TESTI per l’APPROFONDIMENTO della SCHEDA n. 3
“DI GENERAZIONE IN GENERAZIONE”
1. DAL LIBRO DEI SALMI
79 (78),13
E noi, tuo popolo e gregge del tuo pascolo,
ti renderemo grazie per sempre;
di generazione in generazione
narreremo la tua lode.
89 (88), 2-5
Canterò in eterno l'amore del Signore,
di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: "È un amore edificato per sempre;
nel cielo rendi stabile la tua fedeltà".
"Ho stretto un'alleanza con il mio eletto,
ho giurato a Davide, mio servo.
Stabilirò per sempre la tua discendenza,
di generazione in generazione
edificherò il tuo trono".
90 (89), 1-2
Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.
Prima che nascessero i monti
e la terra e il mondo fossero generati,
da sempre e per sempre tu sei, o Dio.
100 (99), 3-5
Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.
Varcate le sue porte con inni di grazie,
i suoi atri con canti di lode,
lodatelo, benedite il suo nome;
perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione.
102 (101),11-14
Per il tuo sdegno e la tua collera
mi hai sollevato e scagliato lontano.
119 (118), 88-92
Secondo il tuo amore fammi vivere
e osserverò l'insegnamento della tua bocca.
Per sempre, o Signore,
la tua parola è stabile nei cieli.
La tua fedeltà di generazione in generazione
Hai fondato la terra ed essa è salda.
Per i tuoi giudizi tutto è stabile fino ad oggi,
perché ogni cosa è al tuo servizio.
Se la tua legge non fosse la mia delizia,
davvero morirei nella mia miseria.
24 (23), 3-7
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli,
chi non giura con inganno.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.
145 (144), 2-5
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Grande è il Signore e degno di ogni lode;
senza fine è la sua grandezza.
Una generazione narra all'altra le tue opere,
annuncia le tue imprese.
Il glorioso splendore della tua maestà
e le tue meraviglie voglio meditare.
I miei giorni declinano come ombra
e io come erba inaridisco.
Ma tu, Signore, rimani in eterno,
il tuo ricordo di generazione in generazione.
Ti alzerai e avrai compassione di Sion:
è tempo di averne pietà, l'ora è venuta!
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 1
2. Dalla prima Lettera di San Giovanni apostolo
1,1-4
Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito,
quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo
e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita –
la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta
e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna,
che era presso il Padre e che si manifestò a noi -,
quello che abbiamo veduto e udito,
noi lo annunciamo anche a voi,
perché anche voi siate in comunione con noi.
E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo.
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena.
2,12-14
Scrivo a voi, figlioli,
perché vi sono stati perdonati i peccati in virtù del suo nome.
Scrivo a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è da principio.
Scrivo a voi, giovani,
perché avete vinto il Maligno.
Ho scritto a voi, figlioli,
perché avete conosciuto il Padre.
Ho scritto a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è da principio.
Ho scritto a voi, giovani,
perché siete forti
e la parola di Dio rimane in voi
e avete vinto il Maligno.
4,7-16
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio:
chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito,
perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio,
ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.
Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto
in noi. In questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito. E
noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del
mondo. Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio. E noi
abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell'amore
rimane in Dio e Dio rimane in lui.
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 2
5,1-4
Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio;
e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato.
In questo conosciamo di amare i figli di Dio:
quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti.
In questo infatti consiste l'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti;
e i suoi comandamenti non sono gravosi.
Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo;
e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.
3. Dal «Discorso sul Battesimo» di San Paciano, vescovo ( 390)
Liturgia delle Ore, XIX settimana del Tempo ordinario, venerdì. (Nn. 5-6; PL 13, 1092-1093)
Seguiamo la vita nuova nel Cristo per mezzo dello Spirito
Il peccato di Adamo era passato a tutto il genere umano: «Come a causa di un solo
uomo», dice l’Apostolo, «il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la
morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti gli uomini hanno peccato» (Rm 5, 12). È quindi
necessario che anche la giustizia di Cristo passi a tutto il genere umano e come Adamo col
suo peccato fu causa di rovina per tutta la sua discendenza, così Cristo sarà causa di salvezza per
la sua giustizia. Su questo l’Apostolo insiste: «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono
stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti, e
come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita
eterna» (Rm 5, 19. 21).
Qualcuno forse mi dirà: Era giusto che il peccato di Adamo passasse nei posteri, perché
discendevano da lui per generazione. Ma siamo stati forse generati da Cristo perché da lui
discenda a noi la salvezza? Effettivamente le cose stanno così e lo si capirà subito.
Negli ultimi tempi Cristo prese da Maria l’anima e la carne. Questa è la carne che egli
venne a salvare, che non abbandonò negli inferi e che unì al suo spirito e fece sua. Queste sono
le nozze del Signore, contratte con una sola carne, perché Cristo e la Chiesa, secondo quel
grande mistero, fossero due in una sola carne.
Da queste nozze nasce il popolo cristiano, mentre dall’alto discende lo Spirito del
Signore.
Il germe celeste viene infuso e unito alla sostanza della nostra anima; cominciamo quindi
a svilupparci nel seno materno, quindi, venendo alla luce, entriamo nella vita che ci viene
data dal Cristo. Per questo l’Apostolo dice: «Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente,
ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita» (1 Cor 15, 45).
In questo modo Cristo genera nella Chiesa per mezzo dei suoi sacerdoti, come si esprime
lo stesso Apostolo: «Io vi ho generato in Cristo» (1 Cor 4,15).
Così Cristo, mediante lo Spirito di Dio, per il ministero del sacerdote e la forza della
fede, dà alla luce l’uomo nuovo, formato nel seno della madre e accolto nella Chiesa col
parto del fonte battesimale.
Bisogna quindi accogliere Cristo, perché egli possa rigenerarci. Lo afferma l’apostolo
Giovanni: «A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1, 12).
Tale nascita non può avvenire se non col sacramento del battesimo, del crisma e del
sacerdote. Infatti col battesimo vengono lavati i nostri peccati, col crisma ci viene infuso lo Spirito
Santo: l’una e l’altra cosa noi la otteniamo dalla mano e dalla bocca del sacerdote.
In questo modo tutto l’uomo rinasce in Cristo: «Perché come Cristo fu risuscitato dai
morti, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6, 4), vale a dire che,
abbandonati gli errori della vita trascorsa, per mezzo dello Spirito seguiamo, sull’esempio di Cristo,
una vita virtuosa.
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 3
4. LUMEN FIDEI, Enciclica sulla fede, 29 giugno 2013.
Cap. 1 Abbiamo creduto all’amore (cfr. 1Gv 4,16)
La fede di Israele
n. 12 La storia del popolo d’Israele, nel libro
dell’Esodo, prosegue sulla scia della fede di
Abramo. La fede nasce di nuovo da un
dono originario: Israele si apre all’azione di
Dio che vuole liberarlo dalla sua miseria. La
fede è chiamata a un lungo cammino per
poter adorare il Signore sul Sinai ed ereditare
una terra promessa. L’amore divino possiede
i tratti del padre che porta suo figlio lungo il
cammino (cfr Dt 1,31). La confessione di
fede di Israele si sviluppa come racconto
dei benefici di Dio, del suo agire per liberare
e guidare il popolo (cfr Dt 26,5-11), racconto
che il popolo trasmette di generazione in
generazione. La luce di Dio brilla per Israele
attraverso la memoria dei fatti operati dal
Signore, ricordati e confessati nel culto,
trasmessi dai genitori ai figli. Impariamo così
che la luce portata dalla fede è legata al
racconto concreto della vita, al ricordo
grato dei benefici di Dio e al compiersi
progressivo delle sue promesse.
L’architettura gotica l’ha espresso molto
bene: nelle grandi Cattedrali la luce arriva dal
cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la
storia sacra. La luce di Dio ci viene attraverso
il racconto della sua rivelazione, e così è
capace di illuminare il nostro cammino nel
tempo, ricordando i benefici divini, mostrando
come si compiono le sue promesse.
Cap. 3 Vi trasmetto quello che ho ricevuto (cfr. 1Cor 15,3)
La Chiesa madre della nostra fede
n. 38 La trasmissione della fede, che brilla
per tutti gli uomini di tutti i luoghi, passa
anche attraverso l’asse del tempo, di
generazione in generazione. Poiché la fede
nasce da un incontro che accade nella storia
e illumina il nostro cammino nel tempo, essa
si deve trasmettere lungo i secoli. È
attraverso una catena ininterrotta di
testimonianze che arriva a noi il volto di
Gesù. Come è possibile questo? Come
essere sicuri di attingere al “vero Gesù”,
attraverso i secoli? Se l’uomo fosse un
individuo isolato, se volessimo partire
soltanto dall’“io” individuale, che vuole trovare
in sé la sicurezza della sua conoscenza,
questa certezza sarebbe impossibile. Non
posso vedere da me stesso quello che è
accaduto in un’epoca così distante da me.
Non è questo, tuttavia, l’unico modo in cui
l’uomo conosce. La persona vive sempre in
relazione. Viene da altri, appartiene ad altri,
la sua vita si fa più grande nell’incontro con
altri. E anche la propria conoscenza, la
stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale,
ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in
primo luogo i nostri genitori, che ci hanno
dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le
parole con cui interpretiamo la nostra vita e la
nostra realtà, ci arriva attraverso altri,
preservato nella memoria viva di altri. La
conoscenza di noi stessi è possibile solo
quando partecipiamo a una memoria più
grande. Avviene così anche nella fede, che
porta a pienezza il modo umano di
comprendere. Il passato della fede,
quell’atto di amore di Gesù che ha
generato nel mondo una nuova vita, ci
arriva nella memoria di altri, dei testimoni,
conservato vivo in quel soggetto unico di
memoria che è la Chiesa. La Chiesa è una
Madre che ci insegna a parlare il linguaggio
della fede. San Giovanni ha insistito su
quest’aspetto nel suo Vangelo, unendo assieme fede e memoria, e associando ambedue
all’azione dello Spirito Santo che, come dice
Gesù, «vi ricorderà tutto» (Gv 14,26).
L’Amore che è lo Spirito, e che dimora
nella Chiesa, mantiene uniti tra di loro tutti
i tempi e ci rende contemporanei di Gesù,
diventando così la guida del nostro camminare nella fede.
n. 39 È impossibile credere da soli. La fede
non è solo un’opzione individuale che
avviene nell’interiorità del credente, non è
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 4
rapporto isolato tra l’“io” del fedele e il “Tu”
divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa
si apre, per sua natura, al “noi”, avviene
sempre all’interno della comunione della
Chiesa. La forma dialogata del Credo, usata
nella liturgia battesimale, ce lo ricorda. Il
credere si esprime come risposta a un invito,
ad una parola che deve essere ascoltata e
non procede da me, e per questo si inserisce
all’interno di un dialogo, non può essere una
mera confessione che nasce dal singolo. È
possibile rispondere in prima persona,
“credo”, solo perché si appartiene a una
comunione grande, solo perché si dice
anche “crediamo”. Questa apertura al “noi”
ecclesiale avviene secondo l’apertura propria
dell’amore di Dio, che non è solo rapporto tra
Padre e Figlio, tra “io” e “tu”, ma nello Spirito
è anche un “noi”, una comunione di persone.
Ecco perché chi crede non è mai solo, e
perché la fede tende a diffondersi, ad invitare
altri alla sua gioia. Chi riceve la fede scopre
che gli spazi del suo “io” si allargano, e si
generano in lui nuove relazioni che
arricchiscono la vita. Tertulliano l’ha
espresso con efficacia parlando del
catecumeno, che “dopo il lavacro della nuova
nascita” è accolto nella casa della Madre per
stendere le mani e pregare, insieme ai fratelli,
il Padre nostro, come accolto in una nuova
famiglia. La fede, infatti, ha bisogno di un
ambito in cui si possa testimoniare e
comunicare, e che questo sia corrispondente
e proporzionato a ciò che si comunica. Per
trasmettere
un
contenuto
meramente
dottrinale, un’idea, forse basterebbe un libro,
o la ripetizione di un messaggio orale. Ma ciò
che si comunica nella Chiesa, ciò che si
trasmette nella sua Tradizione vivente, è la
luce nuova che nasce dall’incontro con il
Dio vivo, una luce che tocca la persona
nel suo centro, nel cuore, coinvolgendo la
sua mente, il suo volere e la sua affettività,
aprendola a relazioni vive nella comunione
con Dio e con gli altri. Per trasmettere tale
pienezza esiste un mezzo speciale, che
mette in gioco tutta la persona, corpo e
spirito, interiorità e relazioni. Questo mezzo
sono i Sacramenti, celebrati nella liturgia
della Chiesa. In essi si comunica una
memoria incarnata, legata ai luoghi e ai tempi
della vita, associata a tutti i sensi; in essi la
persona è coinvolta, in quanto membro di un
soggetto vivo, in un tessuto di relazioni
comunitarie. Per questo, se è vero che i
Sacramenti sono i Sacramenti della fede, si
deve anche dire che la fede ha una struttura
sacramentale. Il risveglio della fede passa per
il risveglio di un nuovo senso sacramentale
della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana,
mostrando come il visibile e il materiale si
aprono verso il mistero dell’eterno.
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I Sacramenti e la trasmissione della fede
n. 40 La Chiesa, come ogni famiglia,
trasmette ai suoi figli il contenuto della
sua memoria. Come farlo, in modo che
niente si perda e che, al contrario, tutto si
approfondisca sempre più nell’eredità
della fede? È attraverso la Tradizione
Apostolica conservata nella Chiesa con
l’assistenza dello Spirito Santo, che noi
abbiamo un contatto vivo con la memoria
fondante. E quanto è stato tramesso dagli
Apostoli - come afferma il Concilio Vaticano II
- «racchiude tutto quello che serve per vivere
la vita santa e per accrescere la fede del
Popolo di Dio, e così nella sua dottrina, nella
sua vita e nel suo culto la Chiesa perpetua e
trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che
essa è, tutto ciò che essa crede». (Dei
Verbum,8)
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n. 43 La struttura del Battesimo, la sua configurazione come rinascita, in cui riceviamo un
nuovo nome e una nuova vita, ci aiuta a
capire il senso e l’importanza del Battesimo
dei bambini. Il bambino non è capace di un
atto libero che accolga la fede, non può
confessarla ancora da accolga la fede, non
può confessarla ancora da solo, e proprio per
questo essa è confessata dai suoi genitori e
dai padrini in suo nome. La fede è vissuta
all’interno della comunità della Chiesa, è
inserita in un “noi” comune. Così, il bambino
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 5
può essere sostenuto da altri, dai suoi
genitori e padrini, e può essere accolto nella
loro fede, che è la fede della Chiesa,
simbolizzata dalla luce che il padre attinge
dal cero nella liturgia battesimale. Questa
struttura del Battesimo evidenzia l’importanza
della sinergia tra la Chiesa e la famiglia
nella trasmissione della fede. I genitori
sono chiamati, secondo una parola di
sant’Agostino, non solo a generare i figli alla
vita, ma a portarli a Dio affinché, attraverso il
Battesimo, siano rigenerati come figli di
Dio, ricevano il dono della fede. Così,
insieme alla vita, viene dato loro l’orientamento fondamentale dell’esistenza e la
sicurezza di un futuro buono, orientamento
che verrà ulteriormente corroborato nel
Sacramento della Confermazione con il sigillo
dello Spirito Santo.
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5. PAPA FRANCESCO
Rio de Janeiro, 27 luglio 2013
Dal discorso in occasione dell’incontro con l’episcopato brasiliano
Stato permanente di missione e conversione pastorale.
Sulla missione è da ricordare che l’urgenza deriva dalla sua motivazione interna, si tratta cioè di
trasmettere un’eredità, e sul metodo è decisivo ricordare che un’eredità è come il testimone, il
bastone, nella corsa a staffetta: non si butta per aria e chi riesce a prenderlo, bene, e chi non ci
riesce rimane senza. Per trasmettere l’eredità bisogna consegnarla personalmente, toccare
colui al quale si vuole donare, trasmettere, tale eredità.
Rio de Janeiro, 28 luglio 2013
Dal discorso in occasione dell’incontro con i Vescovi responsabili del consiglio episcopale
latinoamericano (C.e.l.a.m.)
Tutta la proiezione utopica (verso il futuro) o restaurazionista (verso il passato) non è dello
spirito buono. Dio è reale e si manifesta nell’“oggi”.
Verso il passato, la sua presenza si dà a noi come “memoria” della grande opera della salvezza
sia nel suo popolo sia in ognuno di noi; verso il futuro si dà a noi come “promessa” e speranza.
Nel passato Dio è stato presente e lasciò la sua orma: la memoria ci aiuta ad incontrarlo;Nel futuro
è solo promessa … e non è nei mille e uno “futuribili”.
L’“oggi” è il più simile all’eternità; ancora di più: l’“oggi” è scintilla di eternità. Nell’“oggi” si gioca
la vita eterna.
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6. BENEDETTO XVI, Udienza generale, 26 aprile 2006
La Comunione nel tempo: la Tradizione
(…) Nella nuova serie di catechesi, iniziata poco tempo fa, cerchiamo di capire il disegno
originario della Chiesa voluta dal Signore, per comprendere così meglio anche la nostra
collocazione, la nostra vita cristiana, nella grande comunione della Chiesa. Finora abbiamo capito
che la comunione ecclesiale è suscitata e sostenuta dallo Spirito Santo, custodita e promossa dal
ministero apostolico.
E questa comunione, che noi chiamiamo Chiesa, non si estende solo a tutti i credenti
di un certo momento storico, ma abbraccia anche tutti i tempi e tutte le generazioni.
Quindi abbiamo una duplice universalità: l’universalità sincronica – siamo uniti con i
credenti in tutte le parti del mondo – e anche una universalità cosiddetta diacronica, cioè: tutti i
tempi appartengono a noi, anche i credenti del passato e i credenti del futuro formano con
noi un’unica grande comunione.
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 6
Lo Spirito appare come il garante della presenza attiva del mistero nella storia, Colui
che ne assicura la realizzazione nel corso dei secoli. Grazie al Paraclito l'esperienza del Risorto,
fatta dalla comunità apostolica alle origini della Chiesa, potrà sempre essere vissuta dalle
generazioni successive, in quanto trasmessa e attualizzata nella fede, nel culto e nella comunione
del Popolo di Dio, pellegrino nel tempo.
E così noi adesso, nel tempo pasquale, viviamo l’incontro con il Risorto, non solo come una
cosa del passato, ma nella comunione presente della fede, della liturgia, della vita della Chiesa. In
questa trasmissione dei beni della salvezza, che fa della comunità cristiana l'attualizzazione
permanente, nella forza dello Spirito, della comunione originaria, consiste la Tradizione
apostolica della Chiesa.
Essa è detta così perché è nata dalla testimonianza degli Apostoli e della comunità dei
discepoli al tempo delle origini, è stata consegnata sotto la guida dello Spirito Santo negli scritti del
Nuovo Testamento e nella vita sacramentale, nella vita della fede, e ad essa – a questa
Tradizione, che è tutta la realtà sempre attuale del dono di Gesù - la Chiesa continuamente si
riferisce come al suo fondamento e alla sua norma attraverso la successione ininterrotta
del ministero apostolico.
Gesù, ancora nella sua vita storica, limitava la sua missione alla casa d'Israele, ma faceva
già capire che il dono era destinato non solo al popolo d’Israele, ma a tutto il mondo e a tutti i
tempi. Il Risorto affida, poi, esplicitamente agli Apostoli (cfr Lc 6,13) il compito di fare discepole
tutte le nazioni, garantendo la sua presenza e il suo aiuto fino alla fine dei tempi (cfr Mt 28,19s).
L'universalismo della salvezza richiede, peraltro, che il memoriale della Pasqua sia
celebrato senza interruzione nella storia fino al ritorno glorioso del Cristo (cfr 1 Cor 11,26).
Chi attualizzerà la presenza salvifica del Signore Gesù mediante il ministero degli apostoli capi dell'Israele escatologico (cfr Mt 19,28) - e attraverso l'intera vita del popolo della nuova
alleanza? La risposta è chiara: lo Spirito Santo.
Gli Atti degli Apostoli - in continuità col disegno del Vangelo di Luca - presentano dal vivo la
compenetrazione fra lo Spirito, gli inviati di Cristo e la comunità da essi radunata. Grazie
all’azione del Paraclito gli Apostoli e i loro successori possono realizzare nel tempo la
missione ricevuta dal Risorto: “Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il
Padre mio ha promesso...” (Lc 24,48s.). “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e
mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della
terra” (At 1,8).
E questa promessa, all’inizio incredibile, si è realizzata già nel tempo degli Apostoli: “Di
questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a
lui” (At 5,32).
E’ dunque lo Spirito stesso che, mediante l'imposizione delle mani e la preghiera degli
Apostoli, consacra e invia i nuovi missionari del Vangelo (così, ad esempio, in At 13,3s. e 1 Tm
4,14). E’ interessante osservare che, mentre in alcuni passi si dice che Paolo stabilisce i presbiteri
nelle Chiese (cfr At 14,23), altrove si afferma che è lo Spirito a costituire i pastori del gregge (cfr At
20,28). L'azione dello Spirito e quella di Paolo risultano così profondamente compenetrate.
Nell'ora delle decisioni solenni per la vita della Chiesa, lo Spirito è presente per
guidarla. Questa presenza-guida dello Spirito Santo si sente particolarmente nel Concilio di
Gerusalemme, nelle cui parole conclusive risuona l’affermazione: “Abbiamo deciso, lo Spirito
Santo e noi...” (At 15,28); la Chiesa cresce e cammina “nel timore del Signore, colma del conforto
dello Spirito Santo” (At 9,31).
Questa permanente attualizzazione della presenza attiva di Gesù Signore nel suo
popolo, operata dallo Spirito Santo ed espressa nella Chiesa attraverso il ministero
apostolico e la comunione fraterna, è ciò che in senso teologico s'intende col termine
Tradizione: essa non è la semplice trasmissione materiale di quanto fu donato all'inizio agli
Apostoli, ma la presenza efficace del Signore Gesù, crocefisso e risorto, che accompagna e
guida nello Spirito la comunità da lui radunata.
La Tradizione è la comunione dei fedeli intorno ai legittimi Pastori nel corso della storia, una
comunione che lo Spirito Santo alimenta assicurando il collegamento fra l'esperienza della fede
apostolica, vissuta nell'originaria comunità dei discepoli, e l'esperienza attuale del Cristo nella sua
Chiesa.
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 7
In altre parole, la Tradizione è la continuità organica della Chiesa, Tempio santo di Dio
Padre, eretto sul fondamento degli Apostoli e tenuto insieme dalla pietra angolare, Cristo,
mediante l’azione vivificante dello Spirito: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma
siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti,
e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata
per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per
diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,19-22).
Grazie alla Tradizione, garantita dal ministero degli Apostoli e dei loro successori,
l’acqua della vita scaturita dal costato di Cristo e il suo sangue salutare raggiungono le
donne e gli uomini di tutti i tempi.
Così, la Tradizione è la presenza permanente del Salvatore che viene a incontrarci,
redimerci e santificarci nello Spirito mediante il ministero della sua Chiesa, a gloria del Padre.
Concludendo e riassumendo, possiamo dunque dire che la Tradizione non è
trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo
che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande
fiume che ci conduce al porto dell’eternità. Ed essendo così, in questo fiume vivo si realizza
sempre di nuovo la parola del Signore, che abbiamo sentito all’inizio dalle labbra del lettore: “Ecco,
io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
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7. La comunione nel tempo: la Tradizione.
A commento del testo di Benedetto XVI, a cura di sr. Angiolina Rossini
(…) la “Tradizione” uno degli ambiti della testimonianza cristiana, intendendo con il termine
tradizione “l’esercizio del trasmettere ciò che costituisce il patrimonio vitale e culturale della
società”. Ovvero quel complesso di esperienze attraverso cui si trasmette il patrimonio di
vita di una generazione, in tutti i modi: nella famiglia, nella educazione, nella formazione
intellettuale e morale, nella scuola, nella università, nei mezzi di comunicazione sociale… con tutto
quello che comportano.
La tradizione contestata
In una società in continuo e rapido cambiamento come la nostra, ha ancora senso parlare
di tradizione? Non sa di vecchio? Non è forse più importante essere innovativi e guardare al
futuro? In effetti la crisi della tradizione è una delle sfide più radicali della nostra epoca e dal
punto di vista culturale essa obbliga a ricordarci due cose, come affermava il noto teologo Y.
Congar: “Prima: se le nuove generazioni non si fossero continuamente ribellate alla tradizione, noi
vivremmo ancora oggi nelle caverne.
Seconda: se la rivolta contro la tradizione divenisse universale, noi ci ritroveremmo nelle
caverne. Il culto della tradizione e la resistenza alla tradizione sono ambedue indispensabili per la
vita sociale; una società in cui il culto della tradizione diventa onnipossente è condannata alla
stagnazione; una società in cui la rivolta contro la tradizione diventa universale è condannata alla
distruzione” (in La Tradizione e la vita della Chiesa).
La Tradizione della Chiesa
Se cerchiamo una risposta dal punto di vista cristiano, non possiamo dimenticare che il
rinnovamento avviene attraverso un radicarsi più profondo nella fede e nella tradizione, perché il
cristianesimo “o è tradizionale o non è” (Giovanni XIII): tradizione come dinamismo di ciò che
non cambia e che attraversa i tempi, gli strati della società, le forme di comunicazione per
giungere come “deposito vivo” nella persona, all’interno di una comunità.
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 8
“La Tradizione non è trasmissione di cose o di parole. La Tradizione – afferma Benedetto
XVI durante una delle sue udienze – è il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il
grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità”.
La Chiesa è missione in quanto trasmette ciò che custodisce: i beni della salvezza; questa
trasmissione – nella quale consiste la Tradizione apostolica della Chiesa - fa della comunità
cristiana l’attualizzazione permanente nella forza dello Spirito, della comunione originaria.
“La Tradizione non è – continuava il Papa nell’udienza sopra citata – la semplice
trasmissione materiale di quanto fu donato all’inizio agli Apostoli, ma la presenza efficace del
Signore Gesù, crocifisso e risorto, che accompagna e guida nello Spirito la comunità da lui
radunata.
La Tradizione è la comunione dei fedeli intorno ai legittimi Pastori nel corso della storia, una
comunione che lo Spirito Santo alimenta assicurando il collegamento fra l’esperienza della fede
apostolica, vissuta nell’originaria comunità dei discepoli, e l’esperienza attuale del Cristo nella sua
Chiesa … Grazie alla Tradizione, garantita dal ministero degli Apostoli e dei loro successori,
l’acqua viva scaturita dal costato di Cristo e il suo sangue salutare raggiungono le donne e gli
uomini di tutti i tempi”.
**********
8. REGOLA DI VITA
Art. 57
Siamo consapevoli che la formazione
è collaborazione
all’opera che Dio ha iniziato in noi
chiamandoci a seguire Gesù Cristo
nella Congregazione.
Poiché Egli è fedele e non ritira mai
la sua iniziativa e la sua alleanza
ci poniamo in atteggiamento di accoglienza
e di docilità allo Spirito
per favorire il pieno sviluppo
del dono di Dio in noi.
Art. 58
Protagonista del dialogo con Dio
è la persona stessa che assume
con responsabilità, pazienza e continuità
il cammino di crescita
e di sviluppo della chiamata
fino a raggiungere la maturità evangelica
richiesta dal carisma
della nostra Congregazione.
Art. 60
La maturazione vocazionale
esige un ambiente comunitario
di forte tensione evangelica
capace di far sperimentare alle giovani
il senso profondo di una vita fraterna
totalmente disponibile a Dio
per la missione pastorale.
Art.62
Consapevoli
che il primo e più valido apporto
alla promozione vocazionale
e all’opera formativa
è la coerenza e la gioia della propria vita,
dobbiamo impegnarci,
personalmente comunitariamente,
oltre che con la testimonianza,
con un’adeguata pastorale,
a sensibilizzare
la comunità cristiana in cui operiamo
perché ogni battezzato
scopra e realizzi il piano di Dio su di lui
60.1
La formazione delle giovani nella nostra
famiglia religiosa avviene in comunità,
designate a tale scopo, che offrano le
condizioni e le possibilità di aiuti necessari a
tale fine.
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 9
9. Beato G. Alberione
(…) Invochiamo la benedizione di Dio su voi tutte, sulle case, sull'apostolato, sulle suore
del Brasile e sulle vocazioni che dovranno venire. Voi seminate, le altre raccoglieranno.
Seminate, seminate, qualche cosa si raccoglierà! Raccoglieranno forse altre, ma il merito è di chi
ha seminato. Lavorate solo con retta intenzione e sempre per il Signore, cercate la sua
benedizione e le sue grazie.
I frutti di chi ha lavorato sono in cielo. Tante volte, quando non si vedono i frutti, si
raccolgono maggiori meriti, perché non si hanno le soddisfazioni. Non scoraggiatevi mai, sentitevi
sorelle; le difficoltà si rimettono in casa madre e tutto si porta a Gesù buon Pastore. Allora sentirete
quanto sia dolce abitare tanti fratelli nella stessa comunità, insieme. Avanti serenamente!
(PrP VII,1955, p. 324)
(…) Chi aspira alla vita religiosa dice: «Io voglio farmi santo». E Gesù chiamando il
giovane gli ha detto: «Se vuoi essere perfetto» [Mt 19,21] perché la vocazione è chiamata alla
perfezione, cioè "esser perfetti". Ma il peccato veniale, l'abitudine al veniale, la facilità al veniale,
permettono che l'anima salga, su, sul monte della perfezione?
Quis ascendet in montem sanctum Domini? [Sal 23,3). Come si sale? Si resta giù, sempre
a basso, sempre per terra; e quindi la tiepidezza... la tiepidezza, la freddezza, la noia, lo
scontento della vita, la insoddisfazione della stessa vocazione, lo scoraggiamento che
penetra poi nell'anima e accompagna la vita, accompagna la vita!
Noi dobbiamo sentire nella nostra vocazione la gioia, dobbiam sentire che noi abbiam
lasciato il
mondo ma per Gesù, abbiam lasciato la famiglia ma per un'altra famiglia più numerosa, una
parrocchia; abbiamo lasciato qualche cosa ma per conquistare il paradiso, e ci troviamo in quella
via felice, fortunata di lavorare per le anime e di acquistare ricchezze per il cielo.
Sentire questa gioia! Ma se ci son le venialità di mezzo quell'anima ha qualche momento di
fervore ma poi ha tanta tiepidezza, indifferenza, e continua ad arrivare alle venialità, le beve alle
volte come si berrebbe un bicchier d'acqua. Quell'anima non può procedere né nella via della
perfezione, né essere contenta: non sente Gesù con sé. Sente che Gesù la vuole santa, vuole
prenderle tutti i sentimenti, vuole guadagnarsi tutto il suo essere; ma lei rimane lontana,
indifferente al suo amore.
Tante imperfezioni poi nell'apostolato si spiegano con le venialità: si lascia una cosa, se ne
lascia un'altra, si lascia di osservare quello che è stato stabilito nelle costituzioni - e che è salute e
mezzo di santità - si trascura una regola, si trascura un avviso, e dopo? Ministero infecondo!
Sembra che si semini un campo tutto sabbia, ghiaia, e che niente nasca. «Eppure vorrei fare,
eppure opero e mi dò attorno!». E, bisogna prima darsi attorno alla nostra anima! Perché, non
chi semina e neppure chi innaffia conta, ma la grazia di Dio: incrementum dat, Deus [1Cor 3,6].
Ah, la santità, come assicura il frutto della vita apostolica, del ministero, del servizio
parrocchiale!
(AAP 1957, 41-43.)
Sempre è utile la parabola che ha messo sotto la nostra considerazione Gesù: un uomo, il
quale scoperse in un campo un gran tesoro, un ricco tesoro. E allora lo scoprì perché nessuno
potesse prenderselo e andò a casa, vendette quanto aveva, anche i mobili di casa, tutto, e mise
insieme il denaro sufficiente, la somma necessaria per acquistare il campo, e il campo divenne suo
e così fu padrone del tesoro che là era sepolto [cf. Mt 13,44]. Ecco le anime belle, che hanno
scoperto il gran tesoro che è il cielo, le persone che hanno fede nell'eternità, nel paradiso, nel
premio che il Signore, nella sua bontà e nella sua giustizia, darà a chi avrà operato il bene,
secondo le sue stesse promesse.
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 10
Queste anime hanno scoperto il gran tesoro e allora tutto sacrificano, tutto offrono per
acquistare il campo, cioè il paradiso, e nel paradiso il grande gaudio. Thesaurizate autem vobis
thesauros in coelo [Mt 6,20]: tesoro del cielo. Ecco il cielo!
Noi dobbiamo dire che è necessaria una continua riconoscenza al Signore per averci
creati per lui: Fecisti nos Domine ad Te; inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te.
La nostra natura non richiederebbe quel gaudio eterno, quella felicità eterna soprannaturale,
richiederebbe solo un premio naturale, ma per i meriti di Gesù Cristo noi siamo fatti eredi del
cielo e quindi coeredi di Gesù Cristo stesso. Egli, Figlio di Dio; noi, figli di Dio; e allora come
fratelli condivideremo la felicità del cielo con Gesù Cristo. La riconoscenza nostra continua:
«Signore, ci hai fatto per te».
Perché il Signore ti ha creato? Per conoscerlo, amarlo, servirlo su questa terra e goderlo
eternamente in cielo. La riconoscenza! Goderlo eternamente in cielo. La gioia: laetantes ibimus [cf.
Sal 1,21]. Camminiamo lieti perché ogni passo che diamo, cioè ogni momento che passa, noi ci
avviciniamo al cielo. Riconoscenza perché ci ha creati per lui.
Secondo, riconoscenza perché ci ha dato la luce soprannaturale, la fede, e quella
illustrazione, quella luce interna per cui abbiam capito che il paradiso è tale bene che merita bene,
che merita sicuramente che noi diamo tutto per conquistare il tutto... diamo tutto per conquistare il
tutto! E la vita religiosa è proprio dare il tutto per conquistare il tutto, che è Dio. (…)
(AAP 1957, 502-504)
(…) Sempre vivere come se nessuno ci guardasse, nessuno ci osservasse, solo il
pensiero: Dio mi vede, Dio mi aiuta in ogni passo e Dio mi premia di ogni piccolo atto di amore, di
ogni piccola diligenza, di ogni osservanza delle costituzioni, delle disposizioni che sono date...
Fare serenamente, umilmente, le proprie cose bene e per amor di Dio, con intenzione retta.
Pensate alla Vergine benedetta nella sua casa di Nazareth: come era umile e semplice la sua
vita sebbene arrivata alla altissima dignità di madre di Dio!
Ecco. Eppure le sue giornate si riempivano di meriti preziosissimi. Persone che fanno le
loro cose senza destare alcun rumore, solo con l'intento di piacere a Dio! «Fateci santi!». Mirare a
ottenere queste grazie di operare, diciamo, silenziosamente.
Silenziosamente non vuol dire fare il muso, silenziosamente vuol dire: non vantandosi mai,
non mettendosi in mostra, non pretendendo di essere notati, non esigendo che gli altri riconoscano
il bene fatto o che ci interpretino sempre in bene o ce lo lodino.
Niente! Per Dio. Dio solo mi basta! Ecco, allora è una continua aspirazione a Dio, che
vuol dire continua aspirazione al paradiso, alla santità. Si cresce in virtù. Tra la giornata di chi
sa operare così e la giornata di chi è divagato, di chi è un po' tormentato dall'amor proprio e ha
mire troppo umane, ha mire ambiziose, ecc. gran diversità alla sera! Grande diversità tra giornata
e giornata! Eppure alle volte si è proprio vicini a operare, ma quel cuore che ama Dio e che tutto
opera per Dio quanti tesori accumula!
E quando il cuore è vuoto, quando si è superficiali, quando l'amor proprio ancora ci lavora,
allora anche facendo il bene si guadagna poco; qualche volta anche soffrendo, facendo molta
fatica.
Quindi: «Fateci santi», domandare queste grazie: far nell'umiltà, nella serenità le nostre
cose sempre per amor di Dio e nel miglior modo che ci è possibile, pensando che Iddio è con noi e
pensando che aspetta che noi compiamo la nostra corona per il cielo operando silenziosamente e
quotidianamente, sempre in vista del cielo, sempre sotto lo sguardo paterno, amoroso.
(AAP 1957, 514-517)
(…) sempre tre consolazioni nella missione: primo, il pensiero del paradiso.
Lavoriamo per il paradiso! Il nostro lavoro non è mai inutile, anche quando sembra che
abbiam seminato e che poi magari il seme non nasca, oppure, dopo che è nato, sia un po'
soffocato dalle spine, oppure che quando è nato inaridisca perché è sorto là, in un terreno
ghiaioso. Ecco, se non abbiam la ricompensa, la consolazione di vedere i frutti, pensiamo che
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 11
nessuna cosa va perduta. (…) Il pensiero del paradiso! Laetantes ibimus [cf. Sal 1,21], sempre
liete nel pensiero del paradiso. Tutti i giorni noi facciamo dei passi avanti verso quella patria
celeste; non stancarsi mai, dice san Paolo, non stancarsi mai di fare il bene perché il lavoro, il
bene che si fa non cade a vuoto.
Seconda consolazione è di aver sempre il buon Pastore con voi, sempre. Lavorate in
unione con Lui e Lui è con voi, Lui è con voi, sì! Lui farà fecondare la vostra parola e quante
volte vedrete anche sulla terra il buon frutto delle vostre fatiche, sì, perché nostro Signore, Gesù
buon Pastore, ha avuto tante amarezze, ma ha avuto anche tante consolazioni. Quindi si lavora
con Gesù; sempre lavorare nelle sue intenzioni.
Al mattino mettere le intenzioni che Gesù stesso ha - e farete bene a mettere anche le
intenzioni che ha Maria, la divina Pastora, e che hanno i santi apostoli Pietro e Paolo – ma
lavorare con Gesù pensando: come farebbe Gesù adesso se fosse al mio posto? Che cosa
farebbe Gesù adesso se fosse al mio posto? Come si comporterebbe Gesù con questa persona,
con quell'anima, se egli fosse qui visibile e operasse lui direttamente? Come farebbe Gesù buon
Pastore - ecco la regola.
Terza consolazione poi, è il tabernacolo; il tabernacolo! Il Signore è sempre presente e
ovunque andiate troverete un tabernacolo e, se non lo troverete, lo erigerete voi.(…)
Noi attiriamo gente a misura che siamo osservanti della nostra vita religiosa. Perché il
Signore certamente ha preparate vocazioni e ha preparato vocazioni per voi, per le
pastorelle, e ne ha preparato dappertutto. Se la vostra vita religiosa è ben vissuta, come avete
imparato in casa madre, allora il buon Pastore le manda e, se non fosse ben vissuta, siccome
quelle figliuole le ha destinate alle suore pastorelle, non le manderebbe perché non si
formerebbero bene.
Oh, tante volte può nascere l'obiezione: «Ma noi viviam bene la vita di pastorelle e ci
impegniamo a cercar le vocazioni, ma tardano».
Noi non conosciamo i disegni di Dio, non sappiamo quando viene il momento e l'ora. Poi, e se il
Signore invece di mandarle in un posto le manda in un altro, e se invece di mandare quelle che
sperate ne manda all'improvviso di quelle che mai non avete conosciuto... e se noi seminassimo
e altri poi raccogliessero?
Sia fatto il volere di Dio! Purché Iddio abbia la sua gloria e purché noi abbiamo il nostro merito; e
questo non può mancare quando si opera bene.
(AAP 1957, 538-540.543-544)
(…) Non dobbiamo essere noi ad impedire le grazie, le vocazioni e, soprattutto, la
formazione. Non impedire, ma essere d'aiuto. (…) Dare buon esempio di pietà, di zelo, di umiltà;
l'esempio entra più spesso e più presto. Così che in una casa tutte possono dire: noi siamo
delle formatrici. Se voi nella casa foste separate dalle aspiranti e dalle novizie, allora l'influenza
non ci sarebbe più tanto. Ma ora vivete insieme, dappertutto vi incontrate, vi vedete; quindi
l'influenza che potete esercitare col quotidiano contatto è grande. Le giovani guardano le
anziane. Alle volte dipende da cose a cui non si darebbe importanza: uno scatto, una negligenza,
un tratto un po' volgare bastano. Specialmente il desiderio di comparire, di essere considerate
persone distinte, importanti, porta con sé molte manifestazioni e conseguenze. Invece quando c'è
la santità, l'umiltà, tutto corre bene.
Vedere il gran bene che potete fare nel contribuire alla formazione. Non aver la manìa
di rispondere con frasi pungenti. Tuttavia aver il coraggio di dire la verità e dirla bene. Non
difendere noi, ma difendere le anime e Gesù non sia mai offeso. Dunque meritatevi le vocazioni.
Dire: voglio ottenere tante vocazioni con la preghiera; alla preghiera poi aggiungete l'attività. Così
potrete aderire alle molte richieste dei parroci. Gesù buon Pastore è sempre mite, sempre umile e
ha detto: «Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore» (Mt 11,29). Alle volte quando si
è un po' avanti si crede di poter dire un po' troppo le ragioni.
Se c'è da fare qualcosa è servire umilmente. Mitezza: «Beati i miti» (Mt 5,5). Questa
beatitudine chiediamola al Signore. Oh, come era mansueto Gesù! Con la sua mitezza si
guadagnava le folle.
(PrP IX, 1959, pp. 36-38.)
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 12
(…) Fare le cose con facilità vuol dire farle abitualmente con gioia; l’abitudine è arrivare al
grado sommo. Il Signore prima ci chiede uno, due, e poi dieci e poi sempre più. Fare tutto
senza dire «vuoi troppo». Gesù è un amante che vuole da noi tutto! (…)
Apprendere per comunicare ed insegnare. Si acquista una certa facilità, si trova
soddisfazione a fare il bene, perché si è cercato di apprendere anche con sforzo quello che ci è
stato insegnato e abbiamo amato questo lavoro. Quando si arriva all'eroismo si trova ricreazione
nel passare da un'occupazione all'altra. Man mano che arrivate a questo ideale l'istituto si
consolida.
Quando ci sono queste anime regna sempre la letizia. Il gruppo che farà così
trascinerà anche le altre istintivamente. In generale vedo che trovate letizia nel vostro
apostolato, non che voi siate già perfette, perfetto è solo Dio. Se ci sarà un gruppo di anime che
vivono nel fervore e nella letizia, non ci sarà bisogno di molte prediche o sgridate ed osservazioni,
ma solo di qualche avviso per indicare, poi tutto il resto farete da sole. Allora quanta facilità nella
formazione e quanta in tutta la vita dell'istituto. Se mirate lì, il progresso sarà di ognuna e di tutte.
Così si trascineranno anche coloro che non vorrebbero andare avanti, specialmente le aspiranti e
le vocazioni, che imparano più con l'esempio che con le parole.
L'ideale è di formare un gruppo solido e forte perché l'esempio è vivo e operante. Si
può trovare difficoltà a raccogliersi, va bene, ma fate un passo per volta. Camminare con costanza,
con tranquillità e senza arresti non necessari. C'è Gesù che vi attira tutte. Quello che vi fa più bene
è quest'ora di visita. Andate a Gesù come andreste a Nazareth a bussare alla sua porta. Fate
bene la visita poiché la visita ben fatta porta sempre fervore.
(PrP IX, 1960, pp.50-52)
*********
10. Giovanni Paolo II
Enciclica DIVES IN MISERICORDIA, 1980, n.10.
Abbiamo ogni diritto di credere che anche la nostra generazione è stata compresa nelle
parole della Madre di Dio, quando glorificava quella misericordia di cui «di generazione in
generazione» sono partecipi coloro che si lasciano guidare dal timore di Dio. Le parole del
Magnificat mariano hanno un contenuto profetico che riguarda non soltanto il passato di Israele,
ma anche l'intero avvenire del Popolo di Dio sulla terra.
*********
11. Nota pastorale dell’Episcopato italiano
RIGENERATI PER UNA SPERANZA VIVA, 2007.
n.12 Nella trasmissione del proprio patrimonio spirituale e culturale ogni generazione si misura
con un compito di straordinaria importanza e delicatezza, che costituisce un vero e proprio
esercizio di speranza.
*********
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 13
12. Card. G. Ravasi
Festival biblico “Di generazione in generazione”, Vicenza 2011.
Le generazioni che incarnano il tempo che scorre sulla terra non sono solo una ribalta in
cui è all’opera il Signore Salvatore. Sono anche l’orizzonte nel quale l’umanità custodisce e
trasmette la sua fede e offre a Dio la sua risposta di lode e di ringraziamento.
«Una generazione se ne va, una generazione subentra su una terra eternamente ferma».
È Qohelet-Ecclesiaste, in apertura al suo libro sapienziale realistico e amaro (1,4), a
descrivere il flusso incessante delle generazioni: l’ebraico dôr probabilmente presuppone
qualcosa di circolare come un accampamento di tende nomadiche (non per nulla in arabo la
stessa radice lessicale definisce sia la “circonferenza” sia l’“abitazione”).
L’immagine dell’antico sapiente biblico è, comunque, potente: la terra, «eternamente
ferma» e uguale, assiste indifferente alla morte delle creature viventi e alla nascita di nuovi esseri
in un circolo ininterrotto. Essa è come un palcoscenico fisso sul quale si passa costantemente
dalla tragedia alla festa, dalla fine all’inizio. Non a caso, nelle lingue semitiche orientali come
l’accadico, lo stesso termine dôr designa la “durata” della realtà, che è paradossalmente finita per i
viventi e interminabile per le cose.
Eppure la scelta biblica di riconoscere proprio nel tempo e nella storia la teofania,
cioè la rivelazione divina, rende il flusso generazionale una sorta di terra santa vivente.
È per questo che curiosamente, come insegna il parallelismo rigoroso che regge il passo di
Genesi 1,27, l’“immagine di Dio” a tutti disponibile è l’umanità in quanto maschio e
femmina, vale a dire nella sua capacità generativa: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a
immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò».
La rappresentazione più luminosa dell’opera creatrice di Dio è, quindi, nella procreazione
umana: si spiega in tal modo perché la cosiddetta Tradizione Sacerdotale (VI secolo a. C.) – una
delle strutture testuali del Pentateuco – costruisce la storia della salvezza su una sequenza di
genealogie (chi vuole averne una prova, legga di seguito questi passi: Genesi 1,28; 2,4; 9,1.7; 10;
17,2.6.16; 25,11; 28,3; 35,9.11; 47,27; 48,3-4).
È ancora in questa linea che si colloca il contenuto reiterato della promessa divina fatta ad
Abramo e ai patriarchi: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle! Tale sarà la tua
discendenza … Renderò la tua discendenza come la sabbia che è sulla spiaggia del mare»
(Genesi 15,5; 22,17).
Non si dimentichi, poi, che l’ingresso di Cristo nel mondo è affidato da Matteo (c.1) e
Luca (c.3) a una genealogia che procede di anello in anello lungo la storia biblica. Ma le
generazioni che incarnano il tempo che scorre sulla terra non sono solo una ribalta in cui è
all’opera il Signore Salvatore. Sono anche l’orizzonte nel quale l’umanità custodisce e trasmette la
sua fede e offre a Dio la sua risposta di lode e di ringraziamento.
Emblematica, in questo senso, è la narrazione della Pasqua ebraica, così come è
descritta nei cc. 12-13 dell’Esodo e come sarà ancor più marcata nella successiva haggadah
giudaica, ossia nel racconto della liberazione dalla schiavitù egiziana durante il seder, il rituale
pasquale, attraverso un dialogo tra padre e figlio, cioè tra le due generazioni. Per il sacrificio
dell’agnello pasquale, si legge nell’Esodo: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo
celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito
perenne… Quando i vostri figli vi chiederanno: Che significato ha per voi questo rito?, voi direte
loro: È il sacrificio della Pasqua del Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto,
quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case» (12, 14. 26-27).
Poi, per il rituale dei pani azzimi, si ripete la stessa formulazione: «In quel giorno spiegherai
a tuo figlio: È a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall’Egitto» (13,8).
Infine, per la prassi del riscatto del primogenito di ogni famiglia si ribadirà: «Quando tuo figlio un
domani ti chiederà: Che significa ciò?, tu gli risponderai: Con la potenza del suo braccio il
Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione servile» (13,14).
La trasmissione della fede avviene, dunque, attraverso il filo vivente delle
generazioni ed è mirabile a questo riguardo la lunga strofa d’apertura del Salmo 78 che, prima di
elencare gli articoli di fede della storia salvifica e quindi del Credo di Israele, esalta la catechesi
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 14
generazionale, per cui veramente i padri sono «i primi maestri della fede» per i loro figli,
come suggerirà il Concilio Vaticano II (Lumen Gentium n.11).
Ecco soltanto alcune battute di questa lunga premessa del Salmo che contiene una
teologia della “tradizione” autentica: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno
raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, narrando alla generazione futura le azioni
gloriose e potenti del Signore e le meraviglie da lui compiute… perché le conosca la generazione
futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarle ai loro figli perché ripongano in
Dio la loro fiducia…» (si legga il Salmo 78,3-8).
La generazione antica trasmette, dunque, il messaggio della salvezza a quella più
giovane in una catena viva e ininterrotta, sorretta dallo Spirito del Dio creatore e salvatore.
«Si parlerà del Signore alla generazione che viene … perché Dio mantiene la sua alleanza
per mille generazioni» (Salmo 22,31; Deuteronomio 7,9). Dio e uomo s’incontrano proprio su
quel fiume generazionale che è la storia stessa della vita umana.
13. C. Esposito, Sulla Tradizione, Verona 2006.
(…) Ma è appunto questa la grande difficoltà odierna: si fa molta fatica a comprendere
la tradizione come una vita; al massimo essa è un glorioso passato da conservare devotamente
o archeologicamente, oppure – come nella maggioranza dei casi – qualcosa che si deve
“aggiornare” o superare in virtù dell’idea di un continuo progresso in avanti con cui andrebbe
sempre reinterpretato il “messaggio evangelico”.
Tale difficoltà di comprensione è stata certamente condizionata da quella prospettiva
culturale dominante a partire dall’età moderna, secondo la quale la costruzione di un’umanità
realizzata doveva passare dalla programmatica recisione del rapporto con il suo passato cristiano;
ma al tempo stesso è risultata fortemente condizionata anche dalla tendenza opposta,
quell’interpretazione razionalista della tradizione, secondo cui a quest’ultima va riconosciuto un
ruolo essenziale nella costruzione della nostra civiltà occidentale e della nostra identità culturale,
ma come se essa fosse una storia senza un soggetto presente, insomma come un cristianesimo
senza Cristo. (…)
Com’è possibile testimoniare realmente una speranza nella vita, se non perché ne stiamo
già facendo esperienza ora? È solo per un’esperienza presente, infatti, che può sorgere una
certezza nel futuro.
E come sarà possibile raggiungere questa certezza se non per la scoperta vissuta – e
solo per questo “saputa” – che vi è un significato positivo della realtà, più grande di me e che
illumina la mia esistenza?
«Per sperare, bambina mia, bisogna essere felice, bisogna aver ottenuto, aver ricevuto una
grande grazia», come ha scritto Charles Péguy (in Il portico del mistero della seconda virtù), e
come ciascuno di noi può attestare per esperienza propria: è solo perché si è ricevuto qualcosa
di grande e di bello che si può sperare in un futuro di realizzazione e di compimento di sé.
(…)
Il significato della realtà – del mondo e dell’io, in tutti i suoi rapporti – non è una
dimostrazione filosofica né una prescrizione etica, ma è un “fatto”, «l’incontro con un avvenimento,
con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Benedetto
XVI, Deus caritas est). Tale avvenimento mi precede e mi raggiunge. Esso è il contenuto
sorprendente di ciò che chiamiamo la “tradizione”.
La tradizione dunque non riguarda semplicemente il nostro passato, ma costituisce
una vera e propria dimensione del presente, dal cui riconoscimento o dalla cui
trascuratezza dipende la coscienza che abbiamo di noi stessi e la capacità di rischiare la
nostra libertà, il giudizio sulle cose e la capacità di costruire il futuro. La tradizione è il nostro
“dato” di partenza e consiste nel riconoscere noi stessi e la realtà intera come “dato”, cioè fatta da
Qualcuno per noi.
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 15
Per questo la tradizione è come da imparare sempre, perché non solo proviene dal passato
– la vita non nasce con me, è più grande di me, mi precede – ma mi raggiunge ora, riaccade in
qualche modo adesso, come un avvenimento che si prolunga.
Noi siamo una storia, siamo fatti di questo passato che continua – come una presenza
e un contesto oggettivo – ad orientarmi, a segnare la direzione da cui provengo e quella verso cui
vado. Ma io devo rendermene conto, riconoscerlo, e solo di qui può nascere la novità, il
cambiamento.
È in fondo il grande paradosso della vita cristiana: nella dipendenza da chi mi ha fatto, anzi
mi sta facendo ora, nasce la coscienza vera di me e fiorisce la mia libertà come risposta a…, come
responsabilità di chi mi chiama all’essere. È proprio un diverso senso dell’umano, ciò che
costituisce la permanente novità del cristianesimo rispetto alla mentalità in cui tutti – e spesso
anche noi, in questo figli del nostro tempo – siamo in qualche modo immersi.
Concepire se stessi come staccati da ciò che ci precede (e cioè senza appartenere a
niente di più grande di sé), e vivere la propria libertà come un meccanismo reattivo che non
dipenda da nient’altro se non dal proprio istinto, dal proprio gusto soggettivo e dalle proprie
opinioni, significherebbe inaridire il proprio io in una pretesa autosufficienza: anche se ben
sappiamo che così si finisce per essere del tutto dipendenti dalla mentalità dominante (il potere
culturale) o dalle proprie astratte immagini mentali. Come una volta ha scritto sant’Ambrogio,
«guardate quanti padroni hanno quelli che non vogliono avere l’unico Signore!» (Epistulae
extra collectionem, 14, 96).
Non è difficile ritrovare nella più diffusa pratica culturale odierna (letteratura, manuali
scolastici, opinion leaders) l’idea che un uomo realizzato sia un individuo solo come mentalità e
come giudizio, come affezione e come libertà: un uomo staccato da un’appartenenza
riconosciuta, e per il quale la tradizione rappresenterebbe un retaggio da cui liberarsi, come
si farebbe con un macigno che impedisse la nostra libertà di movimento. (…)
Ma una speranza che non parta più da una presenza ricevuta e accolta, bensì da
un’assenza che ci si sforza di colmare, non può che portare all’idea – oggi sempre più condivisa –
che in fondo non vi sia nulla per cui valga veramente la pena vivere, nulla che possa superare la
misura corta delle nostre immagini e dei nostri progetti (il che, occorre ripeterlo, quasi sempre
significa le immagini e i progetti che ci vengono indotti da altri): è come se di fronte all’attesa e al
desiderio più profondo del cuore dell’uomo – quello della verità e della felicità, della
bellezza e della giustizia – non si presentasse credibilmente più nessuno che, con la sua
vita stessa, testimoniasse che c’è, che esiste e ci raggiunge ciò che desideriamo, quello
che nessuno di noi potrebbe costruirsi da sé, ma solo ricevere, cioè incontrare. Esiste, cioè,
il significato infinito che si rende presente nella contingenza e nella quotidianità della vita. Questa
proclamata impossibilità di una risposta che sia adeguata all’ampiezza delle nostre attese, è il
segno tragico di quello che chiamiamo “nichilismo”. (…)
Ma la speranza non è una cosa che nasca dal nulla: essa si alimenta di una storia reale
di generazione e di rapporti – la famiglia, la scuola, la Chiesa – che è arrivata sino a noi,
capillarmente, nei gesti essenziali del nostro popolo, dandoci la certezza del futuro in virtù di un
significato che veniva dal passato, un’“ipotesi di lavoro” offerta come spiegazione di tutta la realtà.
Senza questo noi non saremmo ciò che siamo; ma quello che siamo può vivere solo grazie
all’incontro con qualcosa di presente. E questo è un “dato” troppe volte dimenticato o reso del tutto
scontato. (…)
E difatti la tradizione non è mai una trasmissione di valori o di nozioni astratte, bensì
una testimonianza, quasi per pressione osmotica da persona a persona, tra un uomo che stia
già sperimentando la pertinenza alla vita di quell’ipotesi di senso e un altro uomo che lo segue. E
chi può aiutare a “crescere” (augere) in questa trasmissione è una reale auctoritas.
Il nesso della persona autorevole – dell’“autorità” – con colui al quale egli si propone è un
rapporto educativo. L’autorità del testimone non è dunque un fattore estrinseco rispetto a chi lo
segue, ma costituisce il fattore che c’entra più intimamente con la mia stessa coscienza, in quanto
è richiamo continuo all’io (soprattutto alla personalità del giovane), ad affrontare tutto alla luce di
quel significato offerto. (…)
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 16
Da questo punto di vista, il ruolo della famiglia non solo segna il primo, decisivo avvio
dell’avventura educativa, ma permane come paradigma ed esempio insostituibile del nesso
inscindibile tra la generazione alla vita e la trasmissione della fede. E questo peraltro è vero in
tutti i rapporti più significativi tra gli uomini – anche al di là della generazione biologica – che
abbiano coscienza del compito cui tutti sono investiti, e cioè condividere con gli altri cui ci si trova
messi insieme, una compagnia al destino.
La dinamica educativa, che parte come trasmissione da una generazione all’altra, si
rivela così, ad uno sguardo attento, come un bisogno strutturale della vita intera.
Il compito dell’educazione è dunque una sfida e un impegno alla ragione e alla libertà non
solo di chi viene educato ma anche e in primo luogo di chi educa. Nessuna analisi o tecnica
“psico-pedagogica” potrà mai sostituirsi a quest’affascinante avventura della conoscenza e
dell’affezione: non si tratta infatti di trasmettere valori o modelli di comportamento, ma di
comunicare se stessi, e più precisamente un modo diverso di giudicare la realtà e un nuovo
modo di coinvolgersi con essa.
È importante riconoscere che la vera posta in gioco nel nostro rapporto con la tradizione,
attraverso il rapporto con un testimone autorevole che ce la trasmette, è proprio un’educazione a
giudicare tutto – giudizio è infatti il modo con cui noi riconosciamo ciò che c’è affermandone il
senso – e ad amare la realtà, con quell’affezione che, prima di essere un sentimento
emotivo, è l’adesione al reale che mi interpella.
Anche questa passione educativa sembra essersi come affievolita o burocratizzata nella
società contemporanea della “formazione” e dell’“informazione” e sembra tramontare quella
responsabilità per cui gli adulti comunichino una ragione certa del vivere ai giovani, segno di una
perdita diffusa di convinzione esistenziale.(…)
Che cosa si può scoprire, invece, in un rapporto vissuto e vivente con la tradizione
cristiana? (…). È lo sguardo e l’affezione che Cristo ha portato nel mondo, quella verità dell’uomo
– di ciascuna persona – che ha continuato nel corso dei secoli ad attirare gli uomini a sé.
Qui è il fascino della nostra traditio, una grande storia in cui la storia di ciascun uomo non
risulta più insignificante o superflua rispetto al mondo intero, ma essenziale e insostituibile. (…)
A volte si ha la chiara percezione che la vera difficoltà, la vera posta in gioco nel confronto
spesso drammatico che si ha in una società multiculturale non sia tanto la disponibilità a
comprendere chi non appartiene alla nostra comunità di cultura e di storia – o meglio: questo è
importantissimo, ma può accadere effettivamente solo se riaccade la disponibilità ad accogliere
nuovamente quello che ci ha reso – e soprattutto ci rende ora – quello che siamo.
Senza questo lavoro educativo che ci tocca tutti, il dialogo scade a mera tolleranza, e la
tolleranza porta sempre in sé il germe della violenza, perché concede pure che l’altro sia, ma non
porta mai ad un amore vero al destino di ogni altro uomo. (…)
Avvertire la tradizione come un’eredità – come un figlio riconosce una paternità carnale
nella propria vita: questa è la dimensione esistenzialmente più affascinante e l’incidenza più
efficace di questa lunga, grande storia sul nostro presente. Non aver paura di riconoscerlo,
sfidando i dogmi e le mode della cultura dominante, comporta in fondo un gesto di libertà. Ed è
proprio vero che solo la verità può rendere liberi – liberi dalla paura di appartenere, liberi di seguire
quello che corrisponde di più alla vita, liberi di riconoscere un significato presente per cui vale la
pena vivere. (…)
Testi per l’approfondimento scheda 3, p. 17