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LA SOCIALITÀ NEI FANCIULLI CIECHI*
[abstract] Lo sviluppo della socialità è diversamente influenzato dalla presenza della minorazione
visiva: limiti e potenzialità di cui il discorso pedagogico deve tener conto [fine abstract]
Enrico Ceppi
Alcune statistiche nordamericane affermano che l'adattamento di un soggetto privo della
vista sia notevolmente ridotto e la riduzione possa in media calcolarsi intorno al trenta per
cento.
Diciamo subito che non ci è stato possibile, nonostante lunghe accurate ricerche,
appurare le esperienze che hanno determinato il dato scientifico e neppure giungere in possesso
dei reattivi che possano aver servito alla rilevazione di un dato tanto importante. Affacciamo
quindi l'ipotesi, (lieti per altro se ulteriori indagini potranno rettificarla), che al dato statistico
concernente l'adattamento sociale del non vedente, si sia giunti soltanto attraverso comparazioni
teoriche di comportamento o sulla scorta di osservazioni empiriche fornite dagli educatori dei ciechi.
Vogliamo in questa sede tentare di esporre alcune esperienze in tale senso, e più ancora
illustrare i presupposti che ci hanno condotti alle esperienze stesse. Pensiamo che nei presupposti sia
agevole porre obbiettivamente in luce alcuni princìpi fondamentali che debbono essere tenuti presenti
nella rilevazione dei fatti, se non si vuoi correre il rischio di perdere completamente di vista il
globale evolversi della psichicità del non vedente, quindi se non si vuol correre l'altro rischio di
fornire dei dati che possono essere sì attendibili per la loro provenienza sperimentale, ma che
non possono essere riferiti ad una intera categoria di individui, ammesso e non concesso che i
privi della vista costituiscano una categoria.
Non possiamo prendere invece come base dell'esposizione i risultati della nostra indagine,
poiché rischieremmo di fornire delle medie e delle percentuali che assolutamente non sono
applicabili alla generalità dei casi e perché gli esperimenti sono stati compiuti ancora in un
numero assai ridotto e sopratutto perché non si è avuto modo di estenderli a gruppi tra di loro
eterogenei, che rispecchiassero almeno in parte la complessa posizione di chi non vede nei
confronti della vita. La nostra attività si è svolta nell'ambito della Scuola e pertanto il problema
della socialità viene studiato e presentato nel suo apparire, nel suo evolversi e nell'albore della sua
affermazione. Non ci è dato ancora sapere come il meriggio di tale affermazione del
sentimento sociale sia stato nei giovinetti osservati nell’ambito della Scuola. Inoltre diverso è il
comportamento del non vedente in un ambiente preparato per lui, studiato in modo da offrirgli
la situazione migliore per un normale sviluppo della sua personalità, da quello del non
Tratto da: Luce con luce. Rivista trimestrale dell’Istituto Statale “A. Romagnoli” di specializzazione per gli
educatori dei minorati della vista, a. 5(1961), n. 2, pp. 46-50.
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vedente alle prese con la vita, con la società, in un ambiente necessariamente fatto per persone
normali e al quale egli deve adattarsi con un continuo e costante sforzo di superamento dei propri
limiti.
Escludiamo subito dalla nostra ricerca questa seconda posizione del non vedente,
riservandoci eventualmente di ritornare sull'argomento in un prossimo futuro, quando l'indagine
sarà andata tanto avanti da poterci fornire in proposito dati attendibili o almeno accettabili quali
possibile base di una discussione positiva.
Non vogliamo con ciò suscitare in chi ci legge il sospetto che si voglia accantonare
l'aspetto più arduo e anche più interessante del problema, rifugiandoci in una indagine e in
una osservazione relative ad un ambiente predisposto, dove i risultati non possono essere
indicativi per stabilire l'effettiva portata delle possibilità di inserimento nella vita sociale del non
vedente. Siamo, anzi, del parere che il campo prescelto, nonostante le apparenze, sia proprio
quello in cui si possano maggiormente rilevare gli aspetti più interessanti del problema, in cui
ricorrono le condizioni ideali per l'indagine e per l'osservazione. La vita prova il non vedente
con le sue infinite difficoltà, con le troppe incomprensioni con i gravi ostacoli: ma siamo certi
che consenta a chi non vede di esprimere se stesso nel modo più adeguato, più spontaneo e più
naturale? In altri termini, il potenziale di adattamento alla società che vi è o vi potrebbe essere nel
non vedente, ha la possibilità di attuarsi liberamente, oppure vi sono reazioni ambientali che ne
bloccano in modo più o meno duraturo e definitivo l'evolversi?
All'interrogativo è ovvio che non si possa e non si debba rispondere se non dopo aver
esaminato attentamente quale è lo stato spontaneo del sentimento sociale nel non vedente; come
si presenta e si evolve sulla base dell'istinto gregario che spinge l'uomo a cercare la collaborazione
il rapporto con i propri simili. In questo incontro di uomini, di personalità, di individualità, in
questo grande coro, a volte concorde, spesso discorde che è la società, non vi sono soltanto leggi
estrinseche di convivenza, per cui l'uomo cerca l'altro uomo per realizzare il proprio benessere,
per rendere possibile l'espletarsi della propria attività, ma vi sono leggi ed esigenze assai più
profonde, più radicate nell'individuo, che scaturiscono direttamente dalla natura stessa
dell'uomo. Il solitario per costituzione, colui che possa dire sinceramente di non desiderare la
vicinanza di altri uomini di non averla mai cercata e mai desiderata, ammesso che un individuo
simile possa esistere, sarebbe senza dubbio un anormale, da considerarsi con la stessa pietosa
attenzione con la quale vengono considerati tutti stati patologici della vita psichica.
La precedente considerazione ci conduce direttamente ad ammettere che anche nel non
vedente vi sia presente questo istintivo bisogno di associarsi, di socializzare la propria azione e
di estendere al di fuori i propri sentimenti. La pulsione naturale e istintiva non può essere
repressa da un fatto sensoriale quale è la minorazione della vista e ci è lecito quindi porre come
premessa che spontaneamente il non vedente è incline alla società, al sentimento sociale, nella
misura e nella direzione comportate dalla intelligenza e dal tipo umano che predomina in lui,
non diversamente quindi da quanto avviene presso i soggetti dotati di una assoluta normalità
sensoriale. Il problema si presenta quindi in termini diversi e non riguarda la natura del
sentimento sociale e di conseguenza la potenzialità di un adattamento alla società: esso si riferisce
piuttosto al modo di estrinsecazione di questo sentimento sociale, al suo aspetto e alle difficoltà che
incontra nell'evolversi per la presenza della minorazione visiva del soggetto. E, posto il
problema in questi termini possiamo legittimamente porci due quesiti fondamentali: Quali aspetti
del sentimento sociale, sono più direttamente interessati dalla presenza della cecità? in
secondo quali conseguenze dirette e indirette derivano da un eventuale deformarsi del sentimento
stesso? La nostra indagine si è mossa appunto su tale strada proponendosi come primo e
modesto obbiettivo di identificare il punti in cui maggiormente la cecità poteva manifestare la
sua presenza negativa nei confronti della socialità del fanciullo. Abbiamo studiato il
comportamento del bambino cieco in due settori principali e cioè nel confronto con i genitori o
l'educatore e nel confronto con i propri coetanei; in altri termini abbiamo cercato di studiare il
comportamento di gruppo e singolo.
Le conclusioni tratte da una media abbastanza attendibile, media ricerca confortata
successivamente dall'esperienza degli educatori che vivono a contatto con i fanciulli ciechi
osservati, ci autorizzano a distinguere il problema nel modo precedente e a ritenere che mentre
nel comportamento singolo che richiede il rapporto con i genitori o con l'educatore, il non
vedente non presenta alcuna deviazione evolutiva nell'affermarsi della sua socialità, la
deviazione invece esiste ed è piuttosto sensibile nel comportamento di gruppo, nelle
manifestazioni che tale comporta mento ha nei fanciulli dagli otto ai dodici anni di vita.
Spesso il fanciullo cieco si distacca completamente dalla normale evolutiva in questo
periodo, sia per quanto riguarda il comportamento sociale, sia per quanto riguarda
l'evoluzione intellettiva, o più precisamente l'evoluzione della sua attività intellettiva: nel
primo caso l'allontanamento dalla normale può dirsi negativo, nel secondo caso positivo. Si
tende quindi la stabilirsi nel fanciullo non vedente un precoce atteggiamento raziocinizzante e
astratto, un atteggiamento che potremmo definire la risultante degli sforzi di adattamento alla
cecità. Dopo il dodicesimo anno di vita abbiamo rilevato un ritorno del fanciullo cieco verso
la normale evolutiva del comportamento sociale e ciò è pienamente giustificabile se si osserva
che in questo periodo il sentimento sociale e il relativo comportamento, assumono una più
decisa colorazione intellettiva. Le scelte vengono fatte non più o almeno, non solo, per
soddisfare l'interna spinta verso gli altri, per il bisogno istintivo di realizzare in una
collaborazione di gruppo il potenziale fantastico che rende irrequieta l'età precedente; dopo il
tredicesimo anno di vita si inserisce nel rapporto sociale il primo manifestarsi dei sentimenti
di amicizia, il desiderio schiettamente intellettuale, di intrattenersi con altre persone per
scambiare le proprie idee, per confrontare le proprie esperienze, per soddisfare in un certo
senso il bisogno di affermazione determinato dall'affacciarsi alla coscienza della
consapevolezza del proprio «io».
Il compiersi del periodo puberale trova quindi il fanciullo non vedente, preparato
intellettualmente alla nuova manifestazione della sua personalità, ma spesso, gravemente
impreparato da un punto di vista sentimentale, cioè non si sono compiuti in lui regolarmente
quelle tappe evolutive che la natura ha stabilito per giungere alla seconda nascita, come è stata
definita la pubertà. I primi passi verso la vita rivelano subito questo squilibrio tra un potere
razionale affinato e unilaterale, premuto da un'ansia generale dell'individuo che vuol non
essere ciò che sente d'essere, e una visione del mondo assolutamente inadeguata, perché
fondata su sentimenti sociali non sufficienti per conformare un normale comportamento
sociale. Riteniamo che tale situazione abbia giustificato la conclusione statistica
nordamericana, e che quel trenta e forse più percento, perso dal vedente nella possibilità di
adattamento sociale, debba ricercarsi proprio nel periodo che va dal nono al tredicesimo anno
di vita, quando non è stato possibile far compiere al non vedente una evoluzione psichica
regolare. Allora il nostro giovane non vedente, allora, quando era fanciullo avrebbe dovuto
essere guidato su altra forma di vita, ora, forse è troppo tardi, perché il senso e il gusto di certi
rapporti sociali, la loro scelta la loro normale evoluzione si affidano sopratutto ad una specie
di intuito che va al di là del puro potere razionale e che si affonda in una esperienza psichica
di tutta la vita. L'indagine ci ha portato a rilevare come la cecità che si manifesti nei fanciulli
compresi tra il nono e il tredicesimo anno di vita, finisca quasi sempre per lasciare un solco
profondo nel comportamento sociale, anche se apparentemente, la precedente normalità del
fanciullo continui a guidarlo verso un modo di espressione vicinissimo alla normalità. La
minorazione è piombata nel momento in cui si stava delineare l'affermazione dell'«io» e si
stava preparando con una ampia e profonda azione del sentimento sociale, manifestantesi
nell'attività gruppo. Il fanciullo è stato improvvisamente strappato al gruppo, proiettato in un
individualismo che non è proprio, e ne sente e ne risentirà, tutto il peso. Il proprio «io», si
affaccerà su un mondo di ricordi, con la consapevolezza, di avere dietro di sé un passato
ormai chiuso e non vi ha chi non sappia scorgere in questa consapevolezza del passato ormai
concluso di una esperienza che non tornerà più, il motivo di un diverso prospettarsi al
fanciullo minorato del complesso problema della sua esistenza e del rapporto sociale che ne
sta alla base. Dopo l'amara esperienza del minorazione visiva, molti fanciulli ritornano al
gruppo dei loro compagni, ma vi tornano con atteggiamenti diversi e sono accolti in modo
diverso: sono nel migliore dei casi, gli ispiratori dei giuochi, i confidenti, tutto fuor che gli
attori del giuoco così come vorrebbe la loro età, per soddisfare a quel bisogno di realizzare il
contenuto della fantasia.
Questi, in una brevissima panoramica, le costatazioni della psicologia; sta alla
pedagogia trarre su un piano d'azione riparatrice, le conseguenze.
Enrico Ceppi
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