo feci per ordine di Dio. S’Egli mi ordinasse di vestirmi altrimenti, io
lo farei perché sarebbe la Sua volontà.
J.B. - FU FORSE ROBERT DE BAUDRICOURT A ORDINARVELO?
GIOVANNA - Mai più!
J.B. - RITENETE DI AVER AGITO BENE, VESTENDO ABITI MASCHILI?
GIOVANNA - Tutto ciò che ho fatto per ordine di Dio ritengo sia ben fatto, e ne attendo approvazione e
conforto.
GIOVANNA - Era una clava che veniva dal regno dei morti. Le mani dei nostri vecchi dico, quelli più
vecchi dei nostri vecchi pian piano l’hanno portata alla luce. L’hanno fatta affiorare. E stata fatta migliaia
di anni fa, di puro bronzo, nel profondo segreto del regno degli elfi. Era essa il mio aiuto. Ma potevo
portarla solo per poco tempo. Dopo, dopo si che mi sono dovuta difendere con una spada. Di quelle vere
fin dove hanno voluto che io avanzassi gli antenati mi hanno lasciato portare la loro clava. Ora è di nuovo
sotto terra e essi di nuovo si sono addormentati. Gli sveglierà la cenere di fuoco che si coltiva nel mio
corpo.
J.B. - MA IN QUESTO CASO PARTICOLARE, NEL VESTIRE CIOÈ ABITI MASCHILI, RITENETE DI AVER
AGITO BENE?
GIOVANNA - Tutto ciò che ho fatto al mondo, l’ho fatto in nome di Dio.
J.B. - SIETE STATA A SAINTE-CATHERINE DE FIERBOIS?
GIOVANNA - Si. Vi ho ascoltato tre messe in un giorno. Poi sono andata a Chinon. Ho inviato una lettera
al Re, per chiedergli se dovevo entrare nella città dove si trovava; gli dissi che avevo fatto
centocinquanta leghe per venire in suo aiuto, e che conoscevo molte cose per il suo bene. Credo di
ricordare di avergli anche scritto che io lo avrei riconosciuto tra tutti.
Avevo una spada, che mi era stata data a Vaucouleurs. Quando ero a Tours o a Chinon, avevo mandato a
cercare una spada che era nella chiesa di Sainte-Catherine de Fierbois, dietro l’altare; e la trovarono
subito, tutta arrugginita.
La spada era sottoterra, tutta arrugginita; sopra, vi erano incise cinque croci. Dalle mie voci avevo saputo
che essa era là. Io non avevo mai visto prima l’uomo che è andato a cercarla. Ho scritto al clero del luogo
perché acconsentissero a lasciarmela; essi me la mandarono. Era sepolta dietro l’altare, a poca
profondità... Veramente, non so più se fosse davanti o dietro; mi pare aver scritto che era dietro. Quando
la spada fu dissotterrata, il clero del luogo la strofinò e la ruggine sparì d’un tratto, senza fatica.
Fu un armaiolo di Tours che andò a cercarla; il clero del luogo mi diede un fodero e così quello di Tours;
essi fecero due foderi, uno di velluto vermiglio e l’altro di drappo d’oro fino. Quanto a me, io ne feci fare
uno di cuoio robusto. Tuttavia, quando sono stata catturata, non avevo più quella spada. La portai
sempre sino alla partenza da Saint-Denis, dopo l’assalto a Parigi.
J.B. - AVEVATE LA VOSTRA SPADA, QUANDO SIETE STATA CATTURATA?
GIOVANNA - No, ne avevo una che era stata presa a un Borgognone.
Avevo offerto una spada e un’armatura a Saint-Denis, ma non quella. L’avevo a Lagny, e da Lagny a
Compiègne ho portato la spada del Borgognone che era vera spada da soldato, buona a menar colpi
robusti e grandi botte. Dove io abbia lasciato l’altra, non riguarda il processo e non vi risponderò.
3.2. GIOVANNA FA IL SEGNO DELLA CROCE
3.2.
(GIOVEDÌ 1/3/1431)
GIUDICE X - AVEVATE L’ABITUDINE, NELLE VOSTRE LETTERE, DI METTERE I NOMI «GESÙ, MARIA», CON
UNA CROCE?
GIOVANNA - Dipende. A volte facevo una croce per far sapere a chi scrivevo che non doveva fare quello
che gli avevo scritto.
198
4.1. L’ABITO DELLE FATE
GIOVANNA - Le fate e gli elfi, quelli che io ho visto, sono vestiti di verde. Verde è il colore dell’abito che i
giudici vogliono sapere. Verde è il colore di chi sta nascosto nell’erba.
Le fate a volte vestono anche abiti bianchi, sona abiti fastosi. La Regina delle Fate, che comanda il piccolo
popolo non cristiano, indossa per esempio, lunghi abiti bianchi che ricadono per terra. Ha i capelli sciolti
sulle spalle, copre i capelli con un velo e sopra si mette una corona d’oro.
GIOVANNA - (solo dio ha le corna)
4.1.
(GIOVEDÌ 1/3/1431 )
(SABATO 3/3/1431)
GIUDICE X - DALLO SCORSO MARTEDÌ AVETE MAI CONVERSATO CON SANTA CATERINA O CON SANTA
MARGHERITA?
GIOVANNA - Si. Si. Ma non so a che ora. Ieri e oggi. Non passa giorno che non le oda.
GIUDICE X - LE VEDETE SEMPRE CON LO STESSO ABITO?
GIOVANNA - Sempre con la stessa forma. Le loro teste sono ornate con ricchissime corone. Quanto alle
loro vesti... quanto alle loro vesti non ne so nulla.
GIUDICE X - COME POTETE DISTINGUERE SE QUEL... QUELLA COSA CHE VI APPARE SIA UN UOMO O
UNA DONNA?
GIOVANNA - Ah, le riconosco alla voce, e alle rivelazioni che mi han fatto! Io non so che una cosa: che
tutto ciò accade per rivelazione e ordine di Dio.
GIUDICE X - CHE GENERE DI IMMAGINI VEDETE DUNQUE?
GIOVANNA - Il viso.
GIUDICE X - LE SANTE CHE VI APPAIONO HANNO I CAPELLI?
GIOVANNA - Buffa domanda!
GIUDICE X - TRA LE CORONE E I CAPELLI VI È QUALCOSA?
GIOVANNA - No.
GIUDICE X - I CAPELLI ERANO LUNGHI E FLUENTI?
GIOVANNA - Non lo so. Non so se ci fosse la forma delle braccia o di altre membra. Esse parlavano molto
bene, con gran garbo; e le comprendevo perfettamente.
GIUDICE X - COME POTEVANO PARLARE, SE NON AVEVANO MEMBRA?
GIOVANNA - Io mi rimetto a Dio. La voce è bella, dolce e umile; essa parla la lingua di Francia...
GIUDICE X- SULLE LORO TESTE, ACCANTO ALLE CORONE? NON AVEVANO ESSE ANELLI D’ORO O COSE
SIMILI?
GIOVANNA - Non ne so nulla.
GIUDICE X - E VOI, GIOVANNA, NE PORTAVATE, VOI, DI ANELLI?
GIOVANNA - Voi me ne avete preso uno. Rendetemelo! Ne hanno un altro i Borgognoni. Se è in vostro
possesso, mostratemelo, ve ne prego.
GIUDICE X - DITE UN PO’ FU SOTTO L’ALBERO CHE SANTA CATERINA E SANTA MARGHERITA VI
APPARVERO..., SAPETE, L’ALBERO, QUELLO DI CUI ABBIAMO GIÀ PARLATO?
GIOVANNA - Non so.
GIUDICE X - ALLORA FU ACCANTO ALLA FONTE CHE SCORRE LI VICINO?
GIOVANNA - Sì, fu lì, ed io le ho udite. Ma quello che esse mi hanno detto in quel momento, io non lo so.
GIUDICE X - QUALI PROMESSE VI HANNO FATTO LE SANTE, LÀ O ALTROVE?
GIOVANNA - Nessuna, se non per volontà di Dio.
GIUDICE X - MA QUALI PROMESSE DUNQUE?...
GIOVANNA - Non riguarda affatto il vostro processo!
GIUDICE X - CHE NE AVETE FATTO DELLA VOSTRA MANDRAGORA?
GIOVANNA - Non possiedo alcuna madragora, né mai ne ho posseduta una. Ho inteso dire che accanto al
mio villaggio ve n’è una, ma non l’ho mai vista. Ho inteso dire che è cosa pericolosa, che non bisogna
tenere con sé. Ma non so a che cosa serva.
Ho udito dire che essa è sotto terra, accanto all’albero di cui abbiamo parlato; ma non conosco il punto
preciso. Ho udito dire che sopra vi è un nocciuolo.
Dicono ch’essa attira il denaro, ma io non lo credo. Le mie voci non mi hanno mai detto nulla a questo
proposito.
199
GIUDICE X - CHE ASPETTO AVEVA SAN MICHELE, QUANDO VI APPARVE?
GIOVANNA - Non gli ho visto alcuna corona e dei suoi abiti non so nulla.
GIUDICE X - ERA FORSE NUDO?
GIOVANNA- Pensate dunque che Nostro Signore non abbia di che vestirlo?
4.2. - USI E COSTUMI DEL PICCOLO POPOLO
GIOVANNA - Voi non conoscete il piccolo popolo. C’era della gente qui, prima dei cristiani, della gente che
abitava qui nelle valli, nei boschi, cacciando e allevando bestiame che conduceva nei pascoli. Ora vivono
nascosti nei boschi dell’altopiano. Dove continuano a lavorare il bronzo e la pietra. Perché il piccolo
popolo, dopo i grandi stermini ha timore di farsi notare dai vicini. Quando sono fra i cristiani vestono
come i cristiani, ma fra loro si riconoscono. Quando le tribù feroci, con il ferro, hanno distrutto i paesi essi
si sono nascosti. Fanno spade di bronzo bellissime, antiche. Sono il piccolo popolo che i cristiani ora
vogliono cristianizzare con il fuoco.
4.2.
(LUNEDÌ l 2/3/1431)
JEAN DE LA FONTAINE - AVETE MAI PARLATO DELLE VOSTRE VISIONI AL VOSTRO PARROCO, O A
QUALCHE ALTRO RELIGIOSO?
GIOVANNA - No, solamente a Robert de Baudricourt e al Re. Non fui costretta dalle mie voci a tacere, ma
avevo una gran paura di rivelarle, paura dei Borgognoni, ch’essi mi impedissero di partire. E soprattutto
avevo una gran paura di mio padre, che m’impedisse di fare quel viaggio.
J.d.F. - E VOI AVETE CREDUTO DI AGIRE BENE, PARTENDO COSÌ SENZA IL CONSENSO DI VOSTRO
PADRE E DI VOSTRA MADRE? E IL RISPETTO DOVUTO AL GENITORI?
GIOVANNA - Per tutto il resto, obbedii sempre a loro, tranne che per questa partenza. Ma in seguito
scrissi loro ed essi mi hanno perdonato.
J.d.F. - MA QUANDO AVETE ABBANDONATO PADRE E MADRE, NON PENSAVATE AFFATTO DI
COMMETTERE PECCATO?
GIOVANNA - Poiché Dio l’ordinava, bisognava farlo. Poiché Dio l’ordinava, avessi anche avuto cento padri
e cento madri, fossi anche stata figlia di re, sarei partita ugualmente.
J.d.F. - AVETE CHIESTO ALLE VOSTRE VOCI SE DOVEVATE CONFESSARE LA VOSTRA PARTENZA A
VOSTRO PADRE E A VOSTRA MADRE?
GIOVANNA - Per quello che riguarda mio padre e mia madre, esse erano piuttosto inclini a confessar loro
la mia partenza, non fosse stato per la pena che essi avrebbero provato nell’apprenderla. Ma io non lo
avrei confessato loro per nulla al mondo. Le voci lasciarono decidere a me se dirlo o meno a mio padre e
a mia madre.
J.d.F. - QUANDO VEDEVATE SAN MICHELE E GLI ANGELI, FACEVATE LORO LA RIVERENZA?
GIOVANNA - Sì, e dopo che se n’erano andati, facendo la riverenza, baciavo la terra dove si erano posati.
J.d.F. - RESTAVANO A LUNGO CON VOI?
GIOVANNA - Essi vengono spesso tra i cristiani, senza essere veduti; io li ho visti spesso fra i cristiani.
J.d.F. - DOVE È LA VOSTRA SPADA?
GIOVANNA - Non riguarda il processo e non vi risponderò.
5. GIOVANNA PERDE IL CONTO DELLA DURATA DELLA SUA VITA, STABILITANEL PATTO.
GIOVANNA - Voi sapete benissimo che sul nostro reame sovrasta un grandissimo pericolo. Per questo i
figli che sono nati hanno cessato di nascere e gli uomini che sono morti hanno cessato di esistere. Non c’è
più un’allodola, un passero che conosca l’uso delle ali.
E chi governa non è più in grado di governare la natura. Dei tori impotenti seguono il branco furioso delle
vacche. La linfa degli alberi scorre verso il basso. Il Re morente viene fuori dai boschi. Ha perduto tutta la
forza generatrice. Morirà. Vivrà nove anni. Morirà.
200
5
(MERCOLEDÌ 14/3/1431)
GIUDICE X - AVETE DETTO CHE MONSIGNOR DE BEAUVAIS CORREVA UN GRAVE PERICOLO,
METTENDOVI SOTTO PROCESSO. CHE SIGNIFICA CIÒ? CHE PERICOLO PUÒ MAI CORRERE, LUI,
MONSIGNOR DE BEAUVAIS E GLI ALTRI?
GIOVANNA - La verità è che io dissi – e ancor oggi ripeto – a Monsignor de Beauvais: «Voi dite di essere
il mio giudice; non so se voi lo siate. Ma badate di non giudicarmi male, che vi mettereste in grave
pericolo; ed io ve ne avverto, acciocché, se incorrerete nel castigo di Nostro Signore, io abbia fatto il mio
dovere dicendolo».
GIUDICE X - E QUAL È QUESTO PERICOLO?
GIOVANNA - Santa Caterina mi ha detto che io avrei ricevuto un soccorso; non so se consisterà nell’esser
liberata dalla prigione, o se, durante il processo, avrà luogo qualche disordine per cui io possa esser
liberata; penso che sarà una di queste due cose. Assai spesso le mie voci mi dicono che io sarò liberata
da una grande vittoria; e poi esse mi dicono: «Accetta tutto di buon grado, non preoccuparti del tuo
martirio, tu giungerai alla fine nel regno dei Cieli».
E questo, esse me lo dicono chiaramente e semplicemente, senza possibile errore.
Io chiamo «martirio» la pena e l’avversità che patisco in prigione, non so se potrei patirne una più
grande; ma mi rimetto a Nostro Signore.
6.1. GIOVANNA SOSTITUISCE IL RE CHE DEVE MORIRE.
GIOVANNA - Io non faccio nessuna differenza fra il Re che muore e colui che viene crocifisso o se volete
fra il Crocifisso e chi sostituisce il Re che muore. Non faccio nessuna differenza fra il Crocifisso e chi
muore al posto del Re morente ogni nove anni, perché Dio resti giovane. Le sue ceneri che siano gettate
nei campi e dove passano greggi! Non faccio nessuna differenza fra il Dio che è stato sacrificato e il Dio
che sarà sacrificato.
GIOVANNA - Non cederò a nessuno un fardello così grave.
6.1.
(GIOVEDÌ 15/3/1431)
(SABATO 17/3/1431)
GIOVANNA - Sì, alle sante del Paradiso si offrono candele e simili cose. A questi santi e sante che
vengono a visitarmi non ho offerto candele. Non ho acceso candele quante vorrei.
JEAN LE MAISTRE - QUANDO DEPONETE CANDELE DAVANTI A S. CATERINA, LO FATE IN ONORE DI
QUELLA CHE VI È APPARSA?
GIOVANNA - Io non faccio nessuna differenza tra la S. Caterina che sta in cielo e quella che si rivela a
me.
J. LE M. - MA QUESTE CANDELE, VOI LE METTETE IN ONORE DI COLEI CHE VI APPARE?
GIOVANNA - Sì, non faccio nessuna differenza fra colei che mi appare e colei che sta in cielo.
J. LE M. - GIOVANNA, VI RIMETTETE ALLA DECISIONE DELLA CHIESA?
GIOVANNA - Io mi rimetto a Nostro Signore, che mi ha inviata, alla Vergine e a tutti i beati santi e le
beate sante del Paradiso. Mi pare che siano un’unica cosa, Nostro Signore e la Chiesa, non vi sono
difficoltà su questo punto. Perché mai ne trovate voi di difficoltà?
J. LE M. - IL FATTO È CHE ESISTE LA CHIESA TRIONFANTE: DIO, I SANTI, GLI ANGELI E LE ANIME
BEATE. ED ESISTE LA CHIESA MILITANTE, CIOÈ IL PAPA, NOSTRO SANTO PADRE, VICARIO DI DIO
SULLA TERRA, I CARDINALI, I PRELATI DELLA CHIESA, IL CLERO E TUTTI I BUONI CRISTIANI E
CATTOLICI; E QUESTA CHIESA RIUNITA NON PUÒ ERRARE: ESSA È GOVERNATA DALLO SPIRITO SANTO.
ALLORA, VOLETE VOI RIMETTERVI ALLA CHIESA MILITANTE?
GIOVANNA - Io venni al Re di Francia da parte di Dio, della Vergine Maria, di tutti i beati santi e le beate
sante del Paradiso, della Chiesa vittoriosa di Lassù, e per ordine loro. A quella Chiesa io sottometto tutti i
201
miei atti passati e futuri. Quanto a sottomettermi alla Chiesa militante, non risponderò altro per il
momento.
J. LE M. - E CHE POTETE DIRE A PROPOSITO DELL’ABITO DA DONNA CHE VI OFFRIAMO PER ANDAR AD
UDIR LA MESSA?
GIOVANNA - Io non l’indosserò ancora, finché non piaccia a Nostro Signore. S’io dovessi esser condotta a
udire la mia sentenza e fossi costretta in quel momento a svestire quest’abito, io vi chiedo di concedermi
la grazia di ottenere una camicia da donna e un copricapo sulla mia testa. Preferisco morire che rinnegare
quanto Nostro Signore mi ha fatto fare, ma credo fermamente che Nostro Signore non mi lascerà cadere
in tanta miseria, senza che mi giunga alcun soccorso, per miracolo di Dio.
J. LE M. - VOI DITE DI PORTARE L’ABITO MASCHILE PER ORDINE DI DIO: PERCHÉ ALLORA CHIEDETE
UNA CAMICIA DA DONNA IN PUNTO DI MORTE?
GIOVANNA - Mi basta ch’essa sia lunga.
J. LE M. - LA VOSTRA MADRINA, QUELLA CHE HA VISTO LE FATE, È RITENUTA UNA DONNA SAGGIA?
GIOVANNA - La si ritiene una buona e onesta donna, e non un’indovina o una strega.
J. LE M. - VOI AVETE DETTO, GIOVANNA, CHE AVRESTE INDOSSATO ABITI FEMMINILI, SE VI AVESSIMO
LASCIATO LIBERA, A CONDIZIONE CHE QUESTO PIACESSE A DIO...
GIOVANNA - S’io fossi lasciata libera in abiti femminili, io riprenderei subito quelli da uomo, e farei ciò
che mi è comandato da Nostro Signore; già un’altra volta vi ho risposto così, e non farei per nulla al
mondo il giuramento di non armarmi e di non vestire l’abito da uomo per adempiere ciò che piace a
Nostro Signore.
J. LE M. - POTETE DIRCI L’ETÀ E L’ABBIGLIAMENTO DI SANTA CATERINA E SANTA MARGHERITA?
GIOVANNA - Vi ho già detto tutto quello che potete sapere da me e non ne saprete di più; vi ho già
risposto nel modo più chiaro che ho potuto.
J. LE M. - PRIMA DI OGGI, NON CREDEVATE VOI CHE LE FATE FOSSERO SPIRITI CATTIVI?
GIOVANNA - Io non ne sapevo nulla.
6.2. - GIOVANNA HA PERDUTO L’ANELLO
6.2.
(SABATO 17/3/1431 - POMERIGGIO)
(MERCOLEDÌ 2/5/1431)
GIUDICE X - A CHE SERVIVA IL MOTTO CHE METTEVATE NELLE VOSTRE LETTERE: «GESÙ, MARIA»?
GIOVANNA - Lo mettevano i dotti che scrivevano le mie lettere. Alcuni dicevano che fosse mio diritto
mettere le due parole «Gesù, Maria».
GIUDICE X - L’ANELLO SU CUI ERA SCRITTO: «GESÙ, MARIA», DI CHE MATERIA ERA?
GIOVANNA - Non lo so di preciso; se è d’oro, non è d’oro fino; non so se sia d’oro o di ottone. Vi eran
sopra tre croci, mi pare, ma nessun altro segno, ch’io sappia, oltre a «Gesù, Maria».
GIUDICE X - PERCHÉ VOI GUARDAVATE VOLENTIERI A QUELL’ANELLO, QUANDO PARTIVATE PER
QUALCHE SPEDIZIONE?
GIOVANNA - Per mio piacere e in onore di mio padre e di mia madre. Io, con l’anello al dito, ho toccato
santa Caterina che mi appariva!
GIUDICE X - QUALE PARTE DEL CORPO DI SANTA CATERINA?
GIOVANNA - Non vi dirò altro.
GIUDICE X - AVETE MAI BACIATO SANTA CATERINA E SANTA MARGHERITA?
GIOVANNA - Le ho abbracciate.
GIUDICE X - E FACEVANO BUON ODORE?
GIOVANNA - Ma certo che facevano buon odore!
GIUDICE X - SENTIVATE UN CALORE O QUALCOSA DI SIMILE?
GIOVANNA - Non potevo baciarle senza sentirle e toccarle!
GIUDICE X - E IN QUAL PARTE LE BACIAVATE, IN ALTO O IN BASSO?
GIOVANNA - È più rispettoso baciarle in basso che non in alto!
GIUDICE X - E AVETE MAI OFFERTO LORO GHIRLANDE INTRECCIATE?
GIOVANNA - Sì, più d’una volta, in loro onore, ne ho offerte alle loro immagini nelle chiese; ma quando
esse mi apparivano non ricordo di averne mai offerte loro.
GIUDICE X - QUANDO METTEVATE DELLE GHIRLANDE SU QUELL’ALBERO, ERA IN ONORE DELLE VOSTRE
APPARIZIONI?
GIOVANNA - No.
GIUDICE X - QUANDO LE SANTE VENIVANO A VOI, NON FACEVATE LORO LA RIVERENZA,
INGINOCCHIANDOVI E INCHINANDOVI?
GIOVANNA - Sì, la più profonda riverenza di cui fossi capace, io la facevo: poiché so bene ch’esse son
sante del Paradiso.
202
GIUDICE X - NON SAPETE NULLA DI COLORO CHE SE NE VANNO IN COMPAGNIA DELLE FATE?
GIOVANNA - Non fu mai con loro, non ne seppi mai nulla. Ho inteso dire che vi andavano il giovedì, ma io
non ci credo, io credo che siano stregonerie.
GIUDICE X - LO STENDARDO FU FATTO SVENTOLARE O ROTEARE INTORNO ALLA TESTA DEL VOSTRO
RE?
GIOVANNA - No che io sappia.
GIUDICE X- PERCHÉ MAI NELLA CHIESA DI REIMS, ALLA CONSACRAZIONE, ESSO FU PORTATO PRIMA DI
QUELLO DEGLI ALTRI CAPITANI?
GIOVANNA - Era ben giusto che dopo tanti oneri, gli toccassero gli onori.
GIUDICE X - RIGUARDO AL VOSTRO ABITO, CHE COSA AVETE DA AGGIUNGERE?
GIOVANNA - Indosserò volentieri la veste lunga e il cappuccio da donna, per andare in chiesa a ricevere il
Salvatore, come ho già detto. A condizione però che subito dopo, io possa lasciarla e riprendere l’abito
che porto.
Quando avrò compiuto ciò per cui Dio mi ha mandato, riprenderò l’abito da donna.
GIUDICE X - CREDETE VOI CHE SIA BENE INDOSSARE UN ABITO DA UOMO?
GIOVANNA - Mi rimetto a Nostro Signore.
GIUDICE X - MA VOI BESTEMMIATE, SOSTENENDO TALI ERRORI!
GIOVANNA - Io non bestemmio né Dio né i suoi santi.
GIUDICE X - SUVVIA ABBANDONATE QUEST’ABITO E INDOSSATE L’ABITO DA DONNA.
GIOVANNA - No.
GIUDICE X - QUANDO SANTA CATERINA E SANTA MARGHERITA VENGONO, FATE IL SEGNO DELLA
CROCE?
GIOVANNA - A volte sì, a volte no.
GIUDICE X - CHE COSA AVETE DA AGGIUNGERE SULLE VOSTRE RIVELAZIONI?
GIOVANNA - Io mi rimetto al mio giudice, che è Dio; le mie rivelazioni sono di Dio senza alcuno
intermediario.
GIUDICE X - AH! GIOVANNA SE LA CHIESA VI ABBANDONA, VI TROVERETE IN UN GRAVE PERICOLO PER
IL CORPO E PER L’ANIMA: FUOCO ETERNO PER L’ANIMA E FUOCO TEMPORALE PER IL CORPO.
GIOVANNA - Se farete ciò che dite contro di me, soffrirete nel corpo e nell’anima.
7. - GIOVANNA, VITTIMA DIVINA
GIOVANNA - Perché dovrei accettare di correggermi, di emendarmi secondo le delibere dei miei giudici
servi di questo Jean di Chatillon, che come un corvo, gira attorno all’odore del mio cadavere. Stai attento
al mio cadavere corvo, perché esso si trasformerà in un lucido temporale, fertile di pioggia sulle foreste e
sui prati, si trasformerà in un fuoco che scende alle radici delle piante, alle radici della carne degli
animali, si trasformerà in aria, in terra. Leggete, leggete il vostro libro e io vi risponderò. Io mi rimetto a
Dio.
GIOVANNA - Solo quando avrò compiuto ciò per cui Dio mi ha mandata, riprenderò l’abito da donna. Ma
ciò per cui Dio mi ha mandato è il sacrificio di Dio, il Re mi ha scelto per sostituire il Re. Lo spirito di Dio
ha scelto di abitare il mio corpo. Io sostituisco il Re il giorno della sua morte. Voi giudici dovete uccidermi
con il fuoco, gettate le mie ceneri nei campi o disperdetele nell’acqua corrente, o versate il mio sangue
per terra, o seppellite il mio corpo sotto terra. Il popolo che mi vede in abito maschile sa che io sono la
cenere fertile che deve essere sparsa nella terra. Io sono il Dio morente che deve essere ucciso. Dite alla
Chiesa di alzare i suoi vessilli e al popolo di Rouen di scendere in processione attorno al palco per
venerare il Dio che si sacrifica nel corpo di Giovanna e Giovanna che muore negli abiti di Dio. Nove anni
avrà
7.
(MERCOLEDÌ 2/5/1431)
GIOVANNA - Io mi rimetto a Dio mio Creatore, ogni momento. Io l’amo con tutto il cuore. Le vostre
ammonizioni, uomini di Chiesa, non si possono toccare. Io mi rimetto al mio Giudice. È il Re del Cielo e
della Terra. Perché mi dovrei rimettere e sottomettere alla Chiesa militante? Io credo alla Chiesa che è in
terra. Per quello, però, che riguarda le mie opere e i miei detti, così come ho già dichiarato, mi rimetto a
Dio. Credo veramente che la Chiesa militante non possa errare o fallire, ma per i miei detti e le mie
opere, io li rimetto a Dio che me li ha fatti fare; anch’io mi sottometto a Lui, a Lui in persona che mi ha
203
tenuta sulle ginocchia. No. No. No. Non voglio avere nessun altro giudice sulla terra. Nemmeno il Nostro
Santo Padre il Papa. Non vi dirò altro. Io ho un buon padrone, Nostro Signore, a cui io mi rimetto in tutto,
a Lui e a nessun altro. No. No. No. Se il Concilio generale, con il Santo Padre, i Cardinali fossero qui, non
mi sottometterei a loro. Non riuscirete a farmi dire nient’altro. E se volete che io mi sottometta al Nostro
Santo Padre il Papa, allora, allora conducetemi da lui, gli risponderò. Questo è tutto.
Riguardo ai miei abiti posso dire soltanto a voi che indosserò volentieri la veste lunga e il cappuccio da
donna per andare in Chiesa a ricevere il Salvatore, come ho già detto, ma a condizione che subito dopo,
io possa lasciarla e riprendere l’abito che porto.
Carlo prima che il termine ritorni, il posto sarà preso da un nobile sostituto. Dite a Gilles che prepari una
grande processione.
Ora è tempo di essere stanchi, è maggio, le ossa sono piene di calore e il respiro si spegne, il sangue è
affaticato. Non ci sono più parole da dire. I giudici sono stanchi. Come bambini ciechi sono stati condotti
in un gioco, che per loro non ha più senso. Io ho fatto da guida.
Ora l’uomo barcolla, piega il capo. Perché Dio rimanga continuamente giovane, fertile, agile con il flauto,
il Re morente viene condotto a morte.
La donna vestita da uomo del castello di Rouen porta a morire il suo Dio.
Dite al Vescovo che mi sono vestita, come deve essere. Io sono il Re, nel suo abito virile. Dite che le
ceneri vengano sparse per terra o gettate nell’acqua. Che il Regno del Re del piccolo popolo, sia fertile!
Già le contrade del mondo si popolano di animali che aprono le ali, o coperti di pelliccia si rotolano in
amore. Annunciate un Sabba, per questa fine di maggio.
[Da Corrado Costa, Santa Giovanna Demonomaniaca (Edizioni Magma, Roma 1973) e ristampato in Id.,
The complete films. Poesia prosa performance. (Le Lettere, Firenze 2007). Per gentile concessione]
Notizia.
CORRADO COSTA, nato ne! 1929 a Mulino di Bazzano (Parma), visse a Reggio Emilia, dove esercitò la
professione di avvocato e morì nel 1991. Fece parte del Gruppo 63 e collaborò, anche come disegnatore e
grafico, a molte riviste letterarie, italiane e straniere. Dopo Pseusdobaudelaire (1964), la sua prima opera
poetica, raccolse saltuariamente parte della propria produzione poetica, narrativa e critica (ricordiamo i
saggi di Inferno provvisorio, del 1971), ma lasciò molti testi di varia natura disseminati in plaquettes e
riviste; fu anche autore di testi teatrali. Frequentò una larga cerchia di poeti (tra i quali Emilio Villa,
Adriano Spatola, Giulia Niccolai, Nanni Balestrini, Franco Cavallo e Franco Beltrametti) e di artisti visivi
(tra i quali Claudio Parmiggiani, Giovanni Rubino e William Xerra) e spesso collaborò con questi amici,
scrivendo testi per cataloghi di mostre d’arte o per raccolte poetiche a quattro mani (tra le quali
ricordiamo Il Mignottauro, con Emilio Villa, del 1970).
Dall’amicizia con il poeta americano Paul Vangelisti nacquero la pubblicazione di The Complete Films (Los
Angeles 1983) e la traduzione in inglese di Le nostre posizioni, del 1972.
204
TRASUMANAR
L’atto di Pasolini
scrittura scenica di MAURA DEL SERRA
Personaggi:
Pier Paolo Pasolini
Ombre
Voci
***
Buio. Suono di campanello di bicicletta, sulle note del "Tango delle capinere". P. entra in scena su una
bicicletta anni ‘30, e con un pacco di libri; fa un paio di giri del palcoscenico, poi scende e getta a terra un
libro esclamando: "A Bologna!”; dopo pochi passi getta un altro libro esclamando: “A Conegliano!”; getta
un altro libro “A Idria!”; getta un altro libro “A Cremona!” getta altri libri in successione rapida A Parma!
A Belluno! A Scandiano! La mia infanzia errabonda nel Nord, nei paesi di temporali e primule, la felicità
selvaggia e mitissima, i viali di luce.
Ora esploro il mio Friuli, il primo luogo sacro della mia vita, il mio respiro magico.
Il suo mistero mi è chiaro per diritto di origine: sei tu, Susanna… sei tu, mamma, mio disperato,
mostruoso eterno amore con la tua bellezza di ragazzo o ladro che ruba il frutto proibito…
(Grida) Mamma, voglio fare il capitano di marina e il poeta. La poesia è un dovere mistico.
(Ombra maschile dietro il fondale, con le braccia aperte a croce: P. le va vicino e si inginocchia con le
spalle al pubblico. Ruggito di tigre) Come al principio di tutto, in quel manifestino di cinema: io, bambino
di cinque anni, sono quel giovane esploratore supino divorato dalla magnifica tigre scatenata: inerme, in
posizione da donna, nudo, tremo e mi lascio straziare squisitamente ...
(Si alza, si volta e allarga le braccia) Sono un Narciso, come Proust, come Tolstoj, come Petrarca, come
Cristo!
Sono Narciso che si specchia perché non può mai bere.
Sono Gesù in croce, appeso in alto contro un immenso cielo turchino, col perizoma di seta bianca disteso
sull'abisso del sesso...
La mia piccola, fragile madre-fanciulla mi contempla con dolore estatico...
Una folla immensa mi guarda con venerazione atterrita…
Sono indifeso, inchiodato, sempre più nudo e perduto.
(Con tono battagliero, puntando il dito all’intorno) Tutto Salgàri! E Omero, Tasso, Carducci, Pascoli,
D'Annunzio, e i drammi e le poesie che scrivo a fiumi densi e getto nella cassapanca a fermentare! E al
liceo i poeti ermetici, e l'uragano Rimbaud letto da quel supplente pallido: “perché io è un altro”. Rimbaud
ha spazzato via l'accademia provinciale fascista, il giro della piccola prigione, e mi ha scagliato con tutto il
corpo fra i pianeti, dove danzo.
Lei è ritrovata. Cosa? L’Eternità. È il mare unito al sole… e all’Ade di Freud, e all’Eliso di Hölderlin. E i film
di Renoir, di Clair, di Chaplin al Cineguf, e poi all’Università la gemma abbagliante delle lezioni d’arte di
Longhi e di Arcangeli, in questa Italia povera e stretta delle mille lire al mese e dei telefoni bianchi, che
entra ottusamente in guerra dietro ai suoi gerarchi fantocci ...
(Canzone bellica del tempo come diffusa da una radio. Butta all’aria i libri, poi li ricompone a pila e ci si
siede sopra) No, amici, non queste spade e questi elmi di cartone, questi carri armati di latta, questa
romanità imperiale grottesca…
Ho nostalgia di un presente mitico, epico, assoluto! Solo chi crede nel mito è realista. Noi di che cosa
siamo eredi, sapete dirmelo?
“Eredi”: proprio così si chiamerà la nostra rivista, quella che c'è sempre stata e non esisterà mai.
(Ironico, accennando il saluto fascista e sbattendo i tacchi) Eia! Mio padre, il piccolo ufficiale ravennate
nazionalista e paranoide, il nobiluomo giocatore e bevitore della stirpe dei Pasolini Dell’Onda, mi detesta
ed è orgoglioso di me.
Non avevi previsto le umiliazioni insieme alle soddisfazioni filiali, Carlo.
Credevi che la vita di tuo figlio scrittore potesse conciliarsi col tuo conformismo definitivo.
Hai scelto l’ordine come la tartaruga sceglie il guscio, come la seppia sceglie il nero.
Hai fatto la tua guerra d'Africa e credi immarcescibilmente alla vittoria fascista.
(Ride ironico) Sei stato decorato con la medaglia d'argento, e la lustri col fiato ora che sei prigioniero
degli inglesi in Kenia.
(Raccoglie un libro e lo sventola) E io proprio a te mando il mio esordio folgorante, le "Poesie a Casarsa”:
trecento copie nella lingua dell'Eden, quel dialetto friulano da contadini e inferiori, che disprezzavi
caldamente: la lingua di mia madre, che non potrai mai possedere davvero, che ha compassione di te,
del despota scontento e pazzamente innamorato di lei; la lingua dei braccianti in lotta contro i latifondisti.
Mia madre e Marx, la mia eterna ricerca.
La mia passione, la mia ideologia, stretti in nodo nel grembo della mente. Un nodo inestricabile, che
sfolgora e duole. Io sussisto perché non lo recido, perché scelgo di non scegliere.
205
(Cade dall’alto una bandiera rossa che P. raccoglie saltando) Oggi ho vent'anni! Sono sano come un
pesce e completo come un albero! Vinco tutti i Littoriali della Cultura, in questo paese senza speranza
sociale, come alle elementari vincevo tutte le medaglie col fiocco inamidato…
La mia vita è un vulcano in un’isola deserta.
Ah, vorrei rendere perfetta la realtà!
Vorrei gettarmi sugli altri, trasfigurarmi, vivere per loro, confederare tutte le regioni nel Cristo operaio,
che insegna a sognare sogni veri, erigere una Chiesa che non rinneghi il Paradiso degli ultimi.
(Suono di campane; luce rossa. P. si inginocchia sulla bandiera) La chiesa...
E in chiesa i giovani contadini, fra le candele, le litanie storpiate, e l'odore dell'incenso che stordisce i
sensi.
Ignorano il mio desiderio, il mio tormento, il vuoto allo stomaco di fronte a loro da quando avevo tre
anni, e ai giardini fissavo i ragazzi che giocavano piegando le gambe in quel gesto elegante e violento;
“teta veleta” lo chiamavo, quel crampo languido alle viscere.
(Si alza) Loro ignorano la noia, la sazietà, la morte, sono nella vita prima della vita, nella gloria
elementare della specie, senza specchio e senza lingua.
Là con loro c'è Bruno, taciturno, plebeo, brutale, col ciuffo sugli occhi esotici, che fa il bagno nudo nello
stagno dietro il cimitero e si masturba a gara con gli altri; e io lì appostato, intenerito per lui con uno
sgomento atroce e carezzevole...
(Si abbraccia) E finalmente si è lasciato prendere fra il granturco, nel profumo raggiante dell’erba per i
conigli, e poi sul greto sabbioso del Tagliamento. E poi…
(Rumore di tela strappata; P. si copre il viso con le mani. Lampo e tuono) Ho perso la verginità e la
solitudine.
La natura si decompone.
L'incanto è rotto.
Il miracolo si è avverato, e sa di stelle e di fango.
Più conosco il sapore della bevanda e più pecco di gola.
È l'assurdo di un'eternità tagliata in due.
(Rumore di aereo radente) Queste zuffe tra carne e cielo, mentre i bombardamenti si fanno continui e i
tedeschi terrorizzano il paese ...
(Luce viola e suono di violino:Bach) È Pina!
Mi chiama col suo violino, mi suona la “Ciaccona” di Bach: un argento freddo e ardente, una cima
abissale.
Quando siamo soli mi stringe la testa fra le mani e mi mette dei fiori tra i capelli come se fossi Alcibiade
al banchetto con Socrate.
La sua lettera d'amore disperata, ho fatto finta di non averla ricevuta.
Vedo che mi desidera, sento il gelo burroso della sua carne di donna.
L' ho fatta soffrire…
Penso a lui, solo a lui, a Bruno, a Tonuti, al mio angelo unico in mille forme.
Devo peccare, devo sapere dove finisco io e dove comincia l’altro; devo tagliare questo viluppo confuso di
viscere dell’anima, ma, al tempo stesso, devo fare a ritroso il cammino dei cristiani fino alla nudità
completa, fino a dimenticare.
(Grida di folla e spezzone di filmato d’epoca fascista sul fondale) Mussolini è caduto! Guido, il mio fratello
puro, va a scrivere di notte sui muri di Casarsa "Viva la libertà", e ride di sfida e di trionfo quando i
carabinieri lo fermano.
Lui è splendido, sta per andare coi partigiani sulle montagne…
Ah, la mia piccola patria innocente, il Friuli, deve salvarsi dal crollo dello Stato fascista!
(Squilli di tromba, rumore di mitraglia; P. porta la mano alla fronte nel saluto militare) Richiamato a Pisa!
L'otto settembre a Livorno! E in quel mitragliamento contro i tedeschi l’ho persa. No, non la fede, quella
era già svaporata a quindici anni. Ho perso la mia tesi sulla pittura contemporanea che dovevo discutere
col gran maestro Longhi: i capitoli su Carrà, De Pisis, Morandi.
Non mi resta altro che laurearmi commentando il Pascoli, il mio unico antenato sopportabile, finto
ingenuo come me, con la sua piccola – grande melodia infinita. (Ride) È piccolo anche il mio cenacolo
greco, la mia scuoletta di Versuta nella nostra unica stanza di sfollati, o sul prato sotto i pini. Pedagogia e
amore, come un vino profuso.
I ragazzi coi loro lievi corpi rosa, ardenti, ansiosi, vicinissimi, calici traboccanti di miele.
(Angosciato, mettendosi la bandiera rossa davanti al viso) Ma la guerra puzza di merda, e Guido coi
partigiani ha preso il nome di Ermes, il dio-guida dei morti…
(Grida, gettando via la bandiera) E i partigiani comunisti di Tito l’hanno ucciso, coi resti della sua Brigata
Osoppo!
Guido, ti ho seppellito per sempre nel mio ventre! Come piangerti, come pensarti, come risuscitarti?
Mamma, non guardare sempre così perdutamente quei monti!
La sua generosità, il suo coraggio, la sua innocenza, alte come quelle montagne ci schiacceranno!
(Con voce sorda) Non sopravviverò.
Il mondo non è esploso, si è disfatto.
Il mio paese è di color smarrito, è marcito.
Sarà una ferita mai chiusa, mai.
206
È la colpa di non essere morto con lui, il rimorso inguaribile di essergli sopravvissuto, come una casa
vuota sopravvive a chi l’abitava, come un’ombra sopravvive al corpo.
(Cammina gesticolando) E per rinascere nella parola io e gli amici abbiamo fondato 1'"Academiuta de
lenga furlana", il nostro Decamerone, la nostra Arcadia, contro la peste della guerra, le granate, i
bombardamenti.
La gaiezza fervida caccia il terrore.
Faccio l'Almanacco friulano, lo "Stroligùt": rinascerà da me, la poesia friulana.
Sono triste e felice, e perdo molto tempo: passo ore davanti a una foglia, a una mano, per capirle, per
valicare il limite dove io termino e comincia l'Altro...
Forse è banale esistenzialismo, o forse crisi mistica perenne di un miscredente come me.
Ma solo chi ha il vero in cuore ha la luce negli occhi.
E la mia luce è Tonuti, con gli occhi lustri e le gote in fiamme, seduto sulle mie ginocchia, a veglia,
accanto al grande camino, nell’odore del fuoco e delle pannocchie, lui, il mio grande peccato radioso…
Lo tocco e gli altri spariscono, e la stanza si riempie di arcobaleni e di rose, turgide sullo stelo.
Ma poi leggo un libro e mezzo al giorno, perduto nella mia Sion, nella mia Elèusi-Casarsa, o nella mia
Bologna rossa di portici; con gli amici, e i colori della morte e della poesia stampati ovunque sui muri,
nell’aria, sui cari visi sconosciuti.
Io, l'erede dei classici, l'erede di tutto, l’erede di Susanna…
Mi consuma la nostalgia per mia madre, anche quando è presente. Mi consuma il suo viso, il suo corpo.
(Intenso) Sono poeta per lei, mi nutro di lei, sono pazzo di lei, voglio essere lei, e che lei si infili i miei
calzoni, e sia me, e siamo uno nelle acque indivise del grembo.
Devo essere lei: devo essere puro in ogni male.
(Gira per il palcoscenico) Ma come vincere questa coscienza dolorosa del tempo e di me stesso, questo
sdoppiarmi e vedermi vivere, bere un bicchiere di vino, ridere forte con gli altri, ascoltare le campane?
No, Contini, non sono competente in umiltà, come dice lei, maestro di raffinatezze stilistiche, che amo da
lontano, alla provenzale...
La vita è troppo bella e inaccessibile per essere goduta.
Ma io voglio lavorare, agire, essere con qualcuno!
(Ombre che sventolano bandiere. Grida: Viva la repubblica!) Ora che c'è la libertà, l'Italia ha bisogno di
rifarsi completamente, nel profondo, ha bisogno di noi giovani preparati, nella spaventosa ineducazione
del postfascismo.
Sì, abbiamo una missione: non di potenza ma di educazione, di civiltà. Essere forti di autorevolezza.
Lo devo a Guido, lo dobbiamo ai nostri morti, se non vogliamo essere morti malgrado loro.
(Fiero) Non saremo una generazione crepuscolare, né in letteratura né in politica!
Mi sono iscritto al Partito Comunista, nella cellula di San Giovanni, e stasera prendo la bicicletta e vado
con Zigàina al comizio a Ruda.
Basta con 1'"Usignolo della Chiesa Cattolica", basta con le sue dolcezze eretico-erotiche, coi suoi morbidi
equivoci ideali e sensuali! Basta col romanzo di Narciso, coi poeti di sette anni, col Rimbaud fanciullino
redivivo…
(Ironico e impaziente) Ma poi che altro sono, se non un fanciullino nordico e provinciale?
Quando ho visto Roma per la prima volta, e ho incontrato i suoi letterati, ho rimpianto Casarsa.
(Campana a morto) E' perfetto il titolo "Canti di un morto" per il mio canzoniere friulano.
Strappo ogni foglia dagli steli per far rimanere in cima il puro fiore: un fiore senza gambo visibile, tutto
carne di petali e profumo.
Sono un viaggiatore che si è perso in mezzo al deserto, che è rimasto senza provviste, e che desidera le
membra di alabastro delle statue delle città lontane.
(Ombra femminile che passa in bicicletta salutando e scampanellando) Ma con Silvana è possibile la
confidenza, l'amicizia, le corse in bicicletta sulle prode del Tagliamento dopo dodici ore di treno, i balli
nelle salette provinciali, il vino e la polenta dai contadini, le rappresentazioni rustiche del Carnevale e
della Quaresima...
Anche se lei crede che io l'ami…
Eppure mi vede fissare i ragazzi contadini: loro, i miei “pioppi” goffi e teneri... e sa che nei miei
“Quaderni rossi” scrivo di Tonuti, della sua bocca che ridisegna il mondo, della sua statura di cipresso
giovinetto, della sua fiamma bassa e indomabile...
Dal Calvario al giardino di Alcina, dove in fondo sto bene, fra i miei deliziosi sotterfugi. (Vento, sussurri e
ronzio di vespe, poi colpo di gong. Con sfida) Denunciato! Mi hanno denunciato!
Corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico, quella sera calda d'estate, alla festa di Ramuscello...
fra i cespugli odorosi di notte e di segreti, con le risa e le musiche lontane.
Il giorno dopo sull’"Unità" era annunciata la mia espulsione dal Partito.
(Luce fredda. Voce burocratica ed enfatica): "Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave
provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie
influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decadenti poeti e
letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della
degenerazione borghese"
(P. corre al proscenio e allarga le braccia) Lo scandalo, la bomba rintronante su tutti i giornali friulani, giù
fino a Bologna!
207
E le iene democristiane di Udine hanno battuto la grancassa!
Odio teologico, ne più né meno.
Scandalo anche al Provveditorato: ho perso la mia scuola sperimentale a Valvasone. Tutto il paese mi si è
rivoltato contro, in silenzio perfetto. Un supplizio annunciato.
E mio padre dà nel matto, vuole lasciarci, me e la mamma, vendere tutti i mobili, beve, infuria...
(Con amara ironia) Pensare che ero fiero di aver sempre salvato capra e cavoli, l'eros e l'onestà, e di
stare imparando a far l'amore senza amare, come i cinici sentimentali.
Eppure resto e resterò sempre comunista, sempre, alla faccia del letamaio dell'odio borghese.
Se mai ho avuto una vitalità, ora me la sento addosso come un vestito nuovo!
(Recita) "L'illecito t'è in cuore / e solo esso vale: / ridi del naturale / millenario pudore... La nostra storia!
morsa / di puro amore, forza / razionale e divina." Basta con le mezze parole: scandalo sia, dice l'altro
Paolo, il mio santo che ha smesso di salire al terzo cielo per costruire chiese e teologie.
(Fischio di treno) Hanno vinto loro.
Io fuggo a Roma con mia madre, forse da mio zio, per ora.
Partiamo alle cinque di mattina di nascosto da mio padre, come in un romanzo.
Lei ha preso con sé i suoi gioielli di famiglia: poverina, non sa che sono imitazioni...
Ho ventimila lire in tutto. Ma resterò nell’urbe, nel Caput mundi: in fondo Roma è una nuova Casarsa.
Me ne starò qui a confondere vita e opera, a gettarle nel crogiolo, col marchio di Oscar Wilde, di
Baudelaire, di Rimbaud, di Campana, io che ero nato per essere sereno, naturale, equilibrato, retto.
Rivendico il mio diritto all’invenzione della vita e dell’arte! E sono ancora integro: la libidine è una croce
del sangue, non un giogo.
(Musichetta e luce rossa. Accenna passi di danza e canta sommessamente) "Amado mio..."
E' il mio libro cattivo, quello che fa male, sospeso fra Roma e il Friuli, come me.
(Ombra di ragazzo che ancheggia dietro il fondale) Devo assolutamente lavorare e guadagnare molto!
Il mio nuovo amico ha diciassette anni, ed è stupendo, divino come Roma, sai, Nico?
Il suo profilo incide le notti, il suo grembo teso sotto la stoffa ruvida prende gli occhi e la fantasia…
Nico, vendi tutti i miei libri di filosofia e mandami i soldi, presto, presto, mi raccomando...
(Piovono dall'alto alcune banconote. Raccoglie i soldi; pensoso) No, non sarò condannato per il male che
ho fatto, ma per il bene che non ho fatto, per la purezza che sapevo dove trovare e come amare, e che
non ho raggiunto...
Cos'è il peccato?
(Profilo di una croce dietro il fondale) Ascoltami, Papa, ora che sei morto: (recita) "Migliaia di uomini
sotto il tuo pontificato, / davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili. / Lo sapevi, peccare non
significa fare il male: / non fare il bene, questo significa peccare. / Quanto bene tu potevi fare! E non l'
hai fatto: / non c'è stato un peccatore più grande di te."
(Buio. Poi luce e musichetta; voce di Sandro Penna: “Oh, Pierpaolo, sbrigati! L’aria di primavera invade la
città! Vieni giù al Tevere con me, ci sono i nostri fanciulli che fanno il bagno! E ho dei versi nuovi da
mostrarti!”)
(Con slancio) Sì, Sandro! Che notti angosciate e meravigliose passo da quando ti conosco!
(Si inchina e declama) Esimi signori critici, Penna è il più grande lirico d'amore della letteratura italiana, e
voi lo ostracizzate, vive come un barbone, è "perseguitato, esule e vitando", come dice di me Contini nel
suo barocco accademico.
Penserò io a lui, ora che il terzo programma della radio mi chiama a collaborare, e Caproni e Bertolucci
sono diventati due perle di amici, e finalmente ho trovato da insegnare a Ciampino: scuola privata,
ventimila lire al mese, un lavoro da cani, ore di viaggio in un autobus rantolante fra la polvere e gli
scossoni... ma almeno posso pensare accanto al finestrino, limare qualche verso delle “Ceneri di
Gramsci", il mio eretico padre spirituale.
(Recita come fra sé) "Nel restare / dentro l'inferno con marmorea / volontà di capirlo, è da cercare / la
salvezza. Una società / designata a perdersi è fatale / che si perda: una persona mai.".
(Ride) Io sono come Betocchi: un vaso di terracotta che sopravvive per la sua mitezza primitiva, un
ergastolano della mia vocazione ingenua e incallita, impastata di violenza arcaica come Roma...
(Rombo di motocicletta e grido rauco: “Ma va' a magna' sapone, a' burino! Li mortacci tua!")
(P. grida allegro) Ah, la primavera, qui!
Quando si apre il balcone e si urta il petto contro il suo petto, e sa di parafango scottato dal sole, di
stracci bagnati e seccati dal caldo, di ferrivecchi, di scarpate brucianti di immondizie, di periferie beduine,
di case di sfrattati ...
Voglio gettarmi su Roma tutto intero!
E voglio scrivere: fuori dalla penna non c'è salvezza.
Mia madre in cucina, mio padre alla posta per me, e la finestra aperta sul sabato sera di Rebibbia, con le
radio degli appuntati dei carabinieri che strepitano nostalgiche.
(Musichette di radio) L'estate è una scommessa che non devo perdere.
Io gli anni li conto a estati.
Sì, quando nella vita si è consumato tutto, resta ancora tutto... a Roma.
(Ritornello di canzone popolare romana) Sapessi cos'è Roma, Nico!
208
Da Casarsa non puoi immaginarla: tutta vizio e sole, croste e luce, un popolo invasato dalla gioia di
vivere, dalla vacanza ossessiva, una plebe egoista, pre-storica, pre-ideologica, pre-cattolica, e i ragazzi di
vita padroni dell'inferno delle borgate ...
(P. estrae un taccuino e prende appunti) Ci sarà tutto questo nel mio romanzo, senza vizi di
sentimentalismo.
Sto diventando pagano, muscolare, di una limpidezza che non serve ad altro che a gettare luce su delle
rovine.
(Musica cadenzata) Sono uno sfiatatoio, un tubo di scarico, un apparecchio ricevente e trasmittente dove
la Roma innominabile si esprime e grida...
Sono Villon, Lautréamont, l'Appassionato, Pecora, Cacarella...
E con me c'è Sergio, il Mozzone, il mio lessico romanesco vivente.
Perché sono sempre gettato fuori, verso questo mondo storico che amo con tanto tormento?
Ah, sí, Sereni, è come dici tu: ho il coraggio di scrivere anche versi brutti, pur di dire quel che mi preme,
pur di diventare quel che mi preme.
(Voce attraverso un megafono): "Allora, Pasolini, è pronta questa sceneggiatura della 'Donna del
fiume'?")
Sì, Soldati. Il cinema è il linguaggio carnale della realtà, la passione per la vita dopo quella per la
letteratura.
È il pane!
Finalmente un po' di respiro per i miei; e io posso vagare per l'Italia centrale sulle orme di Giotto e di
Piero della Francesca!
(Cade una lettera dall'alto; P. la raccoglie e legge) Io, marxista? Magari lo fossi, caro Betocchi.
Il mio dramma è che sussisto perché non scelgo fra il di qua e il di là, fra la mia classe e l'altra: sento
svuotate in me le ragioni borghesi, e ridotto a puro irrazionale, a vaga pietà l'amore cristiano.
Sí, certo, è scandaloso, come la sincerità: e la mia non finirà mai, costi pure la vita.
(Musica gospel che sfuma. Video di una scavatrice al lavoro in un cantiere fra palazzoni e sterri) Ma cosa
vuol dire oggi "ama il prossimo tuo come te stesso" se non "fai delle riforme di struttura"?
Bisogna scegliere la via per rendere più civile la società, e meglio organizzata: è il primo passo, ma
essenziale.
Io voglio poter scegliere, essere libero di servire la verità, libero di ascoltare il pianto della scavatrice e
dei suoi uomini, il pianto di ciò che muta per farsi migliore, nella luce inquietante del futuro.
Libero dallo zdanovismo del Partito, che sui giornali mi stronca il romanzo, mentre Garzanti me lo fa
castrare dalle parolacce e i borghesi lo denunciano per oscenità.
(Voce burocratica: "Pasolini apparentemente sceglie come argomento il mondo del sottoproletariato
romano, ma ha come contenuto reale del suo interesse il gusto morboso dello sporco, dell'abietto, dello
scomposto e del torbido").
(Voce romanesca di ragazzo): "L'ho letto tutto! Grazie der tuo libro, a' Pa,!'.
(Voce forbita): Sono Contini. Il suo non e un romanzo, è un'imperterrita dichiarazione d'amore per
frammenti narrativi".
(Campane a festa, P.) La prima edizione esaurita in quindici giorni!
Cecchi me l'ha stroncato, ha detto che è "Cuore" di De Amicis in nero: ma che splendida definizione! La
userò al processo, dove Ungaretti dichiarerà che oggi sono lo scrittore più dotato d'Italia. Me l’ha
promesso.
(Luce abbagliante) E i miei ragazzi sono ancora più belli nella furiosa estate romana. Sono migliaia, con
gli occhi stillanti di luce e i ciuffi neri spioventi, si gettano come nubi di cavallette sul Tevere, su Ostia, sui
lungofiume di notte...
(Musica swing; P. si passa le mani lungo il corpo) Quest'anno sono tutti vestiti all'americana, coi calzoni
alla cow-boy e le magliette atomic blue, e il mistero del sesso è ancora più profondo, forte e struggente
... Non ho abbastanza occhi per divorarli.
(Immagini di vette montane. Coro alpino tedesco) Ah, ma no, non ci resisto qui, fra queste stronze e
maestose montagne asburgiche.
Non finisce mai questo film, questo "Prigioniero della montagna"!
(Ride) Sì, ci sono i tedeschini, ma sono belli fino a otto anni, troppo poco: poi cominciano a somigliare a
Santa Castità. È impossibile.
(Raccoglie un'altra lettera che cade dall'alto e legge) Ah, certo, mamma, cara pitinicia mia... Casarsa
cambia, è più triste. Ma tu non correre tutti i giorni al cimitero.: Guido è meglio vederlo vivo e libero nei
nostri sentimenti.
(Voce: "Si gira!", P.) Il cinema è crudele, spietato, ricattatorio: un mondo di vasi di ferro, dove la morale
è quella della giungla, dove la semiologia diventa vita… anche se mi sottrae tempo per lavorare ad
"Officina", la mia bellissima rivista povera ed eroica, dove c'è tutta la nostra storia letteraria: mia, di
Roversi, di Leonetti, di Fortini, di Scalía, degli altri.
Ma come rifiutare di collaborare con Fellini, per “Cabiria”?
Eppure ho sempre dentro il tarlo del cosmo che scava, scava …
(Musica russa) Ma ora che Krusciov al Ventesimo Congresso ha denunciato la tragedia dei crimini di
Stalin, ed è iniziato il disgelo, e i poeti sovietici vengono a Roma, e la nostra generazione può ancora
aspirare a qualche purezza, o a un dolore non degradante... Ora… (Recita): "Krusciov, se tu sei quel
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Krusciov che Krusciov non è / ma è puro ideale, ormai, vivente speranza: / sii Krusciov: sii quell'ideale e
quella speranza: / sii il Bruto, che non uccide un corpo ma uno spirito."
(Fragore di carri armati, spari, grida, spezzoni di filmati dell'invasione sovietica dell'Ungheria. P. si copre
la testa con le mani) Ah, tutto è già contraddetto, l'Ungheria è invasa dai carri armati sovietici ...
(Mostra le mani rosse come di sangue) Dopo questa colpa, quale perdono?
Come testimoniare, e non mentire?
Come non essere liberticidi?
Fa freddo nella storia, troppo freddo!
Eppure quando sono andato a Mosca al Festival della Gioventù, allo Stadio Lenin, è stata un'esperienza
meravigliosa: ho visto che in fondo Mosca è una città di contadini, un'immensa Garbatella... ma senza il
mio piccolo messicano, bello e sgarbato, che mi ha presentato Laura.
(Rombo di motore ed ombra femminile salutante ed ammiccante; voce femminile): "Ehi, Pierpaolooo! Il
tuo fratellino Fellini ti manda in regalo questa Seicento... e soprattutto ti presta me, perché tu vada a
ritirare il Premio Viareggio per "Le ceneri di Gramsci", le ceneri di noi tutti... Ma sì, sono Laura, la
giaguara. Signori della Corte, questi è Pasolini, mio ma-ri-to (ride) Fra un processo e l'altro mi scrive
delle canzoni inossidabili, per il mio spettacolo, sapete."
(L'ombra femminile esce su rumore di motore che si allontana. P.) Sì, a quel libro ci tengo troppo, magari
per debolezza... e anche al secondo romanzo e alla sceneggiatura di ragazzi di vita e puttane, "La notte
brava". Civile?
No, Fortini, la mia non è poesia civile, perché non è riformistica.
Niente neorealismo, ma un realismo del pensiero, e una parola che non divorzia dal pensiero.
Sostituisco il logico all'analogico, il problema alla grazia, la denuncia del disordine al falso ordine. Scavo.
Sono come i poveri minatori italiani che ho visto in Belgio...
E non mi si lascia scavare, mi si ruba il piccone e io lo recupero incrostato di sangue.
Basta, basta! Sono esasperato dal clericalismo alto e basso, dai vecchi e nuovi pecoroni papalini,
dall'atroce e mortale naturalezza del potere, che mangia l’anima come la paura.
(Rintocchi funebri; luce viola) Addio, papà.
Non ci davi ascolto, a me e a mamma; continuavi a bere, perché forse ci disprezzavi; perché eri solo,
come tutti i padri.
Volevi morire, non avevi più niente al mondo se non la tua angoscia, il tuo odio e il mio, il tuo bisogno di
essere un altro.
Eri una statua nera.
No, sta’ tranquillo, non scriverò un brutto epigramma su di te.
Lo meriti, il silenzio.
(Rumore di motore. Ombra e voce di prostituta che rotea la borsetta ammiccando e ancheggiando: "A'
bello, che Alfa GT rossa che c'hai! Ce vieni con me, eh? Faccio tutto io... e dai!")
Ma sì, Franca... sono più fuori dalla storia di te, io. E tutto è sacro, anche tu e il tuo praticello sporco.
(P. Recita) "Eppure, primo e unico figlio non nato, non ho dolore / che tu non possa mai esser qui, in
questo mondo." In questo mondo, o in un altro…
(Musica jazz e miagolio di gatto; luci svarianti. Ombre di grattaceli. Una mano dietro le quinte porge una
cartolina a P., che la prende e fa l’atto di leggere. Voce femminile: "New York ti piacerebbe, Pierpaolo:
non è una città, ma “la” città, è l'universo, il firmamento, le viscere della terra. Tutti ti chiamano per
nome, i palazzi sono come rocce immense, le automobili come stelle filanti.").
(P.)Ti aspetto qui, Elsa, nella città di Dio, nelle notti romane, dove sono sempre ragazzo e vergine, come
le Urì del Paradiso di Maometto, fra i miei ragazzi che i giornalisti chiamano mascalzoni pasoliniani... dove
non sono solo con le pietre di suono delle parole, come quando traduco Eschilo per Gassman.
(Recita mettendosi di profilo): "E ora, balzando splendida dai sacrifici, / la speranza combatte l'angoscia,
/ che rode insaziabile il petto. / ... / Talora è salutare il terrore / e deve sedere / a guardia degli animi. /
Matura saggezza il dolore."
(Di nuovo frontale, fa un gesto d'impazienza) Come possedere la realtà, al di là dei simboli, dello stile, del
naturalismo, del formalismo che uccide?
Come attraversare lo specchio?
(Tema musicale della "Dolce vita" di Fellini) Anche Fellini è formalistico, in fondo. (Fischi) Io, disprezzare i
sottoproletari e il Partito?
Io, avere il mito del reietto?
Questo avete detto a Togliatti?
Ma se il mio romanzo "Una vita violenta" è socialista!
E' logico che l'Azione Cattolica di Milano lo denunci per oscenità.
Però anche voi, compagni, volete essere piccoli burocrati untuosi e invidiosi, anime morte qualunquiste,
piccoli borghesi italiani che non sono niente perché vogliono essere insieme laici e cattolici, liberali e
controriformisti!
Siete la borghesia che dite di combattere, la borghesia criptofascista più ignorante d'Europa, suicida per
omicidio della ragione!
Solo qualche prete di sinistra come Don Milani, nel suo eremo rivoluzionario, getta un po' di luce morale.
(Accordi d’organo. P., commosso) E luce incredibile viene da questo grande, lieto e familiare nuovo papa,
l'uomo chiamato Giovanni.
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(Sirene di polizia, slogan, grida, spari, luci sciabolanti) Ma gli scontri di Reggio Emilia insegnano... siamo
stati ad un passo dal colpo di Stato fascista.
E io allora mi sono inventato una tecnica cinematografica, e ho girato il mio “Accattone” pensando a
Masaccio, a Dreyer, a Mizoguchi, a Chaplin: la mia storia ha la durata di un'estate, che è quella del
governo Tambroni.
Tutto in questi mesi, nella mia nazione, pare riprecipitato nelle sue eterne costanti di grigiore, di
superstizione, di servilismo: l'eterna farsa tragica italiana.
(Tamburi africani e musica indiana; P. gira su se stesso alzando le braccia) Invece l'India, l'Africa o
l'Egitto sono come una droga...
L'Africa mi ha incantato coi suoi innumerevoli sottoproletari che si scontrano col neocapitalismo, in una
natura assoluta.
Africa, unica mia alternativa! Ci tornerò, lo sento. E forse per restarci.
E l’India… a Calcutta fra una miseria da togliere il fiato ho visto Madre Teresa che somiglia alla Sant'Anna
di Michelangelo.
Lei è l'anima del mondo, la madre delle madri, come te, mamma, pitinicia mia.
(Cade in ginocchio e recita commosso) "Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, / ciò che è stato
sempre, prima d'ogni altro amore. / Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere: / è dentro la tua
grazia che nasce la mia angoscia. / Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi
hai data. / E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame / d'amore, dell'amore di corpi senza anima. /
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu / sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù."
(Ombra di strillone con giornale: "Pasolini accusato di rapina a mano armata al Circeo! Le dichiarazioni
del benzinaio vittima!" Luce livida. P. si rialza e gira inquieto per il palcoscenico) La calunnia, il disprezzo
collettivo, fatto luogo comune, il fango vile della mediocrità... il disprezzo della provincia universale.
Volete fare di me un automa da rotocalco!
Anche "Mamma Roma" e "La ricotta" per voi sono osceni, è ovvio.
Sequestro per vilipendio alla religione di Stato; e mia madre in angoscia...
(Ride sarcastico) Poi però mi chiamano ad Assisi per il Convegno alla Cittadella Cristiana: "Il cinema come
forza spirituale nel momento presente".
Sul comodino della brutta camera d'albergo c’è il Vangelo.
Ho riletto tutto quello di Matteo: una folgorazione di bellezza morale, non più estetica come nel ‘40!
Si, un film senza sceneggiatura, solo il testo nudo nella sua perfezione enigmatica.
Un film mitico-epico, non cattolico, tutto girato nel nostro Meridione.
Un film dedicato a papa Giovanni, che è stato tutta la vita in Paradiso.
Potrà essere tranquillamente proiettato in tutte le sale parrocchiali.
(Voce di giornalista: "Ma allora, il suo odio per la borghesia?" P. grida) Non c'è borghesia dove si parla di
Dio!
E' un film all'opposto della nuova preistoria tecnologica, all'opposto dell'Italia di oggi, il paese dell'uomo
medio, con la sua grigia orgia di cinismo, con la sua miopia perbenista.
La vita di Cristo, più duemila anni di storie sulla vita di Cristo, che sono in me come il nocciolo nella
polpa.
Bach e Mozart, Piero della Francesca e Duccio sullo sfondo.
Un film violentemente contraddittorio, ambiguo, sconcertante, provocatorio al dialogo fra destra e
sinistra.
(Dietro il fondale, ombra di croce che scende sulla figura della madre di P., ammantata, che alza le
braccia e grida: “Pierpaolo!”).
(Ombra e voce di giornalista con microfono: "Invettive e fischi, parolacce e uova marce hanno accolto
Pier Paolo Pasolini al suo arrivo al Palazzo del Cinema. Ci sono stati anche un intermezzo pugilistico,
animato alla brava da Guttuso e Bassani, e una cagnara in sala, dove gruppi di fascisti muniti di fischietto
sono stati sopraffatti dall'ovazione che il pubblico ha rivolto al poeta delle "Ceneri di Gramsci").
(P.) Sì, un gran successo, in Europa e in America.
Le luci della ribalta… Ma a che serve la luce?
(Ombra e voce di Ninetto: "Piacere de conoscerte, a' Pa'. Io so' Ninetto. Do' sto? Sto ar Prenestino in
baracca, semo sette in casa").
(P. abbraccia dolcemente l'ombra di Ninetto) Ninetto! Sei vero, allora. Non ti ho inventato io.
Tutto in te ha un'aria magica: i ricci fitti e assurdi che ti cadono sugli occhi come un can barbone... la
faccia buffa coperta di foruncoli ... gli occhi a mezzaluna con una riserva senza fine di allegria.
Gli uccelli scrivono il tuo nome volando…
Lo sai che Laura è gelosa di te?
(Capriole dell'ombra di Ninetto. P. corre dietro il fondale e balla con lui per qualche istante al suono di
"Love me do" dei Beatles. Cade neve dall'alto; si staccano e Ninetto salta e grida: "La neve! Er cielo se
strappa! Sembra d'esse’ nello spazio come Gagárin! Andiamo a sciare, a Pa'! Quant'è bella la vita!").
(Buio sulle ombre; P. è di nuovo al proscenio: tende le braccia, poi le lascia ricadere) Non ho più richiesta
di poesia. L'epoca della lotta di classe, i mitici anni Cinquanta, sono finiti nel mondo.
Togliatti è morto.
E forse è inutile che discuta con Sartre, con Lucacks, con Barthes, coi poeti di Praga.
Ah, se potessi contraddirmi fino al punto di non potermi più contraddire!
211
(Tocchi lenti di campana) Sono caduto da cavallo da sempre, e un piede mi è rimasto impigliato nella
staffa, la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, col capo che sbatte sulla polvere e
sulle pietre.
Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra dell’altro Dio.
Tornerò a conoscere dopo morto, prima di nascere: giovane come te, Ninetto, matto di gioventù, col mio
amore gaio e mostruoso per la vita bloccato nella malinconia della ragione; come il mio amabile corvo di
"Uccellacci e uccellini", che è un po' Socrate e un po' beat, e che ha l'obbligo di non dire mai bugie… Si,
come il grillo parlante di Pinocchio, o un filosofo indiano, o Simone Weil: e finirà arrostito e mangiato,
perché i maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante: assimilati, digeriti, peptonizzati.
(Suono di flauto) Ninetto, il mio zufoletto, fa l'attore per forza, e Totò, il mio stradivario, fa l'attore
impegnato.
All'estero il pubblico ride, in Italia no.
Lo so, l'intelligenza non avrà mai peso, mai, nel giudizio della pubblica opinione; e la mia volontà a
essere poeta sarà paranoica, in questo mondo senza testa e senza cuore.
Ma so anche, e l' ho scritto, che (recita) "nulla esiste se non si misura col mistero: / che testimonianza
avremmo degli eventi / se non cantasse prima e dopo di loro / un passero col suo canto lieve e severo? ”.
(Buio. Colpi cadenzati. Al tornare della luce P., disteso, si rialza lentamente) Mi sono ammalato.
Emorragia d'ulcera. E ho riletto Platone.
(Voce di giornalista: “Signor Pasolini, è vero che ora scrive per il teatro?”
(P. enumera, contando sulle dita) Un “manifesto per un nuovo teatro" elitario, rituale, di parola politica e
poetica.
Cinque drammi in versi da tradurre e rappresentare all'estero, magari a New York, per evitare di vederli
straziati dalle voci piccolo-borghesi dei nostri pessimi attori. (Luci svarianti e rumore di aereo; musica di
"The Age of Aquarius" da "Hair" e di "Blowing in the wind" di Dylan, che sfumano. Cade dall’alto un
cappellino a visiera che raccoglie e agita) Si, La Grande Mela è straordinaria!
Ad Harlem corro a stringere la mano ai giovani delle Pantere Nere. Il genio è un negro che sogna la neve!
Al Village fraternizzo coi beatniks pacifisti che manifestano contro la guerra nel Vietnam, con gli studenti
contestatori dei campus, e con Allen Ginsberg.
Ah, finalmente un poeta amico e fratello!
(Grida, fischi, applausi. Recita) "Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia,
affamate, nude, isteriche, trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa / ... / col cuore
assoluto della poesia della vita macellato dai loro corpi buono da mangiare per mille anni."
Caro Allen, ti bacio sulla barbona.
La tua è una borghesia di pazzi, la mia una borghesia di idioti.
Tu ti rivolti contro la pazzia con la pazzia, dando fiori ai poliziotti.
Ma come rivoltarsi contro l'idiozia?
Tutti gli americani devono inventare il linguaggio per esprimersi, ma noi qui l'abbiamo già pronto da
millenni con la sua morale, e non possiamo uscirne mai.
Noi non possiamo nascere, non possiamo essere innocenti, solo coscienti; vasi pieni di un sapere intriso
di malinconia e di morte.
Ah, qui da voi c'è un clima di urgenza rivoluzionaria, di grandi speranze, di veglia d'armi, che in Europa è
finito con la guerra...
Forse lo ambienterò qui, il mio film ateologico su San Paolo.
(Suono di sitar) Ninetto ha seguito la corrente, è andato in India, ma ora l'India è qui.
Forse la leggerezza non è del tutto perduta: c'è ancora Ninetto, c'è ancora Totò.
(Esclama) Ne farò Pinocchio e Geppetto!
(Suono di telefono. P., come portando all’orecchio una cornetta e rispondendo) Come?! Totò è morto?!
(Si copre il viso con le mani. Buio. Voce smarrita di Ninetto: "Dove annamo ora, a’ Pa’?". Luce)
(Con voce sorda che via via si rinfranca) In Marocco, Ninetto, per le riprese dell' "Edipo re".
La storia del mio complesso di Edipo.
No, tu non lo sai cos'è.
È una tragedia.
Ma poi metterò in scena quelle classiche, di tragedie, tradotte dagli amici: Bertolucci, Siciliano, la
Morante, Leonetti ...
Ho proposte concrete da Torino.
Cari miei studenti contestatori, non lo sapete che sono i classici i contemporanei del futuro? Non lo sapete
e non volete saperlo!
(Grida, slogan e immagini dei cortei del 1968. Grida a sua volta per sovrastare il rumore) Ma non capite?!
Il Maggio francese e il Movimento Studentesco italiano sono fenomeni borghesi!
A Valle Giulia, negli scontri fra studenti figli di papà e poliziotti proletari, io stavo con quei poliziotti,
vestiti da pagliacci, di quella stoffa ruvida che puzza di rancio, di fureria e di popolo!
Voi studenti, anche se siete dalla parte della ragione, siete i ricchi, mentre i poliziotti, che sono dalla
parte del torto, sono i poveri!
Siete dei fascisti di sinistra, come l’avanguardia letteraria del “Gruppo ‘63”!
Bella vittoria, la vostra, bella restaurazione di sinistra!
212
Ma andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale del Partito Comunista! Andate ad accamparvi in
Via delle Botteghe Oscure!
(Fischi e grida col megafono: "E tu allora, compagno, che partecipi sempre al Premio Strega; e che scrivi
da anni sui giornali borghesi? Che cosa opponi alla Coca Cola? Il vecchio spiritualismo umanistico?").
(P. corre al proscenio e recita a braccia alzate, con pathos) "Oh generazione sfortunata, che obbedisti
disobbedendo! / Vi troverete vecchi senza l'amore per i libri e la vita... / La lotta di classe vi cullò e vi
impedì di piangere; / hai passato i giorni della gioventù / parlando il linguaggio della democrazia
burocratica / Non uscendo mai dalla ripetizione delle formule, / ché organizzar significar per verba non si
porìa / ma per formule sì ... / Ti troverai a usare l'autorità paterna in balia del potere, / generazione
sfortunata! / Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore / dove vorticava un'idea confusa,
un'assoluta certezza, / una presunzione di eroi destinati a non morire - / oh ragazzi sfortunati, che avete
visto a portata di mano / una meravigliosa vittoria che non esisteva!"
(Grida e fischi. Buio. Inizio dell'aria "Casta diva" della "Norma" cantata dalla Callas, mentre il canto sfuma
la luce torna su P. alla macchina da presa nell’atto di filmare l'ombra della Callas che, con collane a
campanaccio e un lungo manto a strascico, passa lentamente dietro il fondale, fermandosi al centro. P.
depone la macchina da presa e si accosta lentamente all'ombra, aprendo le braccia. Lieve musica greca.
P. si volta e torna al proscenio, fermandosi in un cono di luce) Maria ... Maria ...
Tu sei la mia madre-fanciulla barbara, la grande bambina ignara, e ferita, e abbandonata, ma fiera ed
intangibile, e pura eternamente - uccellino con potente voce d’aquila... Perché tutto è santo, tutto è
santo... ma la santità è una maledizione, e i martiri tremano nelle tuniche di fuoco.
Tu sei senza più domani, come me, nel mondo di Nixon e di Piazza Fontana, della strage di Brescia,
dell’Italicus, delle trame nere…
(Recita con pathos, camminando di pari passo con l'ombra della Callas, in luce rossa) : "Tu sorridi al
Padre - / quella persona di cui non ho alcuna informazione, / che ho frequentato in un sogno che
evidentemente non ricordo - / strano, è da quel mostro di autorità / che proviene anche la dolcezza. / Tu
doni, spargi doni, hai bisogno di donare, / ma il tuo dono te l' ha dato Lui, come tutto; / ed è un Nulla il
dono di Nessuno; / io fingo di ricevere, / ti ringrazio, sinceramente grato; / ma il debole sorriso sfuggente
/ non è di timidezza; / è lo sgomento, più terribile, ben più terribile / di avere un corpo separato, nei
regni dell'essere - / se è una colpa / se non è che un incidente: ma al posto dell'Altro / per me c'è un
vuoto nel cosmo / un vuoto nel cosmo / e da là tu canti."
(Ride e grida) Maria!
(Riprende a recitare, avvicinandosi e allontanandosi ritmicamente dall'ombra della Callas) "Tu - ed è la
prima volta che mi succede - / mi vedi simile a Lui, / Lui reincarnato, destinato a morire / ma io non ho
mai visto il postale uscire al mattino / dal porto di Kingstown - e mille altre cose / ; / non sono giunto alla
sua età / e malgrado questo / tu ti ostini a sapermi come Lui mi vorrebbe, / perché nulla e nessuno mai ti
convincerebbe del contrario. / Cosi, ed è la prima volta, ripeto, che mi succede / i miei occhi prendono in
considerazione / ‘i lombi immondi di donna, di carne d'uomo / non fatta a somiglianza di Dio, preda del
serpente', / e affabulo d'amore a Psikikò."
(Luce intensa sull'ombra della Callas, che indietreggia tendendo le braccia e scompare. Voce di
giornalista: "Signor Pasolini, lei è di ritorno da Parigi, dove va a trovare la signora Callas reclusa nel suo
appartamento. Cosa c'è fra di voi? E' vero che vi sposerete, ora che Onassis l'ha lasciata e ha sposato
Jackie Kennedy? Come concilia questa affettuosa amicizia con la sua... [tossisce] diversità?”)
(Musica africana in sottofondo) Maria...
In Africa con te, e con Alberto e Dacia. Il mondo è appeso al tuo fragile filo d’oro.
Non penso più al domani, vivo come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, e pronuncio proposizioni
reazionarie, di amore per le istituzioni.
Sai che ho comprato la Torre di Chia, dove voglio ritirarmi, sistemarmi per sempre, per sempre...
(Musica medievale. Salta) Ho una gran voglia di ridere: ho scelto di sceneggiare il "Decameron", anzi, è il
"Decameron" che ha scelto me.
Io sarò Giotto, e Ninetto sarà Andreuccio da Perugia.
Che festa, ridare vita a un mondo dove la carne della vita è soda e dura come un ciottolo, e il senso del
sacro è fresco, e i rapporti umani sono ancora reali!
L'unico nostro mondo, vero, Ninetto?
(Compare l'ombra di Ninetto che cammina con al braccio un'ombra di ragazza. Con voce gioiosamente
imbarazzata: 'A Pa', me so' fidanzato... Me voglio sposa'. Lei è 'no schianto. Te dispiace, a' Pa'? Nun te
preoccupa', torno a fa' er falegname!")
(Buio sul fondale, verso cui P. corre gridando) Ninetto!!!
(Torna lentamente al centro della scena. Con voce sorda e lenta) Tu eri inalterabile. Eri qualcosa di più
che innocente. Tu toglievi il suo peso al dolore del mondo., come Mozart.
Tu eri il mio balletto vivente… Tu cantavi nella mia voce.
Tu, il mio amore proscritto che era tutto l'amore…
Ti ricordi quel sogno che ho fatto tante volte, dove io stavo per partire in macchina, e tu ti aggrappavi
allo sportello aperto e mi dicevi: A Pa', mi porti con te?
Me lo paghi il viaggio? Il viaggio della vita ...
Ho sognato da solo, dice Maria...
213
(Fiero) Perché io sono una forza del Passato, sono il Gracco boccheggiante a terra, un gatto schiacciato
dal copertone di un autotreno, un'anguilla mezza mangiata: e il mio successo è l'altra faccia della
persecuzione.
Si, signor Enzo Biagi. Ottanta denunce per oscenità al “Decameron”, forse altrettante ai “Racconti di
Canterrbury”, ho perduto il sentimento che mi faceva avere ammirazione per me. Non ho più richiesta di
poesie, e non faccio più programmi: tendo sempre di più ad una forma di anarchia apocalittica.
(Cadendo in ginocchio, recita) “Mi crocifiggono e devo essere la croce e i chiodi. / Mi tendono la coppa e
devo essere la cicuta. / Mi ingannano e devo essere la menzogna. / Mi incendiano e devo essere l’inferno.
/ Devo giustificare quello che mi ferisce. / Non importa la mia fortuna o la mia disgrazia. / Sono il poeta.”
(Rialzandosi, Ironico) Non datevi pena, amici: dite che mi faccio integrare, come direste che mi faccio
bruciare in una casa che va a fuoco.
Bisogna adorare la realtà, il principio di realtà, mettere l'intelligenza fra le cose vecchie, aver pietà di se
stesso e degli altri, cercare consolazione.
(Grida) Bisogna deludere! E io vi deluderò a fondo, tutti!
Scriverò un grande libro inattuale, più di "Empirismo eretico", più di, “Trasumanar e organizzar”.
Petrolio, un libro che non comincia. E il mio trasumanar lo organizzerò in grande stile, come Dante, in
questa serva Italia di dolore ostello, non donna di province ma bordello, questa Italia che sta
assomigliando alla Germania di Hitler, in questo nuovo Terzo Mondo che abiura ai suoi antichi valori, nel
silenzio che mi assedia, che è incompetenza, vigliaccheria e odio atavico.
Nessun deserto sarà mai più deserto di una casa, di una piazza, di una strada dove si vive 1970 anni
dopo Cristo.
(Sigla di "Carosello") Gomito a gomito col vicino, vestito nei tuoi stessi grandi magazzini, cliente dei tuoi
stessi negozi, lettore dei tuoi stessi giornali, spettatore della tua stessa televisione.
Qui è il silenzio.
Certo, l’Italia è un corpo stupendo, ma dovunque lo tocchi e lo guardi vedi attorcigliate le spire viscide e
nere di un serpente, l’altra Italia.
Come si può far l’amore con un corpo tutto avvolto da un serpente?
Così comincia la castità.
(Puntando il braccio) Mi autoemargino, voi dite: ebbene?
Il bla-bla e l'odio della letteratura non mi interessano più.
La rivoluzione non è più che un sentimento.
È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima del cancro?
(Inchinandosi ironico) Vedete? Non voto più al Premio Strega.
Devo pagare perché non ho cartello segnaletico, mafia, consorteria, feudo, gruppo: banda, come dice
Montale.
Lui lo sa che sono solo, come io so che la sua poesia viene dalla naturalezza del potere, e che lui è Oútis,
Nessuno.
Non c’è che la borghesia, dice Moravia.
Non andrò a Ginevra da Starobinski.
Disegnerò, chiuso nella mia torre.
Mi farò fotografare nudo.
Darò qualche verso coi disegni di Zigaina...
No, non rinuncio a nulla.
L'opera al nero non è rinuncia.
E la natura in Persia, in Eritrea, nel Corno d'Africa, dove giro "Le Mille e una notte" è ancora innocente di
grazia, coi colori della pittura copta, degni delle pagine di Proust...
Posso goderli da perfetto egoista, dimentico della miseria e dell'ingiustizia che vi regnano.
Ma li si può ancora essere rivoluzionari per destino.
Chissà, forse mi trasferirò nello Yemen.
Come dite? Un lusso?
Certo, preferirei essere uno dei poveri delle “Mille e una notte” che il Pasolini di oggi, ricco, tollerato,
privilegiato, ma senza il mondo che amavo intono.
(Voce polemica di giornalista: "Ma allora come potrà collaborare a "Playboy", o lottare contro il
deturpamento edilizio di Roma e dell'Italia che tanto la preoccupa?").
(Musica medievale. P.) Si... un capitello, un tabernacolo, una loggia, un casale di contadini vanno difesi
come una chiesa antica, anche se la Chiesa ha sconfessato la religione per il potere, e ogni benedizione è
una maledizione, una bestemmia. “Bestemmia”: così chiamerò il mio film su San Paolo, il mistico
diventato prete; il film che non farò perché sarebbe un’azione da traditore, troppo facile ora che i
seminari sono vuoti.
Ormai l'uomo medio è capace di tutto nel suo universo orrendo (ironico) dopo il vittorioso referendum sul
divorzio.
(Grida) Questa mutazione antropologica è mostruosa!
Io sarei un nostalgico, un esteta calvinista e irrazionalista, amici comunisti?
Forse ...
Ora che il peggior conformismo di sinistra è adottato dalla destra e viceversa...
Ora che posso riscrivere le mie poesie friulane rovesciate in eco, con tetro entusiasmo.
214
Lo dedico a te, Gennariello (indica il pubblico) che conosco e non conosco, il mio "Saluto e augurio".
(Gira su se stesso vorticosamente) Sono sceso all’ultima stazione… Sono nel vuoto, vicino al mare da cui
comincia la vitamorte, con la mia sete gelata nel mio inferno del potere, nel mio film “Salò”. Che sarà il
mio addio al cinema.
Io muoio, e anche questo mi nuoce.
Solo la morte compie e appaga il sacro, nel suo montaggio fulmineo e totale della vita.
Ora posso essere quella verità che vedevo soltanto.
Ora potrò congiungere il principio con la fine.
(Passa l'ombra della madre, a braccia tese, che ripete: "Pierpaolo, quando torni? Quando torni?”
Scompare stringendo ritmicamente le braccia al petto)
Ciao, pitinicia mia.
Sono lontano, lontano; ma tornerò presto.
Mangia, bevi, sii allegra e felice.
Le lucciole sono scomparse dai prati, ma tu no. Tu sei il grembo dell’eterno presente.
Io, folle moderato, sono qui nella notte romana, o altrove, nel mio principio, con nel cuore il filo di una
vita che non interessa più... che non mi interessa più.
(Ombra di un giovane con le braccia aperte, a cui P. si stringe al di qua del fondale, facendo movimenti
erotici; ombre di altri giovani con spranghe alzate che si avvicinano minacciose. Buio. Battito di cuore).
(Voce di P. f.s. che recita mentre la luce lentamente si fa azzurrina): "Vieni qua, vien'qua, Fedro.
Ascolta.
Voglio farti un discorso che sembri un testamento.
Ma ricordati, io non mi faccio illusioni su di te: io so, io so bene, che non hai, e non vuoi averlo, un cuore
libero, e non puoi essere sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò.
Difendi, conserva, prega.
La Repubblica è dentro, nel corpo della madre.
Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità.
Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo.
Ama la carne della mamma nel figlio.
Dentro il nostro mondo, dici di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza
ignoranza, un soldato senza violenza.
Credi nel borghese cieco di onestà, anche se è un'illusione: perché anche i padroni hanno i loro padroni, e
sono figli di padri che stanno da qualche parte nel mondo.
E' sufficiente che solo il sentimento della vita sia per tutti uguale: il resto non importa, giovane con in
mano il Libro senza la Parola
Hic desinit càntus.
Prenditi tu sulle spalle questo fardello.
Io non posso: nessuno ne capirebbe lo scandalo.
Un vecchio ha rispetto del giudizio del mondo.
Deve difendere i suoi nervi, indeboliti, e stare al gioco a cui non è mai stato.
Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odi: portalo tu.
Splende nel cuore.
E io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre la vita, la gioventù."
Il battito di cuore cessa. Luce abbagliante e
BUIO
[La pièce, in cui l'assolo lirico-drammatico di Pasolini è nutrito dal controcanto coessenziale di ombre e
voci che corrispondono ad altrettante presenze simbolico-esistenziali (la madre, Ninetto, la Callas, i
ragazzi di vita, i giornalisti, ecc.) evoca la parabola intima e creativa del poeta, scrittore e critico militante
che con la sua ineludibile e controversa presenza ha segnato profondamente la cultura italiana dagli anni
'40 agli anni '70, secondo un fil rouge che ne privilegia la dialettica attiva tra passione e ideologia in
senso testimoniale, poetico e tragicamente sacrificale.]
Notizia.
Maura Del Serra, comparatista nell'Università di Firenze, poetessa, drammaturga, critico letterario e
traduttrice dal tedesco, inglese, francese e spagnolo, ha riunito le sue nove raccolte poetiche nel volume
L'opera del vento. Poesie 1965-2005, Venezia, Marsilio, 2006. Ha pubblicato quindici testi teatrali
imperniati su personaggi che vanno dal periodo presocratico alla contemporaneítà. Ha dedicato
monografle critiche a Campana, Pascoli, Ungaretti, Rebora, Jabier, Guidacci, saggi a numerosi autori
italiani ed europei, e ha curato il volume Poesia e lavoro nella cultura occidentale, Roma, Edizione del
Giano, 2007. Fra gli scrittori tradotti: Lasker-Schüler, Kolmar, Hamburger, Koschel, Shakespeare,
Herbert, Thompson, Woolf, Mansfield, Barnes, Proust, Weil, Inés de la Cruz, Borges.
Per la sua attività ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali.
Suoi testi poetici e teatrali sono stati tradotti nelle principali lingue europee.
Web site: www.nuovorinascimento.org (Pagine di Maura Del Serra)
215
FABIO DOPLICHER
LA NOTTE DEGLI ATTORI
I
Occhi-velario, mobili, corpo due gelatine rosse,
dilàtati vecchio
in ombre ombre ombre
fra i praticabili / indovina obliquo
l’onda di luce tua,
solco esatto / esorbita dalla matita
che t’assorbe fra le maschere,
olio anilina e dietro carne.
L’amorosa tumida e la cantante,
nei portici sotto il faretto bianco,
un giovane scolorato in fiocchi di neve,
il comico frettoloso, connotati contadini a guizzi:
cinque guitti come le mie dita
- polvere umida - palcoscenico - liberi una notte.
Nella buca aperte
pagine copiate a mano, Ecclesiaste
dell’ultimo suggeritore.
Fu vero attore
dagli anni abbandonato
naso adunco dentro quel pozzo / torvo di sé a pensare
- ecco il teschio suo - come un cappello infilato nel braccio della sedia.
(Né il soffiatore s’accorse fra pertiche e bagliori
della goccia-fiato in fondo alla bottiglia,
cosi vetro conserva sospeso il respiro antico)
Fra queste quinte stop ardori della vita
- ragazza in bianco sorpresa fra ruggini lastre
nelle dita stringendo la sua caviglia avorio
- barca appena verniciata saltata morta su scogli.
Perdio, togli quella porta,
parlare
nel telaio vuoto.
Se l’intonaco cade, tu cammini
da una tavola all’altra
strusciando (come il deportato
guardava fra le lastre-selciato se in mezzo
a sottili rigagnoli di pioggia
- la bora sposta brusca, gioco, bambini
sotto i vòlti a piedi uniti galleggiasse il proprio delatore).
Riusciti finalmente / a calare
l’americana / piazzare i riflettori uno per uno:
se pensi che alla Scala gli effetti
si danno col computer,
qui corde di canapa cavi arrugginiti.
Perché tornare, se si è pentiti (intona la cantante)
- io non ricordo più di figli
- solo burattini di volta in volta piegati in gesti
- attrezzisti rugosi ribelli al cimitero.
Tutte parole mie, dito di marmo: tempo
della luna fa sudare il vino.
Chiama destino / ogni desiderio / rabbie bloccate:
per forza di calcare
una statua bianca dentro il labirinto
regge rastrelli dimenticati dai giardinieri morti.
Come si chiazza in bianco questa pelle!
Dita,
in quell’arco Lucifero ghigna / laggiù scorreggia
dal sipario
216
di ferro una gran scheggia
luccica a uncino,
vibrate al passaggio dei camion
di pesce congelato
- all’uscita di sicurezza lascia aloni d’acqua morta.
Soffia la certezza via da queste tavole, scogli bucati,
polvere della prospettiva, parole disfatte, rinascenza
della città ideale, balene in secca cariche di latte.
Folla spellata / spiaggia che dorme in asciugamani:
sotto teli polverosi la platea
guarda onde dipinte. Dai fondali, così,
ancora addormentata
vieni al mio corpo (altra ragione no / un lento
prepararsi delle gambe).
La pelle pensa
con paglierina
smemoratezza di vin fresco.
E mostri al museo / e cornici monche
e tele arrotolate / e lucernai sempre rotti
e la polverosa società dei ladri
che àncora ragnatele perché neppure un germe fugga:
né guarire né morire, attori,
ma immaginarsi da lastra a lastra di metallo
riflessi nell’eco di finti temporali;
- dipinti i morti quotidiani su un paravento chiuso
- le chiazze di sangue sugli schermi:
e proporrete le folle in video-tape
smarrite nel consenso e calde e assuefatte
sul filo di segreti applausi.
Vecchio e ragazza e comico e cantante e giovanotto,
dita ballerine risucchiate fra pensiero e gesto.
Questo, il crepaccio nero: apri il sipario.
Sopra un pittore vi disegnò il mattino, guardando
la morte che portava il suo pennello
da dente a dente come un bastoncino.
Quel giardino-aurora fissa imbambolato
il teschio-suggeritore nella buca.
Gesti / calchi nello spazio / obbligati:
passare e ripassare - incrociando - la pariglia
allucinata del vuoto. Voi, danzate
come per partire,
scalpitando contro-muro in fondo,
dove l’ombra del dio nudo minaccia e gira e gira,
volo della vespa richiamata
dai resti-pesce
che abbandona la custode cotti nel lauro,
rametti colti in segreto al cimitero
intorno all’obelisco nero granito
della famiglia polacca di rabbini.
Quanti destini - meduse trasparenti - come attori
di figlio in figlio - nomi numeri lustrali
teste azzima bionda - occhi carbone
(tempi di lager / ma i bambini
forti di ridere / giocarono
fin che venne la maschera).
Ora da pini morti edera discende,
copre nomi, secondo ombrello verde.
E il vecchio dal ballatoio srotola un lungo drappo
che il giovane si raccoglie intorno
e il comico sculetta
e la ragazza ride e la cantante tace. Ecco la pace
argentata come serbatoi, dove poggiano, file colorate,
i container pieni di cassette
- statue statuine statuette - gesù di gesso - stelle colorate - pastori astronauti guerrieri giapponesi -
217
- il cammelliere del re carico di mirra. Nel fumo
biancoveleno, un cassone si spacca dissipando
infiniti gesù sopra l’asfalto,
imbambolati fissi nello specchio
dei serbatoi che promettono petrolio,
trasognati nel vento, allo stadio ultimo
di follia che cerca. Con allegria
le dita impersonano un gesù-gesso
una stella un cammelliere
(un astronauta ammanettato
per aver sottratto ossigeno
di Stato, distraendolo a favore
d’un dio che boccheggiava
nella fascia fredda d’ozono dove con altri aspetta
che lo riabilitino). Dita - gessi - attori:
cinque dentro la stazione
dei maghi, siepi di bosso intorno al canecemento
con zampa sollevata per mostrar la piaga. Enorme
in questi anni fatta
si è la cruna dell’ago conficcata in terra:
recitate, alberi-aghi, attori, e cerchi vuoti
di carne solitaria che il tempo ha risucchiato
e l’anima abbandona.
Con occhi d’onice una maga
si offre sul grande arco della cruna
a Lucifero armato di bandiera
che ad attraversare nere nere invita
olografie di uomini di donne. Ritornano le dita,
mentre egli passa
di corpo in corpo, possedendo
col sesso biforcuto gli orifizi
- nel palcoscenico sospesi salgono giudizi,
lampioni carta colorata.
II
Incorniciata nel riflettore, la mano senza dita
aspetta da gelatina a gelatina il colore giusto.
Sull’anello di Lucifero
monta la notte / piazza il suo faro
i recitanti sgranano amuleti, ambigui
schermi delle stelle.
Quelle le dita, sdrucciolanti,
a balzi rovesciate sui lastroni
in lotta con la bora. Ora dorme
nel tino scoperchiato il timoniere
- maglione blu - ciglia bianchezaffate asprigne in gola,
mentre marea misura
bragozzo e respiro.
Bionda uva a mezza costa
prima del Carso, quella tua peluria
segreta di odore ritornate. Falceluna calante
in mano della maga che distacca
il cane-statua dal cemento che lo inchioda:
in una codacometa di piccoli gesù lo porta in volo,
che abbaia, zampa sollevata. Anima ammalata,
in forre sta acqua persa, che dividemmo insieme (acqua
di luna / mestruo / l’ora del distacco / sorridere /
nonsodiche / camino nero a quattro bocche
fatto pel vento che assedierà i nipoti:
volevano lasciare,
i morti affaticati, durevoli cose, che invece
cagliate stanno dentro
la cruna del secolo - essi ancora
ai cimiteri scacciano la polvere
218
da muro a muro, separati per razze e pregiudizi)…..
La fanciulla parla - bianca terra intonacata - acqua
nel mezzo dello spiazzo:
il cavaliere di bronzo che galleggia,
attore, sei tu; se vuoi essere vivo,
corri: il tuo personaggio
sta laggiù, gambe penzoloni,
verdognolo a specchio dove il porto
alza e abbassa dentro il suo lenzuolo
pesci disfatti alghe meduse sugheri suicidi. Suonate
cantate a distesa / sirenefabbrica
in rovina / all’arsenale
una sirenetta e due meduse vecchie
fanno danze della morte intorno
agli scafi in gara. L’acqua ha vinto,
straripa sulla scena, ignara delle squame
che solleva tra le rovine di noi.
Ohi, ohi, gabbiano pazzo, ti sei bruciato
su un fuoco di petrolio
che raffina. Altro che fiamma divina,
ma tu in scena
così devi cantare e tu, attor giovane, un burattino
sei nel risucchio d’aria
srotolato dal tappeto del portò putrefatto.
E tu, comico, il prezzo mima
del riscatto: un ignoto padrone
si è installato nel mio muro d’immagini e parole,
a ogni cambio di luce passo lo squarcio
fra mattone e mattone,
ventre-fuga, ventre-ritorno,
riempio lo spazio
e me lo rende vuoto. Girate la pedana
dita ribelli / adesso che fa giorno / la cappellina
dentro il riflettore - contiene
sacchi concime chimico
- e voi ubriachi nel recitare sfatto.
Cantami matto: c’era una volta lo stagno di Avon,
i pupazzi indossavano galosce vendendo
contro il torcicollo del turista-pellicola
teschi gialli, plastici-teatro, bocce di sangue umano,
inchiostro per l’atto fatale; come dalla grondaia
piovevano uccelli piccolini paurosi della strada,
tu comico diverti i burattini - braccialegno
occhiporcellana persuadili a ridarmi l’anima, cucciolo infelice
che il più nascosto nella giubba ha messo
in attesa dello stocco traditore. Vedi che muore,
testa addormentata, perso
incapace di misurare il vuoto,
solo compagno d’angoscia oggi
che del tutto sono rimasto solo.
Il poeta combatte coi pupazzi
(zufola la cantante) - il matto
con un secchio d’acqua costruisce
un cuore al burattino.
In un campo vicino
a questo teatro
ogni giorno un trattore coi cingoli
schiaccia i pomi del dio delle messi,
che rapito dentro una gabbia
manda messaggi con file di mosconi
a quella polpa enorme sterile nel fango.
Certo che piango
(recita il vecchio) quando sono solo, tuttorinchiuso
come un pino morto. Dammi un effetto d’alba,
polvere odor di mare,
219
occhi reti vuote. Note taglienti,
alghe calpestate - quello che visse
quel che si è perduto - non vale
il ricordo - il gioco è altro.
Nel raggio del faro accovacciati
stanno gli attori intorno al gran vasaio
senza vederlo, carbone sfolgorante
concentrato in mezzo alla sua luce.
S’incollano alle tavole / il vento porta
ginestre collose / file di formiche:
nella corsa al cuore-terra van piccole
e nere risucchiando
il burattino che incolla
la sua maschera al vecchio - il comico l’anima mia
a fondo porta enumerai
colpe e illusioni con voce di pivetta
- e questo recitarsi questo
oleato franare tutto un mondo
- penetrano mangiando coi pensieri
l’orgoglio senza morte e senza amore.
A un cambio di colore, parla tu, maga,
e tu, uomo irsuto (in fuga per stanze per palazzi
dipinto nei segni del sole)
nudo conduci àliti violenti
su una stampella in mezzo a questa scena. (Frena
il suo piede una catena
di rosario in grossi chicchi neri,
alla cima rimbalza rotolante il cranio
secco di suo padre
scheggiato tutto
sui lastrici di strada). Calano corde
dai ballatoi, sospesi stiamo - ghiaccioli sminuzzati
nel vano grangelo al frigorifero - umori
colorati che non si vuol sciogliere in scena.
Quanta pena / ultimi trofei / corna di buoi
cresciuti
senza erba. L’esca è pronta
levrieri ingabbiati da un sipario rosso, e tu misuri,
amorosa, lo scatto del tuo corpo a quella molla. Incolla
su strisce-carta tàfani e pensieri,
col sangue pigro che ti distilla il ventre
segna il cerchio, ramo dell’acacia
dove gli attori ritornati dita
s’impiglieranno contando amore sulle foglie,
conteso il tronco a un candido cane di Maremma.
III
Eccolo: aspetta immerso fondofiume
Eliogabalo seminatore di sperma:
riflettore lucerna e conchiglie
perdute nelle quinte da un attore morto.
L’orto proprio laggiù finisce - da una riva all’altra
si contendono l’eroe luminoso a colpi dì sasso
come per un carnoso bue, due contadini
dalle guance accese - la maga
culla le immagini sospese, gessi
sull’americana. Recitano
(libere dita, serrate in una gogna quelle mani)
il giovane e il comico l’attesa
che il corso delle acque s’allontani. Fiore
della piantagrassa tutto sbocciato
domani seccherai, amorosa: risplendi
petalo per petalo la polpa.
Fu una colpa a squamare (fra fili
di pesci-salamoia al sole)
220
il vecchio e la cantante - abbandonata
in quel salso alla luna
una creatura sola:
recitano adesso (come tanti) altri vigliacchi,
interpretano (stoppiebruciate, immondo
polvericcio fra i binari)
le coppie che cercano al finale
di salvare un senso alla propria recita.
Un boccascena immenso inghiotte
tre generazioni (mai come ora
il prossimo non è stato tuo).
Restano le torri di proscenio,
qui si misura il vento - rovine
bastioni muraglie, con tela cantinelle
una rocca di Ghino, che restò signore nelle ruberìe.
Oggi / soltanto / un gran dolore / umido compatto:
malattie dei profughi, muffe degli esclusi,
manimozze manibruciate mani.
E veloci cambisede di società-fantasma
e rapide incursioni sui ribelli di turno:
la morchia-princìpi che il potere
condensa oppure annacqua,
siccome disumano organismo chiede.
Siede l’attore sul proscenio
confronta piccole colpe sue
le inserisce nella catena-montaggio
dell’assolversi. Sul panorama
un mulino bianco ruota le pale
invita cavalieri morti. Accorti ci siamo
dell’edera senza foglie, degli stucchi a precipizio
giù da vòlte affrescate. In vasche d’inchiostri
dimenticate / galleggiano / crociate / popoli
rivoluzioni / vittime / fatellanze
cadute di moda.
Non popolo del riso e dei canneti: altri segreti
guardano consumati sui giornali
(fra le righe, petecchie e bolle di spudorata verità)
stanotte gli attori nella pausa:
nel secchio d’acqua gettano
cicche sigarette accese (tempi slegati
ha questa prova) - pulsando
alla mano monca si fan sotto.
Rotto, l’incanto precipita: la maga
caglia nell’impasto dei gesùgesso - indietro indietro
fin al primo ingresso
degli artisti d’antan
rimbalzano sulle punte
le stelleplastica, ballerine alla verga d’un maestro.
Nelle locandine: “vuoto dei giusti”, stagione
per sfruttatori e ragnatele - nei cartigli
donne nude sinuose / nomi nomi / lo spazio
degli artisti di Stato / dei privati opportunisti.
Guerre per poca libertà - comete compaiono
chioma scintillante - si tuffano cristallisangue
nel buio di povera carne. - Ma no - ridono ipocrite
le dita - questo era il programma dell’anno scorso.
E se ne vanno lungo i ballatoi
contando i ragni sopra i mascheroni, che in coro
cantando al cielo - tela - sfilacciata: ancora non sappiamo
se quel Dio che prega
solo e diviso sopra la cometa
- dalla propria energia richiamò il pensiero
e i vortici del tempo - su questo palco
abbia abbandonato
la mano creatrice / cinque dita ribelli.
Non siamo quelli - gridano
221
comico cantante giovane amorosa vecchio,
non siamo quelli - si confrontano
sullo scivolo in metallo
per acrobati folletti apparizioni,
colpiscono le tavole saltando sordi
di desiderio-terra / di generazione-guerra.
Tutto quel che è mortale si amplifica
di nota in nota, eco-scandaglio-eco,
terreno che soffre - il suggeritore sfiata.
Gioca col burattino - prossimo - tuo
(gatto e topolino)
non riconoscerlo
maschera di sangue.
Giulietta esangue, scruta tu il balcone
dove tutte le persone
della città fanno funebra folla.
Una zolla secca per luci-fari langue incrostata
al panorama in fondo, cielo ultimo
d’una innamorata suicida: e il suo lui sta su,
medicata la ferita con argilla a spicchi, pietà
dei decoratori. Non disturbate, attori:
è il gran banchetto
dei senza-anima di ballatoio in ballatoio acquartierati.
Voi non nati ancora / già la brama li mosse
formicole violette / nel panno
che scena dopo scena copre ogni scelta.
Intanto scopre, melaserpente dietro un siparietto,
amoroso e amorosa
la cantante e rutta.
Di tutta quella città,
nessuno vidi - grida l’attore vecchio
(il comico gli lancia
pacchi pacchi di programmi e foto
giallicce con dedica ad personam)
- sudari solitari svuotati seppelliti
spazi di scena: buchi della recita.
Nella guaina di zinco / suscitava fiamme
con alcool / e vapori con incenso
e infine ghiaccio secco:
attrezzista anarchico
che cambiava foggia ai baffoni
via via che un tiranno era scoperto,
certo e grinzoso d’amore che verrà
- troppo scrutato - fiume salato - sangue
che crescerà la terra.
Attori, in guerra:
questo teatro rotondo
di legni antichi di mummie reticenti
vi dedica la notte, i bei momenti - assoli che avvitano
corpo e pensiero / seguite le foglie
nel risalir leggero
che si riunisce al solitario dio.
IV
Spalancate le botole di scena: sotto acqua luminosa.
L’amorosa vi si specchia, Susanna assalita
dai mascheroni che dai ballatoi
calano le dita, carrucole corde
la bilancia invelenita di vecchie invidie. Scoprono
spettatori decomposti che fan cadere dalle balaustre
torno torno garze rugginose.
Tendono orecchie slabbrate fuori dalle sedi:
- ecco, sotto le buche, ascolta; in quel mare
un ragazzo giura il nostro matrimonio. E cade pellepergamena
222
alle ultime coppie che si riconoscevano
tra forme sole. Sbriciolano
indifferenti parole / crostepensiero
vecchio amorosa giovanotto:
- se vero è che noi siamo dita,
trova il cervello - solfeggia
la cantante al comico. Altre botole sollevano,
il teschio-suggeritore è una polena. Resti straniero
nato appena / sfrangiato / contro tutti
cordone rosso
croste croste / cala / nella comune / cappaliquame
vivi. Un faro piazza per liquide fontane
dove convitati celebrano banchetti:
e uno là, mentre gessoso
ancora ai poveri
sarà diviso il pane. Presto, vesti ricamate:
parte la danza (voi siete pastori, tu sei frutti)
- nell’acqualuce lascia i tuoi dolori,
maga, scendi. in platea,
guida il corteo di pazzi imbacuccati
posto per posto nella camiciaforza.
Gridano che li hanno liberati per dimenticare
gli occhi degli dei. Fatti nessuno
(viscidi scrittori, scoliosi
impiegati, chierici erettili)
soli si sono ritrovati
prigionieri con trecce di saggina. Ridi, bambina, ridi:
le botole rinchiudi,
ma per sempre maga tu sai
che di sotto corre l’universo. Perso
nei boschi dipinti è il mostro - immobile pietroso - dalla sua mano tu stacchi la faretra con quelle frecce incolli altre tele
sulle sorde uscite che sfiatano.
Nel riflettore puntato / il purpureo cardinale
gorgoglia / che ogni pensiero vola / con dita sottili
insegue / cantore e mandola / fra coppe vin gelato
e cortigiane. Lontane vigne
uva di collina
chicco chicco cristalli per confondere
l’immagine su quella terra
che ti sa valutare,
riconsegna una forma integra ai secoli futuri.
Non vogliamo che ci curi il teatro - urlano i pazzi niente salvezza,
il contagio è nostro. In corteggio
uno per uno / staccano / dal collo
la propria testa di marmo
in fila / tutte / le posano / sul boccascena
scricchiolante / si piega / apre un varco
al cranio-suggeritore al centro.
Braccia incatenate, tuttiapplauso
alzano il sipario
dai ballatoi si scioglie un sospensorio
il comico guizza solitario
erba senza padrone oscilla
il vecchio attore scalcinando
parole
come al vetturino il suo cavallo
ricorda puledro campi terra battuta
la cantante imposta sostenuta un ritmomarcia
amorosa attor giovane trascinano
armi elmi giurando
che ancora una volta sottocasa costruiranno
gabbie di cemento. - Dateci un momento
- gridano gli attori -
223
l’uomo che pensa è nudo.
Pèndule dai ballatoi.
il comico tira le bende: fogliemorte, ma i folli
con lunghissime mani
prendono il capo dèlle fasce.
Nasce una rete - tela senza tempo dalle balaustre fitte di figure
alle poltrone dove i decapitati ondeggiano.
- Cinque minuti, si comincia - il suggeritore sibila;
la maga infila il teschio nella luminosa
chioma di cometa
schioda due tavole / botola segreta:
genera genera genera
nel magma acqueo che brontola ribolle.
Sotto un cielo bende, fettucce rosicchiate
da tarli morti,
gli attori-dita sul palcoscenico
scoprono passi
fra pensiero e tempo
assieme legati nelle pastoie
di bianchi cavalli lipizzani. Ballerini
sotto i ballatoi / polvere spessa
ai granduchi sfatti stappano spumante,
i tappi di plastica posano
su marmoree teste di pazzi. Ragazzi tutti tornano
ridendo ballatoi e platea:
il caldo idolo-sogno
le membra sue, pietra serena,
nude mostra a un faretto. Il sogno
ai polsi suoi lega / la catena di folli insonnoliti
indossa la divisa / di una maschera in polpe
lisa come la carne / dei donatori di mance,
cittadini appollaiati in alto. Salto dopo salto
a sassi nel gatto-scheletro il comico inietta
cattiveria d’uomo. - Abbietta diventa, creatura,
sicuro il successo -.
Cantante e fanciulla feline disfano
i teli da bionde damine sminuzzate. - Cominciate
la recita-gridano i pazzi contro l’arabesco,
di pelle e olio e bende calcinate.
Blocchi di lava
groppi di granito
cozzano cupi sotto le tavole
alghe irritanti sugheri macchiati
il palcoscenico imbarca.
Sulle fasce delle mummie stese
dal giustacuore d’un dimenticato giusto
scivolano file di gesùgesso
scendono alle piante marine
accendono stelle-plastica tappi-spumante
(lo spettacolo più grande, signori, ecco l’inizio)
sulle teste dei pazzi
scheggiate ruvide di riflussi lenti. Attenti, attenti:
agli angoli del porto
ghiaia catramata e persa
a mucchi, eppur non trovi due sassolini uguali
e cosi dite nessuno pensa.
Uno per uno al boccascena
gli attori si presentano: in punta di scarpe
e il sogno scuote la saggina senza fine
da corpo a corpo scorre la catena
e tutto il teatro vibra
e l’idolo tre colpi dall’ingresso batte. Palcoscenico
e platea ad sono la gran mano bendata. Annunciata
questa recita, dita ribelli,
per tutti è stata.
224
La formica guerriera scatta
squama zigzagando
infiniti teli tra i riflettori e noi,
nel nido di piume ogni attore
trova la sua ultima faccia,
disperato parla.
V
In questo colmo palcoscenico,
gonfie di festoni e di passaggi
le vostre voci suonano. Sottocespugli
in un campo lontano
che sa di parathion, la tomba dell’esorcista
opera magici triangoli coi raggi: frasi
e battute tagliate dal mattino,
che come un’onda investe
gli incatramati sui ballatoi
i folli senza testa
legati all’idolo del sogno
e voi, attori, lucertole lucide dell’olio
che dietro le case distrutte dei Crescenzi
Michelangelo spalmava sulla barba di Mosè, gridando:
vecchio, la battuta. Tacque
il profeta pauroso del marmo, l’altro discese
a una bettola galleggiante sopra il Tevere
in eterno odor grasso cotto e piscio.
Liscio - scrostandolo - alzano - sul proscenio
lo specchio - si fissano - le teste folli
marmoree - si negano - le carrucole - stridono
la cantante infila una stecca
l’amorosa sfila la veste
come su perni le teste
ruotando fan cenno di no. - Feste, feste per tutti sibila il vecchio:
voi gesùgesso che saltate
da una fettuccia all’altra delle mummie (persino a voi
difficile è vestire fasce corrotte dai figli
di questitempi) datemi certezza:
la mia bocca / sia / vigna / dalle colonne / in pietra.
Passerò / da luce a buio / come il quadro
immobile dai treni sul computer;
adesso parlo per un tunnel lungo
più d’ogni benda di morto:
io vecchio attore / sono quel ragazzo / abbraccia
da sessant’anni / ghiaccio sottopinì / elmo perforato:
troppo vicini siete, corpi avviluppati in fasce
incerti come poveri soldati
nel panno intenti a ricercar pidocchi. - A me
mimano le dita. Su ogni collo di pazzo in poltrona
Satana bianchiccio del mattino
colloca una ci vetta addormentata. - Nulla
appartiene a voi,
anime in pena, merletti rugginosi ai ballatoi - Interpretateci, attori - intonano le mummie prima che torvafeccia il tino
come un occhio spaccato
vi riassorbisca. Noi sappiamo
di quel legno che galleggia
privato della barra
oltrecanneti fra Torcello e Aquileia
per fòlaghe e gabbiani sta l’uomo
remigante ultimo attore
al vento-veleni s’abbandona
cercando il palcoscenico-terra, migratore
di pelle di squame di memorie. -
225
Dai ballatoi decadono
frange di damasco e semprevivi peli.
Spumeggiano sul boccascena
teste di marmo,
le dita-teatro mentono annunciando
che chiuso per sempre è il panorama
nella scatola magica. Metamorfosi
dopo metamorfosi
comico cantante amorosa giovane vecchio
umidi abbracciati in esorcismi
richiamano il mortifero bisogno di finzione:
- questa divisione
assicura la perennità del mondo - certo c sprofondo
in un buio carico d’acqua se fischiate - spostate
quel faretto, bottone di luce
sul mio collo - possa tagliarlo
quel fiammingo boia
che perfetti santi disossava - ricava
marchio e moneta
il collare del meraviglioso - certo che oso
in equilibrio appeso a pugni dì fasce. - Gli attori
tacciono intimiditi / sotto la telamarcia
unico anello
manifesto
tra gli avi libertini / ed il pensiero infetto
che senza testa / si agita / in platea / incatenato
all’idolo del sogno. Il comico ha bisogno
di un tempo inevitabile
dove per vostra gioia
il ridicolo accorderà l’incubo,
nei moti dello stomaco e del sesso. Adesso
amorosa e giovane all’appuntamento
nello spiazzo dietro il cimitero:
nero velano / decorato
in pianticelle-salvia / secchesempre.
Questo è l’amore
un generale
crocevia
fra l’uomo la donna e l’aquilone.
Padrone resto di me, maga,
in luci gialle rosse turchine. Indovina perché,
spettatore che dentro la saggina
a fasci ritrovi incubi orfani mercenarie follie
e la cotenna buonsenso che macellai ostentano:
hanno labbra tumide i martiri
per un fiotto di bene che li guida
di letto in letto su carboni ardenti.
Lenti sulle pareti-mosaico
scivolano eterni (per l’oro che si scrosta)
verso le fiamme
dell’angelo ribelle. Acidi del nostro tempo
in viaggio - attori o dita, smalti precari
fra salti di coscienza di pressione di potere. Bere
con la maga nella coppa d’oro:
sotto palcoscenico - risacca - smog l’umido piacere del mattino sui capezzoli
e caffè e giornali, e guanciali spenti
e i tuoi occhi feriali
stretti in aghi di lavoro diffidente. Certo che sente,
quella turba di matti
(o palco quali brame deformi, quali esseri specchi)
se tu vuoi
vender le teste di marmo all’antiquario. Dai ballatoi
un giudice offre su una catena d’oro
grandi prese di tabacco. Quello che è fatto è fatto
ritorniamo uguali a noi / l’alba ha finito la recita
226
recidendo la carotide del pupazzetto-neve:
scivola, fiumana bianca, barba del padre
(oppure imbottitura sconcia per seggiole e sofà
della premiata ditta campi di sterminio? arte precaria
immacolata, soffia sui tizzoni, mostra
di che colore è il fumo).
Qui siamo venuti
con matte angosce e un infinito bianco.
Se stanco sei, graffiti
disegna sulle tavole
coperte ormai da alghe. La serena pietra del sogno
nella nebbia ripone le civette,
guida all’uscita la catena dei pazzi e li saluta
la cortina marina delle teste. Oltre il boccascena
le mummie
recuperano / con senile avarizia / i propri teli:
veli di ragno - veli di telaio - una baracca
quinte - fondali
dopo la vita. Vanno le dita
illuse di poter morire.
Attori, finire - disperati, esserci.
Sotto, acquadura
scherzo di natura
tuttagonfia luminosa pregna. Cancerosa
macchina celibe (fra infiniti meccanismi oscuri)
la mano si congiunge - acida ira forza inalterata –
alle dita adesso
che l’arcobaleno minaccia i ballatoi. Da sole
ritrovano la carne che il gattoscheletro
trascinò nel retropalco: palpitante molliccia infelice,
incompiuta come la prossima recita,
come l’occhio marino del cacciatore di vermi. Fermi,
ringraziano, incrostati nel tempo, fermi,
occhi-velario, mobili, corpo due gelatine rosse.
[Testi tratti da Fabio Doplicher, La notte degli attori (I Quad(r)erni di Artificiana - Carte segrete, Roma
1980). Per gentile concessione]
Notizia.
Fabio Doplicher, nato a Trieste nel 1938, vissuto a lungo a Roma, morto a Torino nel 2003, è stato poeta
ed autore di teatro, ha svolto anche attività critica, ha fondato la rivista STILB, curato antologie e
proposto in Europa la Poesia della Metamorfosi. Presente in varie antologie italiane e straniere, è tradotto
in una quindicina di lingue.
Libri di poesia: Il girochiuso (Roma 1970), La stanza del ghiaccio (Roma 1971), I giorni dell'esilio
(Manduria 1975), La notte degli attori (Roma 1980), La rappresentazione (Roma 1984), Curvano echi
dentro l'universo (Foggia 1985), L'edera a Villa Pamphili (Bergamo 1989), Esercizi con la mia ombra
(Marina di Minturno 1995), Compleanno del millennio (Aragno, Torino 2001). In dialetto in triestino,
sono uscite le raccolte El sburto (Circolo Culturale di Meduno, Pordenone 2003) e Viagiar a casa mia
(Marina di Minturno 2005, postumo). Numerosi i saggi critici sulla sua opera, oltre al libro di Remo
Pagnanelli (Di Mambro 1985) e alle antologie di Gabrio Vitali, La poesia, il volto, la lingua (Grafital,
Bergamo 1999) e La voce e la vela (ibidem, 2001). Si sono occupati della sua opera, fra i tanti, Ruggero
Jacobbi, Giuliano Manacorda, Silvio Ramat, Giacinto Spagnoletti, Giuseppe Zagarrio, Giorgio Caproni,
Luigi Fontanella, Dante Della Terza, Remo Pagnanelli, Elvio Guagnini, Giuditta Isotti Rosowsky, Giorgio
Voghera, Gabriella Ziani, il poeta romeno Marin Sorescu.
Con la poesia, Doplicher opera una “rilettura dei significati”, in tendendo l’opera poetica come costruzione
metaforica e insieme tensione epica nei confronti del nostro tempo. All’inizio degli anni Settanta, in un
periodo di negazione della parola, egli la ha proposta come creatrice di strumenti conoscitivi, come forma
di malattia che si propaga dentro l’istituzione sociale: quella del poeta diventa, in questa visione, una
liturgia dichiaratamente inattendibile, perciò liberatoria, che va dalla continuità del tempo, alla
concretezza dell’immagine, che si misura nella materia del presente. Anche nel campo della
drammaturgia, con tecniche diverse e sperimentali, Doplicher propone i temi del viaggio, dell’inquieto
rapporto col reale, verificando le valenze di un teatro già aperto nel testo all’invenzione dell’attore, con
una parola che sia immagine suono colore movimento. Così, vuoi legare il tema del viaggio precario della
nostra epoca con un bisogno di classicità in senso nuovo. Fra i numerosi copioni: “La discesa” (testo
227
vincitore del Premio del Cinquantenario della Rai “per il rigore della scrittura, tutta tesa ad esprimere una
inquietudine morale in una suggestiva progressione drammatica”, ed. Eri per il Premio Italia e Sipario,
realizzato per la radio (protagonista Renzo Ricci, musiche di Franco Donatoni, regia di Vittorio Melloni), “Il
comando”, regia di Fulvio Tolusso, “Un nido sicuro” (regia di Massimo Scaglione), “I congiurati del Sud”
(regia - di Roberto Guicciardini), pubblicato su Sipario, “Nergal-Ereshkigal” (regia Giorgio Pressburger),
pubblicato su Ridotto, “L’illusionista”, “La via della bora”, “Il favore dei potenti” (pubblicati su Ridotto, e
realizzati per la radio), “Della Notte”, una vicenda inquisitoriale del tardo Cinquecento che ruota intorno al
processo di quattro pellegrine, pubblicato su Sipario, “L’isola dei morti, variante” messa in scena da
Giancarlo Nanni con la Fabbrica dell’Attore, “L’XI giornata del Decamerone”, testo di Fabio Doplicher,
elaborazione scenica di Fabio Doplicher e del regista Roberto Guicciardini, realizzato in collaborazione col
Gruppo della Rocca, ecc. In campo critico collabora anche, oltre alla riviste citate, a Produzione e Cultura,
Rivista italiana di drammaturgia, La nuova rivista europea, ecc.
Ha scritto inoltre vari racconti, pubblicati e trasmessi per radio. Ha collaborato con testi a cicli e rubriche
radiofoniche; è autore di originali televisivi.
LA NOTTE DEGLI ATTORI, è un poemetto che, portando il teatro dentro la poesia, usa anche di termini
scenici, quali “gelatina” (i fogli trasparenti per filtrare e colorare la luce dei riflettori), “americana” (lo
stangone trasversale appeso alla soffitta che regge le batterie dei riflettori), “panorama”, “praticabile”,
ecc., che si danno per conosciuti.
228
POEMETTO A DUE VOCI: IL CORO E MARINA CVETAEVA
di GABRIELA FANTATO
La voce nel bianco
- Marina Cvetaeva, l’ultima notte (Russia 1941)
(Ombra
La difesa si è fatto barriera,
hai la porta chiusa
e nella casa i muri crescono
da dentro.
Un angolo esatto ti copre
le spalle da tutti gli sguardi.
La casa e la finestra,
il buio dell'esterno dentro il giorno,
nella persiana chiusa nell'angolo
dove avevi deciso
di restare
(Marina)
Consumo le mani per afferrare
i giorni come una volta
sapevo l'estate che scava
l'abbraccio
- un sorriso e la promessa.
Si fanno gonfi i piedi immobili
nell'attesa di sapere
- il muro è bianco, sempre più bianco
e solo.
Più di quanto avrei pensato
dieci anni fa
La casa si è scavata le radici
nella tua lingua
dove il vento è urlo senza saperlo,
senza volerlo.
L'abitudine ai giorni
– una linea nella stanza dove dormi
e quella semplice del cibo.
Le tue parole salvano
il bianco nei polsi credendolo
vita davvero
Sottilissima la terra che amavo
si è ristretta,
e non so più camminare.
La stanza è uno spazio assediato,
le facce, le facce sono
lo specchio concavo di me.
La voce che ordina sale
dentro i polsi, batte
e parla della tempesta
- un oceano, un'inondazione
229
La pagina nasconde l'assoluto del gesto,
una forma scura,
non più la sentenza strappata
con forza ostinata ai giorni.
Resta solo l' ultimo giudizio,
puro e intatto.
Non pensi – ascolti l'incarnazione,
il suo esistere sottile
in ogni cosa là fuori
Come il leopardo vengo da spazi
immensi di fame,
esisto e rinasco dentro la voce
ogni giorno, ogni ora.
Della pietra – non so,
non so ancora il nome
e dirla questa gioia, questa paura
Sei sulla terra con il corpo
orfano e spietato come solo i bambini.
Cerchi l’allegria nelle labbra.
A ogni risveglio sai
il punto – esatto tra luce e buio,
dove la casa è nido,
un ritorno e quella paura che non lascia
i giorni
Cerco l’oblio di me
nell’immobilità dove tutto
rischiara il gesto.
Lo feconda.
La mia mente è stanca da tempo
– ha continuato la legge dispari,
una lotta di amore e verità.
Adesso lo so, solo incontrandolo
il mattino è un dono
per il dopo
Questo il disegno,
tu qui – esposta come la roccia all’onda,
al suo levarti pezzo su pezzo.
La parola è una punizione
cui non puoi resistere
senza scelta, senza limite e pace.
Hai lasciato tutto: la terra,
questa patria e l’ombra a nascondiglio
dentro l’infanzia.
Non avere paura, segui il passo,
puoi risalire dove era iniziato
Sono uscita dalla grotta dentro il petto,
dentro il respiro.
So il dono della casa,
la memoria dei muri e l’eco,
230
l’inutilità di ogni domanda.
La distanza tra le due rive è
sottile come solo la vita.
Senza protezione.
Non avanzo pretese, non posso
Solo il buio ti offre soddisfazione,
le necessità di sempre.
Volevi – essere
nient'altro, un imperativo battuto dall'urlo,
scritto dentro il tempo.
La fine ti è cresciuta in grembo,
come un figlio, come la vita.
Hai vinto adesso,
hai preso l'arma – la tua salvezza
La barriera, c’era la barriera
fino a questo momento.
Adesso non serve più,
non è difficile, adesso.
La luce domani dirà a tutti
– è solo dedizione la mia,
un gesto giovane di chi è
più forte del tempo.
Domani chi non capisce
parla con la voce del notiziario.
Resta la parola – questa vita
Notizia.
Gabriela Fantato, poetessa e critica. Le sue opere sono presenti in varie antologie e siti letterari, anche in
traduzione in inglese, francese, spagnolo e persiano. Raccolte poetiche: Fugando (Book editore, 1996);
Enigma (DIALOGOlibri, 2000); Moltitudine (Marcos y Marcos, 2001); Northern Geography (Gradiva
Publications, 2002); Il tempo dovuto (editoria&spettacolo, 2005); Codice terrestre (La Vita Felice, 2008)
e le plaquettes d’arte Forse una geometria (Fiori di Torchio, 2005) e La profezia era il mare (Grafiche
Farina, 2006). Per il teatro ha scritto libretti d’opera in versi andati in scena nei maggiori teatri italiani.
Dirige la rivista di poesia, arte e filosofia “La Mosca di Milano”e la collana di poesia e critica letteraria
“Sguardi”, per le edizioni La Vita Felice di Milano.
231
Mi piace pensare a Fluxus, con le sue provocazioni e i suoi paradossi, come al movimento esattamente
opposto all’estetismo. Non si tratta qui infatti di fare della propria vita un’opera d’arte ma, al contrario, di
“rendere l’arte vita” abbattendo, post-duchampianamente, le barriere tra le due. Come auspicava John
Cage, tra i padri putativi di Fluxus: “L’arte è in procinto di diventare se stessa: vita”. E ciò non potè esser
fatto che riflettendo criticamente, e in modo assolutemente radicale, sui modi di produzione dell’arte e sui
concetti di canone, di istituzione e di sistema; denunciando, anche attraverso soluzioni ironiche, il
tentativo di tutta l’estetica precedente di riscattare la vita e il reale attraverso un qualsiasi ordine
formale.
Fluxus, affermando di voler far aderire l’arte alla vita, volle piuttosto far prevalere la prosa bruta del
mondo sulla Ppoesia. La sua strategia consisteva nello sviluppo di processi di esperienza e di conoscenza
che non passassero attraverso uno stile o un lavoro artistico, non innescassero rimandi metaforici e,
propriamente, non portassero alla realizzazione di oggetti-opere. La costellazione eterogenea di artisti
che a partire dagli anni’60 aderì a questa avanguardia sui generis, amava per lo più esprimersi con gli
“eventi”, sorta di giocosi spartiti performativi, a metà tra il teatro e una sorta di “poesia degli enunciati
imperativi”, che, grazie alla brusca eliminazione di ogni convenzione di genere e di ogni genealogia
stilistica, problematizzando a vari livelli i segnali di artisticità e le stesse cornici finzionali che istituiscono
la distinzione tra produzione, opera e fruizione, intendevano perseguire l’utopia di un’esperienza non
mediata. Ho qui raccolto molti eventi storici di Fluxus, come documento di una stagione artistica radicale.
Alessandro Broggi
Events by Dick Higgins
Danger Music Number One
Spontaneously catch hold of a hoist hook and be raised up at least three stories.
April 1961
Danger Music Number Two
Hat. Rags. Paper. Heave. Shave.
May 1961
Danger Music Number Nine
(for Nam June Paik)
Volunteer to have your spine removed.
February 1962
Danger Music Number Eleven (for George)
Change your mind repeatedly in a lyrical manner about Roman Catholicism
February 1962
Danger Music Number Twelve
Write a thousand symphonies.
March l962
Danger Music Number Fourteen
From a magnetic tape with anything on it, remove a predetermined length of tape. Splice the ends of this
length together to form a loop, then insert one side of the loop into a tape recorder, and hook the other
side over an insulated nail, hook, pencil or other similar object, to hold the tape and to provide the
minimum of slack needed for playing of the loop. Play the loop as long as useful.
May 1962
Danger Music Number Fifteen (for the Dance)
Work with butter and eggs for a time.
May 1962
232
Danger Music Number Seventeen
Scream! Scream! Scream! Scream! Scream! Scream!
May 1962
Danger Music Number Twenty- Nine
Get a job for its own sake.
March 1963
Danger Music Number Thirty-One
Liberty and committee work!
March 1963
Danger Music Number Thirty-Two
(for George Maciunas)
Do not abide by your decision.
April 1, 1963
Danger Music Number Thirty-Three
(for Henning Christiansen)
Have a ball show.
May 1963
Judgment for String and Brass
A brass musical instrument, string, and a performer are required for this piece.
The performer slowly wraps the brass instrument in the string, exercising the greatest economy of
movement.
Spring 1963
Anger Song Number 6 ('Smash')
1. Inviting the people to come free, if they bring whistles and hammers.
2. Arraying and hanging as many breakable images around the room as possible -- fine bottles,
decanters, flower pots and vases, busts of Wagner, religious sculptures, etc.
3. When they come, explaining the rules: a) They surround the ringleader. b) He turns, ad lib. c) When
he has his back to anyone, this person is as silent as possible. d) When he has his side to anyone, this
person blows his whistle repeatedly, not too loud. e) When he faces anyone, this person blows his whistle
as loudly and violently as possible. f) When he actually looks into anyone's face, this person smashes an
image with his hammer.
4. Continuing from beginning until all of the images are smashed.
Summer 1966
From Twelve Lectures about the Same Thing or Bartenders Who have no Wings
Act Three
A cigar store. An Apollo emerges from behind the counter. He says, 'I am not really an APOLLO.'
Act Six
A very pretty naked girl. After a time she notices that she is naked and is somewhat embarrassed.
Act Seven
A man with a Belgian flag, a woman with a Greek flag, and a man with a Guyanese flag. The man with
the Belgian flag says, 'This is not a Cuban flag.' The woman with the Greek flag says, 'This is not a
Guyanese flag.' The man with the Guyanese flag says, 'I am not French.'
May 31, 1966
Constellation No. 4
A sound is made. The sound is to have a clearly-defined percussive attack and decay (such as produced
by plucking strings, hitting gongs, bells, helmets or tubes). Each performer produces his sound efficiently
and almost simultaneously with other performers' sounds. Each sound is produced only once.
Date unknown
233
Events by Robert Bozzi
Choice 1
The performer enters the stage with a tied parcel, places it on a table, and opens it to take out a whipped
cream cake with 10 candles. He lights the candles, then blows them out. He picks up the cake, shows it
to the audience, then flings it into his own face.
1966
Choice 3
A piano is on stage. The performer enters wearing a crash helmet. He takes a stage position as far from
the piano as possible. He lowers his head and dashes toward the piano at top speed, crashing into the
piano with helmeted head.
1966
Choice 5
2 pianists sit behind 2 pianos. They depress the pedals and crash the pianos into each other several
times.
1966
Choice 8
The performer enters with a violin case. He removes a violin and a saw from the case. He saws the violin
in half, places the pieces and the saw in the case, closes the cases, bows and exits.
1966
Choice 9
Two performers fight between themselves using two violins as if the violins were swords, axes or clubs.
1966
Choice 10
Four performers are divided into two teams. They draw lots for one violin. The winning team plays the
violin while the other team tries to gain possession of it.
1966
Choice 12
Two teams of performers compete against each other by pushing a piano from opposite sides.
1966
Choice 12, Variation
A piano or any other musical instrument is hitched between two horses (oxen, elephants, tractors, etc.).
These pull in opposite directions until the instrument breaks into two halves.
1966
Choice 15
A performers executes the following actions in succession:
1 nails down the great cover of a piano;
2 plays an extremely extended low note
3 strikes the keys with his fists alternating 4 low note strikes with 4 high note strikes
4 nails down the keyboard cover
5 lifts the end of the piano with the low notes and lets it drop
6 kicks at the end of the piano with the high notes
7 opens both of the piano covers with the claws of a hammer
1966
Choice 16
A piano is lifted by means of a windlass to the height of 2 meters and then dropped. This is repeated until
the piano or the floor is destroyed.
1966
234
Choice 18
Performers use mirrors to show the audience to itself.
1966
Concerto No. 3
On signal from the conductor, each section of the orchestra performs one of the following actions in
unison:
turn heads from side to side;
stand up or sit down;
open or close mouths;
turn around;
move arms and legs;
blow noses;
look at watches;
scratch in various spots.
1966
Concerto No. 1
On signal from the conductors, each section of the orchestra performs one of the following actions in
unison:
tie or untie neckties;
unbutton or button up shirt sleeves;
roll up or roll down sleeves;
comb hair;
brush clothes.
Each movement should accelerate in tempo and stop suddenly.
1966
In Memoriam to George Maciunas No. 1
A performer in a bowler hat sits behind a table on which a metronome has been placed with a nebulizer.
The metronome is set at andante or 60. In time with the beat of the metronome, the performer
alternately salutes the audience and sprays his own throat with the nebulizer.
1966
In Memoriam to George Maciunas No. 2
Performers position themselves in a semi-circle. The first performer operates a perfume nebulizer; the
second, throat nebulizer; the third, a fertilizer sprayer; the fourth, an insecticide sprayer. The operate the
equipment toward the audience following a pattern determined in advance.
1966
In Memoriam to George Maciunas No. 2, Variation
Equal numbers of performers wearing gas masks sit in teams opposite each other. A balloon is placed
between the two groups. Performers operate various sprayers such as perfume nebulizers, deodorant
sprayers, disinfectants, insecticide sprays, paint or any other sprayers in pressurized or hand-pumped
devices. Sprayers are operated toward the balloon. Each group tries to push the balloon away from its
side and over to the other team. The piece ends when the balloon reaches one group.
1966
A Piece for Chieko Shiomi
Performer lets the following objects fall from his hand in succession:
1 cigarette from horizontal outstretched arm in standing position
2 eraser from horizontal outstretched arm in standing position
3 hat from vertical outstretched arm in standing position
4 glass of water from horizontal outstretched arm while standing on stool or top of ladder
5 airmail envelope from vertical outstretched arm standing on a stool or top of ladder.
1966
235
A Piece for Chieko Shiomi, Variation
Performer lets the following fall:
1 spittle from prostrate position
2 ear wax from supine position
3 mouthful of water from kneeling position
4 hat worn on back of head from backward inclined standing position
5 dandruff from forward inclined standing position
6 trousers from standing position
1966
Music Piece for Erik Dietman
Orchestra members cover their instruments with bandages or adhesive tape.
1966
Events by Bengt af Klintberg
Theater
Act One
The stage represents a room, that once was a hen-house, as can still be seen from some equipment,
hens, eggs, and hen-shit. The room is furnished in heavy Empire style. In one corner are a shit-covered
plastic bust of Bismarck with one mustache-tip broken off and a tremendously dry, brown Christmas tree
in the other corner, decorated with one colored glass ball and some cardboard angels. Behind a sofa, an
organ is vaguely visible, incessantly attacked by a boy with a healthy, even rubicund look. In the middle
of the floor, a big ice block is slowly melting.
Act Two
Soft-boiled eggs and paper plates.
Act Three
Same as act one, but in the evening. The whole stage seems to have turned slightly to the left. Moonlight
strains in through branch-holes and key-holes. On the Christmas tree a dying candle is dripping. Some
springs have shot up through the sofa cover, the broken-off mustache tip is clumsily mended with blue
modeling clay. In the distance, we hear an eighteen-shot salute, but on stage nothing happens.
1960
Lettuce Music for Sten Hanson
The piece requires two performers, a head of lettuce on a music rack, a whistle and a small charge of
xplosive.
Short signals on whistle.
Head of lettuce explodes:
A green rain. Long signal on whistle.
1963
From Twenty-Five Orange Events
Orange Event Number 1 (for Kerstin Aurell)
Try to find out which musical instrument you would first connect with an orange. Play it, as long as you
like. Or pretend to play it for the corresponding time.
Orange Event Number 3
Peel an orange carefully and arrange pigs in a row. Choose one of the pigs.
Orange Event Number 4
Peel an orange carefully and place pigs here and there in the apartment. Eat them when you happen to
pass.
Orange Event Number 7
Eat an orange and at the same time, listen attentively: to sounds of chewing, of sucking, of swallowing
and external sounds that may occur.
Orange Event Number 8 (for Pi Lind)
Eat an orange as if it were an apple. (Hold it, unpeeled, between forefinger, middle finger and thumb,
bite big mouthfuls, etc.)
236
Orange Event Number 10
Use at the same time an orange and a lemon, an orange and a die, an orange and a bucket, an orange
and an apple, an orange and a phonograph, an orange and a shoe, an orange and a tangerine, an orange
and an organ and a ski-track, or an apple and an umbrella.
Orange Event Number 12 (for Staffan Olzon)
Fill all the drawers of a chest to the brim with oranges and depart for another part of the world.
Orange Event Number 15
For umbrella, orange and sewing-machine.
Orange Event Number 16 (for Åke Hodell)
Regard two or three oranges for a long time.
Orange Event Number 17 (for Folke Heybroek)
Leaning over a bridge parapet, look down into the water whirls of the Stockholm Stream. Between your
two hands, roll an orange so that the peel becomes soft and will easily come loose from the orange. Quite
often, you will hear the rattle of trains that are passing over the railway bridge in the neighborhood. At
certain junctures you will also hear the bells of at least three churches ringing. When these two sounds
reach you at the same time, start peeling the orange and let the peels fall down into the water.
Orange Event Number 20
Paint an orange white and place it together with other oranges in a white bowl.
Orange Event Number 21
Roll an orange over a floor, covered with hens' feathers.
Orange Event Number 24
Stay for a long time in a room in which there is silence. Breathe silently, move silently if you move. At a
time that you choose yourself, crack a nut.
Orange Event Number 25 ("Proposition")
Make a fruit salad of oranges and nuts and serve it.
1963-1965
2 Exhibitions
1. Ice
Some days after the break-up of the ice, one can find large ice sheets floating in the northern creeks of
the lakes. Lifted up in the air, these half-melted sheets will often show an extraordinary beauty. There
are holes in most of them, which makes it possible to hang them on dry spruce-branches.
Go up one morning and decorate the forest with ice and let the opening start soon after. There should be
a number for each piece of ice. The opening guests are served sherry.
1965
2. Mold
The hot summer is the best season. At various times one puts old pieces of bread into a number of bread
boxes in gay colors. Let them stand with closed lids for some time. Now and then one checks how the
mold is developing. At an interesting and beautiful phase, one makes an exhibition. Have a number for
each box. Instead of sherry, serve vin rosé.
1963
Three Magic Events
Number 1 (to make a couple enemies)
Take an egg and boil it hard and write a couple's names on it. Then cut the egg in two pieces and give
one of the halves to a dog and the other half to a cat.
Number 2 (against rats in the barn)
When the first load of grain is carted in, those who are standing in the barn ask:
"What are you bringing here?"
"We are bringing a load of cats!"
Now ask what the rats shall have to eat.
"Stone and bone and henbane-root."
The first load is brought in during as dead silence.
During the following loads one talks about cats all the time.
Number 3 (for white washes)
237
At the washing a person who comes in shall say:
"I saw a swan."
Then the clothes will be clean and white. On the other hand the whole wash
will be spoiled if he says: "I saw a raven."
1965
(from Bengt af Klintberg's Svenska Trollformer)
Streetcar Random (music for any number of participants)
One used streetcar ticket is given to each participant. On the cross-ruled ticket, there are squares for day
and hour, each of which indicates one beat. The length of the beats is decided by each participant, who
also determines how he wants to read the ticket: horizontally or vertically, to the right or to the left. It is
expedient that he keep to the chosen reading during the whole performance. The uncut squares indicate
pauses, the squares where the streetcar conductor has cut a round hole indicates one beat of sound. The
source of the sound is optional. The piece is over when the last participant has become tired.
Suggested sources of sound: symphony orchestra; car horns.
1965
Calls (Cantos 1-6)
Calls, Canto 1 (If You Catch Sight of a Friend in the Distance)
If you catch sight of a friend in the distance: go towards him calling out loudly. Let the calls ring out.
Answer his calls. Develop the structures of his calls. Desirable development: from very simple to very
complex calls.
(Can be performed in public libraries, lecture halls, churches, central stations, civil service departments
and in outdoor places under an immense blue sky.)
Calls, Canto 2 (Stage Version of Canto 1)
At the beginning of the piece one performer stands in the left back corner, the other in the right back
corner of the hall. Calling out loudly to each other, they advance toward the stage. Desirable
development: from simple calls to very complex calls. The piece is over when they meet on the stage.
Calls, Canto 3
Two persons, one standing on the south side of a large lake -- a least 1 kilometer apart -- the other
standing on the north side of the lake, talk to each other.
Calls, Canto 4 (Hello-Chorus)
A party of about 100 persons walk out into a forest at sunrise, climb up to the treetops and call and sing
a hello-chorus.
Calls, Canto 5 (Telephone Call)
Make a telephone call in a bathtub, talking with you lower lip under the water surface and your upper lip
over it. The piece requires a long telephone cord.
Calls, Canto 6 (Letter)
Open an empty envelope with both hands and talk loudly into it. Then close the envelope quickly and
post it to anyone whom it may concern.
December 1965 - June 1966
Two Flag Events
1. In Copenhagen (for Ibi)
A big Danish flag is tacked to a wall.
Paint the white cross yellow.
Drink a Tuborg (or a Carlsberg)
Paint the four red squares blue.
2. Demonstration
Arrange a demonstration march with flags. If it is a sunny day with light blue sky, the flags shall be light
blue. If the sky is white, the flags shall be white. Gray sky: gray flags.
December 1965
Seven Forest Events
Forest Event Number 1 (Winter)
Walk out into a forest when it is winter and decorate all the spruces with burning candles, flags, apples,
glass balls and tinsel strings.
Forest Event Number 2
Walk out into a forest a wrap some drab trees, or yourself, in tinsel.
Forest Event Number 3
Climb up to a treetop with a saw. Saw through the whole tree-trunk from the top right down to he root.
Forest Event Number 4 (Danger Music for Henning Christiansen)
238
Climb up into a tree. Saw off the branch you sit upon.
Forest Event Number 5 (The Lumberjacks' and Pikers' Union)
"Charlotte Moorman exchanged the sandpaper for a wood-saw, but using that sawing technique, she
would have been sacked from the Lumberjacks' and Pikers' Union."
Forest Event Number 6
Walk out of your house. Walk to the forest. Walk into the forest.
Forest Event Number 7
When you walk into a forest, don't forget to knock.
1966
Untitled Event
Smear yourself and a blue satin umbrella with ashes and apricot jam; embrace a sleeping person.
1967
Event for an Unknown Person
A love letter on a bicycle carrier.
1967
Party Event
Send invitations to all your friends -- except one -- with the following:
green party green clothes
And to one person:
red party red clothes
1967
Plan Against Loneliness
Some yellow seats in all parks, squares and subway trains, where people who want to be talked to can sit
down. Do this in every city all over the world.
1967
Events by Ay-O
Rainbow No. 1 for Orchestra
Soap bubbles are blown out of various wind instruments. The conductor breaks the bubbles with his
baton.
Date unknown
Rainbow No. 1 for Orchestra, Variation
Soap bubbles are blown out of various wind instruments. The conductor cuts
the bubbles with a samurai sword.
Date unknown
Rainbow No. 2 for Orchestra
A totally inexperienced orchestra plays a 7 note major scale on various instruments.
Date unknown
Exit No. 1
The audience must pass through a vestibule that has been covered with upward protruding nails except
for a few areas left open in the shape of footprints.
Date unknown
Exit No. 2
The audience must pass through a vestibule across which many ropes have been stretched at knee
height.
Date unknown
239
Exit No. 3
The audience must pass through a vestibule with a floor covered with foam rubber impregnated with
soap suds.
Date unknown
Exit No. 4
The audience must pass through a vestibule with a floor covered with mirrors.
Date unknown
Exit No. 5
The audience must pass through a vestibule with a floor covered with wood blocks of various shapes and
sizes.
Date unknown
Exit No. 6
The audience must pass through a vestibule in which the ceiling has been lowered to a height 2 feet (70
centimeters) above the floor.
Date unknown
Exit No. 7
The audience must pass through a vestibule with a floor sloped upward and downward at about 30
degrees.
Date unknown
Exit No. 8
The audience must pass through a vestibule where the floor has been covered with inflated balloons
prepared to burst on contact.
Date unknown
Events by Eric Andersen
Opera Instruction
An occurrence or part of an occurrence is recorded and played back.
1961
Opera Instruction
Do and/or don't do something universally.
1961
Opera Instruction
The following frequencies are played as piano frequencies:
(all C's simultaneously on the piano, etc.)
C - D flat - D - E flat - E - F - G flat - G - A flat - A - B flat - B
1961
Opera Instruction
1 Two persons are situated on the stage. One of them pronounce the sound "A."
2 (Optional) The person who started with the sound "A" is only allowed to pronounce the sound "B." The
other person is only allowed to pronounce the sound "C."
3 The performance is finished when one of the persons pronounces the sound "D."
1961
Opera Instruction
To call by opus and a number.
1961
240
Opera Instruction
Announce 'X.'
( Perform 'X' )
Announce that ......................... ( 'X' or 'Y' ) took place in the same period.
1961
Opera Instruction
Dec. 11, 1963: Sit down from 7 PM to 8:03 PM (Danish Time) and think about the people all over the
world who may be performing this.
1961
Opera Instruction
1 Select some objects which address themselves to your acoustic imagination.
2 Play with them according to a predetermined system.
1961
Opera Instruction
The frequency a'''' is played as a violin frequency for 30 seconds at intensity pp. Each year which passes
after the first of April 1962 involves that the duration for which the frequency is played is lengthened by
5 seconds.
1961
Events by Albert M. Fine
Ice Cream Piece
Performer buys an ice cream cone and then (a) eats it, or (b) gives it to a stranger, or (c) waits until it
melts completely, then eats the cone, or (d) on finishing the piece, buys another ice cream cone.
1966
Piece for George Brecht
Enter the Sistine Chapel by the nether door.
Survey the ceiling on the lintel.
Exit by the hether door.
Date unknown
Fluxus Piece for GM
2 events are advertised at 2 adjacent locations. Audience is brought into the same hall by separate
entrances. The audiences are separated from each other by a curtain. For the performance, the curtain is
raised.
Date unknown
Piece for Ben Patterson
Construct a piano with the treble on the left ascending to the bass on the right. Play all the old favorite
classics.
Date unknown
Clothespin Piece
Performers inconspicuously attach spring-type clothespins to various objects in the street.
Date unknown
Concerto for Solo Piano and Performer
Performer removes a different item from himself for each of the 88 notes: top hat, tie, shoe laces, pen,
handkerchief, etc.
Date unknown
Events by Ken Friedman
Fruit Sonata
Play baseball with a fruit.
241
1963
Whoop Event
Everyone runs in a large circle, accompanied by a strong rhythm. On every beat, all whoop or yell in
unison. May also jump or raise arms to mark time.
1964
Christmas Tree Event
Take a Christmas tree into a restaurant. Place the tree in a seat next to you. Order two cups of coffee,
placing one in front of the tree. Sit with the tree, drinking coffee and talking. After a while, depart,
leaving the tree in its seat. As you leave, call out loudly to the tree, "So long, Herb. Give my love to the
wife and kids.!"
1964
Anniversary
Someone sneezes.
A year later, send a postcard reading, "Gesundheit!"
1965
Cheers
Conduct a large crowd of people to the house of a stranger. Knock on the door. When someone opens the
door, the crowd applauds and cheers vigorously.
All depart silently.
1965
Zen is When
A placement.
A fragment of time identified.
Brief choreography.
1965
Fluxus Instant Theater
Rescore Fluxus events for performance by the audience. A conductor may conduct the audienceperformers.
1966
Stage Reversal
Go on stage naked, covered with paint.
Wash.
Dress and leave stage.
1966
Zen Vaudeville
The sound of one shoe tapping.
1966
Fruit in Three Acts
1. A peach.
2. A watermelon.
3. A pear.
1966
Orchestra
The entire orchestra plays phonographs.
1967
242
Empaquetage pour Christo
A modest object is wrapped.
1967
Twenty Gallons
Cook soup for the entire audience.
Serve it.
1967
Homage to Mike McKinlay
Eat hot peppers and pickled foods of a spicy nature.
1968
White Duck Event
Sewn.
Glued.
Bound.
1970
Loss
Lose tools or useful objects.
1971
On a Jungle Path
A gate is built.
Songs are sung.
Performer passes through gate.
1972
Stamp Act
A nude model is entirely stamped with images generated by rubber stamps.
1974
Variation for Food and Piano
A piano is prepared with food.
(The piano may be played.)
1982
Explaining Fluxus
Explain Fluxus in five minutes or less, using a few simple props.
1986
Homage to Mahler
A symphony is performed. The different sections of the orchestra march on and off stage as they
perform.
1989
Viking Event
Performers enter from stage right and stage left. Each stands at the far edge of the stage. One shouts,
"Hail, Ragnar!" The other shouts back, "Hail, Einar!"
1989
243
Events by George Brecht
Drip Music
For single or multiple performance. A source of dripping water and an empty vessel are arranged so that
the water falls into the vessel.
1959
Drip Music, Second Version
Dripping
1959
Drip Music, Fluxversion 1
First performer on a tall ladder pours water from a pitcher very slowly down into the bell of a French horn
or tuba held in the playing position by a second performer at floor level.
1959
Time-Table Event
To occur in a railway station.
A time table is obtained. A tabulated time indication is interpreted in
minutes and seconds (for example, 7:16 equals 7 minutes and 16 seconds).
This determines the duration of the event.
1961
Incidental Music
Five piano pieces, any number of which may be played in succession, simultaneously, in any order and
combination, with one another or with other pieces.
1. The piano seat is tilted on its base and brought to rest against a part of the piano.
2. Wooden blocks. A single block is placed inside the piano. A block is placed upon this block, then a third
upon the second, and so forth, one by one, until at least one block falls from the column.
3. Photographing the piano situation.
4. Three dried peas or beans are dropped, one after another, onto the keyboard. Each such seed
remaining on the keyboard is attached to the key or keys nearest it with a single piece of pressuresensitive tape.
5. The piano seat is suitably arranged and the performer seats himself.
Word Event
Exit.
1961
Word Event, Fluxversion 1
The audience is instructed to leave the theater.
1961
Tea Event
preparing
empty vessel
1961
Tea Event, Fluxversion 1
Distill tea in a still.
1961
Two Durations
red
green
1961
244
Two Elimination Events
empty vessel
empty vessel
1961
Two Vehicle Events
start
stop
1961
Three Telephone Events
When the telephone rings, it is allowed to continue ringing until it stops.
When the telephone rings, the receiver is lifted, then replaced.
When the telephone rings, it is answered.
1961
Three Lamp Events
on. off.
lamp
off
Events by Joe Jones
Duet for Brass Instruments
Rubber gloves are placed over bells of brass instruments and tucked inside Two performers play duet
while gloves emerge from instruments and expand. Variation may be performed using inflatable leg.
Date unknown
Piece for Winds
A rubber inflatable glove or leg is stretched over the rim of the instrument and stuffed inside the bell.
Performer blows into instrument inflating the glove or leg, making it emerge slowly from the bell. It
expands slowly, finally shooting out of the bell toward the audience.
Date unknown
Dog Symphony
Dogs are admitted to the audience. The orchestra is equipped with dog whistles. On signal from the
conductor, the whistles are blown and played while the dogs bark.
Date unknown
Mechanical Orchestra
Self-playing, motor-operated reeds, whistles, horns, violins, bells and gongs play predetermined,
dynamically variable and continuous tones for a determined length of time.
Date unknown
Events by Milan Knizak
Fashion
Cut the coat along its entire length.
Wear each half separately.
1965
Snowstorm No. 1
Paper gliders are distributed to an idle and waiting audience.
1965
Snowstorm No. 2
A great quantity of paper flakes or crushed expanded white polystyrene is dumped from a rooftop during
a windy summer day.
245
1965
Flour Game
At the same time every day, using the same words, in the same store, for 100 days, you purchase 10
dkg. of flour (approximately 1/4 pound).
On 101st day, you buy 1 q. (200 pounds) of flour.
For the next 100 days, buy l0 dkg. (1/4 pounds) again. On 202nd day, buy 1 q. (200 pounds) And again,
and again, and again.
With the flour, mold a big cone. The one who makes the biggest cone is the winner.
1965
Cat
Get a cat.
1965
Line
A line is drawn on the sidewalk with chalk. The longest line wins.
1965
Glider
Fold a 2-yard paper bird (paper glider).
1965
Jewelry
Make a list of all articles about 20 - 40 cm. large which are at your disposal. Also make a small arrow or
dart with a sharp point. Mark some names of articles on your list and attach the list, face down, to a
board. From a given distance, shoot your arrow. Whose arrow pierces the marked name of the objects,
that person will wear the object on his or her chest as jewelry for the entire following day.
1965
Game of Artist
On the wall of your room, just under the ceiling, nail 100 small hooks spaced at about 5 cm apart. Twist
strings around them. To their ends, tie a fork, scissors, shaver, candlestick, bottle, shoes, ladle, clothes
hanger with a jacket, etc., etc. ..............Create new arrangements (pictures) again and again by pulling
and shifting.
1965
Aktual Clothes
Cut a circle into all parts of your clothing.
1965
Sunday Event
A broom (or some other thing) is tied to the end of a string about 3 yards long. Then it is pulled behind
all over the busy streets on a Sunday.
1965
Walking Event
On a busy city avenue, draw a circle about 3 m in diameter with chalk on the sidewalk. Walk around the
circle as long as possible without stopping.
1965
Smile Game
Say hello to every pretty girl you meet. If she replies with a smile, you get a point. The one with the
most points wins.
246
Events by Lee Heflin
Fall
Throw things that are difficult to throw because of their light weight.
Date unknown
Ice Trick
Pass a one pound piece of ice among members of the audience while playing a recording of fire sounds or
while having a real fire on stage. The piece ends when the block of ice has melted.
Date unknown
First Performance
Performer enters, bows, then exits. This is executed once for every member of the audience.
Date unknown
Events by Larry Miller
Figure/Ground
Wear white clothes and skid into the landscape.
1968(89)
Chewed Drawing
Chew a nice piece of notebook or drawing paper.
1968(89)
Mud Drop
A large heap of mud is dropped from a height onto an egg placed on the ground.
1969
Bag Exchange
On a given day, everyone is asked to bring a brown bag with an object of their choice in it. An area is
designated to contain the bags. At the end of the day, the bags are distributed at random.
1969
Patina
Urinate on an egg until it has a nice patina or until it explodes.
1969(89)
Bit Part for Audience
Each word of a poem is written on separate cards passed out to the audience, who perform them in
sequence.
1969
Playmate
Teeter-totter with your own weight in carrots.
1969 (89)
100 Yard Run
Runners proceed to the 50-yard mark by taking 3 steps forward and 2 backward; and from the 50-yard
mark back to the starting line by taking 3 steps backward and 2 forward.
1970
100 Yard Metronome Run
Runners may only take a step when they hear a designated sound such as an amplified metronome or
music. Only one foot may touch the ground at any time.
1970
247
200 Yard Candle Dash
Each runner carries a lighted candle. He must stop to light it if it goes out. Nothing may be carried to
protect the flame.
1970
220 Yard Balloon Dash
All runners have as many inflated balloons as possible tied to their bodies. Once the balloons are in place,
they run a normal 220-yard race.
1970
Long Jump
A jumper performs a long jump while holding a lighted candle. The jump must be completed with the
candle lit.
1970
Remote Music
For single or multiple keyboard instruments in concert.
A mechanical hand with pointing index finger (or a boxing glove) is arranged out of view on a string-andpulley system above the keyboard prior to the performance. Out of view, the performer lowers the hand
onto the keyboard to produce a single note.
1976
Talk/Don't Talk
Performer talks, audience listens.
Audience talks, performer listens.
1977
See You in Your Dreams
Appear in another's dreams.
1977
Events by Mieko Shiomi
Wind Music
1
Raise wind.
2
Be blown by wind.
3
Wind at the beach,
wind in the street,
wind passing by a car.
Typhoon.
1963
Wind Music, Fluxversion I
Scores are blown away from stands by wind from a strong fan in the wings as the orchestra tries to hold
them.
1963
Wind Music, Fluxversion II
Loose score leaves on music stands are blown away by a very strong wind produced by a very large fan.
This piece should be produced only if such a fan is available. Performers may try to catch scores and put
them back on the music stands. They should not try to hold them on the stands.
1963
Shadow Piece
Make Shadows -- still or moving -- of your body or something on the road, wall, floor or anything else.
248
Catch the shadows by some means.
1963
Portrait Piece
Do this piece with a portrait of yourself or of your dearest one.
Crumple up the portrait without tearing it.
Smooth it.
Look at the face in the portrait, crumpling and smoothing it.
Look at the face through a magnifying glass.
1963
Music for Two Players
In a closed room pass over 2 hours in silence.
(They may do anything but speak)
1963
Mirror
Stand on a sandy beach with your back to the sea. Hold a mirror in front of your face and look into it.
Step back to the sea and enter into the water.
1963
Event for the Twilight
Steep the piano in the water of a pool.
Play some piece of F. Liszt on the piano.
1963
Event for Midday in the Sunlight
12:00 Shut your eyes
12:03 Open your eyes
12:03'05'' Shut your eyes
12:04 Open your eyes
12:04'04'' Shut your eyes
12:04'30'' Open your Eyes
12:04'33'' Shut your eyes
12:04'50'' Open your eyes
12:04'52'' Shut your eyes
12:05 Open your eyes
12:05'01'' Shut your eyes
12:05'05'' Open your eyes
12:05'06'' Shut your eyes
12:07 Open your eyes and look at your hands
1963
Event for the Late Afternoon
Suspend a violin with a long rope from the roof of a building 'till it nearly reaches the ground.
1963
Event for Late Afternoon
Fluxversion I
Violin is suspended with rope or ribbon inserted through pulley at top and secured to floor. Performer in
samurai armor positions himself under suspended violin, draws his sword and cuts rope in front of him,
releasing violin which falls on to his helmeted heat.
1963
Event of Midnight
0:00 one light
0:04 five tones
0:05 smile
249
1963
Boundary Music
Make the faintest possible sound to a boundary condition whether the sound is given birth to as a sound
or not. At the performance, instruments, human bodies, electronic apparatus or anything else may be
used.
1963
Star Piece
The biggest star
Look at while you like
The second biggest star
Obscure it with the smoke of a cigarette
The third biggest star
Shoot it with a gun
The fourth biggest star
Hold a cat in your arms
The fifth biggest star
Look at it through a telescope
The sixth biggest star
When you find it, look at your watch
The seventh biggest star
Reflect on it in the water of a glass and drink it.
The eighth biggest star
Lie down and look at it through a loop in your fingers
The eleventh biggest star
Read a letter sent to you recently
(draw connecting lines as you like)
1963
Music for Two Players I
Stand face to face to one another and stare at the opposite player's eyes,
first 3m. apart (4 minutes)
then 1m. apart (4 minutes)
then 0.3m apart (4 minutes)
then 6m. apart (4 minutes)
then 0.5m apart (4 minutes)
An assistant my show them time and distance.
1963
Falling Event
1
Let something fall from a high place.
2
Let yourself fall from a high place using an elevator, parachute, rope or anything else, or using nothing.
1963
Fluxversion I
Concert programs are distributed to the audience as paper gliders flown from balcony or ladders or
thrown as paper balls.
1963
Fluxversion II
Parachute or very large sheet is suspended over audience. Performers cut all supports simultaneously,
letting the sheet fall over the audience.
1963
Passing Music for a Tree
Pass by a tree or let some object pass by a tree, but each time differently.
1964
250
Shadow Piece II
1.
Project a shadow over the other side of this page.
2.
Observe the boundary between the shadow and the lighted part.
3.
Become the boundary line.
1964
Air Event
Inflate a small rubber balloon in one deep breath and sign your name on the surface of the balloon.
(this is your lung)
You can buy the lungs of other performers at an auction.
1964
Piece for a Small Puddle
This piece is performed by several performers. Each performer takes position around the puddle. Each
stands or squats according to ones own chosen rhythm looking at the surface of the puddle.
1964
Disappearing Music for Face
Change gradually from a smile to a smile.
In concert performers begin the piece with a smile, and during the duration of the piece, change the
smile very slowly and gradually to a smile. Conductor indicates the beginning with a smile and
determines the duration by his example which should be followed by the orchestra.
1964
Photo Event for Two Players
Both performers take photos of each other including complete figure or close-up of some parts.
Second performer uses film already exposed by first performer.
1964
Water Music
1.
Give the water still form.
2.
Let the water loose its still form.
1964
Mirror Piece No. 2
Orchestra members spread their instruments on the Floor. Each walks backwards through the
instruments, using a hand mirror to guide himself, trying not to step on the instruments.
1966
Mirror Piece No. 2, Fluxversion I
Orchestra members spread their instruments on the floor. Each walks backwards through the
instruments, using a hand mirror to guide himself, trying not to step on instruments. Whenever a
performer touches an instrument, he must leave the sate.
1966
Mirror Piece No. 3
Performers seat themselves around a large mirror on the floor of a dark stage. A vessel filled with water
stands in the middle of the mirror. Performers stand and sit at random intervals with flashlight pointing to
the mirror. The water may be drunk.
251
Events by Nam June Paik
Prelude
Audience seat are tied up to backs before performance.
Date unknown
Fluxus Hero or Heroine (For Frank Trowbridge)
Piss on the subway tracks and thus stop the train.
Date unknown
Zen for Street
Adult in lotus posture & eyes half shut positions himself in a baby carriage (perambulator) and is pushed
by another adult or several children through a shopping center or calm street.
Date unknown
Dragging Suite
Drag by a string along streets, stairs, floors: large or small dolls, naked or clothed dolls, broken, bloody
or new dolls, real man or woman, musical instruments, etc.
Date unknown
Atom Bomb Victim
Two uniformed men wearing gas masks carry on a stretcher an "atom bomb victim," a woman, half of the
body prepared in a manner of cruel wounds and deformations, the other half in a sex-feast.
Date unknown
Moving Theater
Fluxus fleet of cars and trucks drives into crowded city during rush hour. At the appointed time, all
drivers stop cars, turn off engines, get out of cars, lock doors, take keys and walk away.
Date unknown
Events by Robert Watts
Washroom
The local national anthem or another appropriate tune is sung or played in the washroom under the
supervision of a uniformed attendant.
1962
Event: 10
A performer stands on a dark stage with his back to the audience. He strikes 10 matches at uniform
intervals. Another performer rings a bell 10 times at the same (or different) intervals.
1962
Event: 10
10 performers are supplied with 1 match each. 10 other performers are supplied with 1 bell each. They
take positions in a completely dark performance area. The first performer strikes a match. The 2nd
performer immediately strikes a bell. The match is permitted to burn out, followed by a pause. The 3rd
performer strikes a match, followed immediately by the 4th performer striking a bell. This continues until
all 20 performers have completed their action.
1962
Event: 13
From backstage, at stage left, release 13 helium filled balloons through a slit in the curtain. From
backstage at stage right, drop 13 white balls or eggs through a slit in the curtain.
1962
Subway Event
Performer enters the subway station with a token and the exact change for a second token. He uses
token to enter subway by the gate. He leaves by thenearest exit and buys one token at the booth.
1962
252
Street Car Variation
Any number of performers in a queue enter a bus one by one. Each performers pays the fare, exits
immediately to rejoin the tail of the queue and start the cycle again. Performance may last for any
duration of time.
1962
Casual Event
Performer drives to a filling station to inflate right front tire. He continues to add air until the tire blows
out. He changes the tire and drives home. If car is a newer model, he drives home on the blown-out tire.
1962
Two Inches
A 2-inch-wide ribbon is stretched across the stage or street and then cut.
1962
Duet for Tuba
A tuba is prepared so that it dispenses coffee from one spit valve and cream from the other.
1963
C/S Trace
An object is fired from a cannon at a cymbal.
1963
C/S Trace
An object is fired from a cannon and caught in the bell of a tuba.
C/T Trace
A squeaking rubber toy or an egg is caught between two cymbals.
1963
F/H Trace
A French horn is filled with small objects (ping-pong balls, ball bearings, rice, small toys, etc.) or fluid
(water, mud, whiskey, etc.). Performer enters the stage, faces the audience, and bows toward the
audience so that the objects cascade out of the bell of the horn into the audience.
1963
Trace
Place a card on a horizontal surface.
Place a straw in the center of the card. Light one end of the straw with a match.
When the flame is extinguished, hang the card on the wall.
1964
Christmas Event
Send a yam this year.
Date unknown
Events by Tomas Schmit
Piano Piece No. 1
Performer places various objects -- toys, chess pieces, concrete blocks, wood blocks, bricks, glass vases,
rubber balls, etc. -- on the closed lid of a grand piano. He may arrange these objects very carefully and
with deliberation. He may construct a building out of the blocks, or arrange the chess pieces, or arrange
the various toys, etc. When he has completed his arrangement, he lifts the great lid suddenly. The piano
must be placed so that when the lid opens, the objects slide toward the audience.
1962
253
Zyklus
Water pails or bottles are placed around the perimeter of a circle. Only one is filled with water. Performer
inside the circle picks the filled vessel and pours it into the one on the right, then picks the one on the
right and pours it into the next one on the right, etc., till all the water is spilled or evaporated.
Date unknown
Sanitas No. 2
Auditorium or theater should be dark. Performers throw small objects, coins, toys, etc., into the audience
and then try to find these objects using flashlights.
Date unknown
Sanitas No. 13
Telephone time service is relayed to the audience for an hour.
Date unknown
Sanitas No. 22
Performer reads aloud an entire newspaper, advertisements and all.
Date unknown
Sanitas No. 35
Blank sheets are handed to the audience without any explanations. 5 minutes waiting.
Date unknown
Sanitas No. 79
A bus carries the audience a good distance, deposits them in a desolate location and returns empty.
Date unknown
Sanitas No. 151
250 nails are hammered.
Date unknown
Sanitas No. 151, Fluxvariation 1
All the piano keys of a chromatic scale are nailed down.
Date unknown
Sanitas No. 165
Audience is seated on mis-numbered seats, then are asked to correct the mistake by switching about,
(first row to last, etc.)
Date unknown
Events by Ben Vautier
Radio
Performers and audience listen to a play over the radio.
1961
Theft
A theft is announced and the audience is searched.
1961
Police
Performers disguised as police officers push the audience to the stage.
1961
254
Smile
5 performers walk about smiling.
1961
Strike
After the audience is admitted to the theater and seated, a member of the actors' union gives a 5minute talk on low wages and announces a 3-hour strike.
1962
Drink 1
While other pieces are being performed, one performer sits drinking in a corner of the stage. He gets
drunk and starts being a nuisance.
1962
Drink II
Performers drink as much as they can drink, as fast as possible.
1962
Shower II
A performer sits on a chair in the center of the stage holding a fire hose and does nothing. On hearing
the audience begin to complain, he shouts "Go!" The water is turned on. The performer soaks the
audience.
1962
Telephone
Using a telephone placed on stage with a monitor hooked up to a loud speaker, the performer makes one
of the following calls:
1) Call the police and talk as long as possible.
2) Call the president of the country.
3) Call the local newspaper with false news.
1962
The Others
Various people such as blind beggars, drunks, bums, tramps, etc., are invited to a meeting they know
nothing about. They are led onto the stage by way of a back entrance. When all are assembled on stage,
the curtain is raised.
1962
They
Spoerri, Isou, Kaprow, Higgins, Patterson and Vautier accept an invitation to live imprisoned in a cage for
48 hours. The audience watches.
1962
Make Faces
20 performers grimace at the audience, making faces and vulgar gestures until the audience expresses
protest.
1962
Wet
Performers throw wet objects into the audience.
1962
Nothing
Performers do nothing.
1962
255
Sale
Performers sell the theater.
1962
Run
A performer runs about, around and through the audience until completely exhausted.
1963
Mystery Food
Performers eat a meal that cannot be identified by anyone.
1963
Apples
4 performers eat 4 apples.
1963
Monochrome for Yves Klein
Performer paints a large white panel black.
1963
Monochrome for Yves Klein, Fluxversion I
Performer paints a movie screen with nonreflective black paint while a favorite movie is being shown.
1963
Monochrome for Yves Klein, Fluxversion II
An orchestra, quartet or soloist, dressed in white, plays a favorite classic. A fine mist of washable black
paint rains down during the performance. Performers continue to play as the scores and music stands,
their instruments and clothes slowly turn from white to black. The performance ends when no performer
can read the notes.
1963
Meeting
4 people who have never met are invited on stage to talk to each other for 20 minute or more.
1963
Verbs
Performers enact different verbs from a book of verbs.
1963
Bathtub
As many performers as possible jam themselves into a bathtub.
1963
Push
10 to 20 performers push each other from the stage nonviolently until only 2 performers are left.
1963
Hens
3 hens are released and then caught.
1963
Lesson
Like a classroom teacher with a blackboard, performer gives a lesson to other performers on a subject
such as geography, Latin, grammar, mathematics, etc.
1963
256
Curtain I
After the traditional 3 rings or 3 knocks, the curtain doesn't go up. Rings or knocks are repeated 10 time,
20 times, 100 times, 1000 times for 2 hours, but the curtain never goes up.
1963
Curtain II
A noisy performance takes place behind a closed curtain. Curtain is raised only for a bow.
1963
I Will be Back in Ten Minutes
Performer positions a poster on the stage announcing, "I will be back in 10 minutes!" and goes across the
street to have a cup of coffee.
1963
Look
The performer looks at an object (a piano, for instance) in as many different ways as possible.
1964
Ben's Striptease
A naked performer enters an entirely darkened stage. The lights go on for a fraction of a second.
1964
Hold-Up
A real hold-up is enacted in the theater. As much loot as possible is stolen and taken away by thieves.
1964
Gestures
1st performer positions a table on the stage.
2nd performer positions a suitcase on the table.
3rd performer takes the suitcase off the table.
4th performer takes the table off the stage.
1964
Choice
4 identical objects are placed on the stage. 3 performers enter. Each chooses one of the objects, and
leaves after choosing, taking the object away. The last object remains on the stage.
1964
Tango
The audience is invited to dance a tango.
1964
Orders
One performer seated at a table on the stage gives orders such as "get up," "run," "jump," etc., to 20
performers seated among members of the audience. The audience is free to join in.
1964
Expedition
Light but very voluminous packages are carried by performers from the stage through the audience to
the exit, through crowded street, onto street cars, etc.
1964
257
Supper
The curtain is raised. A large table set with food, drink, flowers and candles is displayed on stage. 10 well
dressed performers carrying instruments enter, bow, and seat themselves behind the table. They lay
down their instruments. 2 waiters begin to serve food and wine. Performers begin to eat, drink and talk.
After a few minutes, the audience can also be offered food and drink.
1965
Piano Concerto No. 2 for Paik
Orchestra members seat themselves and wait for the pianist. The pianist enters, bows and walks to the
piano. Upon reaching the piano, he jumps from the stage and runs to the exit. Orchestra members must
run after him, catch him, and drag him back to the piano. The pianist must try his best to keep away
from the piano. When the piano is finally returned to the piano, the lights are turned off.
1965
Orchestra Piece No. 4
Instruments, stands and empty seats are displayed on stage. Performers appear one by one, slowly and
very silently. Performers entering from the left must go to the far right and vice versa. Conductor enters
last, just as slowly. The whole entry should last 10 minutes. Upon completion of the entry, the lights are
turned off.
1965
Concerto for Audience by Audience
The audience is invited to come to the stage, take instruments that are provided to them, sit on the
orchestra seats and play for 3 minutes. If the audience does not respond to the invitation, instruments
should be distributed to them.
1965
Three Pieces for Audiences
1. Change places.
2. Talk together.
3. Give something to your neighbor.
1964
Audience Piece No. 1
Audience is locked into the theater. The piece ends when they find a way out.
1964
Audience Piece No. 2
The curtain remains closed. At the exit, leaflets are distributed saying, "Ben hopes you enjoyed the
performance."
1964
Audience Piece No. 3
An announcer asks the audience to follow a guide. The guide leads them to another theater to watch an
ordinary play or movie.
1964
Audience Piece No. 4
After the audience is seated, performers proceed to clean the theater very thoroughly: wash floor,
vacuum chairs and curtain, white wash stage, change light bulbs, etc.
1964
Audience Piece No. 5
Tickets are sold between 8 and 9 p.m. At 9 p.m., the announcement is made that the performance has
already begun and will end at 12 p.m. At no time is the audience admitted to the theater.
1964
258
Audience Piece No. 6
The stage is transformed into a refreshment area. After the curtain is raised, the audience may come on
stage to eat and dance.
1964
Audience Piece No. 7
The audience is requested to come on stage one by one to sign a large book placed on a table. After
signing, each is led away, one by one, to the street. This is continued until all have signed and left the
theater. Those led outside are not permitted to return.
1965
Audience Piece No. 8
The audience is told that the next piece is presented in a special area. They are led away in small groups
by ushers, taken through back exits to the street and left there.
1965
Audience Piece No. 9
Each member of the audience is led individually into an antechamber where they are asked to undress
and led into a dark theater. Those who refuse can have their money returned. When the entire audience
is seated naked in the auditorium, a huge pile of their clothing is illuminated on stage.
1965
Audience Piece No. 10
An announcer hidden from view of the audience observes all who enter the theater with binoculars and
describes each in detail over a public address system.
1965
Audience Variation No. 1
The audience is all tied up together using a long string. Performers in the aisles use balls of string,
throwing string over the heads of the audience to opposite rows of performers. Balls are thrown until all
the string is used up in creating a dense web over the audience. Enough string must be used to entangle
the whole audience, tying them to each other, to their chairs, etc., making it difficult for them to leave.
After this has been achieved, the performers leave the hall. The audience is left to untangle itself.
Date unknown
Emmett Williams
Song of Uncertain Length
Performer balances bottle on own head and walks about singing or speaking until bottle falls.
1960
Duet for Performer and Audience
Performer waits silently on stage for audible reaction from audience which he imitates.
1961
For La Monte Young
Performer asks if La Monte Young is in the audience.
1962
10 Arrangements for 5 Performers
Leader rings bell, performers move. Leader rings bell a second time, and all freeze, each saying a single
word.
1962
259
Counting Songs
Audience is counted by various means -- f.ex., performer gives a small gift (coin, cough drop, cookie,
toothpick, match stick, etc.) to every member of the audience, counting each as he does so, or marks
audience members with a chalk, or keeps track by pointing finger, etc.
1962
Events by Yoko Ono
Four Pieces for Orchestra
To La Monte Young
(Provisional Instruction. It may be revised by conductor.)
a. Upon first signal from the conductor, each performer begins to rub a dowel, screwdriver or file across
the f hole of any string instrument which will be provided for that purpose, or with an eraser on the
surface of a wind instrument. Second signal will indicate termination.
b. Upon third signal, each performer peels off a tape taped upon their instrument.
c. Upon fourth signal, each performer tears off a page from the score.
New instructions to these pieces will most likely be provided by La Monte Young during rehearsal.
Date unknown
Laundry Piece
In entertaining your guests, bring out your laundry of the day and explain to them about each item. How
and when it became dirty and why, etc.
1963
Wall Piece for Orchestra
To Yoko Ono
Hit a wall with your head.
1962
Lighting Piece
Light a match and watch it til it goes out.
1955
Painting to be Stepped On
Leave a piece of canvas or finished painting on the floor or in the street.
1960
Fly Piece
Fly
1963
Tape Piece I
Stone Piece
Take the sound of the stone aging.
1963
Tape Piece II
Room Piece
Take the sound of the room breathing
1) at dawn
2) in the morning
3) in the afternoon
4) in the evening
5) before dawn
Bottle the smell of the room of that particular hour as well.
1963
Joe De Marco, Gallerie DeLuxxe
260
Ci saranno tutti al mio funerale
S.K.2
E piangeranno per il male che mi hanno fatto
S.K.3
Ora prima che sia troppo tardi
S.K.1
Ora prima che sia troppo tardi
S.K.2
Ora prima che sia troppo tardi
PARTE PRIMA
FATICA 1° quadro
Personaggi: S.K.1
S.K.1
Tutti gli sforzi in tutte le direzioni a tutte le velocità con tutte le intensità
Tutte le parole in tutte le direzioni a tutte le velocità con tutte le intensità
Tutte le emozioni in tutte le direzioni a tutte le velocità con tutte le intensità
Tutti i respiri in tutte le direzioni a tutte le velocità con tutte le intensità
Tutti i giorni ancora
Tutti i giorni ancora davanti
Tutti i giorni a venire
AMORE 2° quadro
Personaggi: S.K.2 e C
C ha in mano un bicchiere di spumante. Arriva S.K.2
C
Buon Compleanno!
S.K.2 lo guarda triste e non parla
C
Forse potrei mangiarmi questa brutta smorfia
La bacia
S.K.2
È macabro
Per te dico…è assurdo continuare a provarci…
C
Provare cosa?
S.K.2
A stare seduto qui con una morta
C
Tu non sei morta, stiamo festeggiando i tuoi 28 anni.
S.K.2
Ti sbagli.
Festeggiamo, la ventottesima vittoria di un’agonia bastarda.
C
Non puoi continuare così.
263
S.K.2
E chi lo dice? Ho i diritti d’autore sulla mia infelicità.
C rimane zitto e mortificato
Sono se penso se rivedrò quella persona e se sì quante volte prima di morire sono se penso se ritornerò
in quel luogo e se sì quante volte prima di morire sono se penso se vomiterò di nuovo e se sì quante
volte prima di morire…
Perché non vedete la merda che vedo io?
C
La merda che vedi tu…
le mostra il bicchiere
C
che cos’è questo? Io vedo un bicchiere.
S.K.2 lo prende in mano e lo lancia per terra
S.K.2
Io vedo vetri rotti senza motivo
C disperato fa per andarsene
S.K.2
È troppo facile andarsene ora. È troppo facile. Se mi ami davvero devi stare qui, devi costringerti a
vedere come me, in salute e in malattia, ricordi la formula, ora non puoi staccarti, senza fuga, pari a me,
sei nell’incantesimo idiota di queste macerie inutili, senza nessun senso, senza nessuna forza…
C
Tutto questo…
sei tu che lo vuoi
BRAVA 3° quadro
Personaggi: S.K.1/S.K.2/S.K.3
S.K.1 e S.K.2 rivolgendosi a S.K.3 sottovoce
S.K.1 e S.K.2
Complimenti!
È brava, è scandalosamente brava!
È la migliore della sua classe!
I suoi elaborati sono eccellenti!
La sua proprietà di linguaggio mi inchioda!
“graffiami, graffiami con la tua ironia!
I suoi pensieri fanno male
Sono bruciature
Ha una marcia in più non c’è che dire!
Brava
È brava
È acuta!
Ha il dono dell’analisi!
Ha il dono della sintesi!
Le sue parole sono lucciole!
Le sue parole mi toccano in fondo!
Sono rintocchi… come campane!
Le sue metafore sono mostri marini!
Ha talento da vendere
Può conquistare il mondo
Scandalizzerà i benpensanti
Sarà il godimento dei critici
264
Sarà la bandiera della sua generazione
Il futuro davanti a lei si spalanca radioso
Un successo dopo l’altro
Tutti la amano
Tutti
Può essere ciò che vuole
Può fare ciò che vuole
S.K.3
Davvero? Posso fare tutto quello che voglio?
S.K.1 e S.K.2
Sì, certo
Certo
S.K.3
Se posso allora vorrei farla finita
Sono stanca stanca stanca stanca stanca stanca
EPILOGO 1
S.K.1/S.K.2/S.K.3
Sono stanca stanca stanca stanca stanca stanca.
PARTE SECONDA
AMORE bis 1° quadro
Personaggi: S.K.2 e C
S.K.2 è sola. Inizia a spogliarsi e rimane in reggiseno e mutande.
Entra in scena C
S.K.2 prova a sedurlo. Non ottenendo alcun tipo di risultato si siede in modo assolutamente casalingo e
informale e parla a C:
S.K.2
Vorrei sradicarti
Vorrei ferirti
Voglio farti tutto il possibile male
Voglio uccidere i tuoi desideri
Farti sentire impotente come me
Farti sentire perdente
Pausa
Sai, ho scannato tua madre.
Ti è piaciuta la carne che ti ho preparato stasera…era il suo fegato. L’ho conservato in freezer apposta per
te…lo vedi che ti amo
È una balla o la verità? È una balla o la verità?
C
Dimmelo tu
S.K.2
…è una balla per passare il tempo…
265
Pausa
La verità è che ieri sera mi sono scopata il cane e il pappagallo
Nel nostro letto…
Ma tu dormivi così bene che non ho osato svegliarti
Mi senti? Mi senti?
C accende la sigaretta
C
Ti sento
S.K.2
Tu mi hai spento la testa
Tu mi hai chiuso il corpo e hai buttato le chiavi
Tu tu tu sei il responsabile
C
Sai che non è vero
S.K.2
Non puoi fottermi
Conosco il peggio di te.
Non c’è angolo putrido in cui non mi sia tuffata con il mio scafandro
Costretta ad annegare nella tua merda
Tutta la merda di cui siamo fatti
che dovremmo mangiare
amare.
S.K.2 ruba la sigaretta a C
Ti sfido
Non penso proprio che tu possa farcela
Amami
Amami ho detto
Ama la mia libertà
Ama la mia cattiveria
Ama i miei giochi meschini
Ama la mia paura fottuta
la mia solitudine
il mio disgusto
Ama le mie ossessioni
le mie sconfitte
Ama le mie unghie nere e i miei sputi e il mio abbandono e la mia tenacia e il battito del mio cuore
il ritmo ossessivo
la sua voce che manca
il fiato che non riesce a risalire
Ama le cicatrici che mi chiudono gli occhi le labbra il destino
Ama questo vuoto che lascia tutto fuori
Ama questo mio vuoto
Questo mio vuoto
Niente
Niente
Mai niente riuscirà a colmarlo
C
Io già ti amo. Tocca a te ora.
C esce di scena
S.K.2 urlando
S.K.2
266
Amami!
Amami!
Te lo ordino!
Ti prego …
MONDO 2° quadro
Personaggi: S.K.1, A e B
S.K.1 è in scena.
A e B irrompono sulla scena dall’altro lato.
A è più crudele e raffinato, un po’ mandante. B è più grezzo e ridanciano, un po’ esecutore
Questa situazione porta a uno stupro.
B
ahahah… le sue ascelle capisci…ahahah…puzzano da far schifo
A
…ascelle da puttana comunista che non si lava dai tempi di Marx
A e B Ridono in modo sguaiato
A
Oggi è triste, povero amore, ci guarda male
B
Fai un sorrisino tesoro, non credi che ce lo meritiamo
Pausa
A
Niente da fare, dobbiamo cavarcela da soli
A e B entrano da dietro e colpiscono S.K.1 alle ginocchia in modo che crolli. Con un gesto A ordina a B di
ispezionare il suo corpo
B
Però a parte le ascelle questa carrozzeria è perfetta. Scommetto che non ti sei mai rotta neanche un
osso.
Le tira una manganellata e continua l’ispezione
A
Dai fruga…dov’è la ciccia?
B
Non sento niente Cristo…le tette non ci sono
A
Cazzo …qualcuno ce le ha fottute…
B
Dai dacci una mano… non le avrai regalate?
…TROVATE!!! ahahah…senti, senti…ahahah…belle tettine…due olive, due pasticcini mignon…
A
Due coglioncini
B
Due coglioncini mosci… Non esce niente da qui, non c’è un goccio di latte
A
267
È vero. Sono sgonfie…
Com’è? Hai bucato…ahahah… hai bucato brutta puttana?
Peccato!!! Dobbiamo cercare più giù.
A e B con due bacchettate obbligano S.K.1 a mettersi a quattro zampe. Vanno sul retro.
B
C’è qualcuno?? C’è qualcuno laggiù?
A
C’è qualcuno?? …Oh buongiorno Signor Culo
B
I miei omaggi Signora Fica, entriamo un attimo a visitare la casa…ahahah
A
Cristo che noia… anche la fica è una fica triste, una fica piena di pensieri, fica da povera scrittrice
esistenzialista…
B
…che nessuno visita per paura di perdersi AAAAAHHHHH
A
Ma a noi il coraggio non è mai mancato
Vediamo un po’…cosa c’è qui dentro:
progetti, saggi, slogan, spazzatura, ragnatele! pensieri, seghe mentali, testi teatrali!: il museo degli
orrori!!!…
B
Chi l’avrebbe mai detto che la nascondeva qui sta roba
S.K.1
BASTARDI BASTARDI BASTARDI
A
Hai sentito qualcosa?
B
Si …mi è sembrata una scoreggia…
A
Zitta puttana, zitta, ti consiglio di stare zitta
B in contemporanea
Zitta bambolina, zitta bambolina, zitta bambolina
A
Il silenzio è la medicina migliore per chi non si piega
Sei tu che ci chiedi aiuto…
B
oh no?
A
Mi sto sbagliando?
Sei tu che hai bisogno di noi.
Sei tu che non riconosci il tuo mondo e i tuoi simili.
Sei tu l’artista rivoluzionaria dei miei coglioni…
Non credi che avrei preferito starmene sdraiato a bere una birra e a farmi masturbare piuttosto che
passare il tempo ad annusare la tua debolezza rivoltante?
A si masturba
Sì, l’avrei preferito, l’avrei preferito mille volte… E invece per il tuo bene abbiamo lasciato le nostre case…
ci siamo messi le divise… ci siamo profumati per te… siamo scesi in strada armati
268
Incrociano le spade
…abbiamo cercato, e annusato e guardato…
B
Ed eccoti lì, a gridare contro tutto e tutti, a mettere disordine…che vergogna!!!… una povera donna senza
dignità
A
Ma non lo sai che le donne tengono la schiena dritta
B dà una steccata sulla schiena a S.K.1
e gli occhi bassi
con un altro colpo la obbliga ad abbassare la testa . Poi A e B costringono S.K.1 ad alzarsi.
B
e si profumano e hanno calze di seta e un bel culetto rotondo, e anche un po’ di tacchi per sembrare più
slanciate e sanno stare zitte capisci…non si mettono a sbraitare
A
ti guardano con gli occhi dolci e i capelli profumati, e ridono piano alle tue battute
A e B buttano di nuovo S.K.1 a terra
Non riesci a stare dritta? Non riesci a vivere? Ma come è possibile…
B
Non ti piacciono gli uomini? Non sarai pervertita…Non ti piace il governo? Non mi dire che non ti piace
neanche scopare …
B la stupra
A
La paziente è molto grave…
B
Sei andata, sei malata…ma sei molto fortunata…
Noi ti possiamo guarire, siamo qui per aiutarti …
A
Per darti un po’ d’amore
B
La tua medicina
A
Qualche goccia d’amore e tutto passa, tutto è più leggero…
B
Tu hai bisogno che qualcuno ti tocchi, che qualcuno ti sia vicino
A
Bisogna spegnerla un po’ questa testa che lavora troppo. Non vogliamo che a una ragazza così carina si
bruci il cervello…
B
Non ci ringrazi? Noi ci sacrifichiamo per te…
A
…per darti l’amore
269
CUNTO 3° quadro
Personaggi: S.K.3
S.K.3
In quei giorni il cielo era senza governo.
Nuvole grosse lo solcavano e minacciavano di schiantarsi in tuoni e temporali.
Un boato simile a latrato di cane strisciava per il pavimento colpito all’improvviso da spade di luce. E la
terra non pareva mai ferma, ma sembrava invece una distesa d’acqua sempre mossa e infuriata, o
frammenti di pensieri che fuggivano fuori dai corpi.
Lasciata la nostra eroina in ospedale adagiata in un giaciglio e avendole spento la mente per riposarla
dalla battaglia, nessuno sospettava ciò che sarebbe andato ad accadere.
Il fatto inenarrabile fu che nulla era stato forte abbastanza per sedarla. La trovarono arrovesciata e in
preda a deliri di onnipotenza, smarrito il suo scudo e la sua lancia e la sua faccia orrenda e pallida
digrignava i terribili denti.
Mentre cercavano di fermarne l’insana eccitazione tutti si accorsero con terrore che la paziente si era
impossessata della natura e ne comandava gli elementi. Le bastava un respiro per increspare gli oceani, i
suoi rigurgiti allagavano le foreste, e ogni sua risata provocava terremoti dagli effetti devastanti. Allo
stesso modo il suono e l’orrore del mondo giungeva a lei di una potenza così smisurata da farle
desiderare la morte. Conscia di questo malvagio potere che rendeva infernale la sua stessa esistenza la
paziente tentava con ogni mezzo di impugnare la spada per togliersi la vita e senza riuscirvi scalciava e
batteva e implorava l’aiuto degli astanti urlando con ferocia queste stesse parole:
EPILOGO 2
S.K.1/S.K.2/S.K.3
“Infilzami, bruciami, squartami: non sento più niente, annienta il dolore, continua non sento niente,
continua trattengo il respiro, annienta, annienta, annienta perfavore…
ROVESCIO
EPILOGO/BAMBOLA
Personaggi: S.K.1 e D
S.K.1 tiene D senza testa fra le braccia.
S.K.1
Facce senz’occhi
Patatine e ketchup in una fila che odora di frittura
Voci che non riconosco
Mille fotografie stampate schifose nella testa
toglietemi questo odore, toglietemi questo odore
da sola non riesco
non sono di qui
non voglio essere qui
Scaraventata, collocata,
strappata, cullata,
spinta, tirata
toccata, ingannata, tradita, amata
Imbrattata di fuoco
di grandine e sangue
di vomito e d’oro
leccata, scordata,
oggetto smarrito
Sono spiacente
270
Tutto blindato
Contatti saltati
Crollo improvviso della struttura
Incapacità di reggere l’impatto
Non sono più in grado
Non controllo l’integrità delle mie ossa, del mio viso, dei miei amici, dei miei oggetti
È grave. È una disfunzione.
Sono possibili infinite disfunzioni.
Infinite disfunzioni in me
Infinite disfunzioni
La mia mente fragile
Da rimettere insieme
Da sedare
Da monitorare
Da sodomizzare
Da annientare
Da rendere uguale a
Da rendere incapace di
Da rendere troppo inutile per
Tento di dire
I miei pori si stanno chiudendo
Tutto occupato
Procedimento fisico indotto
Paralisi
Precipito
Per non sentire
Per non vedere
Sono se penso che per qualcosa si dice mai più mai più prima di morire.
Sono tutte le parole in più e quelle in meno e tutte le parole che non significano niente.
S.K.1/S.K.2/S.K.3 cadono per sempre:
prima nel suono e poi nel silenzio
***
Sinfonia Per Corpi Soli - Omaggio a Sarah Kane di Federica Fracassi (2001) è nato durante il lavoro con gli attori, la
regia, il suono, all’interno del Progetto Caosmologia / Primo movimento
Regia
Renzo Martinelli
Corpi e Voci
Giada Balestrini
Federica Fracassi
Monica Parmagnani
Microfoni e Speakers
Giuseppe Ielasi
Beppe Sordi
Valerio Tricoli
Costruzioni Sonore
Renato Rinaldi
Materie
Paola Bassani
Enzo Contini
Notizia.
Federica Fracassi, attrice, si è formata alla Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi. Ha fondato insieme al
regista Renzo Martinelli la compagnia Teatro Aperto, oggi Teatro i.
La compagnia privilegia un'autonoma costruzione scenica, linguaggio portante vicino all'arte e alla
scultura, in costante dialogo con una drammaturgia della contemporaneità.
Dopo anni di lavoro nomade e senza sede la compagnia gestisce dal 2004 il Teatro i a Milano, dando vita
a un nuovo percorso indipendente.
271
Oltre a curare pubblicazioni e incontri teorici è stata protagonista degli spettacoli della compagnia: "Lenti
in Amore",1995/96, da Marguerite Duras e Alda Merini; "Cuore d'infinita distanza", 1997, da Clarice
Lispector; "Legittima difesa", 1998 di cui ha curato la drammaturgia; "MIRaMILANO", 2001, di Marco
Philopat. "La Lente Scura", 2003, dai testi di Anna Maria Ortese; "Kamikaze", 2004, da "Canti del caos" di
Antonio Moresco.
Nel 2000 è stata protagonista de "La Santa", di Antonio Moresco edito da Bollati Boringhieri, che ha vinto
il premio "sette spettacoli per un nuovo teatro italiano per il 2000" indetto dal Teatro di Roma. Nel 2002
ha scritto il testo dello spettacolo "Sinfonia per corpi soli" Omaggio a Sarah Kane, che ha ottenuto
importanti riconoscimenti in occasione dei Premi Ubu.
Gli ultimi lavori di cui è stata protagonista sono: “Prima della pensione” di Thomas Bernhard, “Morbid uno studio” di Fausto Paravidino, “Dare al buio (la fine l’inizio)” di Letizia Russo.
Ha lavorato tra gli altri con il maestro Fabio Vacchi, con Mark Ravenhill, con Claudio Collovà, con il Teatro
Valdoca, con Nicola Russo con cui è autrice e attrice dello spettacolo “La regina delle nevi” da
H.C.Andersen e attrice dello spettacolo “Le muse orfane” di M.M.Bouchard.
Nel 2006 ha vinto il premio “Eleonora Duse” e nel 2007 il premio “Eti- Gli olimpici del teatro” come attrice
emergente.
272
ITER STULTORUM
Dramma in versi per più voci e un coro.
di VINCENZO FRUNGILLO
Novella: «E tu chi sei?»
Il pellegrino: «Io non lo so. Cammino.»
G. D’Annunzio
È la primavera del 1212 quando la crociata dei fanciulli segna la nascita delle maree umane. Trenatamila
ragazzi francesi e ventimila tedeschi partono per la Terrapromessa. I due fanciulli che guidano la
spedizione sono il pastorello francese Stephan e il giovane nobile tedesco di nome Nicolaus. Nessuno dei
cinquantamila raggiungerà la meta, nessuno farà ritorno. Molti saranno venduti come schiavi nei mercati
italiani. Alcuni monaci e commentatori del tempo chiamano sarcasticamente la crociata dei fanciulli con
l’appellativo iter stultorum. I dotti della chiesa non attribuiscono alcuna dignità a quell’evento. Scorgono
in quel pellegrinaggio i segni della rivolta.
Le voci
Stephan, il pastorello
Nicolaus, l’allievo
Magister
Canto delle vergini
Il primo mercante
Il secondo mercante
Il terzo mercante
Voce celeste
Coro dei dispersi
Parte I. Preafiguratio.
Il primo sogno di Stephan
Il pastorello dorme in mansarda. Il sogno lo avvolge. Una pioggia di lettere azzurre scende dal soffitto. Le
lettere riempiono come farfalle il ciglio del suo letto.
Voce celeste:
È arrivata come una voce celeste
luminosa, verticale,
in uno squarcio d’intensa fluorescenza,
in un biancore di luce più tenue,
è arrivata come una voce
ad animare il suo sogno
l’attiva preistoria del giorno
come una domanda da fissare nella mente
dove finisce l’energia dispersa
che il corpo non trattiene,
non rapprende?
Queste parole inaugurano
il percorso terrestre
come pastore d’anime
in cerca di risposte:
trovare la Terrapromessa
dove quello spreco si riassorba.
Per lui era una santa o una madonna
273
una rivoluzione, più che un’ascensione.
Così si sveglia al mattino
nelle sbavature del mondo
ciò che era odore di pecora e gioco,
anfratti di sudori infantili,
segnali di presenza gioiosa,
sintesi amorosa di carne e carme,
ora è un corpo. Quella signora
ha infettato le sue membra
Voce celeste:
Stephan:
con il virus della perdita.
se un dio è un Dio resta in silenzio
quando parla,
inizia la diaspora, la tragedia…l
la Terrapromessa…
…essa ferma la semiosi..
…essa le particelle di luce
nell’abbaglio della stanza
essa l’emigrazione,…le sue onde…
Ogni corpo da innocente
deve diventare puro
devono vedere tutto
pronti al sacrificio: un martirio.
Le vesti bianche simulano il taglio
lo squarcio nel soffitto
il momento in cui la voce
ha dato vita alla dispersione.
Lei ci aspetta come ricompensa
una cucitura tesa
dall’altra parte del mondo.
Bisogna andare e ricordare,
poi ricordare d’andare,
dimenticare. Bisogna smettere
poi smettere di smettere
e ancora dismettere dismettere dismettere.”
Così per le strade e le zolle rialzate
scende come trafitto alle spalle
dai colori e gli odori
con gli occhi come pieghe,
sponde, particelle d’altri mille
anch’essi parte di un’unica voce
che ammutolisce gradualmente
quanto meno tiene l’orizzonte.
Partono così per l’oriente.
[…]
Il maestro e Nicolaus
Intanto aldilà del confine, in Germania, il nobile Nicolaus s’intrattiene a parlare con il suo Tutor. Parlano
del latino e delle nuove lingue. Luce rossa, verde e gialla li illumina.
274
Magister:
Nicolaus:
“Il latino è il codice universale
la gabbia d’ogni sapere,
la grammatica perfetta delle cose,
raggiera, che imprigiona e salva.
Volta per volta i Padri della Chiesa
hanno lasciato l’eco delle Scritture
rumoreggiare tra le sue mura.”
Ma l’allievo sente una seconda voce
che infrange i mosaici di luce
come una palla i vetri
che danno sul cortile
Il volgare.
Il corpo che sorprende
animato dalla sua fine.
“Magister, il mio trascendere è orizzontale
e non ha più forze è fatto di resa
alla natura grezza della terra,
è qualcosa che preme
che sorprende il mio viso imberbe
la mia natura virginale
e sale la violenza del loro parlare.
È un aderenza alla carne, una prima pelle.
Io magister, voglio partire,
c’è un pastore che coltiva le nostre terre
e le nostre terre non sono quelle
dei padri feudali ma quelle celesti,
una signora gli ha parlato, gli ha detto vieni
risaneremo il corpo di migliaia di voci,
sarà un vulgus trascendente
creeremo la lingua delle nuove terre.”
Nicolaus (tra sé e sé):
Così è fuggito dalle stanze senza gambe
è fuggito per le strade
dove predica il pastorello
l’ha sentito parlare nella sua lingua volgare
il francese,
e ha sentito per la prima volta
premere sotto la veste il crampo di un erezione.
“Ho sentito la leggerezza della sua voce
e l’ho paragonata al peso di mio padre
al suo timbro familiare,
la ceralacca delle sua lettere d’amore
non ho esitato un solo istante,
di notte dal balcone
ho trovato la via della resurrezione.
La violenza l’ho lasciata a mia madre
le sue pene le ho contate
sulle spine della mia corona.
Ognuno qui è padrone della sua scena
io sono il sacerdote,
l’aristocratico signore
che ha gettato il suo anello
in un cespuglio di rose
nessuno l’ha raccolto
275
perché i poveri, quelli veri,
hanno segni semplici a cui tenersi stretti
armi di rami secchi contro i serpenti,
avanzano sulle strade della Provenza
come se avessero una spada
nutriti di speranza
ed è cosa nuova, una vera vittoria
perché guardano da lontano i regali della folla.
Sentite come cantano le lodi del cielo
questi che per voi credono
questi che per voi sperano
Nicolaus:
siamo gli ultimi eppure i primi
prima dei Regni
prima dei re
prima dei Papi
prima di Dio la nostra purezza invoca!
“Petramala
amplissima civitas est
ma adesso basta
capire la lingua che si muove
emigrazione immigrazione
adesso non ho declinazioni
come scale di possessivi
per indicare dove ho preso nome.
In questa pausa al peregrinare
nelle piazze, di domenica,
restiamo senza parlare.
Questa gente non ha parole
per le pustole o le piaghe
si limita a guardare.
Io sono rimesso al loro soffrire,
la domenica dio tace
-parla tutto il restoil mondo è la sua sottrazione
e noi siamo il suo peso.”
[…]
Parte II. Peregrinatio.
Stepohan:
“Bisogna andare e ricordare
e poi ricordare d’andare
dimenticare.
Bisogna smettere
poi smettere di smettere
e ancora dismettere
dismettere dismettere.”
Il dialogo tra Stephan e Nicolaus
Voce celeste:
Piano, più piano,
276
Stephan:
Nicolaus:
dovete andare piano
il vostro non è un semplice viaggio
il vostro è un pellegrinaggio!
“Ma loro obbediscono, obbediscono,
se solo sentissero la corsa
che il diavolo impone al loro passo
lo farebbero una volta di meno
obbedire, intendo, ma lo farebbero
come un dettato rigoroso del cielo,
ne sentirebbero il freno, sarebbe diverso,
un perentorio fraterno mistero.
“Noi abbiamo una missione,
diremo la dispersione
saremo venduti in piazza
perché non esiste purezza,
diventa putredine,
è esistita semmai una volta nella vita,
solo allora, quando la tua giovinezza
è stata anche la mia.
Era una puntura, una promessa,
che ora volge la vita contro se stessa
e noi manchiamo il suo centro,
lo perdiamo ad ogni colpo
ogni volta che miriamo al tuo corpo.
Ma tu stesso l’hai detto un giorno
un gesto d’amore non può che fallire,
più si è precisi e più si resta in superficie.
Questo ci spinge ad andare
camminare lungo le strade,
come spettri del Signore,
un c’era una volta che non ha nome
un fantasma che ignora le sue colpe
che non occupa spazio,
non ha un suo corpo
che sia pur sottile come le ossa d’oro,
Stephan:
le reliquie dal santo
che ora vive in eterno
come lo è in terra
la cupola di San Pietro,
e invece noi,…
neppure questo
siamo solo carne
che recrimina tempo.”
“Ma io…mi riferivo a dio,
parlo con lui come se stessi in pubblico
ma non parlo mai per il pubblico
io sono me stesso
né quando sono divino,
né quando sono blasfemo,
vi resto vicino come un estraneo
e vi amo come il vostro peggior nemico
oscillo come gli steli di grano
sotto il sole cocente d’agosto
277
mi chiedo ad ogni passo
se ci sarà ancora spazio,
se la colomba rinuncerà a volare,
aspetterà i fanciulli di là dal mare.
Noi siamo spettri
perché moltiplichiamo il raggio
Nicolaus:
Stephan:
frammentiamo la parola
come fa con la luce il cristallo,
siamo materia costretta al suo inizio,
la mostriamo alla massa
sorpresa al vostro passaggio.”
“Noi siamo la parola originaria
così come è stata
e come sarà domani..?!”
“Tu sei Maria io sono Marta,
san Luca c’avverte
che tra noi due si decide la storia.
Io mi perdo su molte cose,
ma una sola è necessaria,
tu fai la cosa giusta
che non ti sarà tolta,
racconti la nostra sconfitta.
Perché la storia è continua rivolta
è una curva sempre più ampia
come l’onda che apre la goccia
sulla superficie di quest’acqua.
Noi conosceremo la violenza
ma non fermeremo la nostra corsa,
ci venderanno come carne fresca,
come la risorsa più preziosa.”
Notizia.
Vincenzo Frungillo è nato nel 1973. Ha pubblicato Fanciulli sulla via maestra (Bari, 2002), Ogni cinque
bracciate. Un estratto (Premio Delfini, Modena, 2007). Ha pubblicato saggi sulla filosofia tedesca del
novecento, sulla poesia e la letteratura contemporanea. È presente in diverse antologie tra le quali
ricordiamo Quaderni di poesia contemporanea. 7 poeti campani e Poesie dell’inizio del mondo.
278
SALOMÈ BALLERÀ
di CHIARA GUARDUCCI
Buio. Voce fuori campo.
che bel mantello sarebbe
se si chinasse a contarci i capelli
o se fosse più nera di quel che è
tanto nera da non avere segreti
nessuna scintilla
ma
che bel mantello sarebbe
se si chinasse a contarci i capelli
dormirei
se fosse più nera di quel che è
subito sprofonderei
ma
chissà, magari un giorno si commuove e cade
ci fa leccare tutti i suoi fiori
luminosi
luci
luci
consolatrici
bugiarde instancabili
bagni di gloria
una pozza di consensi
se la bestia è come me
una bestia di corte, una bestia che dorme
con le zanne addomesticate
le unghie affilate, tinte per compiacere
ma guai se la bestia morde
lo farà una volta sola
questo è un numero di magia
mi stendo sul tavolo dell’obitorio
sull’ultimo vassoio
risplendo
sembro sul punto di sbocciare
tendo mani e schiena
eppure non esisto
sono un precipizio
è l’ora del pasto
vi ricordo che sappiamo mangiare solo ciò che è morto
e io nel vostro appetito non risorgo
è solo un numero ben riuscito
quindi godetemi senza contagio, non badate a ciò che dico
che dirò mai?
Tanto lo so che siete qui per vedere se
salta fuori qualche porcata
per sapere cosa gli avrei fatto,
quali e quante oscenità
se davvero mi ha resistito
e pesare i gemiti, sfiorare i sospiri
di questo scandalo mistico…
No, voi non siete qui per me
ma per vedere la testa
volete sapere dove l’ho messa
se l’ho regolarmente annaffiata
come sono i vermi che tarlano i santi
come sono i denti che mi hanno cancellata
certo è naturale essere morbosi
cos’altro ci resta?
279
siamo scimmie del grande circo, polli d’allevamento
nessuna verità ci abbraccerà
ma chissà, forse mi sbaglio
magari un giorno si commuove e cade
ci fa leccare tutti i suoi fiori luminosi
ed essere un unico giardino danzante
La notte mi cola addosso
mi ci potrei nascondere ma punge
resto inchiodata
nel lustro degli specchi
in questa gabbia d’occhi
dove mi chiamano Salomè
e mi lisciano, mi sospirano
mi accerchiano, mi spiano
“Salomè verginella bella, stellina della mamma
ah Salomè questo sciocco girotondo è tutto per te”
che sei la soubrette,
bellezza d’intrattenimento, preda in movimento,
i soldatini hanno bisogno di svagarsi
sono muscoli appesi alla noia ed avanzano per gustarti
dal sangue, dal marciume, dal deserto ripulirsi
sei uno slogan una certezza
dove c’è Salomè c’è festa
Si abbuffano, affondano la testa nel ventre degli animali
se ne stanno pigiati
slabbrati in un’orgia di vino di pietre preziose di frutta splendente
mi stancano
quelle ondate insulse di colori, colori rumorosi
in via di disfacimento, tessuti che coprono
mentre qui nel buio è tutto così chiaro… la luna così vuota…
assordante come la neve pianta il vuoto nella carne… è insistente
insiste a starci sul capo occhio aperto occhio chiuso
m’infogna, mi sogna, mi cresce in pancia
minuscola come un’unghia, fonda come un lago
un attimo s’incendia, un attimo gela.
Chi grida? chi è che grida in questo modo?
Chi s’illude di guastare la festa?
Dicono sia un profeta
una cimice del deserto un mangialucertole
ammetto di esserne piuttosto incuriosita, com’è
l’uomo che ha passeggiato nel regno dei morti ed è tornato col futuro negli occhi?
Com’è? questo can che latra
ladrone di segreti, lebbrosario santo, purissimo fango
è moro? calvo? basso? alto?
Com’è? questo tiratore scelto questo spazzamarmaglia
È glabro? È peloso? A cosa assomiglia?
Immagino sia sporco, avvizzito… scheletrico… grinzoso o mi sbaglio?
Non lo sanno
Il re non vuole
Nessuno ci parli nessuno lo guardi
Quando c’è odore di santità se la fanno tutti sotto
Io voglio vederlo!
Com’è vicina stanotte la luna, così vicina che non c’è altro da guardare…
però non è vicina no, no, è lontana, la luna è sempre lontana, è un addio fisso, conficcato nel cielo…
Non è mica un appestato! Tiratelo fuori ho detto!
Bisognerà pure che qualcuno lo calmi, lui urla e io non capisco una sola parola
Questi soldati sono così noiosi
sanno soltanto tacere
questi soldati sanno soltanto obbedire
è un sollievo avere solo una cosa così stupida da fare
perché obbedire a un re non costa niente
280
è un’anestesia
insomma vi decidete o no a portarmelo davanti?
non vorrete mica cancellare il mio sorriso di rugiada?
Profeta, ma che ci fai dentro un buco? Da lì si vede meglio Dio?
Bel soldato, guarda come sorride la Salomè
non c’è niente che sorride come la Salomè
il grano non sorride come me e neanche l’acqua sorride così
il sorriso di Salomè è sfacciato, mente senz’altro…
perché come si può sorridere in questo modo?
Viene al mondo come se fosse la prima volta, come un vagito,
sboccia per niente, è capace di fiorire nel pieno di una carestia o sull’orlo di una fossa…
ecco, adesso sboccia per te, triste guardiano…
profeta che ci fai dentro un buco? Da lì si vede meglio Dio?
Mi hai messo un gran freddo, sei contagioso
finalmente ti vedrò
il deserto che porti addosso, i segni del tuo amato.
sei così esposto…una radiografia, un mucchio di ossa che suonano
di questo m’incanto
il respiro scopre il taglio
non ho mai visto niente di così bello
la bocca è un taglio gustoso sulla soglia di un corpo bianco
ed io la voglio baciare
non so ancora se è morto o se sta dormendo
voglio baciarlo
le costole fuoriescono, spingono come stelle nel buio
È bello il suo corpo
una vela, un sudario
vorrei nascerci dentro, risvegliarlo…
aprirlo ai fiori di cui strabocca
farlo sgorgare da tutti i pori
come una fontana miracolosa
luce insensata, lava che danza
piaga che mi placa e mi addormenta
lasciati toccare lasciaci guarire.
Certo sapevo di non essere il suo tipo
e che lui era in missione speciale, ma dico
se ci ero riuscita io a vedere cos’aveva dentro
perché lui con me non fece altrettanto?
Io mi stavo donando, proprio io, la Salomè
quando una donna come me inginocchia le parole su un filo di voce
c’è da commuoversi e da rabbrividire
degnati almeno di sputarmi addosso
Sputare sputò ma non sul mio corpo
sarebbe stato compromettente
proprio con niente mi volle toccare
come fossi appestata.
Profeta, perché guardi lontano? perché non guardi me?
“baldracca, figlia di Babilonia, covo di lussuria”
no, la tua bocca non è fatta per questo spreco
è fatta per baciare il vento, per succhiare il miele
per sussurrare preghiere d’amore
ma chi è questo Messia che ci separa? Questo Messia che vai annunciando?
Io sento incombere solo la luna, non te la senti addosso?
La luna ci spia col suo occhio morto…
beati coloro che conoscono la miseria a braccia aperte
prendi il mio amore
un amore termale, terminale, il dono all’ultimo dell’acqua,
di una carezza, di un pasto sfacciato…
l’amore del condannato…
Chi è questo tuo amante questo tuo assente che ti rende spietato?
Scommetto che ti ha promesso l’eternità
ed è per l’eternità che ci mandi in malora
che peccato
ma il regno che verrà ci assomiglierà, sarà certo mutilato,
se mi pieghi le gambe e te ne resti bello instatuato
Che amore perverso…una pianta infestante, un contagio
281
perché un luogo così meraviglioso è chiuso ai miei respiri?
perché non posso addormentarmi in te?
perché non mi sei culla tu che sei culla di ogni meraviglia?
Tu che sei culla di ogni meraviglia sei duro come una pietra.
ti laverò via il veleno, te lo prometto…
non ti lascerò marcire, io bacerò la tua bocca e tutto ti sarà chiaro.
stanotte la luna è strana
è troppo casta, scoperta, oscena,
fruga e ci rovescia come una tasca
semina ossessioni, scava passaggi segreti
chissà cosa sta cercando…
il re è uscito, è il suo compleanno e non fa che guardarmi
vizioso, sta covando un capriccio
spero non mi abbia scambiato per il suo regalo
è triste mettere solo capricci nel cuore degli uomini
mi vuole portare a letto ma non può chiedermelo così mi offre da bere
“sai è terribile mio re lo vorrei tanto ma non ho sete”
allora col sorriso molle mi offre della frutta
“me ne vergogno mio re una delizia così invitante ma…non ho fame”
è sempre più smanioso, muore dalla voglia di esaudire un mio desiderio…
mi sembra di sentirli i suoi pensieri, sono così banali
“io ho tutto…dovrà pur volere qualcosa la mia Salomè”
ed ecco il re che s’inchina, che onore, mi offre un posto accanto a lui
“mi piacerebbe essere stanca invece non posso proprio stare ferma”
quando…quando finalmente…mi invita a danzare per lui
sì, salomè ballerà
lo ha sempre fatto
ballerà e ballerà
ma quanto è inebriante la sua danza
è il bacio del ventre la perla più introvabile
la danza di Salomè fa cadere muti
è un’apparizione scandalosa
un dimenticatoio e stavolta è così costosa…
chi mai potrà permettersela se non il re?
al re piace pagare, mostrare fin dove è disposto, mostrare l’immensità dei suoi tesori,
del suo potere e nel giorno del suo compleanno ha tanta voglia di esagerare
mentre danza dice quel che segue
“ti darò qualsiasi cosa, chiedimi tutto quello che vuoi, anche metà del mio regno”
“sicuro?”
“certo”
“davvero?”
“Mh-mh”
“wow che bello! Voglio che mi porti su un vassoio d’argento…”
“Cosa? Cosa? Un rubino? Una corona? La chiave del mio palazzo?”
“La testa di Giovanni.”
“Mia cara ma è disgustoso. È contro natura. È terribile. Una fanciulla bella come te con tutto quel che può
avere…ma com’è possibile?…ti stai prendendo gioco di me. Sai che ho dei tesori nascosti…eh sì, sì,
sì…ebbene io ti darò il diamante più pesante che possa esistere, migliaia di servi che lo sollevano e lo
porteranno ovunque andrai, io ti darò lo specchio più accecante, vengono da tutte le parti del mondo per
ammirarlo, è tempestato di luce e di oro, io ti darò il mio circo: domatori, acrobati e nani…io ti darò una
scatola dove c’è una minuscola fata che potrà trasformarti in ciò che vuoi…prendi il posto di tua madre te
lo regalo, sarai regina, nessuno oserà alzare la testa, decapiterai un popolo intero, striscerà sulle
ginocchia leccando la terra su cui cammini, chiedimi tutto quello che vuoi ma non mi chiedere quella cosa
orribile che altrimenti vomito e non sta bene nel giorno del mio compleanno”
“allora dammi quello che voglio”
“cosa vuoi? Me lo sono dimenticato…cosa vuoi?”
“la testa di Giovaaanni”
“ancora? ma sei proprio viziosa! Lo fai per farmi dispetto!”
“uffa! che colpa ne ho? così va il mondo. io sono la vanità ed è per questo che mi vuoi, ma ahimè io
voglio lui che mi darebbe fuoco, è sempre la solita zuppa, dove c’è desiderio c’è disgrazia e io e te
abbiamo la disgrazia di ottenere tutto ciò che vogliamo e allora perché lamentarsi e fare tante storie? Io
ho danzato, ti è piaciuto, bene, sono contenta, ma adesso tocca a te, i patti sono patti, li fai te che sei un
re, Giovanni subisce, è felice di diventare un martire, è nella sua natura, io subisco la sua ripugnanza
perché me la merito e mi ritrovo con una testa tra le mani, pensi che mi piaccia baciare i morti? Mi devo
accontentare, mi devi accontentare, perché tutto è vano, non c’è mica altro da fare”
282
“mi vuoi forse confondere? Sei proprio stupida, tu sei quello che voglio io e se dico che sei stupida sei
stupida perché io sono il re e posso rimangiarmi le parole posso mangiare tutto anche te”
“datti pace Erode nessuno è speciale, puoi abbellirti quanto vuoi, puoi costruire ponti, seminare guerre,
alzare palazzi, ma un filo d’erba qualunque per caso un bel giorno ti vince e ti sotterra
“Salomè non ti facevo così noiosa e ti darò quel che mi chiedi solo per tapparti la bocca e perché oggi è il
giorno del mio compleanno e non voglio perdere tempo”
hai la tristezza lungo tutto il viso
forse sta andando via
perché negli occhi sei felice e nuoti
sei la luna e il sole
è il momento migliore
finirà la sete e la fame
cadranno i veli, si spengeranno le lucine
è il tuo giorno più importante
infatti ci sono io che ti tengo tra le mani come un seme
cosa si sente quando non si sente più niente?
se ti guardo è tutto invitante
cosa si sente quando non si sente più?
forse è come un sonno
con qualche vibrazione
qualche frammento
scosse di immagini
hai la tristezza lungo tutto il viso
ma negli occhi sei felice e nuoti
scommetto che vedi me
i guardiani dormono
e noi fuggiremo
è questo il bacio che ci meritiamo
il vuoto che esplode in un solo colore
questa strage che diventa amore
Notizia.
Chiara Guarducci è nata il 2 dicembre 1968 a Firenze, dove vive. All'esordio poetico nel 1999 con l'opera
“Fino a dimenticare” (Gazebo), si affianca l'inizio del suo lavoro drammaturgico. I primi monologhi
vengono rappresentati al Teatro della Limonaia di Sesto, tutti interpretati dall’attrice Silvia Guidi, con cui
collabora fino al 2004, creando un teatro inquieto, intimo e surreale, che si spinge a precipizio nelle
incarnazioni dell’anima, dando voce a creature eccessive e indomabili. “Lucifero” (1999), attraverso la
caduta dell'angelo, esprime la nascita nei bisogni, il passaggio dall'onnipotenza alla fragilità più
incondizionata. “La carogna” (2000) è una favola per adulti, dove la voce narrante, eterna giostra
dell'amore, libera il magma e i guizzi del cuor trafitto, entrando nel vivo delle classiche fasi:
innamoramento, separazione e solitudine. I due testi vengono inclusi in “Intercity plays”, raccolta di
scrittura teatrale contemporanea. Con “Camera ardente” (2001) si conclude il viaggio, arriva l’ultima
creatura: è il diario di una donna che si 'sveglia' morta e dopo un primo inevitabile raccapriccio accarezza
i piaceri della quotidianità e del corpo, fino alla dissolvenza del saluto. La trilogia viene stampata nel 2002
sotto il nome “La neve in cambio” (CRT, adesso Petite Plaisance Editrice). Sempre nel 2002 su “Atelier”
pubblica “Attraversamenti”. Nel 2003 scrive il dialogo “Non ricordo più”, interpretato da Silvia Guidi e
Marco Vergani. Nel 2004, “Blu carne”, monologo noir, trasposizione al femminile di Barbablu,
rappresentato al teatro di Pontedera e inserito nella rassegna di “Fabbrica Europa”. Dal 2004 collabora
con la casa editrice “La biblioteca junior”, con la quale ha pubblicato “I tenebrini”, “Ulisse”, “Il vero libro
dei mostri e delle creature fantastiche” e “Il viaggio di Farfallina”. Nel 2005 ha scritto “Salome ballerà”
per Elisa Gestri, che ha debuttato al teatro trenta di Palermo. “SK” (2006) è il monologo ironico e
morboso di un serial killer. Scritto per Marco Cavicchioli, è stato in lettura al ferragosto noir di
Montevecchio. Dal 2007 con Silvia Guidi svolge attività di laboratorio teatrale scrivendo testi sulle
improvvisazioni degli attori. Con il testo “In tempo” nel marzo del 2008 ha partecipato alla performance
di Silvia Guidi e del pittore Antonio Davide tenuta nel museo di arte contemporanea di Arezzo.
283
ROSARIA LO RUSSO
DALLA RACCOLTA INEDITA “CROLLI”
VII
(Parti – In sogno)
Questo dolore che non dà piacere rifinisce in incubo.
Rifinisce un incubo in cui cucito su un catafalco ti rimpalmano
alle dure convenienze, con convolvoli di convenevoli
cucinati agli astanti, convolando a nozze astemie.
E presto via dagli astanti astenici e sbigotti via
verso conventi di detenuti, astenuti per un punto
alla perdura. E da capo ti diventa duro e disperato
lo nascondi fra le cosce grosse e ti fai mostro
di femmina ingravidata a nozze in coalizione con la morte
di certe parti, inquinati, inique. Corte le braccia mie a penzoloni lungo
una svolazzante sottoveste candida mettono in croce il cimitero
dei canini miei famigli, fra gli artati bisbigli di riprovazione
degli astanti in sbadigli. Suppura così una grossa privazione,
è vero, siamo piuttosto figli che padri e madri intramurati
da guaiti nottambuli. Ambulanti finiti sulla carrozza cimiciosa
di un treno-camicia-di-forza, pel breve tempo di elemosinare
finti sordi sul treno-desiderio che prendo per non sentirmi sola,
con la scusa di venire da te per stare finalmente un po’ sola. Scusa
se il controllore zoppo che sorride solo per amor di divisa
m’affaccia diversa, divarica un panorama diviso dai tuoi goffi
preamboli, l’imbarazzo di te che ti diverti alla facciaccia
dei miei graziosi vaffànculi allorquando ti scusi e giri il culo e
te ne vai per diversivo rassegnando losche dimissioni!
Questo dolore quando dava piacere era lardo che colonna,
era un vezzo riflesso ladro d’oro tra vetrine di mercerie
smeriglie di colate di bagnoschiuma vermiglio e detersivo
smeraldo per lavastoviglie. Avvezza alle macerie d’ora in ora
avvizzisco come la stretta contrita svanisce alla promessa
che dismette le mani in frantumi, sbrecco di piatti in ira
al tutto tondo. Divezzami dal cazzo che gongola,
scavezzacollo, divorziami. Scavezzami dalla promessa
permalosa della specie che ci gogna, stufi mammiferi
da zoppica-cicogna e babbibabbuini al largo della mente.
Coppie
I
L’amore, come la malattia, ci rende inermi e anonimi.
Fidarsi di un dorso glabro che barcollante
anche in quel giorno non abbordò la morsa,
non deve, non posso, per sopportare ancora
la libertà di un cuore empio, che seppur tracolla
nel buio brancolando ancora ebbro pulserebbe.
Eppure tutto dondolava quiescente in un mare di terra scossa
coi suoi colori che sbiadiranno già così come li vidi
in un tempo di sonno desto da cocainomani,
impennato lui da trigliceridi, lei in vero amaro di scorza cerata,
indigente e gentilizia a un tempo: il nostro connubio tremulo
annullo, un null’altro che basculante subaffitto,
con sabbatica pazienza. Inevitabile sì, che si
strappino i dorsali a furia di crinali e dossi.
E finalmente subisce un distacco per essemmesse
molto sommessamente l’occhio bello.
284
Ma tu non ci guardare nel mentre in mille
accattoni di rimpianto rifluiamo in un addio molto civile.
II
Adesso posso attendere serenamente alle consolazioni dell’uomo.
I giochi di figura si fanno massimamente perfetti coordinando simmetrie di due sorrisi presi al volo con
lame radenti in superficie invernale come sembra leggerissimamente ma in realtà solo per volontà fàtica
e duri allentamenti sintonici percepitando dalle volute: crèpitino in alto i cuori! Doppi loop e toeloop di
travianti butterfly e tripli stacchi di alfredi per lievi che siano gli affanni carsici su cui sorvolare
allegramente!
Come faranno come faranno che è cosa di femori saldissimi e pùlsàr di collageni elastine e arterie
plastiche come elastici slanciati a non mai tremare tornando in pista con tripli caparbi ics di ginocchia
olimpioniche. Abradere scivolando senza rattristare mai e poi mai un braccio sulla vita che accompagna
volute (lutz) sotto zero,
e stacco pubblicitario.
Oh gli atleti del ghiaccio onorano di fatto la legge che è della vivialità, virilmente rivali rivoltandosi
a un movimento che ci manca, a noi che la legge stessa intitola senza mani senza piedi tutt’orecchiocchi
e (doppio twist e triplo slancio doppio triplo salto) per quale ricaduta solo un appoggio conta? La
perfezione dell’appoggio che continua a sorridere puntando bolscevico e circense nonostante l’estrema
difficoltà sia spirale e la storia una leggerissima sequela di appesantimenti stanchissimi di esecuzione a
chi, senza emozione, ma ben parati tecnicamente, con classe immensa innalza i cuori di vecchi imperi ma
carendo oramai in carattere di coreografia. Scandite con mani sicure il miglior ritmo in assoluto e in
parallelo, valorosi, animosi, con franchezza! Che meraviglia! Per ciò che scivola (axel) all’indietro
sommergendo lo stupore con scrosci d’applausi su sagomate di spirali basse, regola su regola, fatti
taglienti, millimetrici, che fatìca! E che sollievo quel sollevamento, credo che adesso stiano tremando a
quell’altezza incredibile di rotazione, in gara ora mano nella mano e sguardo nello sguardo, è un esercizio
terrificato, come di romeo e giulietta, nella molto loro elegante sequenza. Non esiste più un doppio, ma la
ripresa in aria dove ruota lei tutta su quella mano olimpica e limpidi sorrisi, una lunga corsa immobile e
genuflessa, saltelli rapidissimi a prova di nervi sciatici che sanno di non poter sbagliare, non adesso, non
intorno alla vita bella, che corre su per un’intesa angelica e brutale volitando, e ci percipitano, con una
zampa in alto come di grue ferita, i pattinatori, mentre si scambiano - ho l’impressione - un’acrobatica
carezza su capelli viola di ghiaccio. E poi una trottola, due tre trottole di campioni in vitro, da quel
ginocchio sinistro si diparte in morbidezza uno slancio di gamba che pensa e uno di gamba che, persa,
divarica un’anca a fionda ed è lei che versa una furtiva lacrima: smesso l’equilibrio all’unisono nel
sollevamento finale: l’oro del coraggio: l’argento della caduta: scorticata tremendamente la superficie
crepino gli artisti avanti dipingendo la combinazione più puntata, pervadano ad ingrossare il podio dei
filanti nella diaccia bufera di luci ritratta dall’occhio che subito, a scommessa, si ritira:
III
perché non esiste un corpo che possa veramente ravvederne un altro.
Due buchi due bui nel buio abnormi due occhi anfratti di lucore opaco due apatici ossi buchi che
spolpati e neri nero rutto di seppia affondano fra quelle ciglia flagelli di dio ciglia gigliate due villi due
aruspici frattaglie agguantano ogni loro rado segnale tremolìo in borsa sfiducia che spaesa il governo di
questi adocchiati calazi guanciali le palpebre un nervo sfilato un raro segnale adocchiando uno
spaesamento abbassano lo sguardo due vili chicchi senza semi due acerbi ibernati assorti nella
distrazione in intelligente sguardo che scavalca Scalpito: come potevo non farmi fuori scalpitano: due
sevizie capitali l’umido autunno che scende sul mio viso rifratto da un loro rado segnale come potevo
non farmi fuori? Aiutami il negoziato negato Notti di sogni tetri e mattini luminosi negati l’umido
autunno che scende sul mio viso moccio di cispa due gattini incimurriti opali due opali
onici onicofagici fioritura di mughetti all’ombra di bocca neonata due vecchi sdentati due vecchi
incontinenti vinili straniti rotano Scalpito: inani guardano come i morti all’infinito si voltano sono
perduta (come potevo non farmi fuori?) due stelle nane nane
giganti implodono arrossite arrossiti sfondati vaselli nocchieri senza nocche Aiutami frenano
frenano ali di falena nel buio due bui nel buio sfarinacci smarrisco ogni rado segnale in interminabili
pomeriggi d’autunno in cui fa buio presto perdo la vocazione non vista incistano una perdita di
invocazione non esclamano negata esclamazione malanno di stagione due autunni umido muro di
muschi due topi muschiati il mio viso muro del pianto compianto amore perduto amore compianto
negare sempre negare l’evidenza non congiunte vite Soffre di congiuntivite: come potevo non
sciogliermi? Deboli legamenti in assenza di congiunti l’eredità si perdono due nel crepuscolo cruciali e
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stanchi crociati o due criceti isterici gufano emianoptici morbinosi basedorf gonfi di giallo antipatico o
slabbrati come babbucce calano calunniando L’umido autunno che scende sul mio viso ne
scapito negromanti opali in intermittenti emianoptici sguardi sguardi
corpuscoli oscurare oscurare oscurare scostumati.
Notizia.
Rosaria Lo Russo è nata a Firenze, dove vive. Poetessa, traduttrice, saggista, lettrice-performer, attrice e
insegnante di lettura di poesia da alta voce, si occupa di poesia e di teatro e dei rapporti fra le due arti, di
drammaturgia, letteratura teatrale e letteratura comparata moderne e contemporanee. Ha pubblicato i
seguenti libri di poesia: L'estro (Firenze, Cesati, 1987), Vrusciamundo (Porretta Terme, I Quaderni del
Battello Ebbro, 1994), Sanfredianina, in Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano (Milano,
Crocetti, 1996), Comedia (Milano, Bompiani, 1998), Dimenticamiti Musa a me stessa (con sedici disegni
di Renato Ranaldi, Prato, Edizioni Canopo, 1999), Melologhi (Modena, Emilio Mazzoli, I Premio Antonio
Delfini 2001), Penelope (Napoli, Edizioni d’if, 2003). È appena uscito il volume di poesia con cd audio Lo
Dittatore Amore. Melologhi (Milano, Effigie, 2004). Sue poesie, traduzioni (da John Donne, Sylvia Plath e
Anne Sexton) e saggi critici sono apparsi su "Semicerchio. Rivista di poesia comparata", di cui è
redattrice, "Testo a fronte", "L'Area di Broca", "Poesia", e in varie antologie, fra cui Poesia
contemporanea. Quinto quaderno italiano (Crocetti, 1996). Ha curato tre volumi di traduzioni di poesie di
Anne Sexton, Poesie d'amore (Firenze, Le Lettere, 1996) e L'estrosa abbondanza (Milano, Crocetti, 1997,
insieme ad Antonello Satta Centanin e Edoardo Zuccato) e la traduzione delle poesie di Erica Jong, Miele
e sangue (Milano, Bompiani, 2001). Per Le Lettere di Firenze è uscita di recente l’antologia sextoniana
Poesie su Dio. Come performer e attrice ha partecipato a varie rassegne e letture pubbliche e come
lettrice di poesia ha partecipato a vari incontri dedicati alla poesia medioevale e contemporanea.
Partecipa regolarmente ai principali festival, rassegne e convegni di poesia nazionali ed internazionali.
Come lettrice e performer di testi da lei scritti o come interprete della poesia contemporanea e non, ha
collaborato, fra gli altri, con Piera degli Esposti, Iosif Brodskij, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Nanni
Balestrini, Friederike Mayröcker, Erica Jong, e ai programmi culturali della Rai. Per Raisat 1 ha
interpretato come voce recitante un'antologia di poesie americane del Novecento da lei selezionate, La
poesia del mito americano, all'interno di un documentario sul mito americano, per la regia di Francesca
Pinto. Ha partecipato come rubrichista fissa (con la rubrica, Dire la poesia, sulla lettura ad alta voce dei
testi in versi) alla trasmissione televisiva "L'ombelico del mondo", ideata e diretta da Nanni Balestrini,
Lello Voce e Sergio Spina, con la regia di Franza Di Rosa, per RAI 3 Educational. Ha curato per Rai Radio
3 Suite, Storyville, a cura di A. Bottini, Vita di Janis Joplin. Ha lavorato come poetessa e voce recitante in
un progetto teatrale multimediale diretto dal compositore romano Luigi Cinque e realizzato con il
contributo della Commissione Europea, e in collaborazione con alcuni fra i principali teatri europei,
africani e medio-orientali. Nel maggio 1999 il debutto di Hypertext Ulysses a Firenze, Fabbrica Europa,
Stazione Leopolda, con, fra gli altri il griot senegalese Badara Seck, Antonio Infantino, l'attrice turca
Serra Yelmaz. Repliche a Parma, Palermo, Bolzano, Roma. Collabora con musicisti e compositori, fra cui il
violinista Jamal Ouassini e la compositrice Patrizia Montanaro, Gianna Grazzini, soprano lirico e jazz,
direttrice dei Jubilee Shouters e Luca Brunelli Felicetti, percussionista e fondatore dell’Ensamble Anima
Mundi Consort, a spettacoli-concerto di poesia e musica, sia come lettrice dei propri testi che come voce
recitante di poesia, sia italiana che facente parte di altre tradizioni, lingue, epoche e civiltà. Nel 2004 con
Penelope. Tragicommedia lirica in un atto (musica: Patrizia Montanaro) ha vinto la terza edizione del palio
poetico-musicale “Ermo colle”.
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MARIO LUZI
DA “IL FIORE DEL DOLORE”
Prologo
Cos’è una vita
una vita nella vita
immensa incommensurabile.
La mia ha preso senso
dal non essere più, dall’essermi
stata tolta…
ma non era mia,
era del mondo, era della vita.
Signore, la mia vita
in te, presso di te misteriosamente
tua e mia,
pure tra gli uomini,
i poveri, i reietti
tra i quali sono stato
a faticare, questo almeno resti:
gli uomini d’onore non sono neanche uomini,
sono meno che uomini, si degradano da soli
al rango di animali
aiutali
a liberarsi dalla indegnità
ma aiuta prima le loro vittime.
Aiuta, ti prego, coloro che li aiutano.
**
L’opinionista
La mia incredibile professione!
Se appena prendo un poco le distanze
e ci rifletto... Maître à penser...
Qualcuno si fa un vanto del mestiere.
Io non presumo di meritare il buffo privilegio
di quel nome.
Ma quel ruolo mi è assegnato, ahimè,
l’abitudine mentale mi si è cucita addosso.
Mio caro direttore,
io so che presto mi telefonerai
perché da questo fatto io tragga qualche sugo,
possibilmente qualche solenne avviso.
Forse sei troppo intelligente e non lo farai.
Ma io sono lo stesso
come per un tic
mobilitato nell’intelligenza del presente
e questo episodio in questo ambiente ne offre d’argomenti.
Per di più sono ambigui e controversi,
tutt’altro che lampanti: e questo giova
alla nostra moderna inclinazione alla complessità.
E innegabile,
il demone dell’interpretazione mi è entrato nelle viscere
mi sento obbligato alla mia parte
di largitore di opinioni.
Però oggi, lo riconosco, tra i fatti della vita
e il giudizio dell’uomo su di essi
c’è qualcosa che vanifica la nostra presunzione.
Accadono casi assurdi, enormità,
noi ne sosteniamo male il peso,
però lo sosteniamo.
La spiegazione c’è, è il nostro pane.
Verrebbe la logica se no umiliata parecchio
e noi siamo alla caccia di logicità
287
anche nel caos degli avvenimenti.
È un vizio? una dignità, come dicono altri?
Non so dare un parere, si alternano i valori
di questa operazione nella mia mente
e anche nel mio cuore.
Talora l’inesorabilità dell’accaduto
vige come macigno, grida la sua assolutezza.
Umile assolutezza ciononostante grandiosa.
Allora, caro direttore che ancora non mi chiami
e taci di là dal tuo telefono, sono qui che attendo
deciso però a rifiutare.
Il pudore di fronte alla semplicità
irrefutabile dell’accadere delle cose,
il loro mistero elementare è più forte di me,
vince. Mi trasformerò, se vuoi,
per non restare in debito, in un tarlo che rode il silenzio
e l’omertà e fa parlare gli altri e li ascolta.
È più modesto questo lavoro ma non avvilente.
Sì, talora la migliore opinione è non averne
e non crederla possibile — questo lo avevo altre volte sospettato.
Oggi diviene una filosofia di resa
che certo non mi inorgoglisce
ma mi occupa e m’invade.
Stanchezza mia o progressiva
inintelleggibilità del mondo?
Vai, telefona direttore, dammi il colpo di grazia.
A me e ai miei pari.
Penserò per qualche istante
con i pensieri propri di questi cittadini,
nel rammarico dei molti
che si sentono colpiti e offesi,
con i sospetti e le supposizioni dei molti disorientati.
Forse è un pensiero più serio e più legittimo
perché non pretende di esserlo.
Ho molta entranza nei luoghi e nei recessi,
io, e ora mi ridurrò a semplice presenza mediatica.
Già lo sono, mi sento perfino una spia.
Non ti farò rimpiangere le mie cogitazioni,
direttore, ti riempirò decentemente
qualche colonna o pagina,
ti condurrò in un giro alla caccia di realtà,
nel sogno e desiderio inverosimile di pura verità.
[…]
**
Giovanpietro e Annarosa. Interno domestico con giardino
GIOVANPIETRO
“Era solo e mangiavo spaghetti quando entrarono ad arrestano.”
Tieni a mente questa frase.
È una frase atroce e quasi senza crimine.
L’ho trovata in una cronaca appena ritardata dell’avvenimento.
Che voleva significare il suo scrittore?
Dimmelo tu, a me nascono dubbi.
Era la bruta routine dell’omicidio che intendeva maledire?
o la sua realtà impersonale e automatica trasudava indifferenza
anche nelle parole dello scriba?
Sono segni catastrofici in ogni caso.
ANNAROSA
Non c’è, Giovanpietro, ragione di sorpresa.
Di questo ne sappiamo troppo e niente.
La morte violenta ci sta di casa dalle nostre parti,
e non le nostre solamente.
288
GIOVANPIETRO
Che vuoi dire, Annarosa? Non seminare tenebre,
ti prego, anche dove c’è un po’ di sole.
ANNAROSA
Calmati, niente di particolare.
C’è, lo vedi, una perdita di correlazione
logica e umana di qualsiasi specie
tra soggetto e oggetto, tra sentenza di morte e il suo bersaglio.
Di chi è in mano, Giovanpietro,
la vita umana in questi anni?
Difficilmente ci rendiamo conto
ma un potere neutro e cieco
si aggiunge agli altri di nostra antica scienza...
GIOVANPIETRO
…passando per le mani di chiunque
lo voglia intercettare per un poco
di cassetta o di modico salario...
è questo, lo so, il tuo parere.
ANNAROSA
Più o meno.
GIOVANPIETRO
E anche — ma questo devi confermarlo,
può essere una mia illazione — anche passando
per l’anonimo e automatico cervello
della direzione dell’impresa.
ANNAROSA
Avrei usato altre parole dalle tue.
Avrei detto sicario a pagamento,
avrei detto l’ufficio mandatario
di una sede centrale inesistente
eppure decisiva...
GIOVANPIETRO
Sì, nessuno è responsabile di niente,
però tutto accade
e ha una logica nascosta che non penetriamo per niente.
Ma ecco arriva Salvatore
e forse lui avrà altri argomenti.
(Entra Salvatore)
ANNAROSA
Ben arrivato, Salvatore.
SALVATORE
Salve amici.
Avete ritirato in fretta sdraie ed altri arredamenti,
bravi, no, non credo, il temporale non esploderà.
ANNAROSA
In ogni caso stasera si sta bene all’interno,
c’è troppa agitazione nell’aria,
nel giardino, nelle piante. E anche Giovanpietro
è meglio metterlo seduto.
Il problema è che ci stia
e ci rimanga almeno per mezz’ora.
GIOVANPIETRO
Perché, Annarosa, argutamente mi diffami?
Ti diverti sempre alle mie spalle
e lo fai con i più stretti amici...
289
questo poi, lo sai è il più pericoloso.
Da dove ci provieni Totò dolce? Parla.
SALVATORE
Mi sbaglio o sei tu alquanto incarognito?
Qualcosa passa per il capo a sua eccellenza
quando è così tepida.
GIOVANPIETRO
Pendo dalle tue labbra... Vieni da Palermo
o già eri attendato qui a Mondello?
SALVATORE
Qui da pochi giorni. E in pieno isolamento
in mezzo al formicaio siciliano.
GIOVANPIETRO
Vorremmo Annarosa e io porti un problema,
il solito di sempre che ci assilla,
ma ora in un aspetto nuovo mi pare ci confonda le idee meglio.
SALVATORE
Sarebbe cosa questo aspetto nuovo?
Io non mi faccio tanto accalappiare
dalle trasformazioni che si dice
siano intervenute nel frattempo.
ANNAROSA
Non ti colpisce niente di cambiato?
SALVATORE
Credo che solo il corpo dei sicari,
vecchia corporazione, sia soppresso
e subentri una moltitudine variabile di killer
in affitto, di volta in volta.
ANNAROSA
A te che un prete,
per di più venerato,
sia messo a tacere a colpi di lupara
non dice proprio niente?
GIOVANPIETRO
Non era nel codice dell’antica istituzione,
che io sappia.
Finché l’istituzione è stata tale
e aveva le sue regole...
SALVATORE
È vero, sì, ma chi vi dice
non le abbia ancora le sue leggi
nelle anodine e funeste soluzioni
trovate sui computer e non su scelte
del capo e dei suoi luogotenenti come prima?
Sempre si colpisce non a caso
su un disegno preciso con un fine
che poi si svela tutto quanto. È un fine politico.
GIOVANPIETRO
La politica della mafia si nasconde
tra i grandi capitali finanziari.
Ricordi? La vecchia onorata società
era più esplicita nel suo linguaggio criminale.
Ora si cela sotto le grandi manovre finanziarie.
ANNAROSA
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Può tutto, ideazione, azione e concezione
passare per la banca.
Ma la regia non è d’affari solamente
come credono, c’entra molto la predica,
il discorso e la loro corrispondenza
se mirano a scalzarne il prestigio.
Questo affronto brutale contro don Puglisi.
GIOVANPIETRO
Sarebbe l’ultimo segnale di suscettibilità gelosa...
ANNAROSA
Che orrore! Si chiude questa sera.
[…]
**
Sala vescovile
SUA EMINENZA
Ci troviamo ancora per la nostra consultazione.
È una onesta sollecitudine ripeterla,
ci tiene informati e collegati,
noi confratelli, amici, devoti estimatori di padre Giuseppe.
La procura pare abbia esaurito il suo lavoro,
la meccanica del fatto sembra chiara,
il colpevole è confesso,
si è trovato perfino uno squallido mandante.
Sembra quasi una lite di quartiere.
Il processo è istruito.
Eppure in molti cittadini il sentimento è vivo il sentimento che non siamo a niente.
Io non voglio interferire.
La giustizia terrena noi la propiziamo,
per una prima tregua, in vista della pace.
Ma niente più di questo noi possiamo.
Abbia dunque il suo corretto corso in mezzo alla palude.
Vorrei invece invitarvi
a qualche diversa riflessione
che forse sposterà di un poco il nostro bersaglio.
Voglio dire il centro e il punto focale della nostra intelligenza.
Il nostro secolo è stato benefico e abominevole in misura ugualmente gigantesca.
Di ciò si è parlato e straparlato in molti luoghi e sedi
negli ultimi tempi.
Molti degli argomenti contrapposti
sono sicuramente validi nel bene e nel male, nell’utile e nel deleterio.
E tuttavia noto una forte dismisura
tra gli acquisti e le perdite.
Queste sono più immani
e stanno in una parola sola: dispregio.
Offesa all’umanità dell’uomo in cui Cristo s’è incarnato.
Scempio della natura.
Ma guardiam