I PROBLEMI DELL’EDUCAZIONE DEI FANCIULLI NON VEDENTI IN ISTITUTO* Enrico Ceppi [abstract] Le dinamiche finalità pedagogiche che dovrebbero informare gli Istituti per ragazzi con minorazione visiva si scontrano spesso con la staticità di queste istituzioni. Le proposte di Enrico Ceppi per una loro radicale trasformazione [fine abstract] La coscienza della società contemporanea è giunta, attraverso successive evoluzioni e profonde crisi, a investire in una critica serrata, condotta spesso con metodi scientifici, alcune strutture che, proprio per le loro specifiche finalità implicanti gli interessi di minoranze scarsamente significative all'andamento economico e politico della società stessa, erano sin qui sfuggite all’analisi dei tempi, rimanendo staticamente vincolate a forme per le quali non era mai stata sollecitata una verifica. Il problema dell'assistenza prima e dell’educazione poi dei minori posti in difficoltà da disturbi più o meno gravi e da alterazioni più o meno permanenti è sempre stato affrontato sul piano teorico dell’elaborazione dei principi e dei metodi, tenendosi in maggiore evidenza un sostanziale interesse prospettico che, in ultima analisi, riconduceva tutto il problema dell’esame e del trattamento delle minorazioni, alla ricerca di più approfondite tecniche per la preservazione e per lo sviluppo della normalità. È potuto così accadere che istituzioni destinate ai minori siano rimaste per decenni e, in alcuni casi, per oltre un secolo, vincolate a norme statutarie e a indicazioni programmatiche di fondazione in netto anacronismo con l’evolversi della società e in pesante contraddizione con l’affermarsi di tecniche pedagogiche e didattiche frutto di un’avanzata esperienza scientifica. Accadde quindi che, progredendo le tecniche di intervento, migliorando la possibilità di conoscenza del minore, schiudendosi a lui in modo sempre più significativo le porte della società, con un progressivo auto-demolirsi dei pregiudizi e una corrosione del pietismo e della diffidenza, si venisse ad accentuare il dissidio tra la staticità dell'istituzione e il dinamismo dei suoi compiti. Possiamo ritenere che oggi l’acuirsi del dissidio tra i contenuti organizzativi delle istituzioni e le forme pedagogiche che la società sollecita da esse, sia giunto a un punto di rottura, tanto che è lecito attendersi una radicale trasformazione per la quale le strutture organizzative e amministrative si adeguino ai tempi e ai modi di intervento pedagogico. * Tratto da “L’educazione dei minorati della vista”, a.1 (1973), n. 1, pp. 5-8 e a. 1, n. 2, pp. 3-7 1 La polemica sugli istituti II discorso impostato in termini generali come critica ad una situazione attuale, ci consente di entrare direttamente nel cuore dell'argomento che maggiormente interessa la nostra ricerca e che ovviamente ha per tema fondamentale l'istituzionalizzazione dei fanciulli non vedenti. Alcuni quesiti di fondo si pongono ineluttabilmente come preliminari ad una successiva indagine. Sono i nostri istituti oggi in grado di assolvere il compito dell'educazione dei fanciulli non vedenti? La società, nelle sue molteplici dinamiche, famiglia, scuola, gruppi organizzati, è in grado di offrire una alternativa positiva ed efficiente alla istituzionalizzazione? In particolare, l'esigenza di portare avanti un ricupero integrale del fanciullo non vedente, tale da garantirgli uno sviluppo armonico e pienamente funzionale della sua personalità, può essere soddisfatta senza che sia sacrificata in parte o in tutto la normalizzazione stessa intesa come processo di assunzione di una condotta umana autonoma e responsabile? Non si può portare avanti una critica generica agli istituti per ciechi che da un secolo operano con alterna fortuna in Italia senza preliminarmente chiarire il concetto di istituto prospettato nei suoi compiti, nelle sue funzioni e nelle sue strutture. La critica dovrebbe quindi anzitutto occuparsi di indicare sul piano pedagogico alcuni fatti educativi che dovrebbero delineare nella moderna concezione i compiti degli istituti stessi e, soltanto dopo aver ben chiarito ciò che la società si attende da questo particolare tipo di intervento organizzato, verificare fino a che punto le strutture attuali rispondono alle esigenze delineate come irrinunciabili per risultati positivi nell'educazione del fanciullo non vedente. La famiglia come criterio per l'organizzazione dell'istituto Può l'istituto integrare o vicariare la funzione della famiglia nei confronti di una normale crescita psicologica del bambino che non vede? La famiglia, nella sua struttura normale ed attiva, assicura il rapporto diretto tra il bambino e l'adulto, consentendo al bambino stesso di progredire attraverso una successione di atteggiamenti imitativi, di simbolizzazioni, di stimolazioni che lo portano ad acquisire, in modo sempre più chiaro, una sicura coscienza di sé, una adeguata confidenza nell'ambiente che lo circonda, una fiduciosa attesa delle novità insite nel processo conoscitivo e nello sviluppo della vita affettiva. Gli effetti positivi dell'ambiente familiare si manifestano pertanto negli atteggiamenti di sicurezza, di consapevolezza, di stima e di conoscenza del proprio corpo, di eliminazione dell’ansia dell'ignoto, che consentono al bambino di avvicinare la realtà del mondo che lo circonda in un modo costruttivo e positivo per la sua crescita. 2 L'istituto dovrebbe poter assicurare un analogo processo di sviluppo, garantendo un ambiente che favorisca, in collaborazione con la famiglia, uno stato di sicurezza, di fiducia in sé, di costante presa di coscienza della realtà circostante, di viva stimolazione degli interessi e delle curiosità, di positiva evoluzione di un pensiero divergente e creativo in grado di assicurare al bambino non vedente la possibilità di essere se stesso, di crescere secondo le potenzialità insite nella sua persona. Si tratta di un compito estremamente impegnativo per un istituto, perché implica per il suo attuarsi strutture selezionate e qualificate e soprattutto la disponibilità di un personale che sinceramente e appassionatamente creda nella sua opera e nei suoi compiti. Le strutture, da quelle architettoniche a quelle amministrative, dall'impostazione pedagogica a quella più specificamente metodologica, debbono adeguarsi alla dimensione della famiglia, riproporre con contenuti efficaci e concreti l'atmosfera della casa, dell'ambiente dove si vive accanto agli altri, pur rimanendo il più possibile se stessi, dell'ambiente dove si ha modo di comprendere le esigenze degli altri, di manifestare le proprie con la possibilità di essere compresi, senza dover sacrificare nulla all'anonimo, alla norma oggettiva ed estranea, alla struttura sovrapersonale e impersonale, movendo, nell'interazione della molteplicità delle presenze, verso l'affermazione costante dei valori primari della persona. Occorrono quindi strutture organizzative che avvicinino, in un comune impegno di vita, il bambino all'istituto, in modo che sia consentito al minore di ritrovare accanto a sé l'adulto che ha fiducia in lui, che è fonte di sicurezza, che si costituisce come centro di imitazione e guida ideale alla crescita. Occorrono educatori veri A questo punto, si introduce l'analisi delle figure educative che dovrebbero dar vita effettiva e umana all'istituto. Perché i fanciulli che non vedono possano aspirare ad essere uomini tra gli uomini, uomini integri nelle loro capacità di partecipazione alla vita sociale, uomini forti in grado di reggere le gravi difficoltà derivanti dallo stato di minorazione, è necessario che le loro esperienze di vita nell'istituto, sin dai primi giorni di permanenza in esso, siano compiute accanto a uomini veri. Ecco, a nostro avviso, la prima e più importante definizione dell'educatore: che sia un uomo vero, sicuro di sé, consapevole della sua opera, seriamente impegnato in un compito che richiede competenze tecniche, conoscenze scientifiche, ma, soprattutto, capacità di amare e profonda attitudine a dare agli altri. Non si può essere educatori senza aver operato nella propria coscienza una scelta di fondo nel modo personale di valutare gli altri; non si può educare senza credere in modo 3 convinto che la nostra opera sia indispensabile e importante e che da essa possa dipendere la possibilità di crescere e di formarsi di una esistenza umana. La situazione attuale Corrispondono ai criteri precedentemente e sommariamente tracciati le attuali strutture degli istituti per ciechi in Italia? E inoltre, come nel passato, questi istituti hanno assolto il compito ad essi affidato dalla società? Gli austeri edifici, già sedi ottocentesche di conventi o di pubblici stabilimenti, le monumentali costruzioni a piani sovrapposti che la filantropia o la pubblica assistenza hanno inteso offrire ai bambini non vedenti come sicuro asilo contro l'abbandono, l'incuria e spesso la miseria, costituiscono oggi una triste ed anacronistica testimonianza di una formula di intervento assistenziale, superata nei suoi contenuti e nella sua validità. Vorremmo vedere invece degli edifici austeri e anonimi, invece delle monumentali costruzioni, delle case alle quali ci si possa dirigere con fiducia e senso di sicurezza, che offrano anche alla sola vista l'immagine di un'accoglienza calda ed affettuosa, nelle quali i bambini possano pensare alla casa paterna, ritrovandovi gli stessi echi e le stesse dimensioni, ricreandovi situazioni analoghe e momenti simili. Più ancora vorremmo pensare che tra quelle mura si aggirino persone disponibili e non dei freddi operatori, dei tecnici dell'educazione preoccupati soltanto di una carriera e di un orario, affaccendati intorno a leggi e a rivendicazioni, preoccupati di assicurare a se stessi un posto nella società, strumentalizzando tanti bambini che, nella desolazione della solitudine, tendono ad essi fiduciosamente le mani. Quegli austeri e monumentali, e oggi qualche volta cadenti, istituti hanno avuto nel passato un volto ed una voce di profondo calore umano; hanno costituito il punto di raccolta di tante piccole esistenze sfiduciate e abbandonate, ricoperte dal gelo dell'ignoranza e dalla tristezza di una pietà sterile; sono stati per quelle piccole esistenze il punto di partenza e la poderosa spinta nascosta per una scalata dura e difficile nella vita: hanno consentito a tanti non vedenti il rientro nella società a testa alta e con le carte in regola. Forse il miracolo, nonostante l'inadeguatezza delle strutture, nonostante la spersonalizzante organizzazione dell'ambiente, si è reso possibile per un incontro di amore tra gli adulti che avevano scelto a loro dimora quegli ambienti, e i bambini che, nonostante tutto, vi avevano sentito, per la presenza di quegli adulti, il calore della casa. Oggi, purtroppo, quel calore si va spegnendo; gli adulti passano sempre più indifferenti nella casa e restano le strutture inadeguate e insufficienti, restano gli ottocenteschi e cadenti 4 edifici, ne sorgono altri monumentali e inutili e l'interrogativo della validità dell'istituto si ripropone con più angosciosa attualità. Le condizioni per il rappopto educativo Occorre quindi rifarci dalle persone per ricostruire una realtà sociale che possa ancora oggi qualificare in modo positivo la sua presenza: occorre rivedere alcuni fatti educativi direttamente inerenti al modo di stare con i ragazzi, di parlare loro, di considerarli, poiché il fanciullo, e soprattutto quello non vedente, crescerà nella misura in cui gli adulti avranno fiducia nella sua crescita e dimostreranno di cooperare alla realizzazione di essa. Soltanto se sarà possibile rilanciare l'opera degli educatori, ricomporre queste figure sul piano professionale e su quello giuridico nelle componenti umane e nelle capacità di scelta, sarà possibile dar vita anche ad un più attuale discorso di strutture edilizie e di organizzazione amministrativa. Le strutture valgono nella misura in cui noi sapremo farle valere e fino al punto in cui la dimensione umana di chi le attua saprà renderle vita. Un'accogliente casa, che sia priva della coesione familiare, della serenità e della concordia dei componenti della famiglia, non sarà accogliente e non sarà neppure casa: gli oggetti e le cose, la natura stessa non hanno volto né voce, se non risuonano degli echi di chi vive in mezzo ad essi e con essi. La trasformazione che deve essere operata, ponendo al centro del rinnovamento la figura stessa dell'educatore, appare come una realizzazione imponente e nuova, proiettata verso l'avvenire: ma non potrebbe essere evitato questo sforzo della società riconsiderando la possibilità di restituire alla famiglia il suo primario compito di assistenza e di educazione anche del fanciullo non vedente? La realtà sociale di oggi consente alle famiglie in genere, a tutte le famiglie e non soltanto ad una ideale famiglia-tipo, di portare avanti con successo l'opera educativa? Ciò significherebbe la capacità della famiglia di eliminare i naturali atteggiamenti di protezione e di sconforto che impediscono il più delle volte in modo grave la stessa crescita fisica del bambino non vedente; ciò significherebbe credere, nonostante la triste evidenza dei fatti, nella saldezza della famiglia e nelle sue concrete possibilità di convogliare gran parte delle energie accumulate nel nucleo familiare verso la soluzione di problemi differenziati nei confronti di compiti ritenuti normali. La sempre minore disponibilità di tempo, l'incapacità di approfondire problemi educativi quotidiani, la difficoltà di accedere all'assunzione di atteggiamenti specializzati, pongono spesso la famiglia nella dolorosa situazione di impotenza, sospingendola verso 5 atteggiamenti negativi e verso rinunce che sono il principio di un consolidamento nel fanciullo non vedente dei più deleteri effetti negativi della minorazione. Non vorremmo che il desiderio della società di richiamare con energia la famiglia all'assunzione del suo compito primario nasconda un più o meno consapevole intento di eludere i compiti che la società stessa deve assumersi nei confronti di situazioni umane particolarmente difficili e di compiti differenziati sul piano pedagogico quali indubbiamente sono quelli comportati dall'educazione integrale del bambino che non vede. Un’ipotesi per la trasformazione degli istituti Il compito di rinnovare delle strutture indicando i contenuti di una nuova professione qual è quella dell'educatore, il compito di modificare sostanzialmente il concetto di assistenza, evidenziando in esso gli aspetti della solidarietà e della sicurezza sociale, impegnano non solo le capacità tecniche di una avanzata società tecnologica, ma la sua stessa coscienza che non sempre è favorita dagli aspetti tecnici del suo progresso. Da qui l'esigenza di orientare gli istituti verso la realizzazione di centri sociali in cui tutte le componenti della società siano seriamente e positivamente impegnate. Il centro sociale organizzato sullo schema dell'ambiente familiare, aperto all'osmosi con la società stessa, potrà garantire la collaborazione tra la famiglia e l'istituto, tra la scuola speciale e quella comune, tra i gruppi di coetanei che accolgano i minorati non per un puro esercizio di pazienza e di carità, ma per una realistica valutazione dei valori umani operanti in tutti e in qualsiasi situazione di vita. Nel concludere la prima parte della ricerca sulla situazione degli istituti per ciechi in Italia si è cercato di affacciare un'ipotesi di ristrutturazione, dalla realizzazione della quale, a nostro avviso, sarebbero potute scaturire interessanti prospettive per una nuova dimensione dell'intervento pedagogico e del ricupero sociale, intesi come elementi basilari del nuovo concetto di assistenza dei minori privi della vista. L'ipotesi, che può essere riassunta nei termini di una trasformazione delle istituzioni, da attuarsi nella considerazione del loro contenuto sociale e nella valutazione seria e concreta del contributo che alla vita delle istituzioni stesse può derivare dalla viva partecipazione di una pluralità di componenti della società, dovrà essere ulteriormente chiarita, sia nelle sue premesse direttamente concernenti la situazione di partenza, sia nella metodologia di attuazione per il conseguimento degli scopi intrinseci alla sua stessa formulazione. Abbiamo considerato come termine fondamentale della proposta di trasformazione la costituzione di centri sociali che sostituiscano gli istituti intesi come nuclei a se stanti, indifferenti nella loro struttura organizzativa e nella impostazione disciplinare al complessivo e dinamico evolversi 6 della società e alle richieste di adeguazione pedagogica che da tale evoluzione direttamente sono sollecitate. I difetti dell'istituto Si è già osservato come le strutture organizzative ed amministrative dell'istituto siano insufficienti a garantire il formarsi e l'affermarsi di personalità valide in un moderno quadro di partecipazione sociale: mancano, in ultima analisi, le condizioni primarie per un serio e positivo confronto degli schemi psicologici di crescita con la generalità dei gruppi di coetanei; manca spesso la spinta alla crescita che deriva da interessi reali e concreti, legati direttamente alle strutture sociali operanti nella situazione e nel momento in cui si afferma la crescita come manifestazione della personalità. Gli istituti che si pongono come isole indifferenti e lontane, vincolati ad un tradizionalistico concetto di asilo (nel cui termine prevale l’atteggiamento di protezione e di conservazione dell'esistenza) comportano, come espressione tipica della loro organizzazione, una tendenza pedagogica al paternalismo e al dirigismo, che costituiscono forme di tenace opposizione al processo di normalizzazione inteso nel senso precedentemente di autoaffermazione e di capacità di partecipazione direttamente sorgenti dall'individuo. Nessuna meraviglia che in questa prospettiva l'istituto continui ad avvalersi di forme educative sorpassate, continui ad utilizzare figure educative inadeguate e indifferenti (ed inadeguate e indifferenti sono le attuali figure degli assistenti, scelti a caso con la preoccupazione di assicurare una vigilanza che non consenta il verificarsi di gravi disguidi nella vita convittuale). L'esempio dell'inadeguatezza del personale educativo costituisce soltanto uno dei numerosi aspetti negativi dell'attuale formula organizzativa degli istituti e potremmo continuare l'analisi, scoprendo come non vi sia in atto un'efficace possibilità di espansione dei contenuti della scuola nella vita extrascolastica e come le artificiose soluzioni di contatto con l'ambiente esterno altro non significhino se non viete forme di isolamento ancora più grave, perché portato avanti nel contesto della società. Pensiamo al significato delle lunghe file di alunni nelle passeggiate fuori istituto, pensiamo a certe gite scolastiche preordinate e dirette in luoghi il più possibile solitari, dove l'indiscrezione e la curiosità non possano turbare la passiva quiete di fanciulli e di adolescenti privi della vista. Le precedenti considerazioni non intendono in nessun modo sottovalutare i contenuti pedagogici e didattici dell'osservazione della natura e dell'ambiente, dell'ordinata esplorazione 7 delle manifestazioni dell'arte e del lavoro, poiché, quando vi sia un'autentica spinta pedagogica proposta da una seria motivazione, i risultati non possono che essere altamente positivi. Né possiamo tacere l'analogo atteggiamento delle famiglie, preoccupate di tutelare la suscettibilità dei figli minorati con un preordinato piano di allontanamento dai centri maggiormente interessati alla vita: quante sono le famiglie che cercano gli angoli più protetti e più remoti dei parchi pubblici o delle spiagge marine, perché i piccoli minorati non siano oggetto di curiosità e di pietà? Gli istituti e le famiglie ripetono su piani diversi gli stessi errori, accettando la formula della protezione attraverso l'isolamento e l'allontanamento. Un centro educativo Dalle premesse brevemente puntualizzate sin qui, scaturisce non solo una valutazione negativa della situazione attuale, ma, più in profondità, l'urgenza di una ipotesi seria di trasformazione: l'ipotesi che precedentemente abbiamo indicato della costituzione di un Centro sociale diversamente organizzato e in grado di sollecitare il realizzarsi di fatti educativi più significativi per la crescita del fanciullo che non vede. Il Centro sociale si diversifica dall'istituto anzitutto per una modalità di intervento nei confronti della minorazione: e infatti, mentre l'istituto attendeva i fanciulli minorati per assisterli ed educarli, rimanendo indifferente a quanto accadeva loro al di fuori delle sue strutture, il Centro dovrebbe muoversi verso i piccoli minorati per scoprirli nei loro ambienti, per sostenere le famiglie nel momento drammatico del primo urto con la minorazione, per rompere i primi vincoli del pregiudizio là dove essi tendono più tenacemente a saldarsi. I monumentali istituti che si pongono come monoblocchi non solo nelle strutture architettoniche, ma anche, e in modo più pernicioso, nelle formule organizzative, sembrano essere lì ad attendere i loro ospiti con una immobilità inconciliabile col dinamismo della vita moderna. Per certi aspetti essi assomigliano agli ospedali che attendono i pazienti come una necessaria clientela che fatalmente ad essi deve, prima o poi, fare capo. Alla base di una profonda ristrutturazione degli istituti deve essere invece posto questo nuovo spirito di apertura che spinga le strutture fino al punto di coinvolgere direttamente la società, penetrando in essa con forme organizzative estremamente mobili e profondamente efficaci. Tuttavia, il significato di trasformazione contenuto nell'ipotesi dei centri non si esaurisce nella modalità di approccio con il minorato, bensì si sviluppa nella manifestazione di un nuovo contenuto pedagogico, che consenta di considerare il centro come il maggior responsabile 8 dell’intervento normalizzativo specializzato, senza che con ciò venga esclusa dalla responsabilità della educazione la famiglia e chiamando direttamente in causa la società nei suoi molteplici e complessi aspetti: gruppi giovanili, scuola, attività occupazionali, lavoro, rapporti interpersonali. In pratica, il Centro dovrebbe vivere con la diretta partecipazione delle sue componenti interne chiamate alla diretta responsabilità della gestione del Centro stesso. Gli insegnanti e gli educatori, le famiglie e gli alunni, il personale non insegnante di qualsiasi provenienza occupazionale, sono forze sociali vive ed operanti e pertanto possono e debbono essere fattori educativi nella vita del fanciullo non vedente; da qui, la necessità di una responsabilizzazione che deve estrinsecarsi in forme concrete di partecipazione diretta alla vita della comunità. Alcuni istituti inglesi sono direttamente gestiti da comitati educativi che includono nella loro composizione rappresentanti del personale docente, degli educatori, dei medici e del personale ausiliario: la presenza di tali comitati non esclude l'unicità direzionale come fattore primario di uniformità di indirizzo pedagogico e di coordinamento delle responsabilità. Funzione educativa delle strutture amministrative Alla base della trasformazione strutturale e pedagogica degli istituti si pone pertanto la necessità di adeguare anzitutto la formula amministrativa che dovrà costituire l'elemento partenza per le successive tappe di sviluppo e di aggiornamento. Riteniamo che i consigli di amministrazione, così come sono previsti dagli antichi statuti delle attuali istituzioni per i ciechi, costituendo una diretta e potremmo dire naturale emanazione delle complesse finalità che nella seconda metà dell'800 e agli inizi del nostro secolo caratterizzavano l'assistenza a favore dei ciechi, riflettano nella loro composizione, nel loro funzionamento e nell'esercizio della responsabilità di gestione, una situazione anacronistica che, anche nei casi più favorevoli, finisce per urtare contro la in modo pesante e antagonistico nuova spinta pedagogica di liberazione del minorato della vista dalle conseguenze sociali della sua stessa minorazione. Esiste una minorazione sensoriale che viene assunta come condizione permanente di emarginazione e, ovviamente, si strutturano su questa realtà, immobilizzata nella sua configurazione permanente ed emarginata nel suo significato sociale, istituti ed enti che traggono ragion d'essere dalla presenza della minorazione e che guardano ad essa voltando energicamente le spalle al resto della società. Si instaura pertanto un dialogo improduttivo, perché a circolo chiuso, tra assistenza ed assistiti, senza che si possano svolgere quei naturali fermenti di crescita delle istituzioni che derivano dal porsi in un serio e concreto 9 atteggiamento di verifica e di apertura. Nello statuto di numerosi istituti leggiamo ancora oggi, tra gli scopi fondamentali, quello di assistere il privo della vista, proteggendolo dalle insidie della società, dall'indigenza, dalla ignoranza e avvolgendolo con una sottile corazza protettiva anche contro i suoi stessi slanci vitali che naturalmente lo porterebbero ad accettare il confronto sociale e ad essere uomo tra gli uomini. In sostanza, noi rimproveriamo ai nostri istituti non tanto e non solo una struttura amministrativa antiquata e superata (dal momento che le strutture amministrative possono essere facilmente aggiornate), ma, soprattutto, una inversione di concetto per la quale nel fanciullo, nell'adolescente o nel giovane l'«essere cieco» prevale sull'«essere uomo»; lo «essere assistito» prevale sul bisogno dell'autogestione dei propri sentimenti e delle proprie spinte vitali. Posto in questi termini il problema pedagogico di fondo circa il modo di valutare e considerare la persona del non vedente, si sgretolano, fatalmente, una dopo l'altra anche le strutture esterne, rivelando la loro incapacità a portare avanti e ad amministrare questo nuovo tipo di intervento. Così il consiglio d'amministrazione, posto di fronte ad una precisa richiesta di intervento pedagogico e di indirizzo sociale, sollecitato ad assumere precise responsabilità nel contributo alla crescita di uomini destinati alla società, e non di all'assistenza, dovrà passare dalla soggetti competenza tecnico-amministrativa, destinati dall'esercizio pseudo-missionario di una filantropia ormai povera di significato, ad una competenza specifica e ad una diretta partecipazione al momento pedagogico in atto nell'istituzione, ponendosi esso stesso come «fatto educativo», caratterizzato da significati positivi. La trasformazione, quindi, che possiamo tranquillamente chiamare anche ristrutturazione, si opera anzitutto con un processo di convergenza delle diverse componenti organizzative verso il fanciullo minorato della vista, considerato come centro e come soggetto di educazione, visto nella sua realtà di bambino o di fanciullo, di adolescente o di giovane, con pieno diritto alla problematica connessa con la sua fase evolutiva. Pluralità di interventi educativi II problema dell'intervento pedagogico a favore dei fanciulli non vedenti potrebbe apparire più complesso di quanto in realtà non sia, se ci si ostina a indicare come sola possibile una specifica soluzione, ignorando deliberatamente l'esistenza di altre soluzioni possibili ed evitando pertanto un'analisi critica delle istituzioni e del problema alla luce di prospettive diverse. In sostanza, oggi si afferma che la sola risposta possibile alla presenza della minorazione sia costituita dalla istituzionalizzazione del fanciullo minorato. È quindi fatale 10 che la critica agli istituti si strutturi intorno ad una radicale reazione che nega il valore positivo della istituzionalizzazione, facendo riemergere la responsabilità diretta e totale della famiglia. Si assiste pertanto allo scontro aperto tra due tesi: l'una, quella della istituzionalizzazione, tacciata di conservatorismo, di protezionismo, di paternalismo, ecc.; l'altra, la tesi opposta, viceversa tacciata di superficialità e di utopismo. In ultima analisi, se ben si osserva, non si tratta di porre a confronto due soluzioni diverse di un medesimo problema pedagogico, ma di confrontare piuttosto due modi differenti di porre il problema 1. Quando noi dovessimo circoscrivere la problematica pedagogica alla necessità di evitare al bambino non vedente gli effetti secondari e negativi della minorazione del vista, promuovendo in lui l’attivizzazione di comportamenti idonei al ripristino di attività intellettive immaginative e motorie, la soluzione non potrebbe che essere ritrovata negli elementi del problema e il modo o il metodo di realizzarla scaturirebbero direttamente da circostanze contingenti, che nulla o quasi hanno in comune con la radice pedagogica del problema stesso. Occorre inoltre osservare che, nel postulare il problema del trattamento pedagogico dei fanciulli minorati della vista, si cade spesso nel grave errore di generalizzare le soluzioni e di dimenticare il principio della individualizzazione metodologica e della valutazione dell'individuo come realtà unica ed irripetibile sul piano psicologico. Non è vero che tutti i fanciulli reagiscono allo stesso modo alla minorazione, così come non è vero che una determinata didattica, anche differenziata, sia in concreto valida per tutti gli alunni, allo stesso modo. Chi può quindi operare la scelta per l'adozione della migliore metodologia possibile, adeguata alle esigenze di quel determinato fanciullo, cresciuto in quel determinato ambiente, con un patrimonio di esperienze che nessuno ha il diritto di dimenticare o di annullare con un colpo di spugna? La risposta non è facile: perché anzitutto dovremmo dire che la scelta del metodo e dell'indirizzo generale dovrebbe essere un’autoscelta; è il soggetto che si orienta nella realtà e si progetta nell’avvenire, anche il soggetto non vedente con tutte le sue difficoltà, lottando spesso contro il muro dell’iperprotezione, dell'isolamento e della pietà. 1 La seconda soluzione comporta difficoltà che appaiono per il momento insuperabili e che sono essenzialmente: — la sfiducia che si constata spesso negli stessi genitori circa le possibilità effettive del bambino privo della vista; — la scarsa o nulla conoscenza dei metodi più opportuni per rimuovere gli effetti secondari della minorazione; il conseguente ritorno all'atteggiamento di protezione e isolamento, per cui si considera più ciò che non c'è (la minorazione della vista) di ciò che c'è (il bisogno di sviluppo del soggetto minorato); — la mancanza, nel plesso scolastico del quartiere, di attrezzature per un'adeguata integrazione a livello di insegnamento speciale (una classe speciale per i minorati della vista del quartiere). 11 La famiglia e il centro educativo Verificato il contenuto del problema e indicato nel soggetto l'attore principale o il primo agente della sua stessa educazione, l'ipotesi del Centro che sostituisce l'istituto tradizionale prende una configurazione più precisa e più realistica. Nel Centro trova la propria collocazione naturale la famiglia, così come motiva la sua esistenza l'istituto: l'alternativa famiglia-istituto si svuota di contenuto, divenendo soltanto una scelta di soluzioni legate tra loro da un significato pedagogico e motivate da un indirizzo unitario. È ovvio che nei primi anni di vita il bambino non vedente debba vivere nel seno della propria famiglia, nutrendosi dell'affetto e delle cure dei genitori, usufruendo di tutte le stimolazioni che sorgono direttamente dal nucleo familiare; così come è ovvio che, per realizzare ciò, la famiglia non possa e non debba essere abbandonata a se stessa, se non si vuole che venga meno il principio fondamentale della crescita e quindi la funzione della famiglia. Altrettanto potremmo dire della funzione dell’istituto, che assume un significato preciso non dall'impotenza o dall'errore della famiglia, non dall'indifferenza della società, ma dalla sua stessa natura di ente pedagogico previsto per l'esecuzione di precisi fatti educativi e di un programma chiaro, destinato a far crescere il fanciullo, contribuendo all'affermazione integrale della sua personalità. L'istituto che venga meno a questi criteri non è ente pedagogico, non porta avanti reali fatti educativi e non ha quindi ragione di esistere. Come realizzare tuttavia una coesistenza dell'azione familiare, che promuove fatti educativi significanti, con l'opera dell’istituto, che integra, attraverso la selezione di metodiche differenziate e di adeguate caratteristiche, l'intervento generale diretto a favorire la crescita del fanciullo? L'ipotesi del Centro che si inserisce nella realtà sociale potrebbe costituire la soluzione più valida al problema precedentemente proposto, sempre che il Centro abbia un proprio significato e una propria caratterizzazione sociale, sia cioè inserito in modo attivo nella realtà sociale, viva di essa, in essa e per essa. Un Centro educativo non ha significato se non è inserito nel quartiere, nella città, nel paese in cui opera; non ha valore se non è recepito come entità operativa da queste componenti della realtà sociale. Dall'istituto come ambiente circoscritto e chiuso occorre passare all'unità sociale che abbia significato in un contesto vivo, un'unità sociale composta da elementi socialmente significativi. Il discorso ritorna quindi sulle componenti pedagogiche direttamente interessate nella costituzione dell'unità educativa e sociale che possiamo a questo punto chiamare ancora «Centro», se però ammettiamo una periferia naturale e più ancora uno sbocco significativo. 12 Senza uno sbocco ed una periferia, il termine «Centro» non avrebbe significato e ritornerebbe a configurarsi come isola distaccata ed indifferente. Una prospettazione così fatta dell'intervento educativo potrebbe tuttavia nascondere la perniciosa insidia del tecnicismo, restringendo il campo operativo della responsabilità diretta e della partecipazione umana degli educatori, con lo specioso pretesto di lasciare più spazio al libero gioco dei rapporti sociali spontanei autodeterminantisi. Responsabilità degli educatori Noi crediamo che l'educazione sia sempre una manifestazione altamente individuale del rapporto tra uomini: non sono le strutture e gli organismi e neppure le formule, per quanto perfette ed efficienti, a educare, ma è l'uomo nella sua coscienza di sé e degli altri che si educa ed educa. Da questo principio non è possibile decampare senza minare alla base un intervento pedagogico specializzato che deve preoccuparsi sempre di una problematica complessa e particolare. Il lasciar fare alla natura e alle strutture significherebbe abbandonare il fanciullo non vedente agli effetti deleteri della minorazione, che si ripercuoterebbero in modo pesante e grave sulla sua vita cognitiva e sul suo mondo affettivo. Opporsi a questi effetti significa prenderne coscienza, credendo al tempo stesso, con convinzione e fermezza, nella loro superabilità. Si ripropone perciò il grande tema della responsabilità degli educatori, direttamente coinvolti nell'atto educativo, impegnati fino in fondo a dare una risposta alla richiesta di sostegno che proviene da esistenze tormentate, da situazioni e da problemi che, non lo dimentichiamo, non sono nell'ordine naturale delle cose. La figura dell'educatore, sia egli direttore o insegnante, assistente o medico, è il primo tramite naturale tra il fanciullo e la società, tra il desiderio di crescita e il modo in cui la crescita si manifesta. Prendere coscienza di questa realtà vuol dire anzitutto rompere gli schemi, superare i tecnicismi, porsi nell'atteggiamento di servizio per una causa che va al di là delle strutture e delle organizzazioni e che, in ultima analisi, si inserisce nella causa più vasta della vita umana e del suo significato. Ipotesi per la strutturazione di un centro educativo Tenendo conto delle precedenti osservazioni, ipotizziamo la nuova struttura di un Centro educativo per minorati della vista, nelle dimensioni architettonica, pedagogica e sociale. 13 Il Centro dovrebbe essere in comunicazione con il quartiere in cui sorge: le strade che lo attraversano sono la continuazione delle strade del quartiere (come al Perkins Institut di Watertown). I ragazzi del Centro sono ospitati in piccoli edifici autosufficienti (con le sale di refezione, di soggiorno, le camere da letto e i servizi) in cui possono essere ricevuti e anche ospitati i genitori e gli amici. II Centro dispone di alcuni servizi centrali: la scuola, i laboratori, le attrezzature sportive specializzate. Gli altri servizi (chiesa, gruppi giovanili, bar, cinema, negozi ...) sono quelli del quartiere in cui sorge il Centro. Proprio questi servizi costituiscono una cerniera di aggancio fra il Centro e il quartiere, con possibilità di continui scambi fra l'unità educativa e l'unità sociale (i ragazzi possono abitare in famiglia e frequentare la scuola speciale o abitare al Centro se la loro famiglia è lontana, e frequentare la scuola di quartiere o del Centro stesso). Un Centro così strutturato permette l'individualizzazione dell'intervento educativo: il Centro è infatti strutturato in piccole unità che, pur non sostituendo la famiglia, permettono all'educatore di operare interventi educativi individuali. L'educatore è totalmente responsabile del proprio gruppo e non ha un «orario», come non ce l'ha un padre di famiglia; è però coadiuvato da vice-educatori o da educatori tirocinanti. Il coordinamento del Centro è affidato ad un direttore che promuove e controlla il funzionamento dei singoli gruppi e che costituisce il tramite diretto fra l'impegno educativo dei gruppi e gli impegni amministrativi del Centro. Le altre componenti educative del Centro sono costituite da: — un servizio sociale che avvicina le famiglie e le assiste fin dal momento della rilevazione della minorazione e che segue gli alunni per quanto riguarda i rapporti con le famiglie, con la scuola e con l'ambiente di inserimento; — un servizio di équipe medico-psico-pedagogica specializzata, per la verifica dei processi evolutivi e per la collaborazione, a livello educativo e scolastico; — le famiglie degli insegnanti, degli educatori e del personale dipendente, le quali, abitando nel Centro, costituiscono una permanente occasione di collegamento con la vita del quartiere. Ci sembra che, così come lo abbiamo delineato, il Centro educativo per minorati della vista abbia tutte le caratteristiche di una struttura educativa adeguata alle esigenze che le 14 scienze dell'educazione hanno proposto alla attenzione degli operatori educativi del nostro tempo. Enrico Ceppi 15