città di Fiume

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L'impresa fiumana
IL PATTO DI LONDRA
Il 25 aprile 1915 il Regno d'Italia s'impegnava a condurre la guerra al fianco di
Gran Bretagna, Francia e Russia. Con la vittoria avrebbe ottenuto il Tirolo
meridionale da Ala al Brennero, le contee di Gorizia e Gradisca, il territorio di
Trieste e la penisola istriana fino al golfo del Quarnaro, comprese Volosca e
le isole di Cherso e Lussino Con il patto di Londra l'Italia avrebbe ottenuto
anche gran parte delle isole dalmate e il territorio tra Lisarika e Capo Planka con
le città di Zara, Sebenico e Trau, il controllo di Valona con l'isola di Saseno, le
isole del Dodecaneso, zone d'influenza in Asia Minore e rettifiche di confine in
Africa.
L'interesse italiano per Fiume fu marginale per tutto l'Ottocento: alla firma del
Patto di Londra l'Italia prevedeva l'attribuzione di Fiume all'Austria-Ungheria per
assicurarle lo sbocco nell'Adriatico e limitare così l'espansione serba.
FIUME
"QUESTIONE CHIAVE" PER
VERSAILLES
L'ITALIA
A
Il 7 febbraio 1919 il Capo del governo Vittorio Emanuele Orlando, presentò
ufficialmente le richieste italiane alla Conferenza di pace di Versalilles.
Andando oltre il Patto di Londra, chiedeva anche le città di Spalato e Fiume,
chiedendo il rispetto di quel principio di nazionalità che negava in Dalmazia. Ciò
portò Roma a scontrarsi con gli jugoslavi che, appoggiati dagli Stati Uniti,
esigevano tutta l'Istria compresa Trieste, Gorizia e Gradisca e, naturalmente,
Fiume. Al tavolo delle trattative l'Italia dovette fronteggiare anche la Gran
Bretagna e la Francia: la prima era preoccupata di evitare dissapori con
Washington e con la propria opinione pubblica filo-slava, la seconda desiderosa
di attirare sotto la propria influenza i nuovi Stati successori dell'impero asburgico.
Di fronte al mancato accoglimento delle proposte italiane da parte degli Alleati, la
delegazione guidata da V.E. Orlando si ritirò dal Tavolo della Conferenza di
Pace.
L'ITALIANITA' DI
IRREDENTISMO
FIUME
TRA
AUTONOMISMO
E
La città di Fiume faceva parte del Regno di Ungheria ma godeva di ampie
autonomie amministrative. Fiume rimase estranea alle vicende italiane fino
alla seconda metà degli anni Novanta dell’Ottocento quando Budapest iniziò
una politica accentratrice che portò, tra l'altro, a un tentativo di controllo
sull'istruzione e sulle scuole italiane della città. In tale contesto nascerà nel
1896 il Partito autonomo nel quale presto emergerà la figura di Riccardo
Zanella. Difesa dell'autonomia e difesa dell'italianità iniziarono a coincidere e
a manifestarsi in un sentimento patriottico con venature irredentiste. I più
giovani però si dimostrarono insofferenti della politica lealista che gli
autonomisti seguivano nei confronti dell'Ungheria e nel 1905 fondarono la
"Giovane Fiume", primo centro di aggregazione dell'irredentismo fiumano.
La politica nazionalista ungherese dei primi anni del Novecento rispose
con lo scioglimento della "Giovane Fiume" nel 1912 e con l'espulsione di
uno dei suoi leader Icilio Bacci
Riccardo Zanella
NOVEMBRE 1918-SETTEMBRE 1919:
annessione all’Italia o città libera?
Il 30 ottobre 1918 il Consiglio nazionale italiano di Fiume, espressione della
maggioranza italiana in città, assunse i pieni poteri e proclamò unilateralmente
l'annessione al Regno d'Italia. Gli irredentisti, favorevoli all’annessione, si
contrapposero ai sostenitori dell’autonomia. I primi si appellavano al principio di
autodeterminazione nazionale. Gli autonomisti invece, considerando il carattere
multietnico della popolazionespingevano per la proclamazione di Fiume città
indipendente. La città visse giorni di grande confusione per la presenza di reparti
serbi e austriaci. Il 17 novembre 1918 la brigata italiana Granatieri di
Sardegna entrò a Fiume insieme ad un reparto statunitense e, successivamente,
a truppe francesi, con un Comando interalleato guidato dal Gen. Francesco
Saverio Grazioli che tenne il controllo della città fino al settembre del 1919. A
seguito di gravi incidenti (6 luglio 1919) tra truppe italiane e francesi, il 25 e il
27 agosto i Granatieri abbandonarono Fiume.
Il venticinque agosto è successa una porcheria:
i baldi granatieri, da Fiume andaron via.
Don, don, don
al suon del campanon.
Alla mattina all'alba suonavan le campane,
partivan i granatieri, piangevan le fiumane.
Don, don, don
al suon del campanon.
Si ferma allora subito il granatiere forte;
e grida a tutto il popolo:- Vogliamo Fiume o morte.
Don, don, don
al suon del campanon.
Nel buio e nel silenzio di questa triste aurora,
fiumani non piangete, ritorneremo ancora.
Don, don, don
al suon del campanon.
(Canzone composta dal sottotenente Rodolfo Cianchi, I° rgt. Granatieri,e cantata dalle truppe che lasciano Fiume
nell'agosto 1919)
PROLOGO: LA LEGIONE FIUMANA DI HOST-VENTURI E I
"GIURATI DI RONCHI"
Nel maggio del 1919 Giovanni Host-Venturi, fiumano e capitano degli arditi,
aveva costituito a Fiume la Legione volontari fiumani, una milizia cittadina
appoggiata moralmente e materialmente anche dal generale Grazioli e da molti
ufficiali delle truppe italiane presenti in città. Nel giugno 1919 associazioni
irredentiste come la Trento-Trieste e la Sursum Corda iniziarono ad aprire
centri per l'arruolamento di nuclei armati pronti ad accorrere a Fiume per
favorirne l'annessione all’Italia. Non tutti i Granatieri di Sardegna poi lasciarono
definitivamente il territorio: il 1° e il 3° battaglione vennero acquartierati a
Ronchi, borgata della provincia di Trieste e qui sette giovani ufficiali, i "giurati di
Ronchi", firmarono il 28 agosto un appello indirizzato a Gabriele D'Annunzio.
I sette „Giurati di Ronchi“
«...Noi abbiamo giurato sulla memoria di tutti i morti per l'unità d'Italia: Fiume
o morte! e manterremo, perchè i granatieri hanno una fede sola e una parola
sola. E voi non fate nulla per Fiume? Voi che avete nelle Vostre mani l'Italia
intera, la grande, nobile, generosa Italia, non la scuoterete da quel letargo nel
quale da qualche tempo è caduta? Fatelo, è vostro dovere il farlo, è vostro
dovere ricordare agli italiani che hanno combattuto per un ideale
grandemente bello: per la libertà...»
Truppe francesi lasciano Fiume dopo l'arrivo dei Legionari
La squadriglia di autoblindo nel porto di Fiume
L'aquila bicipite „decapitata“ dai legionari di
D'Annunzio
L'episodio dell'autoblindo che spezza la sbarra dando simbolicamente inizio
all'occupazione della città fu celebrato da D'Annunzio con questi versi:
Al motto tennero bordone il rombo del motore
ed il grido della giovinezza.
Al comando rispose l'azione più rapidamente
che al lampo non succede il tuono.
Detto fatto.
La barra si spezzò come un sermento, volò in
scheggie e in faville.
Passò la prima macchina, rombando, concludono le mitragliatrici puntate. Passò
la seconda.
Tutta la gloriosa squadriglia del tenente Benagli passò,
accellerando il suo ritmo d'acciaio;
avanguardia temeraria.
«..se sparate, mirate alla medaglia..»
GABRIELE D'ANNUNZIO
Protagonista durante la guerra di azioni clamorose quali il volo su Vienna del 9
agosto 1918 o la «beffa» di Buccari, D'Annunzio fu proiettato nuovamente al
centro della lotta politica italiana dalle polemiche sulle rivendicazioni nazionali e
presto iniziarono i contatti tra il Poeta e diversi esponenti nazionalisti fiumani.
D'Annunzio subordinò inizialmente l'idea di un'azione su Fiume alla possibilità di
qualche gesto ancora più clamoroso su Roma. Ai primi di settembre però
D’Annunzio ruppe ogni indugio inviando queste parole alla redazione della
«Vedetta d'Italia»: «Io credo necessaria l'azione. E sono pronto con i miei
fidi. Sarò domani a Ronchi per accordarmi con i più arditi e i più ardenti dei
reduci di Fiume». La presa di Fiume avrebbe dovuto, nelle intenzioni di
D'Annunzio, provocare la caduta del governo Nitti ed essere il prologo per un
rivolgimento politico in Italia.
Dal modus vivendi al blocco navale
Francesco Saverio Nitti fu Presidente del Consiglio dal 23 giugno 1919 al 15
giugno 1920. Dopo una prima, intransigente, reazione al colpo di mano
dannunziano, avviò una cauta politica di trattative con lo scopo di giungere ad
una soluzione mediata con i rivoltosi. D'Annunzio conierà per lui il dispregiativo
epiteto di Cagoia, figura di crapulone del teatro popolare triestino.Il 23 ottobre
1919 il generale Badoglio,incaricato dal governo di risolvere la questione,
presentò a D'Annunzio una proposta di modus vivendi. L'Italia avrebbe
rispettato l'autonomia di Fiume e ne avrebbe riconosciuto l'autorità sovrana
cittadina. La città sarebbe stata unita all'Italia attraverso una striscia costiera di
territorio.
Il Comando di Fiume non accettò la proposta perchè privava Fiume della
ferrovia, delle isole del Carnaro e di Porto Baross. Il 29 novembre consegnò a
Badoglio una controproposta che prevedeva il diritto della città di decidere del
proprio destino, l'impegno italiano ad occupare militarmente il territorio di Fiume
fino alla proclamazione dell'annessione e il riconoscimento dell'impresa
legionaria. Nitti respinse queste proposte e impose il blocco totale dei
Francesco Saverio Nitti (Melfi,
1868 - Roma, 1953)
Volantino di D'Annunzio contro Nitti
LA DIFFICILE SITUAZIONE ECONOMICA DELLA CITTA'
Dopo il blocco imposto dal governo italiano, le condizioni della popolazione
civile si fecero estremamente difficili. Il silurificio Whitehead, i cantieri navali
Danubius, la Fabbrica per la Pilatura del Riso e la Raffineria dell'Olio di Semi
erano inattive per mancanza di commesse e di materie prime. Le derrate
alimentari scarseggiavano, i prezzi continuavano ad aumentare e, nel febbraio
del 1920, in accordo con il Comitato centrale dei Fasci di combattimento di
Milano, duecentocinquanta bambini fiumani furono inviati nel capoluogo
lombardo per alleviare i disagi provocati dalla scarsità di approvvigionamenti.
Comunque sia, anche dopo l'imposizione del blocco, alla Croce Rossa fu
sempre permesso di rifornire la città (con la clausola di rifornire esclusivamente i
civili non i legionari).
GLI "USCOCCHI"
Uscocchi (dal serbo-croato uskok, "transfuga") erano definiti quei gruppi di
popolazione che, nel Cinquecento, costretti ad abbandonare le proprie terre in
seguito all'invasione ottomana, si rifugiarono in località inaccessibili della costa
dandosi alla pirateria. D'Annunzio chiamò "uscocchi" quei legionari che si
specializzarono in colpi di mano e in atti di pirateria allo scopo di rifornire la
città stretta nella morsa del blocco. Famosa resta l'impresa della cattura del
piroscafo “Persia” realizzata grazie all'aiuto della Federazione della Gente di
Mare che si opponeva alla partenza dall'Italia di armi probabilmente destinate a
combattere il governo bolscevico. La nave partì il 29 settembre da La Spezia con
destinazione Vladivostock; il 7 ottobre giunse a Fiume dopo essere stata dirottata
in alto mare da tre uomini imbarcatisi clandestinamente.
IL "COLPO DI STATO" DEL DICEMBRE 1919
Badoglio riuscì a mantenere aperto un canale di dialogo con Giuriati, Capo di
Gabinetto fiumano, e a metà dicembre il Consiglio nazionale di Fiume approvò
una nuova bozza di modus vivendi. D'Annunzio, non convinto della bontà
dell'accordo, indisse un referendum; i fiumani si dimostrarono largamente
favorevoli all'accordo e allora il «Comandante» annullò la consultazione.
Giovanni Giuriati, che aveva tentato di mediare tra D'Annunzio e il governo
italiano, si dimise. La fine delle trattative segnò anche l'inizio della fine di Nitti che
presto verrà sostituito da Giovanni Giolitti, ben più determinato a venire a capo
della difficile situazione.
Alceste De Ambris Capo di
Gabinetto
«Mio caro, la rottura sembra inevitabile. Credo necessaria la tua presenza, e la
tua assistenza. Tu potresti rendere un altissimo servigio alla nostra causa». Così
scriveva D'Annunzio, nel gennaio 1920, ad Alceste De Ambris che sostituirà
Giuriati come Capo di Gabinetto. Sindacalista rivoluzionario, interventista e
soldato nella Prima guerra mondiale, De Ambris morirà esule in Francia negli anni
del fascismo. Il suo ruolo a fianco di D'Annunzio si rivelò decisivo nell'imprimere
all'impresa una svolta politica in senso democratico-rivoluzionario come
dimostreranno la Carta del Carnaro e la proclamazione della Reggenza.
De Ambris a Fiume, febbraio 1920
Alceste De Ambris
D'ANNUNZIO RIVOLUZIONARIO?
Sembra che Lenin, a una delegazione di comunisti italiani, abbia detto che
D'Annunzio era il solo capace di fare una rivoluzione in Italia.
La promulgazione della Carta del Carnaro e la proclamazione della Reggenza,
la fondazione della Lega di Fiume contrapposta alla Società delle Nazioni per
combattere il colonialismo e l'imperialismo e la riforma dell'esercito in chiave
democratica furono provvedimenti che delineavano un piano più generale e
utopico da parte di D'Annunzio. Fallito il tentativo di estendere il moto legionario
nella penisola, il Poeta tentò di internazionalizzare la questione fiumana per fare
della città la guida di una vera e propria rivoluzione universale, un modello per il
"mondo nuovo" nato dopo la Grande Guerra.
LA REGGENZA ITALIANA DEL CARNARO
Il 30 agosto 1920 il «Comandante» rese nota la Costituzione della “Reggenza
italiana del Carnaro”, il nuovo organismo statale pensato insieme a De Ambris e
proclamato l'8 settembre 1920. Lo Stato, ispirato ai comuni medievali, doveva
essere una repubblica (il nome "reggenza" fu scelto solo per non offendere il
diffuso sentimento monarchico della città) alternativa al parlamentarismo
liberale, al bolscevismo sovietico e al presidenzialismo statunitense.
La proclamazione della Reggenza italiana del Carnaro
Il vessillo della Reggenza
La Carta del Carnaro
Lo statuto che regolava la Reggenza, chiamato Carta del Carnaro, fu concepito
nel suo impianto essenziale da Alceste De Ambris; D'Annunzio approvò l'opera
del sindacalista, la riadattò con una prosa poetica, e vi aggiunse alcune
modifiche.
Questo documento risulta ancora oggi di straordinaria modernità soprattutto negli
articoli riguardanti la concezione della proprietà, i rapporti tra i sessi,
l'istruzione e il decentramento amministrativo.
Art. 4) La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza
divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed
inalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori; abolisce o
riduce la centralità soverchiante dei poteri costituiti; scompartisce le forze e
gli officii, cosicchè dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre
vigorosa e più ricca la vita comune.
Art. 54) Alle chiare pareti delle scuole aerate non convengono emblemi di
religione nè figure di parte politica. Le scuole pubbliche accolgono i seguaci
di tutte le confessioni religiose, i credenti di tutte le fedi, e quelli che possono
vivere senza altare e senza dio.
Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza.E ciascuno può fare la sua
preghiera tacita [...].
GUIDO KELLER
"Asso di cuori" nella squadriglia di Baracca, Guido Keller nacque a Milano nel
1892. Decisivo nella riuscita della marcia di Ronchi, sarà lui a sequestrare gli
autocarri che, all'ultimo momento, vennero a mancare ai legionari. Keller starà al
fianco del Poeta per tutta l'occupazione.
Omosessuale dichiarato, naturista, allevava un'aquila chiamata come lui Guido e,
a bordo del proprio aereo, teneva sempre un servizio da tè e dei fiori. Per
dormire, racconta il suo biografo, «si era trovato un albero in fondo al campo,
sotto al quale una squadra di soldati [...] era riuscita a scavare una specie di
grotta o ricovero». Specialista nei colpi di mano, mentre il governo italiano nel
1920 firmava il trattato di Rapallo, Keller sorvolò Roma lanciando sul Palazzo di
Montecitorio un pitale al cui interno stava un mazzo di ortaggi accompagnati dalle
parole:«Guido Keller, ala azione nello splendore, dona al Parlamento e al
Governo che si reggono da tempo con la menzogna e con la paura, la
tangibilità allegorica del loro valore».
D'ANNUNZIO-MUSSOLINI: UN RAPPORTO
DIFFICILE
Prima degli studi di Renzo de Felice, Gabriele D'Annunzio veniva considerato un
vero e proprio precursore del fascismo. In realtà, sebbene siano indubbie le
influenze esercitate da D'Annunzio verso il futuro "duce" sul piano del linguaggio
e del rapporto con la folla, tra i due si ebbero spesso momenti di frizione e anche
di dissenso.
Tra i protagonisti della marcia di Ronchi non ci furono esponenti fascisti vicini a
Mussolini ma nazionalisti e militari e la cautela di Mussolini nei primi giorni
dell'azione è rivelatrice del prudenziale distacco con il quale viveva l'evento. Il 16
settembre D'Annunzio, indignato da questo comportamento inviò una lettera
infuocata al «Popolo d'Italia» che Mussolini pubblicò così tagliata:
«Mio caro Mussolini [mi stupisco di voi e del popolo italiano.] Io ho rischiato tutto,
ho dato tutto, ho avuto tutto. Sono padrone di Fiume, del territorio, d'una parte della
linea di armistizio, delle navi; e dei soldati che non vogliono obbedire se non a me.
Non c'è nulla da fare contro di me. Nessuno può togliermi da qui. Ho Fiume; tengo
Fiume finchè vivo, inoppugnabilmente. [E voi tremate di paura! Voi vi lasciate
mettere sul collo il piede porcino del più abbietto truffatore che abbia mai
illustrato la storia del canagliume universale. Qualunque altro paese – anche la
Lapponia – avrebbe rovesciato quell'uomo, quegli uomini. E voi state lì a
cianciare mentre noi] lottiamo d'attimo in attimo, con un'energia che fa di questa
impresa la più bella dopo la dipartita dei Mille. [Dove sono i combattenti, gli arditi, i
volontari, i futuristi?]. Io ho tutti soldati qui, tutti soldati in uniforme, di tutte le armi.
É un'impresa di regolari. [E non ci aiutate neppure con sottoscrizioni e collette.]
Dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà. [Svegliatevi. E vergognatevi
anche.] Se almeno mezza Italia somigliasse ai Fiumani, avremmo il dominio del
mondo. Ma Fiume non è se non una cima solitaria dell'eroismo, dove sarà dolce
morire ricevendo un ultimo sorso della sua acqua. [Non c'è proprio nulla da
sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime, e
sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma
non vi guarderò in faccia]. Su! Scotetevi [, pigri dell'eterna siesta]. Io non dormo
da sei notti; e la febbre mi divora. Ma sto in piedi. E domandate come a chi m'ha
visto. Alalà.»
LA "CITTÀ DI VITA"
Una città-stato governata da un poeta non poteva non attirare un gran numero
di artisti e intellettuali che, fin dai primi giorni, vi giunsero non solo per
testimoniare la propria adesione politica, ma soprattutto per vivere una "vitafesta" tra utopia, trasgressione, gioco e guerra. Specialmente dopo il
fallimento delle trattative per il modus vivendi e l'indirizzarsi della politica
dannunziana verso prospettive rivoluzionarie, Fiume acquistò sempre più i
connotati della "Città di vita", come sarà chiamata dal "Comandante". Un
laboratorio per l'elaborazione di una "controsocietà" ribelle e libertaria. A
Fiume troveremo i letterati Giovanni Comisso, Léon Kochnitzky e Mario Carli,
l'architetto Guido Marussig e poi Marinetti, il poeta giapponese Harukici
Scimoi; anche Guglielmo Marconi e il maestro Arturo Toscanini si recheranno
in visita alla città occupata.
Lo scrittore Giovanni Comisso
«A primavera [D'Annunzio] faceva ogni giorno con un
reparto diverso, passeggiate per i monti e ritornava
cantando coi soldati che tenevano rami fioriti infissi nella
canna dei moschetti, per alcune sere partecipò a cene
presso gli ufficiali dei vari reparti, e così coi soldati, al loro
rancio. Guai se gli accadeva di preferire più un reparto di
un altro, ne sorgevano gelosie terribili, dove il reparto
meno favorito, andava a bloccare l'altro nella sua caserma
puntando le mitraglitrici»
(G. Comisso, Le mie stagioni)
Il Trattato di Rapallo
Le intenzioni del governo italiano furono chiarite con il trattato di Rapallo firmato
il 12 novembre 1920 tra Italia e Jugoslavia. All'Italia veniva assegnata tutta
l'Istria sino a Preluca, Postumia, Idria e il Monte Nevoso e rinunciava alla costa
orientale adriatica e alla Dalmazia eccetto Zara e le isole di Cherso, Lussino,
Lagosta e Pelagosa.
Fiume diventava uno Stato indipendente formato dalla città e da una parte di
territorio che ne assicurasse la contiguità territoriale con l'Italia.
LA RESISTENZA DANNUNZIANA E IL NATALE DI SANGUE
La popolazione fiumana, contraria al trattato di pace ma stanca dopo due anni
di disagi sociali ed economici, si dispose ad accettare l'accordo. Gabriele
D'Annunzio invece lo respinse e si preparò a resistere ad oltranza e, il 21
dicembre, proclamò lo stato di guerra. L'esercito regolare al comando del
generale Caviglia attaccò i legionari che ripararono su una linea di difesa più
arretrata. Dopo una tregua per il giorno di Natale, il 26 la corazzata “Andrea
Doria” aprì il fuoco sul palazzo del comando fiumano; il 28 monsignor Costantini
e alcuni notabili fiumani consegnarono a D'Annunzio un appello per far cessare la
resistenza. Il «Comandante» annunciò le proprie dimissioni e, il 18 gennaio
dopo che tutti i legionari avevano lasciato la città, abbandonò Fiume. Le perdite
tra i fiumani erano state di 22 legionari (tra cui il trentino Italo Conci) e 5 civili. Le
truppe regolari persero 25 uomini.
Reticolati nelle vie della città
Il Palazzo del Governatore colpito dalla corazzata Andrea Doria
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