IL CONTRATTO SOCIALE TRA GLI STAKEHODLER DELL’IMPRESA ALLA BASE DELLA LEADERSHIP ETICA, CIOÈ L’AUTORITA’ MANAGERIALE LEGITTIMA di Lorenzo Sacconi (Università di Trento ed EconomEtica) 1. Leadership, autorità legittima ed etica. La leadership, anche nella conduzione delle persone in una attività di impresa, non è puro comando, ma autorità. Essa richiede sempre di essere legittimata da chi vada ad essa soggetto, e che quindi accetta di seguire le indicazioni di chi è in posizione di autorità. Si può interpretare, come succede certe volte in economia, tale legittimazione come semplice accordo contrattuale circa una prestazione di lavoro in cambio di una remunerazione, ma così si va poco lontano nella comprensione del ruolo di un leader all’interno di un gruppo di persone che lavorano continuativamente per un lungo periodo assieme, e nel quale egli dà indicazioni che favoriscono il coordinamento e la cooperazione nel raggiungimento di scopi o obbiettivi, promuove lo sforzo, esercita un certo grado di discrezione e adattamento flessibile alle varie contingenze, promuove l’innovazione e al contempo il “lavoro in team” ecc. Quale sarebbe la differenza con un contratto di vendita di un servizio, tra soggetti del tutto indipendenti, in cui non compare affatto una posizione di autorità, un ruolo guida o una leadership? La differenza sta nel fatto che nel caso della leadership sono in gioco valori e interessi che vanno al di là dello scambio tra una prestazione prefissata e un pagamento della prestazione , e che hanno proprio a che fare con le forme dell’azione collettiva, della cooperazione e del coordinamento, non riducibili all’azione individuale e allo scambio tra parti indipendenti, e invocano le ragioni per cui un gruppo di persone dovrebbe accettare di farsi guidare da un leader investito dell’autorità di chiedere loro di svolgere compiti e azioni che essi non possono aver contrattato ex ante in ogni dettaglio. L’ autorità consiste nella possibilità di prendere decisioni all’interno di una certa sfera, senza che esse vengono una per una messe in discussione dai membri del gruppo, e che al contrario vengono accettate nel loro assieme e per un certo periodo dagli altri membri del gruppo proprio in virtù dell’accettazione della relazione di autorità col leader. In sostanza l’autorità è una delega a decidere, che si basa su una accettazione preventiva, grazie alla quale tali decisioni delegate saranno effettivamente eseguite dai membri del gruppo. A sua volta tale legittimazione è una decisone che deve essere spiegata . Bisogna quindi ricostruire le ragioni dell’accettazione dell’ autorità che non possono essere semplicemente le ragioni in base alle quali si discuterebbe ogni singola decisione. Se così fosse il leader non avrebbe affatto una posizione di leadership o di autorità, dovrebbe anzi negoziare ogni singola decisione. Così la legittimazione deve essere data in termini di ragioni per rinunciare a discutere ogni singola decisione e accettare su una base fiduciaria la funzione del leader entro un certo ambito di scelta discrezionale. 1 Ma per quali ragioni? Diciamo che per rimettere in capo all’autorità il diritto di prendere un certo insieme di decisioni, alla cui esecuzione altri devono concorrere, occorrono ragioni più fondamentali, che hanno a che fare con la possibilità di risolvere in tal modo, a nostro stesso vantaggio, problemi di cooperazione o coordinamento che non riusciremmo altrimenti a risolvere (ad esempio mantenendo azioni separate e del tutto indipendenti). Perciò l’autorità, o il leader di un gruppo, in ultima istanza è tale poiché le sue funzioni servono al gruppo stesso che gli riconosce la delega a decidere. Di queste ragioni l’etica è componente essenziale. Essa offre ragioni morali per accettare la relazione di autorità, che si manifestano nel caso in cui tali ragioni siano imparziali, nel senso di applicare imparzialmente un qualche valore o criterio, ovvero riconoscere che l’autorità garantisce un beneficio o un valore che tocca imparzialmente tutti coloro che danno fiducia al leader stesso. Ancora una volta è difficile capire tutto questo in un’impostazione puramente finanziaria dell’impresa, dove l’unico scopo è creare valore per gli azionisti , mentre tutti gli altri fattori e relazioni sono meri mezzi (incluse le persone, le quali appaiono solo come risorse da impiegare efficientemente per creare valore per gli azionisti). Se tutti gli altri oltre gli azionisti sono puri mezzi, essi danno il loro lavoro in cambio di un salario e nulla più. Ma se non ci fosse null’altro - come ad esempio un’adesione o una fiducia in relazione a un benefico associato alla funzione del leader - una volta che il salario fosse garantito, non si vede perché essi dovrebbero accettare di seguire le indicazioni del capo, specie in organizzazioni in cui il controllo dell’osservanza può non essere automatico e fiscale e in cui l’autonomia e la delega si diffondono inevitabilmente lungo i rami dell’organizzazione, rendendo difficile una verifica puntuale dell’esecuzione degli ordini.. Al contrario l’impresa va intesa secondo l’analogia col team (squadra) cioè l’idea della produzione congiunta tra diversi soggetti, apportatori di investimenti in grado di generare un surplus di valore, che hanno perciò legittimi interessi in relazione all’esito della cooperazione, e condividono almeno in parte gli scopi dell’azione congiunta. Ciò non intende mettere in ombra in modo pusillanime il conflitto tra gli interessi, che esiste sempre nelle organizzazioni, sia tra membri del team sia tra dipendenti e datore di lavoro. L’impresa è un sistema di interazione in cui sono presenti al contempo conflitto e cooperazione e in cui la soluzione del conflitto può essere raggiunta grazie a un accordo equo di mutuo vantaggio su un certo assetto di governo e su una strategia, o piano di azione congiunta, intesi come pre-condizioni della possibilità di cooperare e coordinasi in modo da generare nuovo valore. In un tale sistema di conflitto e cooperazione simultanei, ogni partecipante è un mezzo per il perseguimento dello scopo altrui (in questo senso coopera al raggiungimento dello scopo altrui) ma è contemporaneamente un fine, nel senso che la cooperazione altrui serve al perseguimento del suo fine. 2. La fondazione kantiana dell’etica della leadership e l’approccio degli stakeholder. Le legittimazione morale della leadership perciò presuppone il riconoscimento a) dell’ eguale status di agenti morali ai collaboratori (insieme agli altri stakeholder come diremo tra breve) , cioè lo status eguale di fini e non di puri mezzi, di depositari di diritti e di altre caratteristiche morali, e non mero strumento per perseguire fini o diritti diversi da loro. 2 b) che la legittimazione di chi è in posizione di autorità e aspira alla leadership sia fondata su scopi e valori che appartengono imparzialmente alla sfera degli interessi, dei valori e dei fini di coloro che esprimono tale giudizio, cioè il giudizio di coloro che accettano la relazione di autorità e ne vanno quindi soggetti. In negativo questo implica che l’etica della leadership nella sfera delle “ risorse umane” non può essere strumentale, un semplice modo efficace per motivare o acquisire l’osservanza o l’adesione dei collaboratori per scopi e fini del tutto diversi dai loro scopi e fini. Parlare di etica nella gestione delle risorse umane come mezzo per massimizzare il valore per gli azionisti, può essere un modo con il quale si cerca di captare la benevolenza di proprietari sordi ed egoisti, ma è un paradosso, poiché contraddice la nozione stessa di etica delle risorse umane , in quanto appunto le considera mezzi per uno scopo o un valore altro da loro. Paradosso doppio, perché così formulata la questione non rafforza la leadership, cioè non dà legittimazione morale, né consenso (perché dovrei legittimare in base a un criterio che mi considera un mero mezzo e non mi riconosce la dignità di agente morale?). Sempre in negativo, quanto sopra affermato implica che l’ “etica delle gestione delle risorse umane” non può essere un’ etica dall’alto, un mera richiesta di osservanza di regole date dal vertice. E nemmeno un’etica della virtù, nel senso dell’adesione a un’idea di eccellenza data dalla gerarchia, solo apparentemente naturale, ovvero dall’appartenenza a una data comunità: il mestiere, la professione, l’organizzazione ecc. Non che la conformità e l’osservanza non siamo importanti nell’etica organizzativa, ma solo dopo che i principi etici di legittimazione della leadership siano stati riconosciuti come termini di mutuo accordo da parte di ciascun agente morale, posto così ugualmente in grado di esercitare la sua autonomia razionale. Quindi solo dopo che l’accettazione dell’autorità sia espressa via ragioni per lui/lei, in quanto soggetto in grado di stabilire per via di accordo i fini e le regole in base alle quali egli partecipa al sistema di cooperazione. In positivo, d’altra parte, molto aiuta l’approccio degli stakeholder, secondo cui l’impresa è una costellazione di portatori di interessi, strategicamente coinvolti dalla conduzione dell’impresa, e i cui interessi e aspettative dipendono in modo essenziale da essa, e dalla cui cooperazione dipende la possibilità stessa per l’impresa di creare nuovo valore, valore al quale, in modi differenti, tutti i stakeholder sono interessati. Inoltre per gestire tali interessi e queste relazioni, l’approccio degli stakeholder ci insegna che chi governa l’impresa non può che riconoscere status morale agli stakeholder. Gli stakeholder sono (secondo i casi e i punti di vista) agenti o pazienti morali della conduzione dell’impresa, in ogni caso portatori di diritti cioè di legittime pretese , che possono talvolta confliggere tra loro e quindi si limitano l’un latra, ma che ciò nonostante devono essere trattati secondo l’imperativo categorico kantiano (di cui ricordiamo due versioni “adattate”): non trattare nessuno (stakeholder) come un mero mezzo ma sempre anche come un fine a sé; la società (cioè l’impresa come costellazione di stakeholder) sia sempre vista come un “regno dei fini”, tale che ognuno (stakeholder ) possa essere oltre che suddito della legge (morale) anche suo proprio legislatore. E’ bene ricordare che la seconda formulazione significa che la scelta razionale di ciascuno stakeholder deve stare alla base delle regole dell’impresa, cioè essa deve essere frutto dell’autoregolazione degli stakeholder. Ciò non rifiuta la leadership e la stessa autorità, ma 3 pretende che la legittimazione dell’autorità abbia le caratteristiche che abbiamo detto, cioè sia fondata su una scelta degli stakeholder e su ragioni morali con le quali ci si riferisce al trattamento imparziale di valori o interessi degli stessi stakeholder. Secondo l’approccio degli stakeholder il fatto di rientrare in una “comunità” (di mestiere, professionale, organizzativa o locale) non è condizione sufficiente di accettazione di una “concezione del bene” di per sé in grado di generare un’idea di virtù e di eccellenza, che si imporrebbe di per sé come auto-remunerativa. Questo è il modo neo-tomista di derivare l’etica di impresa: data la “natura” dell’impresa come “organismo” dotato di una “causa finale” , ne discendono modelli di eccellenza per ciascun ruolo, che altro non sono se non i fini interni di quell’organismo; quindi ne consegue il dovere di conformità per ciascun membro, ove per aggiunta il membro non può che essere felice della propria posizione interpretata secondo retta virtù, poiché ciò gli contente di agire secondo il finalismo interno della pratica, e quindi di raggiungere la “felicità”, che in questo caso non ha molto a che fare con la soddisfazione di preferenze o di interessi dello stakeholder. Ma è un modo incompatibile con l’approccio degli stakeholder. Al contrario il termine di riferimento sono gli stakeholder e i loro interessi e valori. Così la comunità di impresa o professionale e di mestiere non può imporre un’etica dell’eccellenza separata dall’accordo tra gli stakeholder. La comunità (quella di impresa più delle altre, ma non dimeno anche le comunità famigliari, le associazioni e le chiese) è in effetti un prodotto artificiale dell’accordo, e quindi genera richieste di conformità ai valori condivisi solo una volta che la comunità (o almeno la decisione di appartenervi) sia stata generata attraverso un contratto sociale equo. Così come non esistono leggi morali naturali che dettano i fini e le regole delle varie comunità (esistono bensì leggi fisiche, chimiche e biologiche naturali ma non leggi morali della natura indipendenti dalle scelte, dai valori, dagli interessi e dalle passioni e dalle valutazioni umane), così non esiste una legge morale naturale dell’impresa. Possono certamente esistere norme etiche fondamentali accettabili da tutti, ma questo richiede che esse siano identificate tramite una costruzione umana, cioè attraverso l’accordo proprio su quei principi che chiunque riconoscerebbe razionalmente come accettabili, e per raggiungere un tale accordo generale occorre svestire i panni di ciascuna identità personale, professionale, di classe, culturale politica, o religiosa e mettersi dal punto di vista di chiunque, il quale non dimeno sia in grado di riassumere in sé ciò che c’è di invariante rispetto al punto di vista di ciascuno separatamente preso. Che tali principi esistano è possibile e desiderabile, per sapere quali essi siano però possiamo solo provarli attraverso il test dell’accordo e quindi del consenso razionale, non forzato e informato da parte di altri partecipanti al dialogo che, sebbene possano essere portatori di interessi e concezioni dl bene differenti dalle nostre, siano nondimeno spinti fondamentalmente da un’ analoga preoccupazione per il consenso e l’accordo razionale. Così l’approccio etico alla teoria degli stakeholder, che fonda la leadership nell’impresa, esattamente come l’etica contrattualista che fonda l’autorità politica, per definizione non ammette che la giustificazione morale di una istituzione si regga sul principio di autorità. Non vi può esser un’istituzione gerarchica (sia essa un’impresa, un’amministrazione pubblica o anche una chiesa) il cui vertice pretenda di parlare in base a un’autorità morale assoluta, senza che ciò distrugga l’idea stessa di principi morali universali, che possono essere solo basati sulla razionalità imparziale dell’accordo tra agenti morali uguali. 4 Al contrario a partire dai principi etici trovati per via di accordo possiamo rintracciare le ragioni morali in nome delle quali una data autorità (politica o organizzativa o religiosa) può essere legittimata imparzialmente. Insomma la direzione della giustificazione va dall’accordo imparziale tra agenti morali uguali all’autorità e alla gerarchia (che ne risultano giustificate funzionalmente) e non viceversa. 3. La responsabilità sociale dell’impresa nella prospettiva del contratto sociale tra gli stakeholder e la corporate governance moralmente legittima L’approccio dell’accordo tra gli stakeholder offre anche una prospettiva più chiara e fondata per intendere la “responsabilità sociale dell’impresa”: con “corporate social responsibility” si intenderà allora non la mera azione filantropica dell’impresa, la quale tipicamente può essere addirittura criticabile se essa avviene non con le ricchezze private dei singoli imprenditori , ma con le risorse dell’impresa stessa (prima che siano distribuite come reddito agli azionisti), bensì un modello allargato di governo dell’impresa. Secondo tale modello chi governa l’impresa non solo deve adempiere a doveri fiduciari nei confronti della proprietà d’impresa, ma anche ad analoghi doveri fiduciari nei confronti di tutti gli stakeholder (tra cui gli shareholder hanno una posizione importante ma non di speciale privilegio nei confronti di altri stakeholder essenziali, come i collaboratori, i consumatori, i partner, i fornitori , la comunità circostante ospitante le attività dell’impresa ecc.) Il governo allargato ha alla sua base un’idea più fondamentale di etica di impresa, grazie alla quale il conflitto distributivo tra gli stakeholder viene affrontato e risolto, e che si riallaccia alle formulazioni date in precedenza dell’imperativo categorico. E’ l’idea del contratto sociale dell’impresa, cioè dell’accordo di mutuo vantaggio negoziato in una prospettiva imparziale e impersonale, tra tutti gli stakeholder per rendere possibile quell’ iniziativa cooperativa che è appunto l’impresa. Una forma di governo nella quale chi ha autorità ed esercita leadership sia accountable di fronte agli stakeholder , non può che dipendere dal fatto che quella stessa autorità e leadership abbia nel contratto costitutivo tra gli stakeholder la sua origine e fonte. Così come la filosofia politica della modernità ha identificato nel contratto sociale generale le basi e la fonte di legittimità dell’autorità dello Stato e dell’ordinamento costituzionale, così il contratto sociale dell’impresa produce una forma moralmente legittima di governo dell’impresa e quindi una base morale per l’autorità manageriale. Attenzione però, non stiamo parlano di una pubblicizzazione dell’impresa. È invece il contratto sociale tra quella costellazione di portatori di diritti e interessi che sono tipici di ciascuna impresa in quanto ne formano gli stakeholder rilevanti: da quel contratto sociale derivano i doveri fiduciari che devono essere adempiuti dalla conduzione dell’impresa, esso definisce gli interessi in nome e per conto dei quali l’impresa deve essere condotta. 4. Responsabilità sociale VS massimizzazione del valore per gli azionisti? L’idea di contratto sociale risolve anche la questione del conflitto tra “valore per gli stakeholder” e “shareholder value maximization”. 5 Ci sono vari modi di addomesticare questo problema, che però sfuggono alla questione centrale, e che cercano sempre di mostrare che il valore per gli stakeholder sia implicato da quello per gli shareholder. A tale proposito la visione finanziaria dell’impresa, anche la più illuminata, cerca di dimostrare che, se perseguito nel lungo periodo, il valore per gli shareholder implicherebbe anche il benessere per gli stakeholder. Dunque degli stakeholder sarebbe superfluo occuparsi direttamente, sarebbero un’implicazione (un mezzo) dell’obbiettivo principale dell’impresa (massimizzazione del valore per gli azionisti). Tale idea è correlata con quella secondo cui la cura morale degli interessi degli stakeholder (ad esempio i collaboratori) dovrebbe essere vista come un mezzo per il fine della massimizzazione del valore degli shareholder. Purtroppo nessuna di queste idee è fondata. Il modello di contratto sociale suggerisce invece che il valore per gli stakeholder include quello per gli shareholder, ma non viceversa. Il contratto sociale può essere visto come la soluzione di un problema di contrattazione ideale tra gli stakeholder, volto al loro mutuo vantaggio, cioè alla creazione efficiente del massimo possibile di ricchezza compatibile con la sua distribuzione equa e quindi con la possibilità di ottenere l’accordo volontario alla cooperazione necessario per produrla. Sotto tale accordo ideale tutti gli stakeholder massimizzano i loro benefici compatibilmente col vincolo che ciò permetta anche la massimizzazione dei benefici per gli altri. Un vincolo che, per altro, è implicito nella natura cooperativa dell’impresa. La cooperazione volontaria degli altri stakeholder è necessaria alla massimizzatine dei benefici di ciascuno di essi. Se si riconosce tale struttura cooperativa, la massimizzatine del vantaggio di ciascuna parte non può che essere vincolata dalla massimizzazione del vantaggio altrui. Infatti, trattandosi l’impresa di un gioco a interessi misti, in cui il conflitto non è a somma-zero, la produzione di valore funzionale alla massimizzatine dell’interesse di ciascuno stakeholder dipende dalla cooperazione di tutti gli altri e quindi dal loro accordo che sarà ovviamente condizionato dalla possibilità di ottenere una compatibile e similmente vincolata massimizzazione della soddisfazione dei propri interessi. Si capisce allora come rispettare il vincolo della reciproca possibilità di massimizzare gli interessi dei vari stakeholder sia razionale per il perseguimento dell’obbiettivo (di profitto o altro) di ciascuno stakeholder singolarmente preso (shareholder incluso). Insomma dal generale al particolare, ma non viceversa. Infatti, il mero perseguimento dell’interesse unilaterale di uno stakeholder, ad esempio il profitto o lo shareholder value (ma ovviamente anche il salario visto come “variabile indipendente”), non necessariamente permette la soddisfazione degli stakeholder. Sono a tutti noti i paradossi dell’egoismo razionale, nei quali la massimizzazione del benessere individuale di ciascuna parte genera danno per tutti. Per altro nemmeno se il perseguimento egoistico dell’interesse di una parte (ad esempio il profitto o lo shareholder value) è visto nel lungo periodo, c’è garanzia di coincidenza con il valore per tutti gli stakeholder: infatti occorrono molte altre ipotesi oltre al lungo periodo perché il perseguire il proprio interesse illuminato, che può generare valore anche per gli altri, possa sopravanzare con certezza il miope egoismo anche dal punto di vista dell’ egoista stesso (perché naturalmente che un approccio di lungo periodo sia migliore dal punto di vista dell’interesse generale degli stakeholder è ovvio) In caso contrario, in presenza di asimmetria dell’informazione, incompletezza contrattuale, abuso nell’esercizio di autorità e discrezione, è possibile rinviare sine die la coincidenza tra i 6 due interessi. Si può invece veder prevalere, anche in forme sofisticate e truffaldine, quello che chiamiamo abuso di autorità, cioè l’opposto della legittimazione morale della leadership. Alla lunga, ovviamente, condotte socialmente irresponsabili distruggono il valore degli azionisti, oltre che quello per gli altri stakeholder, ma quanto deve essere lungo questo periodo? I casi di Parmalat, Enron etc non sono durati abbastanza a lungo? E quanto avrebbero potuto durare ancora in assenza delle contingenze che hanno portato a rivelare la truffa? Per capire come stiano le cose a proposito della convenienza della CSR dal punto di vista di un’impresa che intenda perseguire prima di tutto o solo la massimizzazione del valore per i proprietari, le cose purtroppo non sono così semplici come certi propagandisti del valore per gli azionisti (non so se bene intenzionati) vorrebbero far credere. Per capirlo dobbiamo fare ricorso ad alcuni concetti di microeconomia e di teoria dei giochi. In sostanza, adottare (dal punto di vista egoistico) una strategia socialmente responsabile non è un strategia dominante, cioè migliore per l’impresa indipendentemente dalla condotta altrui, poiché che se lo stakeholder fosse male informato o manipolato, incapace di reagire o confuso, o non in grado di distinguere i comportamenti meritevoli di fiducia da quelli non meritevoli di fiducia, allora una strategia irresponsabile oppure solo apparentemente responsabile potrebbe dare risultati egoisticamente migliori. D’altra parte una strategia irresponsabile sarebbe “razionale” contro stakeholder che non dessero affatto fiducia e non cooperassero affatto con l’impresa - si tratterebbe appunto di un esito in equilibrio e quindi di un caso drammaticamente persistente di irrimediabile sfiducia e mancanza di collaborazione tra impresa e società circostante, il che certamente implicherebbe che l’impresa rimanga un’istituzione sociale marginale, destinata a non raggiungere le sue dimensioni ottimali. Una strategia socialmente responsabile invece è una strategia di equilibro cioè razionale nei confronti di stakeholder che la premiano con maggior fiducia e cooperazione; e in effetti la CSR in quanto rispetta doveri fiduciari accresce la fiducia nelle relazioni, riduce i costi di transazione e migliora il grado di cooperazione con tutti gi stakeholder. Così se l’impresa è SR tale strategia provvede da sé stessa al suo sostegno nel senso che è auto-remunerativa e assicura un incentivo alla sua attuazione e prosecuzione. Indubbiamente l’equilibrio in cui una strategia di CSR si incontra con la cooperazione e la fiducia da parte degli stakeholder è la soluzione migliore per tutti (la più efficiente nel senso del benessere generale) ma non è l’unico equilibrio possibile. Ci sono ahimé molti equilibri. Alcuni socialmente buoni, altri pessimi (come quello in cui ad esempio la mancanza di ogni cooperazione tra imprese e stakeholder porta alle soglie della distruzione ambientale del pianeta) - cioè molte combinazioni di strategie tra imprese e loro interlocutori che in quanto risposte ottime sono tutte razionali finché intendiamo la razionalità come ristretto perseguimento del vantaggio egoistico sia pure nel lungo periodo. Il problema è quindi in che modo l’impresa, le istituzioni pubbliche e quelle della società civile facilitano l’emerge e la selezione dell’equilibrio migliore. L’adozione di standard volontari ma espliciti e condivisi di gestione socialmente responsabile, che permettono l’approvazione e migliorano la comprensione e l’informazione sulla condotta dell’impresa da parte degli stakeholder e al contempo consentono all’impresa di assumere impegni credibili alla luce dei quali essa può essere giudicata e può accumulare buona (o cattiva) reputazione, nonché forme di valutazione, monitoraggio e certificazione e indipendente da parte della società civile - sono tutti fattori che aumentano i benefici reputazionali per l’impresa associati 7 all’adozione di una strategia di CSR e al contempo aumentano la probabilità che di fronte a una tale strategia gli stakeholder si fidino, ma sanzionino al contrario strategie non responsabili. Dunque facilitano l’emergere dell’equilibrio sotto il quale all’impresa conviene adottare una condotta SR e agli stakeholder conviene premiarla con la loro fiducia e cooperazione. In sostanza dire che la CSR fa guadagnare in assoluto di più gli azionisti sarebbe falso e fuorviante: c’è modo di guadagnare di più, se con l’inganno e con la frode si riesce a inibire per lungo tempo la reazione degli altri stakeholder. Si può tuttavia dimostrare che l’apprendimento, la diffusione dell’informazione e le motivazioni morali degli stakeholder possono punire tale condotta talvolta anche in misura superiore di quanto risulterebbe dal mero calcolo dei vantaggi materiali e delle convenienze. Al contrario “la CSR conviene” condizionatamente al fatto che l’impresa adotti principi e norme di comportamento, sistemi di gestione, di rendicontazione e di certificazione indipendente, forme di dialogo e coinvolgimento degli stakeholder tali che si formi l’aspettativa generale di una condotta socialmente responsabile e una ragionevole certezza sul fatto che essa sarà messa in atto, di modo che la risposta degli stakeholder dell’impresa sia cooperativa e mutuamente vantaggiosa. Si vede perciò la difficoltà di chi voglia giustificare l’etica di impresa solo nella prospettiva di un soggetto egoisticamente rivolto al suo vantaggio, sia pure di lungo di lungo periodo. Egli deve adottare strumentalmente una visione etica delle relazioni con i suoi stakeholder ma rendere credibile tale impegno. Tuttavia è del tutto ovvio che se egli non ha una chiara comprensione del suo valore intrinseco, delle ragioni morali per agire in base ad esso, tale credibilità sarà assai minore. Un approccio meramente strumentale alla responsabilità sociale, che cioè non si basi sulla esplicita adesione all’idea di contratto sociale imparziale e di relazione fiduciaria tra governo di impresa e stakeholder, induce il timore che occasionalmente l’impresa possa deviare da esso, quando ciò è conveniente, e quindi non è un buon affare neppure dal punto di vista strategico. In conclusione solo se si persegue esplicitamente e volontariamente, sulla base di una chiara affermazione di principio e di un conseguente committment, il valore per gli stakeholder (piuttosto che l’unilaterale shareholder value, sebbene di lungo periodo) vi è una buona probabilità di poter in tal modo selezionare un equilibrio che premia l’impresa e i suoi azionisti o proprietari con i benedicici di lungo periodo della cooperazione degli stakeholder. La responsabilità sociale dell’impresa è una strategia conveniente solo se essa è perseguita prima di tutto per ragioni diverse dalla mera convenienza egoistica (anche se illuminata). Una condotta moralmente giustificata può generare gli incentivi privati che sostengono la sua messa in pratica, ma le ragioni che la identificano (il calcolo dei costi e dei benefici che si intendono produrre) e per cui essa viene perseguita devono essere primariamente date in termini di ragioni morali e di benefici imparziali. 5. Contenuti e sfide all’etica della gestione delle risorse umane. Visto nella prospettiva delle “risorse umane”, il contratto sociale dell’impresa è la scelta ipotetica con cui anche coloro che vanno soggetti all’autorità e alla gerarchia nell’impresa (i collaboratori) decidono di accettarla , a condizione che essi siano rispettati nei loro diritti di base, non discriminati nei processi di decisone, resi equamente partecipi dei vantaggi, con particolare attenzione agli investimenti in capitale umano. 8 L’aspetto essenziale, spesso messo in ombra, è che l’investimento più specifico e al contempo più in grado di generare surplus di valore, è quello in capitale umano (capacità, abilità, competenze) e in capitale sociale, cioè nelle relazioni di fiducia interpersonali, che necessariamente legano le persone con le altre persone nell’ambiente di lavoro e nell’ambiente circostante. Tali investimenti generano un vantaggio se quelle particolari relazioni vengono salvaguardate e vanno a buon fine, ma al contempo creano dipendenza da quelle relazioni per il loro successo. Siccome questi “capitali” sono spesso “specifici”, legati a particolari rapporti e relazioni, i loro benefici, una volta fatto l’investimento, possono essere anche espropriati, cioè creano una condizione di dipendenza che può essere sfruttata per rinegoziare opportunisticamente l’allocazione dei benefici da coloro che hanno intrapreso gli investimenti a coloro che ne influenzano il successo. Quindi tali investimenti vanno soggetti alla fondamentale fragilità delle relazioni fiduciarie: senza fiducia essi non vengono intrapresi e si rischia così di perdere una delle fonti fondamentali di creazione di valore da parte dell’impresa (per tutti gli stakeholder). Di conseguenza il contratto sociale che sta alla base dell’impresa, della delega di autorità e del riconoscimento della leadership, include la protezione del valore di tali investimenti specifici nelle relazioni di lavoro tra le persone che cooperano nell’impresa. Si possono quindi suggerire alcuni aspetti e fasi di un codice morale della gestione del RU basato sull’idea di contratto sociale: all’avvio del rapporto: informazione il più possibile completa sulle caratteristiche del lavoro, trasparenza sulle alternative e non discriminazione arbitraria nella selezione, nella gestione del rapporto: non abuso delle asimmetrie informative, non abuso di autorità nell’ambito della gestione della carriera, opportunità di formazione e sviluppo del capitale umano e sua qualificazione, riconoscimenti del merito, valutazione del lavoro in team (in cui è cioè difficile la misurazione dell’apporto individuale), riconoscimento di situazioni di bisogno. Ancora, uguaglianza delle opportunità (donne) e non discriminazione di razza,sesso e ideologia (immigrati, gay) nelle opportunità di avanzamento; partecipazione al processo decisionale, accountability ed equità delle procedure decisionali che riguardano il personale e le carriere. Entrambe le fasi, quella ex ante e quella ex post , sono importanti per l’etica dei rapporti di lavoro. E’ un errore perciò quello compiuto da certi illustri colleghi (ad es. Ichino) che pensano che l’unica funzione importante del diritto dei contratti di lavoro sia proteggere le parti poco informate al momento dell’avvio della relazione di lavoro. Si dimentica così il rischio della ricontrattazione opportunistica, che può distruggere importanti investimenti specifici. I suddetti “articoli” dell’ipotetico contratto morale tra impresa e dipendenti sono tuttavia sottoposti a tensione dalle sfide della conduzione dell’impresa nelle condizioni odierne di competizione e internazionalizzazione , in breve i. delocalizzazioni e riorganizzazioni; ii. competizione per le risorse umane qualificate e capacità di trattenerle, per quel che riguarda imprese a forte tasso di innovazione, in effetti non molto presenti in Italia, ma tipiche di molte industry a livello internazionale (si pensi all’informatica, alle TLC o alla farmaceutica); 9 iii. alta flessibilità del mercato del lavoro (specie per quel che riguarda i giovani). In tutti questi casi occorrerebbe che la leadership fosse basata sul rispetto del contratto sociale implicito che sta alla base dell’organizzazione e della creazione dell’impresa come squadra. In realtà è in presenza di questi casi di conflitto e competizione che si vede se un’impresa è effettivamente accountable nei termini dell’osservanza di un contratto sociale implicito con gli stakeholder. Ciascuna di queste sfide deve essere affrontata, ma al contempo può essere affrontata in modo diverso, secondo che l’impresa intenda la sua accountability, e le basi della legittimazione della leadership, in base al modello ristretto di governance oppure in coerenza col modello allargato. Ad esempio, è certamente nelle riorganizzazioni e delocalizzazioni che si vede se le dichiarazioni di CSR da parte dell’impresa sono effettivamente fondate. Si tratta di vedere cosa delocalizzare, per quali vantaggi, se ad esempio ciò accade solo per sfruttare un differenziale salariale o un livello di sotto-protezione dei diritti (in violazione alle norme ILO) che si riscontra in un PVS. E in presenza di quali politiche aziendali per sostenere la diffusione dei diritti sociali nei paesi in cui l’impresa delocalizza gli impianti. Quale cura vi è ad es. perchè nella catena delle forniture non si verifichino guadagni da ribasso dei costi essenzialmente dovuti alla violazione di diritti umani negli stabilimenti fornitori delocalizzati? Esiste, poi, un programma di collaborazione con le ONG del proprio paese e del paese di destinazione volto a sostenere lo sviluppo dei diritti sociali dei lavoratori operanti negli stabilimenti delocalizzati, in tal modo riducendo per il paese ospite l’onere dell’osservanza di standard sociali più elevati, per i quali può non disporre dell’infrastruttura? Questi temi pongono problemi effettivi nell’interpretazione a livello globale dell’idea di giustizia sociale, poiché è evidente che non si tratta di applicare ovunque gli stessi schemi remunerativi (lo stesso salario pagato a Calcutta e a Boston creerebbe gravi disuguaglianze sociali a Calcutta). Tuttavia le idee di giustizia e di equità sono principi generale che hanno interpretazioni locali diverse, ma che conservano uno stesso significato ovunque, assolutamente riconoscibile come adeguato ai vari casi, specie se riguarda condizioni di lavoro e di salario che permettano l’accesso uguale a beni principali essenziali e l’acquisizione di capacità e livelli base di benessere, e se riguardano un livello non oltraggioso di disuguaglianze. Anche se declinati variamente nel tempo e nello spazio, tali concetti hanno un nucleo e un significato riconoscibile universalmente. Inoltre, si può domandare: quali produzioni vengono delocalizzate e con quale ritorno su quelle che vengono mantenute nel paese di origine ad esempio a maggior tasso di ricerca e valore aggiunto? In particolare quale impegno alla protezione di investimenti specifici precedentemente effettuati dagli stakeholder si attua nel paese di partenza? Esiste una strategia, come in certi caso di maggior successo, volta a salvaguardare gli investimenti in capitale umano e in capitale sociale (reti di relazioni) nel luogo di origine, attraverso il finanziamento in questi ambienti della ricerca e sviluppo di nuovi prodotti e la delocalizzazione delle produzioni mature a minor valore aggiunto, oppure semplicemente si cerano le condizioni di massimo ribasso del costo del lavoro? Insomma, esiste una strategia per rendere i processi di riorganizzazione e internazionalizzazione mutuamente vantaggiosi, e quindi in grado di essere ricondotti alla logica del contratto sociale (tra impresa e stakeholder nell’ambiente di partenza, tra impresa e stakeholder nell’ambiente di approdo)? Oppure si tratta di azioni opportunistiche che rompono di volta in volta i legami e sacrificano gli investimenti (degli altri) sulla base appunto delle opportunità del momento? 10 E poi, una volta che si sia giunti alla fase dolorosa dei tagli al personale, quale criterio di imparzialità, oggettività ed equità è esercitato nella distribuzione dei costi e dei risarcimenti? Quale rispetto del diritto di informazione, partecipazione e della possibilità di provvedere per tempo a soluzioni alternative? Quale collaborazione con le istituzioni locali per creare alternative produttive che consentano il riassorbimento della forza lavoro eccedente in attività sostitutive. Spesso nei territori esistono reti di relazioni e competenze da esse sostenute, che sono risorse, vero e proprio capitale sociale prezioso per una riconversione e recupero di impianti e dei lavoratori ad attività alternative a quelle che vengono smobilitate dall’abbandono di una impresa transnazionale. Ma se tali reti di fiducia vengono definitivamente lacerate da comportamenti apertamente opportunistici allora tali risorse si perdono per sempre. Analoghe questioni si pongono per quelle imprese che, grazie alle riforme del mercato del lavoro, sfruttino, a fianco delle più tradizionali forme di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, le innumerevoli opportunità di flessibilità del lavoro. Quale cura è data al problema essenziale di utilizzare tali forme essenzialmente per dare maggiore flessibilità in entrata, senza tuttavia dimenticare che lo sviluppo deve essere in direzione di una maggiore stabilità del rapporto, con la conseguente possibilità di riconoscere gli investimenti in capitale umano specifico dei giovani, anziché mantenere una parte dei collaboratori in permanente stato di precarietà? Eppoi quali politiche aziendali, con riferimento all’indotto delle piccole e medie imprese, si intendono attuare per superare l’insopportabile contraddizione tra, da un lato, l’impiego di lavoratori immigrarti con una forte propensione all’auto-sfruttamento e dall’altro l’ostacolo alla loro integrazione, cui concorre certamente il fatto che essi non siano in grado di contribuire ai costi della propria integrazione a causa dei trattamenti economici svantaggiati ai quali sono sottoposti? Il tema della competizione per le risorse umane più appetibili è il caso in cui la logica del contratto sociale si applica più direttamente, poiché è evidente il mutuo vantaggio. Pone tuttavia in modo diretto la necessità di rispettare i criteri di trasparenza ed equità, di protezione dall’abuso di autorità e possibilità esercitare una partecipazione almeno parziale alle decisioni sul lavoro, sia nella fase di acceso che in quella di gestione del rapporto, per garantire l’investimento in capitale umano da parte del lavoratore al quale anche l’impresa ha interesse. Ma pone un problema ulteriore, ovvero che l’attrazione delle persone ad alto potenziale richiede non solo la considerazione dei loro interessi materiali, ma anche la soddisfazione delle loro preferenze morali o ideali circa i valori e le procedure dell’impresa (cioè criteri non solo rivolti a sé stessi., ma anche agli altri..). E pone con particolare importanza il tema non solo dell’uguaglianza di trattamento ma dell’uguale rispetto delle diversità, nel senso del rispetto delle diverse concezioni del bene e dei diversi piani di vita (si pensi alle donne, ma anche ai lavoratori di nazionalità e religione diversa rispetto a quella prevalente ecc.) 6. Il vantaggio competitivo dell’impresa la cui struttura di leadership sia moralmente legittima e le preferenze morali dei collaboratori Molto in questa nota è dedicato a evitare un’impostazione strumentale dell’etica della gestione delle risorse umane, cioè a porre nei giusti termini la considerazione che le persone in azienda sono agenti o pazienti morali. A questo punto si può tuttavia anche sottolineare il vantaggio dell’etica delle risorse umane per gli altri stakeholder (inclusi gli shareholder) e per l’impresa in genere. 11 Ovvero, intesa in senso proprio, una leadership basata su una legittimazione morale ottiene molto di più in termini di apporto dalle persone, e quindi in effetti essa costituisce oltre che un fine, anche un mezzo per generare maggiore valore per l’insieme dell’impresa. Detto che l’etica ha a che fare con le persone come fini e non come mezzi, se ne può ora enfatizzare la sostenibilità economica: proprio perché l’impresa è un sistema di cooperazione, l’etica della leadership verso le persone genera un più elevato livello di cooperazione volontaria e quindi maggiore creazione di valore per tutti gli stakeholder (shareholder inclusi). Ciò che bisogna mettere a fuoco in questa parte è che le motivazioni umane (e quindi quelle di chi lavora) sono “complesse”. Esse contengono certamente la componente egoistica volta alla ricerca di utilità materiali e monetarie, ma limitare a questo la descrizione delle preferenze sarebbe solo una grottesca caricatura economicistica del concetto di preferenza e di utilità umana, che la migliore micro-economia non accetta più da tempo. Bisogna invece rendere conto di fenomeni quali l’attrazione esercitata sui collaboratori da organizzazioni che hanno una missione non puramente egoistica e che si impegnano effettivamente a realizzarla, imprese che rispettano principi di giustizia e di equità nei processi produttivi anche nella relazione con stakeholder esterni (catena delle forniture da PVS), che hanno una relazione positiva con la comunità circostante, che abbiamo un sistema di organizzazione del lavoro in cui possono fiorire relazioni umane ricche, cioè beni relazionali ecc. Tali organizzazioni registrano maggiore capacità di attrazione e fedeltà, e anche maggiore disponibilità a svolgere il lavoro di team (che non può essere incentivato in modo fine con incentivi individuali, proprio perché l’apporto e lo sforzo è associato alla dimensione cooperativa del gruppo, che perciò presuppone la fiducia che nessuno nel team o nella valutazione agisca opportunisticamente) e anche disponibilità al lavoro volontario per “buone cause”, funzionali all’accettazione sociale dell’impresa, ma alla quale i collaboratori intendono partecipare in proprio (ad es. tempo dedicato a volontariato co-promosso con l’impresa). L’aspetto interessante per l’economista è sfatare la convinzione che di questi comportamenti non egoistici si debbano occupare le discipline minori, di rango inferiore nella gestione dell’impresa, mentre ai piani alti si parlerebbe il linguaggio dell’economics, nel quale per tutto ciò non vi sarebbe spazio. Solo l’ignoranza può indurre a credere che l’economics sia solo finanza aziendale basata sulle ipotesi micro-economiche classiche dell’auto-interesse e della massimizzatine del valore per gli azionisti. L’economia recente, alla luce della svolta behaviorista e della sua interazione con la teoria dei giochi e con l’economia sperimentale, mette la complessità delle motivazioni al centro dell’analisi del comportamento economico. E ottiene ormai innumerevoli applicazioni nell’ambito dell’economia del lavoro (contratti), della finanza, dell’organizzazione eccetera. L’idea generale è rendere più complessa la nozione di preferenza economica coerente e quella di utilità del consumatore, del lavoratore ecc., introducendo nuovi argomenti delle funzioni di utilità espressi via ulteriori parametri o funzioni più complesse dei paramenti tradizionali. Perciò in linea di massima si osserverà che l’utilità egoistica del salario o delle conseguenze materiali per il singolo agente non sono che uno degli argomenti della funzione di utilità, mentre esso viene affiancato da altri argomenti che rappresentano la componente ideale o psicologica dell’utilità. A tale proposito si potranno trovare modelli in cui viene inserito l’altruismo, oppure una preferenza per la minimizzazione delle disuguaglianze, o per la gentilezza. In molti casi ci si 12 orienta a far dipendere la preferenza da una qualche forma di reciprocità del comportamento, ovvero ad esempio da una misura della gentilezza reciproca nel modo col quale ciascun agente tratta la controparte, in termini di distanza dall’utilità media possibile di questa ultima. Ho dato un contributo a questa letteratura con l’idea di preferenze conformiste., secondo cui le preferenze degli agenti economici (lavoratori, consumatori, investitori ecc.) contengono una componente psicologica basata sul fatto che (i) se i membri di un’organizzazione hanno partecipato (anche ipoteticamente) ad un accordo su un codice morale dell’impresa, (ii) se si aspettano reciprocamente conformità ai principi del codice da parte degli altri partecipanti all’organizzazione, (iii) se essi stessi si conformano, allora la conformità ai principi etici concordati offre loro una componente aggiuntiva di utilità tale da controbilanciare l’incentivo ad approfittare opportunisticamente dell’adesione altrui per non fare la propria parte. Se un dato valore è stato affermato e accettato (concordato) allora c’è una preferenza per la sua reciproca osservanza. E’ evidente la relazione tra questa versione dell’idea della complessità motivazionale e quella del contratto sociale dell’impresa: è la reciproca conformità attesa al contratto sociale che genera la nuova fonte di utilità (posto che essa sia associata a un parametro disposizionale esogeno abbastanza elevato, cioè a un peso motivazionale dato alle ragioni di conformità). Queste spiegazioni sono supportate da abbondati risultati sperimentali sul comportamento economico in laboratorio, ove si simulano varie situazioni di scelta, ad esempio la decisone di contribuire a un bene pubblico, che è sempre superiore a quella nulla predetta dalle teorie tradizionali; la decisione di non accettare un ultimatum, la scelta di punire, anche se in modo costoso, un comportamento iniquo, che sono sistematicamente maggiori rispetto a quelle previste in base all’egoismo razionale che consiglierebbe acquiescenza in tali casi. la decisone di agire in modo da avvantaggiare un terzo beneficiario intrinsecamente debole e senza potere di influenza, che dovrebbe essere nulla per le teorie classiche, mentre nella realtà è significativa se esiste qualcosa come una ideologia organizzativa condivisa (si pensi a imprese non profit, o anche profit ma visionarie). Oltre che gli esperimenti di laboratorio, tale nuovo filone di studi consente di dare spiegazioni razionali e predizioni convincenti circa fenomeni del mondo reale quali a) l’erroneità di certi meccanismi di remunerazione incentivante, che distruggono la disponibilità autonoma dei collaboratori a offrire prestazioni di lavoro basate sulla fiducia, a causa del crowding out effect (cioè lo spiazzamento delle motivazioni intrinseche per effetto di quelle estrinseche, il che alla fine aumenta il costo per l’impresa dell’ottenere le medesime prestazioni che potrebbero essere ottenute spontaneamente). b) L’incentivo perverso che può essere associato a molti piani di stock options, anche al di là dei tempi e delle modalità di realizzazione tecniche. L’aspetto di fondo è che l’allineamento dei manager con gli interessi proprietari anziché con i doveri fiduciari verso gli stakeholder distrugge motivazioni etiche e induce comportamenti egoistici che alla lunga producono effetti negativi di distruzione di valore anche per gli azionisti (sotto condizioni di discrezionalità e manipolabilità dell’informazione da parte del management, degli amministratori, degli analisti e revisori). 13 c) La presenza di motivazioni intrinseche al lavoro, legate alla missione o alla visone etica di impresa oltre che alla remunerazione materiale, il che spiega perché nel settore non profit esista maggiore produttività a salari inferiori rispetto al settore pubblico e privato a parità di settore (nei servizi sociali ) In generale questo filone di studi dimostra come la produttività del lavoro possa essere aumentata da una leadership etica nel senso definito. La spiegazione data dalle preferenze conformiste è che, grazie alla condivisone dei valori, in quanto basati sull’ideale del contratto sociale costitutivo dell’impresa, fintanto che le aspettative di reciproca conformità vengono confermate, il lavoratore agisce in modo perfettamente razionale secondo modalità che prima facie sembrerebbero irrazionali, in quanto non rette dall’egoismo razionale. Cioè offre più sforzo di quanto gli incentivi materiali o i meccanismi di sorveglianza non potrebbero indurre a credere. Ma può ridurre l’offerta di impegno/sforzo proprio in presenza di incentivi economici mal congeniati e di meccanismi di sorveglianza mal posti. Al contempo spiega anche il terribile rischio di perdita di reputazione e fiducia per l’impresa, che può andare ben la di là di quanto si potrebbe precedere alla luce dell’entità del danno materiale subito dagli stakeholder per una pratica scorretta o ritenuta immorale. Molti effetti negativi per l’impresa non hanno a che fare con l’attesa di danni materiali da parte del collaborare o lo stakeholder, ma dal fatto che sono le sue preferenze morali a esse insoddisfatte, il che porta a sanzioni reputazionali e disaffezione. Tutto ciò spiega poi comportamenti che in altri contesti sono stati veramente impressionanti, come il crollo e la cancellazione per fallimento del titolo di Artur Andersen a Wall Street (per effetto della caduta di reputazione legata al suo coinvolgimento negli scandali Enron e altri). Ma in questi termini si possono anche interpretare le campagne di boicottaggio, il consumo equo e solidale, o genericamente responsabile, la finanza etica e i loro riflessi sul clima interno di lavoro nelle imprese 7. Alcune prospettive di lavoro. Qui di seguito si elencano alcuni problemi pratici che potrebbero essere utilmente collocati nell’agenda dei top manager e dei loro capi del personale, qualora essi intendessero prender sul serio la domanda di legittimità morale dell’autorità e della leadership a) I codici etici di impresa, sono solo una materia da ufficio legale (231) per “tenersi al largo da guai” oppure sono l’occasione per creare il contratto sociale tra le persone? Quale è lo schema di un codice etico di impresa in grado di assicurare legittimità morale all’esercizio della leadership, nella gestione delle RU in particolare e dell’ autorità organizzativa in genere? b) Quali sono i lineamenti di un codice etico professionale del “capo del personale” nell’affrontare le scelte più dolorose di riorganizzazione come le delocalizzazioni produttive? Quali sono i vincoli propri della sua professione? Cosa implica per il profilo di CSR dell’impresa di cui egli fa parte? c) La formazione etica in impresa e le competenze morali dei leader: Quali sono le competenze morali che occorrerebbe formare in un capo? Devono favorire l’autonomia morale dei collaboratori o plasmarne il loro carattere con una forma di novello catechismo aziendale? Che rapporto tra l’etica e le regole aziendali, le regole 14 possono essere interiorizzate come accettate volontariamente (è equo il contratto sociale implicito?). d) Utilità intrinseca e incentivazione: in che modo e in quali contesti gli incentivi condizionati ai risultati possono essere vantaggiose o perverse in termini di risposta da parte dei collaboratori (in termini di sforzo) alla luce di una analisi della complessità motivazionale ? e) Etica, remunerazioni intrinseche e incentivi: si può pagare per l’etica senza pervertire le motivazioni intrinseche e l’adesione volontari? Come si premiano i comportamenti virtuosi? Come si premia il raggiungimento di obbiettivi di CSR? L’importanza dei premi di gruppo e di evitare messaggio contraddittori come premiare i furbi e coloro che non ottengono gi obbiettivi rispettando le regole e i valori. Questi temi partici dovrebbero essere affrontati dai capi del personale se è chiaro, come ho cercato di dimostrare, che non è vero soltanto che l’etica dell’accordo tra gli stakeholder offre una legittimazione morale all’autorità manageriale e alla leadership – senza la quale quella funzione professionale è vuota, ma è vero anche che una leadership etica nel senso detto è una componente essenziale stessa della professionalità di chi dirige le persone in vista di uno scopo organizzativo condiviso. Essa infatti valorizza le motivazioni morali dei collaboratori e ottiene spontaneamente da loro un apporto e un contributo superiore che nel caso in cui essi siano disprezzati (o anche cinicamente “apprezzati”) come agenti egoisticamente ristretti alla ricerca del loro mero vantaggio materiale. Bibliografia rilevante Aghion P., Tirole J. (1997), “Formal and Real Authority in Organisations” Journal of Political Economy, vol. 105, n.11. pp.1-29. Aoki M (1984), The Cooperative Game Theory of the Firm, Oxford U.P. Blair. M and L. Stout (1999) “A Team Production Theory of Corporate Law”, Virginia Law Review, Vol. 85, No. 2 Bowie M. (1999), Business Ethics: a Kantian Perspective, Oxford, Blackwell. Clarkson M.C. (1995) “A stakeholder framework for analyzing and evaluating corporate social performance”, Academy of Management review, 20, 1, pp.92-117. Donaldson T. (1989), The Ethics of international business, Oxford University Press, N.Y. Donaldson T., L. 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