Relazione per CSM - Notaio Ricciardi

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MARCO KROGH
NOTAIO
PANORAMA GIURISPRUDENZIALE SU ALCUNE QUESTIONI RELATIVE AGLI
ACQUISTI DI BENI NEL REGIME DELLA COMUNIONE LEGALE
In una prospettiva di massima sintesi delle molteplici problematiche riguardanti gli acquisti
da parte dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, può osservarsi che i due nodi critici
principali che l’operatore del diritto deve sciogliere nella ricostruzione del sistema normativo
applicabile alle singole fattispecie concrete da regolamentare sono riconducibili a due principali
aree tematiche che sebbene siano tra loro distinte si condizionano a vicenda.
Una prima area riguarda l’individuazione dello spazio, più o meno ampio, che il Legislatore
ha inteso riconoscere all’autonomia privata dei coniugi all’interno del regime della comunione
legale dei beni ed, un’altra area riguarda, invece, il rapporto che il Legislatore ha inteso stabilire tra
la disposizione contenuta nell’art. 177 lett. a) e le altre disposizioni contenute negli artt. 178 e 179 .
E’ evidente che il minor o maggior spazio che l’interprete riconosce all’autonomia privata
all’interno del microsistema della comunione legale condiziona, in modo significativo, anche la
collocazione delle specifiche fattispecie all’interno del paradigma degli artt. 177, 178 e 179.
All’interno della prima area tematica, gli interrogativi principali riguarderanno,
prevalentemente, la valenza che deve riconoscersi alla dichiarazione di cui all’ultimo comma
dell’art. 179 c.c. e la possibilità per i coniugi di perfezionare convenzioni di tipo dispositivo volte
ad includere od escludere determinati beni dal regime della comunione legale.
All’interno della seconda area tematica gli interrogativi principali riguarderanno, da un lato,
la maggiore o minore ampiezza che deve darsi all’espressione “acquisti compiuti” utilizzata dal
Legislatore nell’art. 177 lett. a) e, da altro lato, l’individuazione di una scala gerarchica tra i valori e
le ragioni giustificatrici implicitamente o esplicitamente contenuti negli artt. 177, 178 e 179, posto
che è possibile ritenere, in via alternativa:
 che l’art. 177 lett. a) sia la norma generale e le altre disposizioni contenute negli artt. 178
e 179 sia derogatorie e, quindi, eccezionali, rispetto alla prima cosicché le singole
fattispecie concrete che si presentano all’interprete potranno essere collocate all’interno
degli artt. 178 e 179 nei soli casi in cui coincidono perfettamente con il dato letterale della
norma, non essendo possibile alcuna applicazione analogica delle norme eccezionali (art.
14 delle preleggi);
 che gli artt. 177, 178 e 179 siano sullo stesso piano e ciascuna disposizione è diretta a
tutelare specifici valori riferibili alla persona all’interno della famiglia, alla sfera
personalissima della persona, alla persona nell’esplicazione della sua attività
professionale ovvero alla tutela di interessi estranei ai coniugi e riferibili al donante o al
familiare che intende effettuare una chiamata ereditaria escludendo uno dei coniugi.
Nella seconda ipotesi alternativa prospettata, le fattispecie concrete andranno collocate
all’interno dell’art. 177 lett. a) ovvero all’interno degli artt. 178 e 179 dopo aver individuato i valori
emergenti dalle fattispecie stesse ed averli bilanciati, operando un giudizio di comparazione e
privilegiando quegli interessi che appaiono maggiormente meritevoli di tutela in un determinato
momento storico.
L’indirizzo che emerge dai più recenti pronunciati della Suprema Corte è riconducibile alla
prima ipotesi alternativa prospettata. C’è una tendenza che si sta via via affermando ad aumentare
notevolmente la forza attrattiva dell’art. 177 lett. a) in tutti i casi in cui non ricorrono, in modo
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preciso, nella fattispecie tutti gli elementi che integrano una delle ipotesi riconducibili agli artt. 178
e 179.
L’inversione di tendenza è percepibile da una serie di recenti pronunciati diretti ad
escludere il rifiuto del coacquisto, ad escludere la possibilità per i coniugi di concludere
convenzioni matrimoniali di tipo dispositivo, ad includere, nel meccanismo acquisitivo di cui
all’art. 177 lett. a), salvo eccezioni, i diritti di credito, così come gli acquisti a titolo originario, fino
a giungere al recentissimo pronunciato in tema di acquisti di quote di società di persone.
Questo orientamento che sembra in via di consolidamento, sebbene fondi le sue ragioni sulla
necessità di non annientare, attraverso deroghe ed eccezioni, il contenuto ed il significato della
comunione legale, non è, tuttavia, esente da critiche per più motivi che possono sinteticamente così
riassumersi:
1) la comunione legale non è il regime esclusivo che regola i rapporti tra i coniugi, ciò
significa che i valori fondamentali della famiglia non trovano la loro esclusiva realizzazione
all’interno del regime della comunione legale dei beni. Esistono altri istituti, all’interno dei rapporti
familiari ed in caso di crisi matrimoniale o di cessazione degli effetti del matrimonio deputati a
riequilibrare eventuali sperequazioni che si sono originate nel corso del matrimonio. Tra le norme
inderogabili dirette ad assicurare la piena realizzazione dei valori fondamentali, riconducibili al
modello familiare voluto dal Legislatore del 1975 (cd. regime primario della famiglia) non sono
comprese le norme che riguardano il regime patrimoniale tra i coniugi (cd. regime secondario); di
conseguenza, la comunione legale costituisce, idealmente, il regime che più degli altri, meglio
interpreta i valori del modello di famiglia legittima, ma non costituisce lo strumento unico ed
inderogabile per l’attuazione dei valori stessi;
2) i coniugi possono realizzare, lecitamente, lo stesso risultato, mediante un percorso
giuridico costituito da più atti (scelta della separazione dei beni, acquisto del bene, ritorno alla
comunione legale). L’eccessiva chiusura nell’interpretazione delle norme sulla comunione legale
sembra, sotto quest’aspetto, contrastare con il principio dell’economia dei mezzi giuridici;
3) di fatto, stiamo assistendo ad una sorta di fuga, soprattutto da parte delle nuove coppie,
dal regime della comunione legale. Al momento del matrimonio le coppie tendono a scegliere il
regime della separazione dei beni e, nel caso in cui ciò non avvenga, la scelta della separazione dei
beni, il più delle volte è compiuta prima di un acquisto o un’operazione economica importante. Ciò
dovrebbe forse consigliare l’interprete ad una rilettura delle norme che dia maggior spazio
all’autonomia privata dei coniugi.
Passando all’esame concreto delle fattispecie che più o meno quotidianamente si presentano
all’operatore del diritto, non può non rilevarsi che, nonostante l’apparente semplicità della lettera
dell’art. 177 lett. a), la terminologia usata risente di un’eccessiva genericità. La norma infatti
testualmente dispone: “Costituiscono oggetto della comunione: a) gli acquisti compiuti dai due
coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni
personali”.
L’enunciazione si distingue per il suo atecnicismo. Come fu evidenziato sin dai primi
commentatori della riforma, il primo dubbio è se il termine acquisto si riferisca alla fattispecie o
all’effetto e, su questo punto, mi sembra che siano tutti d’accordo a ritenere che il termine si
riferisca all’effetto e non alla fattispecie e ciò non è di poco conto: se si ritenesse il contrario, il
coniuge non partecipante all’atto ne diverrebbe comunque parte con tutte le conseguenze giuridiche,
anche negative, che ne deriverebbero.
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In realtà, con il termine “acquisto” il Legislatore sembra voler più che definire in modo
preciso la fattispecie che intende regolamentare, evidenziare un intento programmatico dell’assetto
patrimoniale dei coniugi.
Come è stato notato, la disposizione sembra assumere il connotato di clausola generale,
descrittiva degli obiettivi di politica familiare e sociale voluti dal Legislatore, lasciando
all’interprete il compito di definire il contenuto della norma, secondo un opera ermeneutica capace
di conformare il dato letterale della disposizione ai valori che di volta in volta saranno ritenuti
prevalenti in un determinato momento storico o nella comparazione dei vari interessi in conflitto.
Il contenuto a “bassa definizione” della norma e l’estrema genericità della locuzione
“acquisti compiuti” emerge, peraltro, dalla copiosa diversità di opinioni che si è formata e tuttora si
riscontra nel panorama dottrinale e giurisprudenziale sul tema.
La maggiore o minore estensione del perimetro della comunione legale è di conseguenza
giustificata, non dalla lettera della norma, ma dalla diversa rilevanza che l’interprete riconosce ai
valori che caratterizzano il regime della comunione legale dei beni e, come si è accennato, al
rapporto tra la disposizione contenuta nell’art. 177 lett. a) e le disposizioni contenute negli artt. 178
e 179.
Infatti, la comunione legale, in astratto, potrebbe ricomprendere:
1) Tutti gli acquisti, senza distinguere tra diritti reali e diritti di credito, tra acquisti a titolo
originario ed acquisti a titolo derivativo, tra situazioni strumentali e situazioni
definitive. Qualunque bene, suscettibile di valutazione economica, entrerebbe a far
parte della comunione legale, con la sola esclusione (espressa) dei beni personali. La
comunione legale, avrebbe, dunque, un carattere universale e le sole eccezioni
consentite sarebbero quelle espressamente e tassativamente previste dal Legislatore;
2) ovvero, i soli acquisti che rivestono un carattere di definitività e di stabilità
riconducibili a fattispecie che hanno prodotto un incremento patrimoniale certo e
definitivo;
3) ovvero, i soli diritti reali ed i diritti personali di godimento, con esclusione, quindi, dei
diritti di credito;
4) ovvero, i soli diritti che possono ricollegarsi a fattispecie negoziali derivative,
escludendo gli acquisti a titolo originario.
Questo quadro ricostruttivo, ricco di sfumature e distinguo, trova ampio riscontro nella
ricchissima produzione dottrinale e nei mutevoli indirizzi giurisprudenziali.
Giova innanzitutto accennare ai primi due interrogativi che nascono dalla lettura dell’art.
177 lett. a) e, precisamente se l’automatismo acquisitivo previsto dalla disposizione riguardi solo gli
acquisti a titolo derivativo ovvero anche quelli a titolo originario ed in che misura la disposizione
coinvolga i diritti di credito.
Riguardo agli acquisti a titolo originario, le fattispecie che sono principalmente prese in
considerazione riguardano gli acquisti a titolo di usucapione e gli acquisti a titolo di accessione.
Le due fattispecie troverebbero una soluzione omogenea se si ritenesse che gli acquisti a
titolo originario sia tout court esclusi dal sistema della comunione legale, come è ritenuto da coloro
che traggono argomenti dall’espressione “acquisti compiuti” usata dal Legislatore nell’art. 177 lett.
a) , che evocherebbe lo svolgimento di un’attività negoziale da parte del coniuge acquirente e da
una comparazione tra la stesura del previgente art. 217 cod. civ., in tema di comunione
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convenzionale , che espressamente si riferiva agli acquisti a qualunque titolo compiuti e l’attuale
stesura dell’ art. 177 lett. a) .
Le argomentazioni proposte non sono sicuramente decisive nella risoluzione della
problematica generale ed, invero, la Cassazione (chiamata a pronunciarsi in ordine alla fattispecie
relativa alla costruzione eseguita su suolo di proprietà personale di uno dei coniugi), come è noto,
con la sentenza a sezioni unite dell’8 maggio 1996 n. 4273 (cfr. altresì, ex multis: Cass. 8 maggio
1996 n.4273, 27 gennaio 1996 n. 651, 16 febbraio 1993 n. 1921, 14 marzo 1992 n. 3141), dopo
aver proposto le accennate argomentazioni, ha arricchito la sua motivazione con considerazioni più
convincenti di carattere sistematico per giungere alla conclusione che la deroga al principio di cui
all’art. 936 c.c., può avvenire nei soli casi in cui sia costituito volontariamente un diritto di
superficie ovvero nei casi espressamente previsti dalla legge. Nel caso in cui un coniuge in
comunione legale sia proprietario esclusivo del suolo su cui, in costanza di matrimonio, è edificata
una costruzione, la proprietà della stessa non si estende anche all’altro coniuge, non potendosi
applicare il disposto dell’art. 177 lett. a).
Si afferma, peraltro, l’analogia tra la fattispecie de qua e le ipotesi in cui un coniuge proceda
ad ampliamento o ristrutturazione di un appartamento di cui è proprietario esclusivo. Nessuno
dubita, in questi ultimi casi, che il bene oggetto di ampliamento o ristrutturazione non entri a far
parte della comunione legale in conseguenza dei lavori eseguiti e della provenienza delle somme
impiegate per eseguire i lavori stessi.
Questo principio che sembra consolidato in tema di accessione, tuttavia, non è confermato
dalla Cassazione nelle pronunce in materia di acquisti per usucapione (la n. 2983 del 20 marzo 1991
la 14347 del 3 novembre 2000 e la recente n. 20288 del 23 luglio 2008) affermandosi
espressamente che, secondo il meccanismo previsto dall’art. 177 lett. a), l’eventuale riferimento del
bene alla comunione, nel caso di possesso esercitato da uno solo dei coniugi, si verifica ope legis,
sempre che allo spirare del termine previsto per tale acquisto sussista tra i coniugi il regime della
comunione legale.
Nella motivazione della recente sentenza del 2008, in modo tranciante, si afferma che il
Legislatore non distinguendo nell’art. 177 lett. a) tra acquisti a titolo originario e quelli a titolo
derivativo e non essendo elencati nell’art. 179, tra i beni personali, quelli acquistati a titolo
originario, non vi è motivo per escludere tali acquisti dall’ambito di operatività della regola
generale di cui al citato art. 177 e, quindi, dalla comunione legale.
Resta, tuttavia, da verificare l’affermazione secondo cui momento qualificante per accertare
l’ingresso in comunione è il momento in cui si perfeziona l’usucapione stessa. Tale affermazione
non sembra che sia coerente con il recente pronunciato della Suprema Corte che ha affermato il
principio della retroattività dell’usucapione (sentenza 28 giugno 2000 n. 8792). Secondo
quest’ultima sentenza l’acquisto a titolo originario è da far risalire al momento in cui inizia il
possesso utile.
Come conciliare le due sentenze? Se riteniamo che siano giuste le conclusioni cui è giunta la
suprema Corte con la sentenza n. 8792 del 2000, gli effetti dell’acquisizione alla comunione legale
dei beni acquistati per usucapione potrebbero avere una portata dirompente in più di un caso, posto
che si dovrebbe verificare lo stato civile ed il regime patrimoniale del soggetto usucapente nel
momento in cui inizia il possesso utile; momento in cui l’usucapiente potrebbe non essere
coniugato o coniugato con un altro soggetto.
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Le opposte conclusioni cui è giunta la cassazione in tema di acquisti a titolo di usucapione e
di accessione lasciano aperta l’ulteriore problematica relativa all’applicazione degli arttt. 178 e 179
agli acquisti a titolo originario.
Invero, una volta acclarato che nel perimetro applicativo dell’art. 177 lett. a) rientrano anche
gli acquisti a titolo di usucapione, le fattispecie concrete vanno risolte non trascurando le ragioni
sostanziali che sono alla base delle disposizioni contenute negli artt. 178 e 179 e, pertanto, deve
ritenersi che se si usucapiscono beni destinati all’esercizio dell’impresa troverà applicazione l’art.
178, così come troveranno applicazione le disposizioni contenute nell’art. 179 nel caso di
usucapione di beni personalissimi o destinati all’esercizio dell’impresa ed eventualmente.
Peraltro, è da ritenere, come evidenziato dalla migliore dottrina che si è occupata del tema
(Cian), che nel caso di usucapione che si fonda su un acquisto a non domino e buona fede, per
verificare se la fattispecie rientri o meno nell’art. 177 lett. a) o debba invece essere collocata
all’interno delle ipotesi di esclusioni di cui all’art. 179 o nella disciplina di cui all’art. 178 debba
farsi riferimento al contenuto del titolo.
La citata sentenza n. 20288 del 2008 in tema di usucapione sembra, peraltro, preannunciare,
per il modo perentorio con cui è stato espresso il principio della valenza dell’art. 177 lett. a), un
cambio di indirizzo anche sull’indirizzo giurisprudenziale consolidato, sopra accennato, che ritiene
che siano esclusi dal regime della comunione legale dei beni acquistati per accessione su area
personale di uno dei coniugi.
Anche per questa fattispecie, tuttavia, ove cambiasse l’indirizzo giurisprudenziale
l’interprete dovrebbe, nelle singole fattispecie, verificare, di volta in volta, se ricorrono ragioni
sostanziali che richiedano l’applicazione non dell’art. 177 lett. a) ma delle disposizioni contenute
negli artt. 178 e 179. In coerenza con i principi ricavabili dal sistema della comunione legale si
dovrebbe, altresì, indagare, se la costruzione è stata effettuata utilizzando le ricchezze di entrambi i
coniugi, se la costruzione è stata effettuata utilizzando denaro personale di uno dei coniugi, se la
costruzione è stata effettuata utilizzando denaro donato o ricevuto per successione, o denaro frutto
della vendita di beni personali, ovvero se la costruzione è stata effettuata a titolo di liberalità
indiretta (seguendo i più recenti orientamenti dottrinari che ritengono che all’interno dell’art. 809
rientrino anche queste fattispecie sotto forma di “negozi configurativi”).
In buona sostanza, se è vero che negli acquisti a titolo derivativo i Legislatore consente che
in presenza di determinati elementi il bene acquistato sia escluso dalla comunione legale,
dovremmo chiederci se ciò può deve essere affermato anche in caso di acquisto a titolo originario,
accettando l’idea che gli artt. 178 e 179 riconoscano determinati valori che sono espressione di un
principio generale utilizzabile per risolvere potenziali conflitti d’interessi tra i coniugi in fattispecie
non espressamente previste dal Legislatore.
Riguardo ai diritti di credito, in una prima fase applicativa delle norme, si riteneva che gli
stessi fossero esclusi dalla comunione, sotto un triplice profilo:
la lettera della legge (art. 180 secondo comma) che fa espresso riferimento ai soli diritti
personali di godimento, facendo presumere a contrario l’esclusione dalla comunione dei diritti di
credito;
1) l’impossibilità (peraltro molto discussa in dottrina e giurisprudenza) per i diritti di credito di
essere oggetto di comunione ordinaria (e, secondo questa interpretazione, la comunione
legale sarebbe comunque soggetta alle regole generali della comunione ordinaria,
ricostruzione assai discutibile nella misura in cui sembra pacifico che la comunione legale è
di fatto una comunione senza quote);
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2) infine, altro dato preso in considerazione al fine di escludere i diritti di credito dalla
comunione è il carattere strumentale del diritto di credito rispetto ad una situazione finale in
corso di realizzazione.
La problematica relativa all’inclusione o all’esclusione dei diritti di credito nella comunione
legale, allo stato attuale, si è articolata in una serie di distinzioni che tendono a cogliere spunti non
tanto dal tenore letterale delle disposizioni ma dalla logica del sistema.
Sotto quest’ultimo profilo, si è distinto, ai fini dell’inclusione o dell’esclusione dalla
comunione legale, tra diritti di credito che assumono caratteristiche di investimento (ad esempio gli
investimenti mobiliari, i titoli di stato, i fondi d’investimento, etc.) e diritti di credito con
caratteristiche strumentali più accentuate, più direttamente finalizzate all’acquisizione di ulteriori
situazioni (sull’esclusione dei diritti di credito dalla comunione cfr.: Cass. sez.1°, 9 luglio 1994
n.6493; Cass. sez.I°,18 agosto 1994, n.7437; Cass. sez.II°, 27 gennaio 1995 n.987; Cass. sez.II°, 18
febbraio 1999 n.1363 e le recentissime n.1197/2006 e 9 ottobre 2007 n. 21098).
Ampia giurisprudenza si è sviluppata all’interno delle problematiche relative alle somme di
denaro depositate presso banche su libretti o conti correnti.
Gli interrogativi principiali riguardano:
1) la possibilità di continuare a ritenere beni personali o “propri” (secondo la definizione
proposta da Oberto) le somme di denaro depositate su libretti bancari o accantonate su
conti correnti, in ragione della fattispecie che ha originato il denaro stesso (reddito di
lavoro, frutti di beni personali, somme donate, ricavo della vendita di beni personali
etc.);
2) la sorte delle somme di denaro impiegato per l’acquisto di titoli obbligazionari che
spesso rappresentano forme di risparmio di agevole smobilitazione che nella loro
formazione, spesso, presentano connotazioni simili ai depositi bancari, dfa questi
distinguendosi per una maggior remuneratività;
3) i diritti che il coniuge non produttore del reddito può far valere, in forza dell’art. 177
lett. c) , sulle somme depositate dal coniuge presso la Banca o, più in generale sulle
somme che costituiscono reddito di lavoro o frutti di beni personali e destinate alla
comunione de residuo.
La Suprema Corte nella recente sentenza n.1197/2006 ha affermato il principio che le
somme depositate su un conto corrente non perdono il loro connotato di beni personali ovvero di
beni destinati alla comunione de residuo. In buona sostanza, il denaro depositato o accantonato su
conto corrente mantengono la qualificazione che le ha “targate” in ragione della loro origine: il
diritto di credito vantato da un coniuge verso la Banca alla restituzione della somme di denaro non
entra a far parte della comunione legale in forza dell’art. 177 lett. a).
Inoltre, l’utilizzo di somme di denaro “personale” per l’acquisto di ulteriori beni rende
questi ultimi “personali”. In sostanza , è necessario distinguere, secondo la suprema Corte tra beni
“personali” (elencati nell’art. 179) e beni “propri” che comprendono anche i redditi di lavoro, i
frutti di beni personali e quant’altro non sia né bene comune né personale ai sensi dell’art. 179. Di
conseguenza, mentre i beni acquistati con questi denaro “proprio” entrano a far parte della
comunione legale ai sensi dell’art. 177 lett. a) i beni acquistati con denaro “personale” sono esclusi
dalla comunione legale, ricorrendo i presupposti di cui all’art. 179.
In coerenza con questo indirizzo va ricordata anche la ancor più recente sentenza 21098 del
2008 nella quale la Suprema Corte, dopo aver puntualizzato che deve ritenersi superata la posizione
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secondo la quale solo i diritti reali, e non anche i diritti di credito possono entrare a far parte della
comunione legale, ha affermato che i titoli obbligazionari acquistati dal coniuge in regime
patrimoniale di comunione legale con i proventi della sua attività lavorativa sono da considerare una
forma di investimento, e come tali rientrano nella nozione di “acquisti” di cui all’art. 177 lett.a) ed
entrano subito a far parte della comunione, e non ricadono nella comunione de residuo.
Quest’ultima sentenza, sembra che faccia definitivamente giustizia del criterio di inclusione
od esclusione dei beni dalla comunione legale basato sulla distinzione tra diritti reali e diritti
relativi, privilegiando, invece, aspetti più sostanzialistici diretti a verificare l’attitudine del bene a
costituire un incremento patrimoniale immediato e definitivo ovvero uno strumento per la
realizzazione di posizioni giuridiche ulteriori.
La difficoltà, per l’interprete, sarà quella di distinguere tra diritti di credito che abbiano
caratteristiche strumentali e diritti di credito con caratteristiche d’investimento. Il problema, quindi,
si sposta dalla natura giuridica del diritto alla finalità che ha determinato un coniuge all’acquisto del
diritto. Finalità che, tuttavia, per avere una valenza oggettiva dovrà esser ricondotta a precisi
requisiti idonei a sorreggere la distinzione tra acquisto a titolo di investimento ed acquisti
strumentali per la realizzazione di ulteriori interessi che giustificano un’esclusione dell’acquisto
stesso dalla comunione legale. Peraltro, questo indirizzo giurisprudenziale che distingue tra denaro
giacente sul conto corrente ed acquisto titoli obbligazionari non sembra considerare che spesso
l’acquisto di titoli obbligazionari (si pensi ai BOT) più che una forma d’investimento costituiscono
un mezzo per dare maggior redditività al proprio risparmio ad agevole smobilizzo.
Sotto altro aspetto, la distinzione tra acquisti con finalità strumentale e finalità
d’investimento non sembra esser stata seguita dalla S.C. nella recentissima sentenza n. 2569 del 2
febbraio 2009, in tema di partecipazioni in società di persone, tradizionalmente escluse dall’art. 177
lett. a) ed incluse nell’art. 178, proprio sotto il profilo della loro strumentalità rispetto all’esercizio
di un’attività d’impresa da parte del titolare della quota stessa. Con la citata sentenza 2569/2009 la
Suprema Corte ha affermato il principio che anche le quote di snc di pertinenza di un solo coniuge
rientrano nella comunione legale immediata.
E’ una sentenza che consolida una lettura fortemente dominante dell’art. 177 lett. a) rispetto
alle disposizioni contenute nell’art. 178 e 179 anche se lascia all’interprete numerosi dubbi su come
conciliare i principi regolatori del sottosistema societario con i principi regolatori del sottosistema
della comunione legale, principalmente in tema di responsabilità illimitata del socio, in tema di
amministrazione, in tema di rilevanza dell’intuitus personae nelle società di persone ed in tema di
socio occulto e fallimento.
Sull’ultimo aspetto evidenziato, relativo ai diritti spettanti al coniuge non produttore del
reddito sulle somme spettanti all’altro coniuge a titolo di rendita di beni personali o di reddito di
lavoro la Suprema Corte con la sentenza n. 2597 del 2006 ha affermato che l’art. 177 lett. c) del
codice civile esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei
coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della
comunione.
Con la suddetta sentenza la Suprema Corte ribalta un precedente indirizzo (8865 del 1996 e
14897 del 2000) secondo cui il coniuge percettore di redditi di lavoro al momento dello
scioglimento della comunione per sottrarre i redditi stessi dalla comunione de residuo avrebbe
dovuto provare di aver impiegato il reddito stesso per i bisogni della famiglia o per l’estinzione
delle obbligazioni di cui all’art. 186 c.c. In caso contrario il coniuge non percettore del reddito
avrebbe potuto rivendicare diritti sulle somme il cui impiego non fosse stato “virtuoso” da parte del
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coniuge percettore (perché non destinato a soddisfare i bisogni della famiglia, anche al di là del
dovere di contribuzione) o per le quali il coniuge percettore non avesse dato prova dell’impiego
“virtuoso” (Oberto).
Il nuovo indirizzo affermato dalla Suprema Corte è condivisibile soprattutto perché la
diversa interpretazione proposta non trovava alcun riferimento nella lettera della norma e,
soprattutto perché andava a gravare di un onere di rendiconto eccessivamente gravoso il coniuge
percettore del redito.
Non può, peraltro, non considerarsi, a latere delle suddette problematiche, la possibilità che
il deposito di somme di denaro su conto corrente o libretto contestato sia sorretto dall’animus
donandi del depositante idoneo a qualificare la fattispecie come liberalità indiretta (sul punto: Cass.
12 novembre 2008 n. 26983, cass. 10 aprile 1999 n. 3499, cass. 22 settembre 2000 n. 12552).
Peraltro, anche sul versante dei diritti reali, l’operatore del diritto si trova di fronte a
problematiche ancora irrisolte o, più precisamente, che danno luogo ad interpretazioni non
uniformi. Mi riferisco, innanzitutto, all’acquisto del diritto di usufrutto vitalizio da parte di un
solo coniuge in regime di comunione legale dei beni. La durata dell’usufrutto deve esser riferita al
più longevo dei due coniugi o, come a me sembra, alla vita del coniuge che è stato parte nell’atto ?
Coloro che ritengono esatta la prima interpretazione pongono un onere a carico del terzo di
verificare lo stato civile ed il regime patrimoniale dell’acquirente per evitare di trovarsi di fronte ad
una imprevedibile durata del diritto costituito. A mio giudizio, applicando il principio secondo cui
il coniuge estraneo all’atto non diventa parte dell’atto ma beneficia degli effetti incrementativi
prodotti dall’atto stesso, dovrebbe concludersi che il diritto si estende al coniuge estraneo con il
contenuto definitivamente fissato nell’atto costitutivo, contenuto che non può non riguardare anche
la durata del diritto stesso, con la conseguenza che, alla morte del coniuge che è stato parte dell’atto
si estingue anche il diritto di usufrutto vitalizio.
Tornando a verificare le ipotesi discusse di acquisto dei beni in regime di comunione legale
e lo spazio che, all’interno del regime della comunione legale dei coniugi è dato all’autonomia
privata dei coniugi stessi, nella panoramica degli interventi interpretativi ad opera della Cassazione,
la fattispecie che in modo esemplare sintetizza i contrasti e l’evoluzione della giurisprudenza
relativamente allo spazio più o meno ampio concesso ai coniugi all’interno del regime della
comunione legale è rappresentata dal tema del rifiuto del coacquisto da parte di un coniuge in
comunione legale.
Va evidenziato che la locuzione “rifiuto del coacquisto” è utilizzata in modo promiscuo per
descrivere sia le fattispecie in cui i coniugi, nell’esplicazione della loro autonomia contrattuale,
intendono escludere un determinato bene dal regime della comunione legale e sia i casi in cui uno
solo dei coniugi intende escludere un bene dalla comunione legale applicando in via estensiva o
analogica le disposizioni contenute nell’art. 179.
Il dato di partenza è costituito dalla sentenza n. 2688 del 2 giugno 1989, nella quale la
Cassazione afferma la validità del rifiuto del coacquisto da parte del coniuge non acquirente al fine
di evitare la caduta del bene in comunione. Si afferma, in buona sostanza, che è possibile una
deroga al disposto dell’art. 177 lett. a) per volontà concorde dei coniugi, resa nelle forma richiesta
per le convenzioni matrimoniali .Secondo, questo indirizzo giurisprudenziale il coniuge non
interessato alla caduta in comunione legale di un bene, ha il potere di rendere una dichiarazione
negoziale dismissiva (una rinunzia all’acquisto).
Vengono espressamente ritenuti prevalenti dalla Suprema Corte i seguenti principi:
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MARCO KROGH
NOTAIO
1) nessuno, neppure un coniuge in comunione legale dei beni, può essere costretto contro
la sua volontà ad acquistare un diritto, ciò in omaggio al principio generalmente
osservato dall’ordinamento secondo cui nemo locupletari potest invito;
2) il rifiuto sarebbe pienamente lecito, in quanto l’art. 2647 c.c. prevede che i coniugi
deroghino, con apposita convenzione in forma pubblica, parzialmente alla disciplina
della comunione legale.
Non vi è alcuna ragione, quindi, per escludere che un coniuge possa consentire all’altro di
procedere ad un determinato acquisto a titolo personale, sempre che tale consenso sia espresso nel
medesimo atto con il quale si opera l’acquisto e che, per questo atto venga adottata la forma
dell’atto pubblico.
In effetti queste ultime considerazioni, per quanto condivisibili sul piano sostanziale degli
effetti, lasciano aperto un problema altrettanto fondamentale relativo alla circolazione dei beni
immobili, ossia quello della pubblicità legale. Infatti, come è noto, l’opponibilità ai terzi di un
regime patrimoniale diverso dalla comunione legale è possibile solo se annotato a margine dell’atto
di matrimonio.
Le soluzioni, prospettabili in questa ipotesi, di deviazione una tantum dalla disciplina della
comunione legale, sono astrattamente due:
 o si ritiene che i rapporti patrimoniali dei coniugi siano regolati dal regime della
comunione legale (di tipo programmatico) e da un’ulteriore convenzione matrimoniale, di
tipo dispositivo che, di conseguenza, va annotata a margine dell’atto di matrimonio per
renderla opponibile ai terzi, secondo la logica dell’art. 162, comma 4° c.c.
 ovvero, si ritiene che il regime della comunione legale abbia un contenuto più esteso di
quello meramente programmatico che consente accordi relativi a singoli beni e, di
conseguenza, il sistema di pubblicità delle convenzioni matrimoniali andrebbe integrato
dal sistema di pubblicità previsto per gli specifici beni oggetto di deroga (Registri
Immobiliari, etc,).
Questo aspetto evidenzia una problematica di carattere più generale legata alla pubblicità
legale delle convenzioni matrimoniali, che viene ad incidere in modo marcato con la circolazione
dei beni immobili, provocando in tutte quelle ipotesi (e gli esempi che si potrebbero fare sono tanti
ed alcuni di essi li esamineremo più avanti) in cui non ci sia un allineamento tra le risultanze
dell’atto di matrimonio e l’effettivo regime patrimoniale tra i coniugi, un bene che di fatto è
soggetto a due diversi statuti, uno valido per i rapporti interni tra i coniugi ed un altro valido per i
terzi, un bene che, in modo descrittivo, potrebbe essere definito “schizofrenico”, in quanto dotato di
una doppia personalità, una che vale per i coniugi ed un’altra che vale per i terzi.
Tornando alla panoramica degli indirizzi giurisprudenziali, la Cassazione spingendo
ulteriormente in avanti il ragionamento contenuto nella sentenza di riconoscimento del rifiuto del
coacquisto, con la sentenza n.7437 del 18 agosto 1994, aggiunge un ulteriore elemento a tale
indirizzo, affermando che l’acquisto di un immobile può essere escluso dalla comunione legale,
anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 179 c.c. purché l’acquisto avvenga mediante utilizzo
di denaro proveniente dal proprio lavoro o, più genericamente, personale.
Un’altra deroga, dunque, al disposto dell’art. 177 lett. a), questa volta fondata non
sull’interesse del coniuge che rifiuta l’arricchimento, ma su un’estensione della tutela dell’interesse
del coniuge che intende procedere all’acquisto escludendo l’altro coniuge.
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MARCO KROGH
NOTAIO
Nella suindicata sentenza viene espressamente affermato che il disposto dell’art.179 lett.f)
c.c., che prevede l’esclusione dei beni dalla comunione legale nel caso in cui sia utilizzato quale
prezzo di acquisto danaro proveniente dalla vendita di beni personali, può essere applicato
analogicamente, ai sensi dell’art. 12 comma 2 delle preleggi, ricorrendo identità di ratio, anche
nell’ipotesi in cui il danaro utilizzato sia stato acquisito per donazione, per successione o anche
perché “frutto del proprio lavoro”
La portata di queste due sentenze era effettivamente dirompente nel sistema della
comunione legale. Ancor più dirompente se accompagnata da tutta una serie di pronunciati diretti a
qualificare come meramente facoltativa e surrogabile la dichiarazione prevista dall’ultimo comma
dell’art.179 c.c. da parte del coniuge escluso.
In questi pronunciati si può cogliere il momento di massima espansione del rilievo dato
all’autonomia negoziale dei coniugi all’interno del regime della comunione legale ed il ruolo del
regime della comunione legale all’interno della famiglia era fortemente ridimensionato.
Effettivamente la portata di queste sentenze riduceva ai minimi termini il significato della
comunione legale, trasformandola da regime patrimoniale con regole tassative in regime
patrimoniale contenente un programma di massima, estremamente flessibile e suscettibile di
continui adattamenti in progress. In questi termini l’assoggettamento o meno di un singolo bene al
regime della comunione legale sarebbe superabile da una diversa volontà dei coniugi o anche di uno
solo di essi ricorrendo determinati presupposti.
Le obiezioni a tale impostazione si muovono all’interno di una visione della famiglia e del
regime patrimoniale della comunione legale, caratterizzati da una importanza sociale che determina
vincoli di indisponibilità sottratti all’autonomia contrattuale dei coniugi; questi possono operare le
loro scelte entro i limiti tracciati dal Legislatore, non trovando tutela gli interessi del singolo
coniuge se non nella misura in cui corrispondono a valori espressamente considerati meritevoli di
tutela all’interno degli schemi precostituiti.
Superando, quindi, questo originario indirizzo la Cassazione, nelle più recenti sentenze,
riconoscendo un ruolo fondamentale alla comunione legale negli obiettivi della riforma, ha
affermato:
1) In primo luogo, con la sentenza n.9355 del 23 settembre 1997, che i beni acquistati con
i proventi dell'attività separata di uno dei coniugi entrano immediatamente e di pieno
diritto a far parte della comunione, senza che sia possibile escluderli mediante la
dichiarazione prevista dall'art. 179, lett. f) c.c., applicabile soltanto all'acquisto
effettuato mediante utilizzo dei proventi della vendita di beni personali (sentenza che
però faceva riferimento all’acquisto di azioni). Questo indirizzo è riaffermato anche
nella recentissima sentenza emessa dalla Cassazione sul punto (la 1197 del 20 gennaio
2006) la quale ha ribadito due principi: innanzitutto che l’acquisto di un bene (nel caso
di specie dei fondi patrimoniali) è escluso dalla comunione legale qualora ci sia certezza
che il danaro utilizzato sia provento della vendita di beni personali, pur in assenza di
una espressa dichiarazione in tal senso nell’atto, operandosi, quindi una surrogazione
reale tra i due beni; inoltre, che il danaro ricavato dalla vendita di beni personali non
perde tale sua connotazione anche nel caso in cui sia depositato sul conto corrente
appartenente ad entrambi i coniugi, non operandosi alcuna trasformazione del diritto
esclusivo di un coniuge su una determinata somma di danaro, che può definirsi
“targata”, in diritto di credito rispetto al saldo di conto corrente che in caso di
cointestazione del conto corrente farebbe presumere uguali diritti e pretese a favore di
entrambi i coniugi.
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MARCO KROGH
NOTAIO
2) In secondo luogo, con la sentenza n.2954 del 27 febbraio 2003 (emessa nello stesso
solco tracciato dalle precedenti sentenze n.1917 del 2000 e n.1556 del 1993) si
afferma, da parte della Cassazione, che, nell’ambito della comunione legale, l’art.179
c.c. si pone come norma eccezionale, che consente l’esclusione dalla comunione legale,
di alcuni beni tassativamente indicati, nel solo caso in cui ricorrano tutti i presupposti
oggettivi previsti dalla norma stessa. Una deroga è consentita ai coniugi esclusivamente
attraverso la stipulazione di una convenzione matrimoniale, nel rispetto dei requisiti di
forma e di sostanza previsti dagli artt. 161 e 210 del codice civile (atto pubblico,
irrinunciabilità ai testimoni, presenza personale dei coniugi, indicazione specifica e
concreta dei patti con i quali intendono regolare i loro rapporti).
Peraltro, la convenzione matrimoniale potrà avere esclusivamente un contenuto cd.
programmatico, cioè riferito a categorie di beni, non essendo possibile, secondo questo indirizzo, la
stipulazione di convenzioni matrimoniali che abbiano ad oggetto singoli beni, le cd. convenzioni
matrimoniali “dispositive” (“inclusive” o “esclusive”).
Quest’ultimo orientamento, come accennato, è stato oggetto di critiche, anche condivisibili,
da parte della dottrina che ha ritenuto eccessivamente restrittiva la posizione della Cassazione ed in
parte contraddittoria.
Come ho detto all’inizio di questa esposizione, le norme che regolano il regime
patrimoniale, prevedono la possibilità per i coniugi di regolare in modo pattizio i loro rapporti. I
limiti richiesti dalle norme in materia (artt.159, 161 e 210 del c.c.) attengono al rispetto delle forma
e di alcuni principi ritenuti inderogabili, tra questi nulla è previsto relativamente all’impossibilità di
stipulare convenzioni matrimoniali cd. dispositive, riguardanti cioè il regime giuridico di singoli
beni. Tra l’altro, i coniugi potrebbero, comunque, pervenire allo stesso risultato non in modo
diretto ma attraverso un percorso segmentato, formato da più atti giuridici.
Non sembra, dunque, che ci siano validi motivi ostativi a ritenere meritevole di tutela
l’interesse dei coniugi a dare una regolamentazione “diversa” a singoli beni, all’interno dello
schema più generale della comunione legale, il problema sembra più legato al regime di pubblicità
cui assoggettare questo tipo di “regolamentazione speciale” di singoli beni, deviante rispetto al
regime ordinario. Quest’ultima considerazione è sicuramente di supporto per comprendere il
cambio di rotta della Cassazione nei suoi ultimi pronunciati.
La Suprema Corte, come espressamente affermato soprattutto nell’ultima delle sentenze
indicate (la n. 2954 del 2003), interpreta le norme sulla comunione legale e soprattutto le
disposizioni contenute nell’art. 179, in modo restrittivo, oltre che per l’asserito ruolo fondamentale
della comunione legale nella realizzazione degli interessi della famiglia, anche nella primaria
esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi; valore quest’ultimo che vedremo emergere ed
assumere una posizione centrale e risolutiva anche nelle più recenti sentenze della Cassazione del
settembre del 2004 (la n. 19250), in tema di acquisti ex art. 179 e del dicembre 2003 (la n. 18619),
in tema di riconciliazione tra coniugi separati.
La più recente sentenza della Suprema Corte relativamente agli acquisti di beni personali ex
art. 179 c.c. (n.19250 del 24 settembre 2004 appena richiamata) nel prendere in esame la
problematica relativa all’affidamento dei terzi, affronta, in modo espresso il problema relativo alla
NATURA GIURIDICA DELLA DICHIARAZIONE RESA DAL CONIUGE ESCLUSO
DALL’ACQUISTO (ai sensi dell’art.179 c.c.) ed alla necessità o meno che essa sia contestuale
all’atto di vendita e, più in generale, affronta il problema della funzione che svolge la dichiarazione
stessa nel procedimento previsto dall’art. 179 c.c.
11
MARCO KROGH
NOTAIO
In dottrina ed in giurisprudenza ritroviamo le tesi più varie in ordine alla natura giuridica
della dichiarazione resa dal coniuge escluso:
 atto avente contenuto negoziale, con il quale il coniuge escluso partecipa all’effetto finale
dell’esclusione del bene dalla comunione;
 mera dichiarazione di scienza con effetti ricognitivi o di controllo;
 atto reso per ragioni di tutela e di affidamento dei terzi.
E’ evidente che la natura giuridica negoziale è riconosciuta da quella parte della
giurisprudenza (soprattutto il primo indirizzo che ho riportato) e da quella parte della dottrina che
riconoscono maggiori spazi all’autonomia negoziale dei coniugi all’interno degli schemi
precostituiti dal Legislatore.
Il nuovo indirizzo ritiene, invece, che l’intervento dell’ ”altro coniuge” all’atto di acquisto,
ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 179 c.c., abbia natura di dichiarazione di scienza.
La ratio giustificatrice di questa norma, che richiede l’intervento dell’altro coniuge in modo
essenziale e tassativo, si è individuata, secondo una parte della dottrina, in una funzione di controllo
assegnata al coniuge escluso, in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per
l'esclusione del bene dalla comunione.
Una verifica della personalità del bene trasferito in permuta o del prezzo pagato in
corrispettivo. Può darsi, infatti, che il danaro ricavato da una precedente vendita sia già stato speso
per altri scopi; può darsi che il bene ricevuto in permuta abbia un valore molto superiore al bene
alienato.
La Cassazione, con la richiamata ultima sentenza, ha assegnato, invece, alla suddetta
dichiarazione un’importanza soprattutto in funzione della certezza che la partecipazione del coniuge
escluso riesce ad assicurare, nel sistema della circolazione dei beni immobili e della pubblicità
immobiliare. L’interesse primario tutelato dall’art. 179, ultimo comma sarebbe l’affidamento dei
terzi.
In quest’ottica, la dichiarazione deve essere resa necessariamente contestualmente all’atto
di acquisto.
Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza meno recente, al contrario, si
riteneva che la dichiarazione del coniuge escluso non fosse essenziale, in quanto surrogabile con
altri mezzi di prova. L’unico dato fondamentale per l’esclusione del bene dalla comunione legale
sarebbe l’esistenza dei presupposti oggettivi. In altri termini, la certezza della provenienza del
danaro dalla vendita di beni personali. E’ da osservare che l’ultima sentenza della Cassazione
sull’art. 179 lett. f) (la 1197 del 2006), sebbene si riferisca all’acquisto di beni mobili e non di beni
immobili, sembra sottolineare l’importanza, ai fini dell’esclusione del bene dalla comunione legale,
della certezza che il denaro impiegato provenga dalla vendita di beni personali, a sottolineare
l’automatismo della surrogazione reale ogni qualvolta ricorrano tutti gli elementi della fattispecie.
Esasperando il discorso potrebbe concludersi che se effettivamente esiste questo
automatismo legale, forse non sarebbe possibile nemmeno impedirlo in mancanza di una
convenzione matrimoniale idonea ad impedire l’effetto di cui all’art. 179 lett. f), in presenza di un
acquisto effettuato con danaro che sia frutto della vendita di beni personali, altrimenti ci
troveremmo ad assegnare, comunque valore negoziale ad una volontà “omissiva” del coniuge che
non intende partecipare all’atto.
12
MARCO KROGH
NOTAIO
La Cassazione, al contrario, quanto meno negli ultimi pronunciati è decisamente orientata a
ritenere che la dichiarazione del coniuge escluso sia un elemento costitutivo della fattispecie e che
pertanto la sua esistenza contestuale vale a perfezionare, in materia di acquisti immobiliari,
l’esclusione del bene dalla comunione.
La maggiore obiezione che si è opposta alla tesi della fungibilità della dichiarazione del
coniuge escluso è fondata soprattutto sul dato letterale dell’art. 179 c.c. il quale dispone,
tassativamente, che il bene è escluso dalla comunione legale quando tale esclusione risulti dall’atto
di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge; dunque, la norma non richiede
genericamente che sia provato con qualunque mezzo che ricorrono i presupposti oggettivi richiesti,
bensì richiede espressamente l’intervento del coniuge da escludere.
La tesi della surrogabilità della dichiarazione del coniuge escluso era stata accolta proprio
dalla sentenza (emessa dalla Corte di Appello di Roma) cassata da quest’ultimo pronunciato della
Suprema Corte.
La Cassazione, nel respingere, questa interpretazione ha conferito alla dichiarazione del
coniuge escluso un ruolo fondamentale facendo leva, come ho già accennato, soprattutto sui profili
di particolare certezza, che nell’ottica del codice del 1942 debbono accompagnarsi alla circolazione
dei beni immobili .
La Cassazione individua dunque un valore, quello della certezza nella circolazione dei beni
immobili, prioritario o comunque meritevole di maggior tutela rispetto all’interesse del coniuge a
realizzare la surrogazione reale tra prezzo ricavato dalla vendita di un bene personale e nuovo
acquisto immobiliare.
Automatismo che invece si realizzerebbe perfettamente, almeno secondo l’ultima sentenza
della cassazione (la 1197 del 2006), in materia di beni mobili. Dunque, un regime a doppia corsia
tra beni mobili e beni immobili in ragione della tutela dell’affidamento dei terzi.
La norma, di conseguenza, sembra far riferimento, ai fini dell’inclusione o dell’esclusione di
un acquisto ex art. 179 lett. f) in assenza della partecipazione del coniuge escluso all’atto e nella
ricorrenza dei suoi presupposti oggettivi, non alla maggiore o minore importanza o valore di alcune
categorie di beni, ma esclusivamente alla primaria esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi
all’interno del sistema di pubblicità legale costituito dalla trascrizione nei pubblici registri.
In buona sostanza, nei confronti dei terzi, unico soggetto deputato a verificare la sussistenza
dei presupposti oggettivi richiesti dalla norma è il coniuge escluso, assegnando alla sua
partecipazione all’atto una valenza assoluta. Più precisamente la Cassazione afferma che la
dichiarazione del coniuge escluso ha un contenuto di ricognizione del ricorso dei presupposti per la
“personalità” dell’acquisto (nel medesimo senso anche la citata sent. Cass.2954/2003) rilevante sia
sul piano meramente interno dei rapporti tra coniugi, sia sul piano esterno concernente invece
l’affidamento dei terzi.
La tassatività della norma, sempre secondo detta sentenza, potrebbe trovare una sua deroga
nella sola ipotesi (peraltro già esaminata dalla Cassazione con sent.1556/93) in cui l‘acquisto di un
bene si realizza attraverso lo strumento della permuta di un bene personale. In relazione a questo
caso, ritiene la Suprema Corte, vi è indubbiamente spazio per ritenere che le esigenze di certezza
possano risultare equivalentemente soddisfatte anche sulla base delle risultanze assicurate dal
sistema della continuità delle trascrizioni.
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MARCO KROGH
NOTAIO
Vale la pena ricordare che, comunque, come chiarito, sempre dalla Cassazione nella
sentenza n.1917 del 2000 e nella più recente sentenza n. 6120 del 2008, la dichiarazione del
coniuge escluso, pur avendo carattere ricognitivo e non negoziale, ha valenza di testimonianza
privilegiata e vale a fondare una presunzione juris et de jure di esclusione dalla contitolarità
dell'acquisto, che può essere rimossa solo per errore di fatto o per violenza, nei limiti in cui ciò è
consentito per la confessione.
E’ evidente che sul piano della certezza della circolazione dei beni sembra tutto risolto, sul
piano interno dei rapporti interpersonali tra i coniugi, invece si assiste ad una contraddizione, tra
una posizione rigida della Cassazione tendente ad escludere la possibilità di convenzioni
matrimoniali di carattere dispositivo (riferite cioè a singoli beni) ed a comprimere, quindi in modo
notevole l’autonomia negoziale dei coniugi, viceversa, su un altro piano, si conferisce valenza
assoluta (sul piano processuale che poi si riflette su quello sostanziale) alla dichiarazione del
coniuge escluso, anche se resa nella consapevolezza dell’insussistenza dei presupposti oggettivi.
Nel quadro del bilanciamento, poi, delle posizioni dei coniugi, relativamente ai beni che
possono essere esclusi dalla comunione ai sensi dell’art. 179 c.c., resta aperta la problematica
relativa al rifiuto opposto dal coniuge ad intervenire al relativo atto di acquisto del bene personale
dell’altro coniuge , pur nella ricorrenza di tutti i presupposti oggettivi richiesti dalla norma.
Il coniuge escluso, come abbiamo visto, così come non ha alcuna possibilità di rifiutare
l’acquisto al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dall’art. 179 c.c., ugualmente non può
opporsi all’esclusione del bene dalla comunione legale, qualora ricorrano tutti i presupposti
oggettivi richiesti; infatti, come abbiamo detto, la cassazione assegna alla dichiarazione del coniuge
escluso una rilevanza meramente ricognitiva priva di qualunque contenuto negoziale.
In caso di mancata sua collaborazione, l’unica soluzione, sembra essere il ricorso
all’Autorità Giudiziaria. Tuttavia, tale soluzione produce nel sistema inconvenienti ed incertezze
gravi che, tenuto conto dei normali tempi della giustizia, potrebbero lasciare la situazione in uno
stato di incertezza per un lungo periodo.
Un Autore (F. Bocchini) ha proposto come soluzione l’apposizione all’atto di acquisto di
una clausola che condizioni l’acquisto esclusivo al buon esito dell’accertamento sostitutivo da parte
dell’Autorità Giudiziaria. Circostanza da inserire nella relativa nota di trascrizione che sarà oggetto
poi di annotazione a giudizio concluso.
DONAZIONE INDIRETTA - Situazione che presenta profili analoghi a quelli sin qui
esaminati, ma con peculiarità proprie, è quella relativa all’acquisto di beni immobili, da parte di un
coniuge in comunione legale, mediante utilizzo di danaro ricevuto mediante atto di liberalità.
In questo caso, l’esclusività dell’acquisto è riproposta sotto il profilo che si tratta di una
donazione indiretta e, come tale esclusa dalla comunione legale ai sensi dell’art. 179 lett.b), anche
al di fuori dei limiti consentiti dall’art. 179 lett. f).
La più recente sentenza che si è occupata dell’argomento è la n.15778 del 14 dicembre 2000.
Tuttavia l’orientamento della Cassazione sul punto è costante.
E’ interessante esaminare il fatto che ha dato luogo a quest’ultimo pronuciato della Suprema
Corte: Tizio coniugato in comunione legale acquista un immobile (più precisamente riceve in
assegnazione da una cooperativa un immobile) ed il danaro impiegato per l’acquisto dell’immobile
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MARCO KROGH
NOTAIO
proviene (in gran parte) dal genitore che, per spirito di liberalità, ha concorso al pagamento del
prezzo per favorire l’acquisto a favore del figlio.
La fattispecie nelle sue linee generali ha grande frequenza nella pratica.
Spesso, i genitori che intendono acquistare un immobile al figlio, invece di intestare
l’immobile prima a se stessi e poi donarlo al figlio, con un’operazione che di fatto è sicuramente più
semplice, senza porsi tanti problemi successori o di diritto di famiglia, consegnano a questi la
somma di danaro affinché sia utilizzata per pagare il prezzo dell’acquisto immobiliare.
La questione rientra nel più generale problema del negozio indiretto, del collegamento
negoziale, degli atti di liberalità diversi dalla donazione e, quindi della donazione indiretta.
Allo stato, l’orientamento costante della Cassazione (soprattutto dopo la sentenza a sezioni
unite del 5 agosto 1992 n.9282) , non condiviso da una parte della dottrina, ritiene che, ai fini
successori (o più esattamente ai fini della collazione successoria) non si deve guardare a ciò che è
fuoriuscito dal patrimonio del donante (il danaro), ma a ciò che costituisce il fine ultimo della
liberalità: l’immobile; ciò adottando una soluzione non formalistica, fondata sullo scopo della
donazione, avendo riguardo al collegamento funzionale tra l’elargizione del danaro ed il successivo
acquisto dell’immobile.
La Cassazione con la sentenza n.15778 del 14 dicembre 2000 ribadisce il proprio
orientamento costante ed infatti dopo aver riaffermato il principio secondo cui si deve distinguere
l’ipotesi della donazione diretta del danaro, impiegato successivamente dal figlio in un acquisto
immobiliare, in cui ovviamente, oggetto della donazione rimane il danaro stesso, da quella in cui il
donante fornisce il danaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile che costituisce il fine ultimo
della donazione. Nel qual caso ci troviamo in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso
immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
L’esclusione del bene immobile dalla comunione, ad avviso della sentenza in esame e nel
solco di altre sentenze emesse in precedenza (n.5310 del 1998; 4680 del 1998; 11327 del 1997;
4231 del 1997) può essere evinto da più di un elemento e, precisamente:
1) l’art.179 lett.b) esclude dalla comunione legale genericamente i beni oggetto di “atti di
liberalità” e quindi anche quelli previsti dall’art. 809 c.c. tra i quali sono ricomprese le
“donazioni indirette”;
2) la legge per includere un bene che proviene da un atto di liberalità (o successione ereditaria)
nella comunione legale richiede un’espressa dichiarazione di volontà in tal senso del
donante;
3) l’insussistenza di ragioni di ordine sistematico per escludere le donazioni indirette dalla
stessa disciplina dettata per le donazioni dirette: la ratio della comunione legale è quella di
rendere comuni i beni alla cui acquisizione abbiano contribuito (direttamente o
indirettamente) entrambi i coniugi onde sarebbe iniquo ricomprendervi le liberalità,
ancorché indirette, a favore di uno solo dei coniugi.
E’ evidente che la soluzione della Cassazione, condivisibile sul piano della tutela sostanziale
dei diritti, va circoscritta ai rapporti interpersonali tra i coniugi, ma sicuramente non può essere
utilizzata per intraprendere eventuali azioni di riduzione nei confronti dei terzi acquirenti in buona
fede ovvero per opporre eccezioni a terzi creditori che hanno fatto affidamento sulle risultanze dei
Registri dello Stato Civile e dei Registri Immobiliari.
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MARCO KROGH
NOTAIO
Su quest’ultimo punto sicuramente ci si può riallacciare all’indirizzo ultimo della
Cassazione che ha considerato come valore primario, rispetto anche agli interessi dei coniugi in
comunione legale, l’affidamento dei terzi all’interno del sistema della pubblicità legale immobiliare.
Se fosse ammissibile il contrario dovrebbe ritenersi che nessun acquisto immobiliare sarebbe
esente da incertezze sul vero titolare del bene sia perché è ben difficile che da un atto di acquisto
risulti che il danaro proviene da una donazione indiretta ed in secondo luogo, perché anche se ciò
risultasse, ma a mio avviso è solo un’ipotesi di scuola, non ci sarebbe nessuna certezza della verità
della dichiarazione.
Nella panoramica delle fattispecie previste dagli artt.177, 178 e 179 c.c., una
regolamentazione speciale è dettata per gli acquisti compiuti dal coniuge professionista e dal
coniuge imprenditore.
La problematica che si è sviluppata in tema di acquisti del coniuge imprenditore in regime di
comunione legale dei beni attiene, principalmente alla visibilità esterna dell’acquisto stesso e,
quindi nei già ricordati aspetti di tutela del coniuge escluso e dei terzi.
In quest’ottica va inquadrata la problematica relativa all’applicabilità o non della procedura
prevista dall’art.179 lett.d) c.c. anche al coniuge imprenditore.
Le questione, che attualmente ha un rilievo soprattutto storico, in quanto il problema
sembra abbia ormai avuto pacifica soluzione, anche alla luce della recentissima sentenza della
Suprema Corte sul tema (la n. 18456 del 2005), riguardava il coordinamento tra l’art. 178 e l’art.
179 c.c. e, precisamente:
1) una prima tesi riteneva che la disciplina dell’acquisto da parte del coniuge imprenditore
fosse contenuta interamente nell’art. 178 c.c. e, quindi che, bastasse la destinazione del
bene acquistato a servizio dell’azienda per sottrarlo al regime della comunione legale
immediata;
2) una seconda tesi, al contrario, riteneva, che l’esclusione dell’acquisto dalla comunione
legale dovesse attuarsi attraverso il meccanismo previsto dall’art. 179 lett.d) e, quindi che
occorresse, comunque la partecipazione all’atto del coniuge escluso. L’art. 178 c.c. si
limiterebbe ad integrare il disposto dell’art. 179 prevedendo, a favore del coniuge
dell’imprenditore, la comunione de residuo sui beni aziendali.
Entrambe le tesi ebbero autorevoli sostenitori: la prima tesi fu sostenuta dalla Corte di
cassazione nella sentenza 7060 del 1986, la seconda dal Consiglio di Stato in un parere datato
sempre 1986 (il n.979).
La tesi del Consiglio di Stato faceva leva soprattutto su un’interpretazione estensiva del
termine “professione” contenuto nell’art. 179 lett.d), tale da ricondurla ad un concetto più generale
includente ogni attività lavorativa svolta abitualmente, ivi compresa quella strettamente
imprenditoriale.
Questa interpretazione, va chiarito, è stata sin dall’inizio poco condivisa ed attualmente ha
un interesse soprattutto storico nella ricostruzione dell’istituto, essendo nettamente prevalente
l’interpretazione della Cassazione (che ha trovato conferma nella successiva sentenza n.4533 del
1997 in modo conforme un obiter dictum Trib. Monza 14 novembre 1988 e Trib. Piacenza 9 aprile
1991 e nella recente sentenza della Suprema Corte sul punto la 18456 del 2005, sul punto, anche
Cass. n. 2887 del 9 febbraio 2007 che tuttavia non entra nel merito della questione in modo
decisivo) che distingue le due fattispecie:
16
MARCO KROGH
NOTAIO
1) sia per il diverso ruolo che i coniugi rivestono al momento dell’acquisto del bene: il
coniuge imprenditore è tenuto esclusivamente a destinare il bene all’esercizio
dell’impresa, a conferirgli il carattere strumentale; il coniuge professionista, al momento
dell’acquisto, invece, dovrà chiedere l’intervento anche dell’altro coniuge perché renda la
dichiarazione prevista dall’ultimo comma dell’art.179 c.c.
2) sia per la posizione del coniuge dell’imprenditore rispetto al coniuge del professionista al
momento dello scioglimento della comunione: per il primo si avrà la comunione de
residuo, l’altro rimarrà, comunque escluso dall’acquisto.
I motivi per cui il Legislatore ha compiuto questa scelta di separare nettamente la posizione
del coniuge imprenditore rispetto alla posizione del coniuge professionista non sono di facile
comprensione.
Alcuni interpreti segnalano il maggior valore dei beni di impresa e quindi l'opportunità che
allo scioglimento della comunione di essi si avvantaggi anche il coniuge non imprenditore; altri
ancora sottolineano il carattere di investimento dei beni imprenditoriali e, quindi, nel quadro
sistematico delle norme sulla comunione, sarebbe coerente che l’altro coniuge non ne fosse
totalmente escluso, ma potesse goderne, seppure residualmente; non manca infine chi ha ravvisato
nel tradizionale favore di cui godono le professioni intellettuali il vero motivo che ha indotto il
legislatore della riforma ad escludere totalmente dal regime comunitario i (soli) beni professionali.
In realtà è difficile ricondurre ad un criterio di rigorosa logica sistematica la scelta del
Legislatore, tuttavia il dato normativo esiste e non può che essere applicato come tale.
L’esclusione dalla comunione legale immediata dell’acquisto del coniuge imprenditore
dipende dall’effettiva destinazione senza che occorrano altre formalità. La soluzione, sebbene
coerente con il dettato normativo, sicuramente pone degli interrogativi in ordine alla riconoscibilità
da parte dei terzi, ed anche dell’altro coniuge, dell’esclusione del bene dalla comunione.
DESTINAZIONE – E’ interessante, quindi, soffermarsi brevemente sul requisito della
destinazione.
Va subito precisato che la destinazione oggettiva, che comunque richiede un atto volitivo
dell’imprenditore, deve esistere sin dal momento dell’acquisto dell’immobile, non potendosi
ammettere una destinazione successiva all’acquisto del bene a servizio dell’impresa.
Se così non fosse, si avrebbe:
1) un acquisto i cui effetti rimarrebbero sospesi, senza termine, fino al verificarsi
dell'oggettiva destinazione,
2) ovvero un acquisto immediato del bene alla comunione legale, ai sensi dell'at.177 lett.a)
e, quindi, una modifica del regime del bene stesso, in virtù di un atto di disposizione di un
coniuge (la destinazione del bene all'impresa), in contrasto con l'art.180 c.c., il quale
dispone che gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione (e l'atto di destinazione
sicuramente sarebbe tale), relativamente ai beni oggetto di comunione, devono essere
compiuti congiuntamente da entrambi i coniugi .
La tutela del terzo, pertanto, come affermato dalla Cassazione nella citata sentenza del 1986,
va risolta sulla base di altri principi: in particolare, qualora dall'atto risulti soltanto che un acquisto
di bene immobile è stato compiuto da persona coniugata, soccorrerà la presunzione juris
tantum che il bene è caduto immediatamente in comunione. Starà, dunque, a carico di chi
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MARCO KROGH
NOTAIO
pretende giovarsi della situazione differente dare la prova che tale situazione differente esiste
davvero (titolarità esclusiva dell’imprenditore e comunione de residuo).
Naturalmente il coniuge imprenditore che ha interesse a far risultare che il bene è escluso
dalla comunione immediata, ai sensi dell’art. 178 c.c., avrà l’onere di farlo risultare dall’atto
pubblico in modo da vincere la presunzione di acquisto del bene alla comunione ed eventualmente
potrà anche chiedere la partecipazione del coniuge escluso in modo da conferire alla fattispecie una
maggiore trasparenza.
E’ evidente che alla dichiarazione deve poi accompagnarsi anche la destinazione oggettiva,
altrimenti il coniuge imprenditore verrebbe ad arrogarsi il potere unilaterale di escludere un bene
dalla comunione ad libitum, dunque, una modifica peraltro, unilaterale, della comunione legale.
L'eventuale falsità della dichiarazione resa comporterà l'inopponibilità al coniuge escluso
ed ai terzi interessati, dell'acquisto del bene secondo la normativa prevista dall’art. 178 c.c.
(esclusione immediata e successiva comunione de residuo).
Il coniuge non acquirente ed i terzi interessati, dunque, nel caso di falsa dichiarazione da
parte del coniuge imprenditore, avranno l'onere di esperire tempestivamente un'azione di
accertamento della proprietà e trascrivere la relativa domanda, per gli effetti di cui all'articolo 2653
n.1 c.c. ovvero, qualora il bene sia stato già alienato, chiedere il risarcimento dei danni subiti
secondo i principi generali.
Quindi nella fattispecie disciplinata dall’art. 178 c.c. arbitro della circolazione del bene
immobile è soprattutto il coniuge imprenditore e sono di importanza fondamentale le dichiarazioni
da lui rese all’interno dell’atto di acquisto.
COMUNIONE DE RESIDUO – Per quanto riguarda la comunione de residuo, prevista
dasll’art. 178, va precisato che momento qualificante è lo scioglimento della comunione e non la
cessazione della destinazione, e ciò costituisce una scelta di politica legislativa che si è tradotta in
un dato normativo espresso.
Le soluzioni possibili, sugli effetti della comunione de residuo sui beni già oggetto di
proprietà esclusiva, sono due:
 efficacia reale della comunione de residuo e, quindi ingresso automatico del bene nella
titolarità dei due coniugi;
 efficacia obbligatoria della comunione de residuo e, quindi, maturazione di un diritto di
credito del coniuge provvisoriamente escluso nei confronti dell’altro coniuge.
Le conseguenze applicative, aderendo alla prima soluzione, sono in termini di certezza, di
affidamento dei terzi e di tutela della libera iniziativa privata sicuramente gravi. Questa soluzione
sarebbe soddisfacente ed appagante solo per il coniuge provvisoriamente escluso.
Per i terzi e per lo stesso coniuge imprenditore le conseguenze potrebbero incidere in modo
decisivo sulla sorte dell’impresa.
La sottrazione di una quota di beni strumentali potrebbe avere per il coniuge imprenditore
connotati negativi che in alcuni casi potrebbero rendere estremamente difficile, se non impossibile,
la continuazione dell’impresa; così come potrebbe avere effetti pregiudizievoli sui terzi che
potrebbero aver fatto affidamento sui beni dell’imprenditore, secondo le risultanze dei Registri delle
Stato Civile e dei Registri Immobiliari.
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MARCO KROGH
NOTAIO
Un equilibrato bilanciamento degli interessi del coniuge imprenditore, del coniuge escluso e
dei terzi fa preferire la seconda delle soluzioni proposte e, quindi, effetti meramente obbligatori per
la comunione de residuo. In sostanza il coniuge non imprenditore al momento dello scioglimento
della comunione maturerebbe nei confronti dell’altro coniuge un diritto al valore corrispondente alla
quota del bene strumentale e mi sembra che questo sia anche l’orientamento espresso dalla
Cassazione nelle sentenze sopra citate del 1986 e del 1997 in tema di acquisti da parte del coniuge
imprenditore, laddove afferma il principio che l’operatività della comunione de residuo è comunque
successiva al soddisfacimento dei creditori del coniuge imprenditore.
Di notevole interesse, per le analoghe e numerose problematiche che hanno dato luogo, in
tema di circolazione dei beni immobili, sono le vicende patrimoniali collegate alle crisi dei
rapporti matrimoniali.
Mi riferisco soprattutto alle vicende relative alla individuazione del momento in cui si
scioglie il regime della comunione legale tra coniugi che si separano ed al regime patrimoniale che
si instaura tra i coniugi nell’ipotesi della riconciliazione.
In questo caso i profili di incertezza coinvolgono in modo netto non solo i terzi e
l’affidamento che gli stessi hanno diritto di avere, visionando i registri dello Stato Civile ed i
Registri Immobiliari, ma anche i coniugi stessi in un momento particolare della loro vita familiare
in cui spesso non c’è spazio per ulteriori accordi o intese.
La norma di riferimento relativamente al primo profilo, quello della cessazione del regime
della comunione legale, è l’art.191 del codice civile il quale espressamente dispone che la
comunione legale si scioglie per la separazione personale.
Gli interrogativi che si sono posti dottrina e giurisprudenza attengono:
 al momento a decorrere dal quale i coniugi non sono più in comunione legale;
 alla pubblicità da dare all’evento a tutela dell’affidamento dei terzi.
Il secondo problema ha trovato la sua soluzione con l’entrata in vigore del D.P.R. 3
Novembre 2000 n. 396 che all’art. 69 espressamente dispone che negli atti di matrimonio si fa
annotazione delle sentenze, anche straniere, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del
matrimonio; di quelle che dichiarano efficace nello Stato la pronuncia straniera di nullità o di
scioglimento del matrimonio; di quelle che dichiarano efficace nello Stato la pronuncia dell'autorità
ecclesiastica di nullità del matrimonio; e di quelle che pronunciano la separazione personale dei
coniugi o l'omologazione di quella consensuale.
Prima dell’entrata in vigore di questa norma non si riteneva possibile l’annotazione a
margine dell’atto di matrimonio della separazione personale in virtù del principio della tassatività
delle annotazioni a margine dell’atto di matrimonio sancito dall’art.133 del R.D. 9 luglio 1939
n.1238 e ribadito dall’art.453 c.c. per cui nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già
iscritto nei pubblici registri se non è disposta per legge, ovvero non è ordinata dall’autorità
giudiziaria.
Si era ritenuto di applicare in via estensiva la normativa sulle annotazione previste per le
sentenze di divorzio sulla base del richiamo allart.23 della legge n.74 del 1987 che aveva disposto
che fino all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile, ai giudizi di separazione
personale, si applicavano, in quanto compatibili le regole di cui all’art4 della legge 898/1970, come
modificato dalla stessa legge n.74.
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MARCO KROGH
NOTAIO
La norma, tuttavia, non aveva trovato alcuna applicazione pratica; anzi, la sua applicazione
era stata ritenuta, addirittura fuorvianti in assenza di una norma che prevedesse anche l’annotazione
di una possibile riconciliazione (cass.12098/1998).
La questione, allo stato attuale, mi sembra possa considerarsi superata tenuto conto che il
coniuge che ha interesse a far conoscere ai terzi il proprio regime patrimoniale potrà effettuare
l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio; in difetto nulla potrà essere opposto al terzo.
All’interno del sistema della pubblicità legale ciò è di importanza fondamentale in quanto
rispetto ai terzi sarà opponibile esclusivamente quanto annotato a margine dell’atto di matrimonio a
nulla valendo eventuali dichiarazioni inserite nell’atto di compravendita e riportate nella nota di
trascrizione, essendo pacifico che, relativamente al regime patrimoniale dei coniugi, le risultanze
dei Registri Immobiliari hanno valore di mera pubblicità notizia, ma non sono idonee a fondare
aspettative tutelate da parte dei terzi.
Va ricordato, peraltro, che le risultanze dei registri immobiliari, relativamente al regime del
bene si fonda non su accertamenti ufficiali o sull’esibizione di estratti anagrafici ma esclusivamente
sulla dichiarazione del contraente. Invero, in base alla la lettera della norma (art. 2659 comma 1°,
n°1), nella nota di trascrizione deve essere indicato il regime patrimoniale delle parti, “secondo
quanto risulta da loro dichiarazione resa nel titolo o da certificato dell’ufficiale di stato civile”.
Probabilmente, è questo un caso in cui la diligenza del notaio, al di là degli obblighi di
legge, potrà esser fondamentale per evitare che ci siano disallineamenti tra situazione di fatto,
pubblicità nei RR.II. e annotazioni a margine dell’atto di matrimonio.
Tornando invece al problema relativo al momento in cui cessa il regime della comunione
legale in presenza di una crisi del rapporto matrimoniale, le tesi proposte dalla dottrina e dalla
giurisprudenza sono tre: secondo alcuni il regime della separazione dei beni aveva inizio con la
semplice presentazione della domanda di separazione, secondo altri all’esito del tentativo di
conciliazione che autorizza i coniugi a vivere separatamente, secondo altri ancora con l’omologa del
provvedimento di separazione ovvero con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione.
Allo stato attuale sembra che vi sia una quasi unanime convergenza per la terza tesi che ha
trovato accoglimento anche nella giurisprudenza della suprema Corte (Cass. n.560/1990 e Cass.n.
12098/1998), in particolare nella prima delle due sentenze, espressamente si afferma che lo
scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, ex nunc, con il passaggio in
giudicato della sentenza di separazione (ed aggiungerei o con l’omologa del provvedimento di
separazione) mentre non spiega effetti al riguardo il precedente provvedimento, con cui il
Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art.708 c.p.c. abbia autorizzato i coniugi ad interrompere la
convivenza.
LA RINCONCILIAZIONE TRA I CONIUGI - La precarietà della situazione che si
realizza con la separazione personale evidenzia l’ulteriore problema, nell’ambito della circolazione
dei beni immobili, riferito al caso della riconciliazione.
In giurisprudenza la questione è stata affrontata da due recenti sentenze della Cassazione
(la n.11418 del 12 novembre 1998 e la n.18619 del 5 dicembre 2003) le quali hanno affermato il
principio secondo il quale, posto che, ai sensi dell’art.191 c.c., la separazione personale dei coniugi
costituisce causa di scioglimento della comunione dei beni, una volta rimossa con la riconciliazione
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NOTAIO
tale causa, si ripristina automaticamente tra le parti il regime di comunione legale se esistente prima
della separazione.
In dottrina la questione, invece, era stata variamente risolta, sostenendosi:
 da alcuni Autori, che a seguito della riconciliazione viene automaticamente a ripristinarsi
il regime di comunione esistente prima della separazione, con efficacia ex tunc;
 da altri, che per effetto della riconciliazione si realizza una nuova comunione legale,
senza alcuna retroattività (ex nunc);
 da altri ancora, invece, si riteneva che tra i coniugi riconciliati non veniva meno il regime
di separazione dei beni in considerazione dell’impossibilità di collegare la reviviscenza
della comunione legale alla riconciliazione che costituisce un evento spesso estremamente
difficile da accertare da parte dei terzi, potendo realizzarsi, così come sovente si realizza,
anche con comportamenti concludenti. In buona sostanza, ritenendo prevalente
l’esigenza di affidamento dei terzi e di certezza della situazione giuridica patrimoniale
della famiglia, si affermava che la separazione dei beni, che trae origine dalla separazione
personale è reversibile solo con un’apposita convenzione matrimoniale che ripristina il
regime della comunione.
La prima tesi, peraltro ampiamente minoritaria, è stata oggetto di critiche, a mio avviso
condivisibili, in quanto la riconciliazione, quale fatto sopravvenuto, non può cancellare effetti
medio tempore prodotti dalla situazione che aveva determinato la cessazione della comunione.
La tesi preferibile, condivisa dalle citate sentenze della cassazione, è la seconda esposta, che
ritiene che la riconciliazione abbia l’effetto di ricostituire il regime della comunione legale con
efficacia ex nunc.
Questa ricostruzione della norma è preferibile perché riconosce al regime patrimoniale della
comunione legale il ruolo di regime con valenza suppletiva, salvo diversa determinazione dei
coniugi, in quanto perfettamente aderente ai valori che hanno ispirato il Legislatore della Riforma:
uguaglianza tra i coniugi, tutela e riconoscimento del lavoro in qualunque forma esso sia svolto,
riconoscimento di una parità di ruoli tra i coniugi nella produzione della ricchezza familiare. La
separazione dei beni ponendosi come regime di carattere sussidiario, che si instaura al verificarsi di
eventi particolari che non consentono la prosecuzione del regime della comunione legale ovvero a
seguito di una libera scelta dei coniugi che intendono dar rilievo a situazioni contingenti che
consigliano la scelta di un regime patrimoniale convenzionale, richiederebbe, cessato l’evento
ostativo alla comunione legale, un’espressa volontà dei coniugi, da manifestare nelle rigorose forme
dell’atto pubblico ed alla presenza dei testimoni.
In questo quadro ricostruttivo, perfettamente coincidente con le motivazioni della Suprema
Corte, è ampiamente comprensibile ritenere che una volta cessata la causa che aveva originato lo
scioglimento (o meglio la sospensione) del regime legale della comunione, quest’ultimo torni a
spiegare tutti i suoi effetti.
Le critiche opposte alla prima delle due sentenze citate, affrontate anche dalla Cassazione
nella motivazione della sentenza stessa, sono riferite soprattutto alla difficoltà di riconoscimento da
parte dei terzi dell’avvenuta riconciliazione, non appaiono decisive ed, almeno in parte, superate dai
principi espressi dalla più recente sentenza della cassazione sul punto.
Invero, l’ostacolo a riconoscere un automatico ritorno al regime della comunione legale era
(ed in parte lo è tuttora) rappresentato dalla sua riconoscibilità esterna, posto che l’art. 157 c.c.
dispone che i coniugi possono, di comune accordo, far cessare gli effetti della sentenza di
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separazione, con un’espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia
incompatibile con lo stato di separazione.
In presenza di una riconciliazione effettuata con dichiarazione espressa non sorgono
problemi di opponibilità ai terzi in quanto l’art. 69 del citato D.P.R. 3 Novembre 2000 n. 396
dispone: dispone che: Negli atti di matrimonio si fa annotazione: (…) delle dichiarazioni con le
quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione; (…). Quando, invece, ci troviamo in
presenza di una riconciliazione che deriva da un comportamento di fatto non esternata in una
espressa dichiarazione assume piena evidenza la problematica relativa alla tutela del terzo e
dell’affidamento che il terzo può fare in ordine alle risultanze delle annotazioni a margine degli atti
di matrimonio.
L’onere che può essere chiesto al terzo è quello di verificare eventuali annotazioni a margine
dell’atto di matrimonio. Certamente non potrà essere chiesto al terzo di verificare e valutare se i
coniugi hanno posto in essere comportamenti incompatibili con lo stato di separazione.
In quest’ottica, la Suprema Corte nella sentenza n. 18619 del 2003 afferma che in assenza di
una segnalazione esterna dell’evento riconciliativo, il ripristino della comunione legale non è
opponibile ai terzi, poiché operano le norme generali che governano la pubblicità delle vicende
giuridiche a tutela dei terzi.
La riconciliazione, in mancanza di una annotazione a margine dell’atto di matrimonio, avrà
effetti, dunque, esclusivamente nei rapporti interni tra i coniugi, mentre riguardo ai terzi andrà
tutelata la situazione apparente, conoscibile attraverso l’esame dei Registri dello Stato Civile e ciò
mi sembra tanto più equo dal momento che con l’entrata in vigore del DPR n.396 del 2000 sopra
richiamato è possibile dare pubblicità alla riconciliazione mediante l’annotazione a margine
dell’atto di matrimonio.
Annotazione che riguarderà, naturalmente l’intervenuta riconciliazione e non il regime
patrimoniale, posto che la comunione legale si ripristinerà ope legis quale effetto espansivo della
soluzione della crisi matrimoniale e non quale scelta di un nuovo regime patrimoniale.
Aprile 2009
Notaio Marco Krogh
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