Relazione - Econometica

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IL CONTRATTO SOCIALE TRA GLI STAKEHODLER
DELL’IMPRESA ALLA BASE DELLA LEADERSHIP ETICA, CIOÈ
L’AUTORITA’ MANAGERIALE LEGITTIMA
di Lorenzo Sacconi
(Università di Trento ed EconomEtica)
1. Leadership, autorità legittima ed etica.
La leadership, anche nella conduzione delle persone in una attività di impresa, non è puro
comando, ma autorità. Essa richiede sempre di essere legittimata da chi vada ad essa
soggetto, e che quindi accetta di seguire le indicazioni di chi è in posizione di autorità.
Si può interpretare, come succede certe volte in economia, tale legittimazione come semplice
accordo contrattuale circa una prestazione di lavoro in cambio di una remunerazione, ma
così si va poco lontano nella comprensione del ruolo di un leader all’interno di un gruppo di
persone che lavorano continuativamente per un lungo periodo assieme, e nel quale egli dà
indicazioni che favoriscono il coordinamento e la cooperazione nel raggiungimento di scopi
o obbiettivi, promuove lo sforzo, esercita un certo grado di discrezione e adattamento
flessibile alle varie contingenze, promuove l’innovazione e al contempo il “lavoro in team”
ecc.
Quale sarebbe la differenza con un contratto di vendita di un servizio, tra soggetti del tutto
indipendenti, in cui non compare affatto una posizione di autorità, un ruolo guida o una
leadership?
La differenza sta nel fatto che nel caso della leadership sono in gioco valori e interessi che
vanno al di là dello scambio tra una prestazione prefissata e un pagamento della prestazione ,
e che hanno proprio a che fare con le forme dell’azione collettiva, della cooperazione e del
coordinamento, non riducibili all’azione individuale e allo scambio tra parti indipendenti, e
invocano le ragioni per cui un gruppo di persone dovrebbe accettare di farsi guidare da un
leader investito dell’autorità di chiedere loro di svolgere compiti e azioni che essi non
possono aver contrattato ex ante in ogni dettaglio.
L’ autorità consiste nella possibilità di prendere decisioni all’interno di una certa sfera,
senza che esse vengono una per una messe in discussione dai membri del gruppo, e che al
contrario vengono accettate nel loro assieme e per un certo periodo dagli altri membri del
gruppo proprio in virtù dell’accettazione della relazione di autorità col leader.
In sostanza l’autorità è una delega a decidere, che si basa su una accettazione preventiva,
grazie alla quale tali decisioni delegate saranno effettivamente eseguite dai membri del
gruppo.
A sua volta tale legittimazione è una decisone che deve essere spiegata . Bisogna quindi
ricostruire le ragioni dell’accettazione dell’ autorità che non possono essere semplicemente le
ragioni in base alle quali si discuterebbe ogni singola decisione. Se così fosse il leader non
avrebbe affatto una posizione di leadership o di autorità, dovrebbe anzi negoziare ogni singola
decisione. Così la legittimazione deve essere data in termini di ragioni per rinunciare a
discutere ogni singola decisione e accettare su una base fiduciaria la funzione del leader entro
un certo ambito di scelta discrezionale.
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Ma per quali ragioni? Diciamo che per rimettere in capo all’autorità il diritto di prendere un
certo insieme di decisioni, alla cui esecuzione altri devono concorrere, occorrono ragioni più
fondamentali, che hanno a che fare con la possibilità di risolvere in tal modo, a nostro stesso
vantaggio, problemi di cooperazione o coordinamento che non riusciremmo altrimenti a
risolvere (ad esempio mantenendo azioni separate e del tutto indipendenti). Perciò l’autorità, o
il leader di un gruppo, in ultima istanza è tale poiché le sue funzioni servono al gruppo stesso
che gli riconosce la delega a decidere.
Di queste ragioni l’etica è componente essenziale. Essa offre ragioni morali per accettare la
relazione di autorità, che si manifestano nel caso in cui tali ragioni siano imparziali, nel senso
di applicare imparzialmente un qualche valore o criterio, ovvero riconoscere che l’autorità
garantisce un beneficio o un valore che tocca imparzialmente tutti coloro che danno fiducia al
leader stesso.
Ancora una volta è difficile capire tutto questo in un’impostazione puramente finanziaria
dell’impresa, dove l’unico scopo è creare valore per gli azionisti , mentre tutti gli altri fattori e
relazioni sono meri mezzi (incluse le persone, le quali appaiono solo come risorse da
impiegare efficientemente per creare valore per gli azionisti).
Se tutti gli altri oltre gli azionisti sono puri mezzi, essi danno il loro lavoro in cambio di un
salario e nulla più. Ma se non ci fosse null’altro - come ad esempio un’adesione o una fiducia
in relazione a un benefico associato alla funzione del leader - una volta che il salario fosse
garantito, non si vede perché essi dovrebbero accettare di seguire le indicazioni del capo,
specie in organizzazioni in cui il controllo dell’osservanza può non essere automatico e fiscale
e in cui l’autonomia e la delega si diffondono inevitabilmente lungo i rami
dell’organizzazione, rendendo difficile una verifica puntuale dell’esecuzione degli ordini..
Al contrario l’impresa va intesa secondo l’analogia col team (squadra) cioè l’idea della
produzione congiunta tra diversi soggetti, apportatori di investimenti in grado di generare un
surplus di valore, che hanno perciò legittimi interessi in relazione all’esito della
cooperazione, e condividono almeno in parte gli scopi dell’azione congiunta.
Ciò non intende mettere in ombra in modo pusillanime il conflitto tra gli interessi, che esiste
sempre nelle organizzazioni, sia tra membri del team sia tra dipendenti e datore di lavoro.
L’impresa è un sistema di interazione in cui sono presenti al contempo conflitto e
cooperazione e in cui la soluzione del conflitto può essere raggiunta grazie a un accordo
equo di mutuo vantaggio su un certo assetto di governo e su una strategia, o piano di azione
congiunta, intesi come pre-condizioni della possibilità di cooperare e coordinasi in modo da
generare nuovo valore. In un tale sistema di conflitto e cooperazione simultanei, ogni
partecipante è un mezzo per il perseguimento dello scopo altrui (in questo senso coopera al
raggiungimento dello scopo altrui) ma è contemporaneamente un fine, nel senso che la
cooperazione altrui serve al perseguimento del suo fine.
2. La fondazione kantiana dell’etica della leadership e l’approccio degli stakeholder.
Le legittimazione morale della leadership perciò presuppone il riconoscimento
a) dell’ eguale status di agenti morali ai collaboratori (insieme agli altri stakeholder come
diremo tra breve) , cioè lo status eguale di fini e non di puri mezzi, di depositari di
diritti e di altre caratteristiche morali, e non mero strumento per perseguire fini o diritti
diversi da loro.
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b) che la legittimazione di chi è in posizione di autorità e aspira alla leadership sia
fondata su scopi e valori che appartengono imparzialmente alla sfera degli interessi,
dei valori e dei fini di coloro che esprimono tale giudizio, cioè il giudizio di coloro che
accettano la relazione di autorità e ne vanno quindi soggetti.
In negativo questo implica che l’etica della leadership nella sfera delle “ risorse umane” non
può essere strumentale, un semplice modo efficace per motivare o acquisire l’osservanza o
l’adesione dei collaboratori per scopi e fini del tutto diversi dai loro scopi e fini.
Parlare di etica nella gestione delle risorse umane come mezzo per massimizzare il valore per
gli azionisti, può essere un modo con il quale si cerca di captare la benevolenza di proprietari
sordi ed egoisti, ma è un paradosso, poiché contraddice la nozione stessa di etica delle risorse
umane , in quanto appunto le considera mezzi per uno scopo o un valore altro da loro.
Paradosso doppio, perché così formulata la questione non rafforza la leadership, cioè non dà
legittimazione morale, né consenso (perché dovrei legittimare in base a un criterio che mi
considera un mero mezzo e non mi riconosce la dignità di agente morale?). Sempre in
negativo, quanto sopra affermato implica che l’ “etica delle gestione delle risorse umane”
non può essere un’ etica dall’alto, un mera richiesta di osservanza di regole date dal vertice. E
nemmeno un’etica della virtù, nel senso dell’adesione a un’idea di eccellenza data dalla
gerarchia, solo apparentemente naturale, ovvero dall’appartenenza a una data comunità: il
mestiere, la professione, l’organizzazione ecc.
Non che la conformità e l’osservanza non siamo importanti nell’etica organizzativa, ma solo
dopo che i principi etici di legittimazione della leadership siano stati riconosciuti come
termini di mutuo accordo da parte di ciascun agente morale, posto così ugualmente in grado di
esercitare la sua autonomia razionale. Quindi solo dopo che l’accettazione dell’autorità sia
espressa via ragioni per lui/lei, in quanto soggetto in grado di stabilire per via di accordo i
fini e le regole in base alle quali egli partecipa al sistema di cooperazione.
In positivo, d’altra parte, molto aiuta l’approccio degli stakeholder, secondo cui l’impresa è
una costellazione di portatori di interessi, strategicamente coinvolti dalla conduzione
dell’impresa, e i cui interessi e aspettative dipendono in modo essenziale da essa, e dalla cui
cooperazione dipende la possibilità stessa per l’impresa di creare nuovo valore, valore al
quale, in modi differenti, tutti i stakeholder sono interessati.
Inoltre per gestire tali interessi e queste relazioni, l’approccio degli stakeholder ci insegna che
chi governa l’impresa non può che riconoscere status morale agli stakeholder. Gli
stakeholder sono (secondo i casi e i punti di vista) agenti o pazienti morali della conduzione
dell’impresa, in ogni caso portatori di diritti cioè di legittime pretese , che possono talvolta
confliggere tra loro e quindi si limitano l’un latra, ma che ciò nonostante devono essere
trattati secondo l’imperativo categorico kantiano (di cui ricordiamo due versioni “adattate”):

non trattare nessuno (stakeholder) come un mero mezzo ma sempre anche come un
fine a sé;

la società (cioè l’impresa come costellazione di stakeholder) sia sempre vista come un
“regno dei fini”, tale che ognuno (stakeholder ) possa essere oltre che suddito della
legge (morale) anche suo proprio legislatore.
E’ bene ricordare che la seconda formulazione significa che la scelta razionale di ciascuno
stakeholder deve stare alla base delle regole dell’impresa, cioè essa deve essere frutto
dell’autoregolazione degli stakeholder. Ciò non rifiuta la leadership e la stessa autorità, ma
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pretende che la legittimazione dell’autorità abbia le caratteristiche che abbiamo detto, cioè sia
fondata su una scelta degli stakeholder e su ragioni morali con le quali ci si riferisce al
trattamento imparziale di valori o interessi degli stessi stakeholder.
Secondo l’approccio degli stakeholder il fatto di rientrare in una “comunità” (di mestiere,
professionale, organizzativa o locale) non è condizione sufficiente di accettazione di una
“concezione del bene” di per sé in grado di generare un’idea di virtù e di eccellenza, che si
imporrebbe di per sé come auto-remunerativa.
Questo è il modo neo-tomista di derivare l’etica di impresa: data la “natura” dell’impresa
come “organismo” dotato di una “causa finale” , ne discendono modelli di eccellenza per
ciascun ruolo, che altro non sono se non i fini interni di quell’organismo; quindi ne consegue
il dovere di conformità per ciascun membro, ove per aggiunta il membro non può che essere
felice della propria posizione interpretata secondo retta virtù, poiché ciò gli contente di agire
secondo il finalismo interno della pratica, e quindi di raggiungere la “felicità”, che in questo
caso non ha molto a che fare con la soddisfazione di preferenze o di interessi dello
stakeholder. Ma è un modo incompatibile con l’approccio degli stakeholder.
Al contrario il termine di riferimento sono gli stakeholder e i loro interessi e valori. Così la
comunità di impresa o professionale e di mestiere non può imporre un’etica dell’eccellenza
separata dall’accordo tra gli stakeholder. La comunità (quella di impresa più delle altre, ma
non dimeno anche le comunità famigliari, le associazioni e le chiese) è in effetti un prodotto
artificiale dell’accordo, e quindi genera richieste di conformità ai valori condivisi solo una
volta che la comunità (o almeno la decisione di appartenervi) sia stata generata attraverso un
contratto sociale equo.
Così come non esistono leggi morali naturali che dettano i fini e le regole delle varie
comunità (esistono bensì leggi fisiche, chimiche e biologiche naturali ma non leggi morali
della natura indipendenti dalle scelte, dai valori, dagli interessi e dalle passioni e dalle
valutazioni umane), così non esiste una legge morale naturale dell’impresa. Possono
certamente esistere norme etiche fondamentali accettabili da tutti, ma questo richiede che
esse siano identificate tramite una costruzione umana, cioè attraverso l’accordo proprio su
quei principi che chiunque riconoscerebbe razionalmente come accettabili, e per raggiungere
un tale accordo generale occorre svestire i panni di ciascuna identità personale, professionale,
di classe, culturale politica, o religiosa e mettersi dal punto di vista di chiunque, il quale non
dimeno sia in grado di riassumere in sé ciò che c’è di invariante rispetto al punto di vista di
ciascuno separatamente preso.
Che tali principi esistano è possibile e desiderabile, per sapere quali essi siano però possiamo
solo provarli attraverso il test dell’accordo e quindi del consenso razionale, non forzato e
informato da parte di altri partecipanti al dialogo che, sebbene possano essere portatori di
interessi e concezioni dl bene differenti dalle nostre, siano nondimeno spinti
fondamentalmente da un’ analoga preoccupazione per il consenso e l’accordo razionale.
Così l’approccio etico alla teoria degli stakeholder, che fonda la leadership nell’impresa,
esattamente come l’etica contrattualista che fonda l’autorità politica, per definizione non
ammette che la giustificazione morale di una istituzione si regga sul principio di autorità.
Non vi può esser un’istituzione gerarchica (sia essa un’impresa, un’amministrazione pubblica
o anche una chiesa) il cui vertice pretenda di parlare in base a un’autorità morale assoluta,
senza che ciò distrugga l’idea stessa di principi morali universali, che possono essere solo
basati sulla razionalità imparziale dell’accordo tra agenti morali uguali.
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Al contrario a partire dai principi etici trovati per via di accordo possiamo rintracciare le
ragioni morali in nome delle quali una data autorità (politica o organizzativa o religiosa) può
essere legittimata imparzialmente. Insomma la direzione della giustificazione va dall’accordo
imparziale tra agenti morali uguali all’autorità e alla gerarchia (che ne risultano giustificate
funzionalmente) e non viceversa.
3. La responsabilità sociale dell’impresa nella prospettiva del contratto sociale tra gli
stakeholder e la corporate governance moralmente legittima
L’approccio dell’accordo tra gli stakeholder offre anche una prospettiva più chiara e fondata
per intendere la “responsabilità sociale dell’impresa”: con “corporate social responsibility” si
intenderà allora non la mera azione filantropica dell’impresa, la quale tipicamente può essere
addirittura criticabile se essa avviene non con le ricchezze private dei singoli imprenditori ,
ma con le risorse dell’impresa stessa (prima che siano distribuite come reddito agli
azionisti), bensì un modello allargato di governo dell’impresa.
Secondo tale modello chi governa l’impresa non solo deve adempiere a doveri fiduciari nei
confronti della proprietà d’impresa, ma anche ad analoghi doveri fiduciari nei confronti di
tutti gli stakeholder (tra cui gli shareholder hanno una posizione importante ma non di
speciale privilegio nei confronti di altri stakeholder essenziali, come i collaboratori, i
consumatori, i partner, i fornitori , la comunità circostante ospitante le attività dell’impresa
ecc.)
Il governo allargato ha alla sua base un’idea più fondamentale di etica di impresa, grazie alla
quale il conflitto distributivo tra gli stakeholder viene affrontato e risolto, e che si riallaccia
alle formulazioni date in precedenza dell’imperativo categorico. E’ l’idea del contratto sociale
dell’impresa, cioè dell’accordo di mutuo vantaggio negoziato in una prospettiva imparziale e
impersonale, tra tutti gli stakeholder per rendere possibile quell’ iniziativa cooperativa che è
appunto l’impresa.
Una forma di governo nella quale chi ha autorità ed esercita leadership sia accountable di
fronte agli stakeholder , non può che dipendere dal fatto che quella stessa autorità e
leadership abbia nel contratto costitutivo tra gli stakeholder la sua origine e fonte. Così come
la filosofia politica della modernità ha identificato nel contratto sociale generale le basi e la
fonte di legittimità dell’autorità dello Stato e dell’ordinamento costituzionale, così il contratto
sociale dell’impresa produce una forma moralmente legittima di governo dell’impresa e
quindi una base morale per l’autorità manageriale.
Attenzione però, non stiamo parlano di una pubblicizzazione dell’impresa. È invece il
contratto sociale tra quella costellazione di portatori di diritti e interessi che sono tipici di
ciascuna impresa in quanto ne formano gli stakeholder rilevanti: da quel contratto sociale
derivano i doveri fiduciari che devono essere adempiuti dalla conduzione dell’impresa, esso
definisce gli interessi in nome e per conto dei quali l’impresa deve essere condotta.
4. Responsabilità sociale VS massimizzazione del valore per gli azionisti?
L’idea di contratto sociale risolve anche la questione del conflitto tra “valore per gli
stakeholder” e “shareholder value maximization”.
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Ci sono vari modi di addomesticare questo problema, che però sfuggono alla questione
centrale, e che cercano sempre di mostrare che il valore per gli stakeholder sia implicato da
quello per gli shareholder. A tale proposito la visione finanziaria dell’impresa, anche la più
illuminata, cerca di dimostrare che, se perseguito nel lungo periodo, il valore per gli
shareholder implicherebbe anche il benessere per gli stakeholder. Dunque degli stakeholder
sarebbe superfluo occuparsi direttamente, sarebbero un’implicazione (un mezzo)
dell’obbiettivo principale dell’impresa (massimizzazione del valore per gli azionisti). Tale
idea è correlata con quella secondo cui la cura morale degli interessi degli stakeholder (ad
esempio i collaboratori) dovrebbe essere vista come un mezzo per il fine della
massimizzazione del valore degli shareholder. Purtroppo nessuna di queste idee è fondata.
Il modello di contratto sociale suggerisce invece che il valore per gli stakeholder include
quello per gli shareholder, ma non viceversa.
Il contratto sociale può essere visto come la soluzione di un problema di contrattazione ideale
tra gli stakeholder, volto al loro mutuo vantaggio, cioè alla creazione efficiente del massimo
possibile di ricchezza compatibile con la sua distribuzione equa e quindi con la possibilità di
ottenere l’accordo volontario alla cooperazione necessario per produrla.
Sotto tale accordo ideale tutti gli stakeholder massimizzano i loro benefici compatibilmente
col vincolo che ciò permetta anche la massimizzazione dei benefici per gli altri. Un vincolo
che, per altro, è implicito nella natura cooperativa dell’impresa. La cooperazione volontaria
degli altri stakeholder è necessaria alla massimizzatine dei benefici di ciascuno di essi.
Se si riconosce tale struttura cooperativa, la massimizzatine del vantaggio di ciascuna parte
non può che essere vincolata dalla massimizzazione del vantaggio altrui. Infatti, trattandosi
l’impresa di un gioco a interessi misti, in cui il conflitto non è a somma-zero, la produzione
di valore funzionale alla massimizzatine dell’interesse di ciascuno stakeholder dipende dalla
cooperazione di tutti gli altri e quindi dal loro accordo che sarà ovviamente condizionato dalla
possibilità di ottenere una compatibile e similmente vincolata massimizzazione della
soddisfazione dei propri interessi. Si capisce allora come rispettare il vincolo della reciproca
possibilità di massimizzare gli interessi dei vari stakeholder sia razionale per
il
perseguimento dell’obbiettivo (di profitto o altro) di ciascuno stakeholder singolarmente preso
(shareholder incluso).
Insomma dal generale al particolare, ma non viceversa. Infatti, il mero perseguimento
dell’interesse unilaterale di uno stakeholder, ad esempio il profitto o lo shareholder value
(ma ovviamente anche il salario visto come “variabile indipendente”), non necessariamente
permette la soddisfazione degli stakeholder. Sono a tutti noti i paradossi dell’egoismo
razionale, nei quali la massimizzazione del benessere individuale di ciascuna parte genera
danno per tutti.
Per altro nemmeno se il perseguimento egoistico dell’interesse di una parte (ad esempio il
profitto o lo shareholder value) è visto nel lungo periodo, c’è garanzia di coincidenza con il
valore per tutti gli stakeholder: infatti occorrono molte altre ipotesi oltre al lungo periodo
perché il perseguire il proprio interesse illuminato, che può generare valore anche per gli
altri, possa sopravanzare con certezza il miope egoismo anche dal punto di vista dell’ egoista
stesso (perché naturalmente che un approccio di lungo periodo sia migliore dal punto di vista
dell’interesse generale degli stakeholder è ovvio)
In caso contrario, in presenza di asimmetria dell’informazione, incompletezza contrattuale,
abuso nell’esercizio di autorità e discrezione, è possibile rinviare sine die la coincidenza tra i
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due interessi. Si può invece veder prevalere, anche in forme sofisticate e truffaldine, quello
che chiamiamo abuso di autorità, cioè l’opposto della legittimazione morale della leadership.
Alla lunga, ovviamente, condotte socialmente irresponsabili distruggono il valore degli
azionisti, oltre che quello per gli altri stakeholder, ma quanto deve essere lungo questo
periodo? I casi di Parmalat, Enron etc non sono durati abbastanza a lungo? E quanto
avrebbero potuto durare ancora in assenza delle contingenze che hanno portato a rivelare la
truffa?
Per capire come stiano le cose a proposito della convenienza della CSR dal punto di vista di
un’impresa che intenda perseguire prima di tutto o solo la massimizzazione del valore per i
proprietari, le cose purtroppo non sono così semplici come certi propagandisti del valore per
gli azionisti (non so se bene intenzionati) vorrebbero far credere. Per capirlo dobbiamo fare
ricorso ad alcuni concetti di microeconomia e di teoria dei giochi.
In sostanza, adottare (dal punto di vista egoistico) una strategia socialmente responsabile non
è un strategia dominante, cioè migliore per l’impresa indipendentemente dalla condotta altrui,
poiché che se lo stakeholder fosse male informato o manipolato, incapace di reagire o
confuso, o non in grado di distinguere i comportamenti meritevoli di fiducia da quelli non
meritevoli di fiducia, allora una strategia irresponsabile oppure solo apparentemente
responsabile potrebbe dare risultati egoisticamente migliori.
D’altra parte una strategia irresponsabile sarebbe “razionale” contro stakeholder che non
dessero affatto fiducia e non cooperassero affatto con l’impresa - si tratterebbe appunto di un
esito in equilibrio e quindi di un caso drammaticamente persistente di irrimediabile sfiducia e
mancanza di collaborazione tra impresa e società circostante, il che certamente implicherebbe
che l’impresa rimanga un’istituzione sociale marginale, destinata a non raggiungere le sue
dimensioni ottimali.
Una strategia socialmente responsabile invece è una strategia di equilibro cioè razionale nei
confronti di stakeholder che la premiano con maggior fiducia e cooperazione; e in effetti la
CSR in quanto rispetta doveri fiduciari accresce la fiducia nelle relazioni, riduce i costi di
transazione e migliora il grado di cooperazione con tutti gi stakeholder. Così se l’impresa è
SR tale strategia provvede da sé stessa al suo sostegno nel senso che è auto-remunerativa e
assicura un incentivo alla sua attuazione e prosecuzione.
Indubbiamente l’equilibrio in cui una strategia di CSR si incontra con la cooperazione e la
fiducia da parte degli stakeholder è la soluzione migliore per tutti (la più efficiente nel senso
del benessere generale) ma non è l’unico equilibrio possibile. Ci sono ahimé molti equilibri.
Alcuni socialmente buoni, altri pessimi (come quello in cui ad esempio la mancanza di ogni
cooperazione tra imprese e stakeholder porta alle soglie della distruzione ambientale del
pianeta) - cioè molte combinazioni di strategie tra imprese e loro interlocutori che in quanto
risposte ottime sono tutte razionali finché intendiamo la razionalità come ristretto
perseguimento del vantaggio egoistico sia pure nel lungo periodo.
Il problema è quindi in che modo l’impresa, le istituzioni pubbliche e quelle della società
civile facilitano l’emerge e la selezione dell’equilibrio migliore. L’adozione di standard
volontari ma espliciti e condivisi di gestione socialmente responsabile, che permettono
l’approvazione e migliorano la comprensione e l’informazione sulla condotta dell’impresa da
parte degli stakeholder e al contempo consentono all’impresa di assumere impegni credibili
alla luce dei quali essa può essere giudicata e può accumulare buona (o cattiva) reputazione,
nonché forme di valutazione, monitoraggio e certificazione e indipendente da parte della
società civile - sono tutti fattori che aumentano i benefici reputazionali per l’impresa associati
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all’adozione di una strategia di CSR e al contempo aumentano la probabilità che di fronte a
una tale strategia gli stakeholder si fidino, ma sanzionino al contrario strategie non
responsabili. Dunque facilitano l’emergere dell’equilibrio sotto il quale all’impresa conviene
adottare una condotta SR e agli stakeholder conviene premiarla con la loro fiducia e
cooperazione.
In sostanza dire che la CSR fa guadagnare in assoluto di più gli azionisti sarebbe falso e
fuorviante: c’è modo di guadagnare di più, se con l’inganno e con la frode si riesce a inibire
per lungo tempo la reazione degli altri stakeholder. Si può tuttavia dimostrare che
l’apprendimento, la diffusione dell’informazione e le motivazioni morali degli stakeholder
possono punire tale condotta talvolta anche in misura superiore di quanto risulterebbe dal
mero calcolo dei vantaggi materiali e delle convenienze.
Al contrario “la CSR conviene” condizionatamente al fatto che l’impresa adotti principi e
norme di comportamento, sistemi di gestione, di rendicontazione e di certificazione
indipendente, forme di dialogo e coinvolgimento degli stakeholder tali che si formi
l’aspettativa generale di una condotta socialmente responsabile e una ragionevole certezza sul
fatto che essa sarà messa in atto, di modo che la risposta degli stakeholder dell’impresa sia
cooperativa e mutuamente vantaggiosa.
Si vede perciò la difficoltà di chi voglia giustificare l’etica di impresa solo nella prospettiva di
un soggetto egoisticamente rivolto al suo vantaggio, sia pure di lungo di lungo periodo. Egli
deve adottare strumentalmente una visione etica delle relazioni con i suoi stakeholder ma
rendere credibile tale impegno. Tuttavia è del tutto ovvio che se egli non ha una chiara
comprensione del suo valore intrinseco, delle ragioni morali per agire in base ad esso, tale
credibilità sarà assai minore. Un approccio meramente strumentale alla responsabilità sociale,
che cioè non si basi sulla esplicita adesione all’idea di contratto sociale imparziale e di
relazione fiduciaria tra governo di impresa e stakeholder, induce il timore che
occasionalmente l’impresa possa deviare da esso, quando ciò è conveniente, e quindi non è un
buon affare neppure dal punto di vista strategico.
In conclusione solo se si persegue esplicitamente e volontariamente, sulla base di una chiara
affermazione di principio e di un conseguente committment, il valore per gli stakeholder
(piuttosto che l’unilaterale shareholder value, sebbene di lungo periodo) vi è una buona
probabilità di poter in tal modo selezionare un equilibrio che premia l’impresa e i suoi
azionisti o proprietari con i benedicici di lungo periodo della cooperazione degli stakeholder.
La responsabilità sociale dell’impresa è una strategia conveniente solo se essa è perseguita
prima di tutto per ragioni diverse dalla mera convenienza egoistica (anche se illuminata). Una
condotta moralmente giustificata può generare gli incentivi privati che sostengono la sua
messa in pratica, ma le ragioni che la identificano (il calcolo dei costi e dei benefici che si
intendono produrre) e per cui essa viene perseguita devono essere primariamente date in
termini di ragioni morali e di benefici imparziali.
5. Contenuti e sfide all’etica della gestione delle risorse umane.
Visto nella prospettiva delle “risorse umane”, il contratto sociale dell’impresa è la scelta
ipotetica con cui anche coloro che vanno soggetti all’autorità e alla gerarchia nell’impresa (i
collaboratori) decidono di accettarla , a condizione che essi siano rispettati nei loro diritti di
base, non discriminati nei processi di decisone, resi equamente partecipi dei vantaggi, con
particolare attenzione agli investimenti in capitale umano.
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L’aspetto essenziale, spesso messo in ombra, è che l’investimento più specifico e al contempo
più in grado di generare surplus di valore, è quello in capitale umano (capacità, abilità,
competenze) e in capitale sociale, cioè nelle relazioni di fiducia interpersonali, che
necessariamente legano le persone con le altre persone nell’ambiente di lavoro e
nell’ambiente circostante. Tali investimenti generano un vantaggio se quelle particolari
relazioni vengono salvaguardate e vanno a buon fine, ma al contempo creano dipendenza da
quelle relazioni per il loro successo.
Siccome questi “capitali” sono spesso “specifici”, legati a particolari rapporti e relazioni, i
loro benefici, una volta fatto l’investimento, possono essere anche espropriati, cioè creano una
condizione di dipendenza che può essere sfruttata per rinegoziare opportunisticamente
l’allocazione dei benefici da coloro che hanno intrapreso gli investimenti a coloro che ne
influenzano il successo.
Quindi tali investimenti vanno soggetti alla fondamentale fragilità delle relazioni fiduciarie:
senza fiducia essi non vengono intrapresi e si rischia così di perdere una delle fonti
fondamentali di creazione di valore da parte dell’impresa (per tutti gli stakeholder). Di
conseguenza il contratto sociale che sta alla base dell’impresa, della delega di autorità e del
riconoscimento della leadership, include la protezione del valore di tali investimenti specifici
nelle relazioni di lavoro tra le persone che cooperano nell’impresa.
Si possono quindi suggerire alcuni aspetti e fasi di un codice morale della gestione del RU
basato sull’idea di contratto sociale:

all’avvio del rapporto: informazione il più possibile completa sulle caratteristiche del
lavoro, trasparenza sulle alternative e non discriminazione arbitraria nella selezione,

nella gestione del rapporto: non abuso delle asimmetrie informative, non abuso di
autorità nell’ambito della gestione della carriera, opportunità di formazione e sviluppo del
capitale umano e sua qualificazione, riconoscimenti del merito, valutazione del lavoro in
team (in cui è cioè difficile la misurazione dell’apporto individuale), riconoscimento di
situazioni di bisogno. Ancora, uguaglianza delle opportunità (donne) e non
discriminazione di razza,sesso e ideologia (immigrati, gay) nelle opportunità di
avanzamento; partecipazione al processo decisionale, accountability ed equità delle
procedure decisionali che riguardano il personale e le carriere.
Entrambe le fasi, quella ex ante e quella ex post , sono importanti per l’etica dei rapporti di
lavoro. E’ un errore perciò quello compiuto da certi illustri colleghi (ad es. Ichino) che
pensano che l’unica funzione importante del diritto dei contratti di lavoro sia proteggere le
parti poco informate al momento dell’avvio della relazione di lavoro. Si dimentica così il
rischio della ricontrattazione opportunistica, che può distruggere importanti investimenti
specifici.
I suddetti “articoli” dell’ipotetico contratto morale tra impresa e dipendenti sono tuttavia
sottoposti a tensione dalle sfide della conduzione dell’impresa nelle condizioni odierne di
competizione e internazionalizzazione , in breve
i.
delocalizzazioni e riorganizzazioni;
ii.
competizione per le risorse umane qualificate e capacità di trattenerle, per quel che
riguarda imprese a forte tasso di innovazione, in effetti non molto presenti in Italia, ma
tipiche di molte industry a livello internazionale (si pensi all’informatica, alle TLC o
alla farmaceutica);
9
iii.
alta flessibilità del mercato del lavoro (specie per quel che riguarda i giovani).
In tutti questi casi occorrerebbe che la leadership fosse basata sul rispetto del contratto sociale
implicito che sta alla base dell’organizzazione e della creazione dell’impresa come squadra.
In realtà è in presenza di questi casi di conflitto e competizione che si vede se un’impresa è
effettivamente accountable nei termini dell’osservanza di un contratto sociale implicito con
gli stakeholder. Ciascuna di queste sfide deve essere affrontata, ma al contempo può essere
affrontata in modo diverso, secondo che l’impresa intenda la sua accountability, e le basi della
legittimazione della leadership, in base al modello ristretto di governance oppure in coerenza
col modello allargato.
Ad esempio, è certamente nelle riorganizzazioni e delocalizzazioni che si vede se le
dichiarazioni di CSR da parte dell’impresa sono effettivamente fondate. Si tratta di vedere
cosa delocalizzare, per quali vantaggi, se ad esempio ciò accade solo per sfruttare un
differenziale salariale o un livello di sotto-protezione dei diritti (in violazione alle norme ILO)
che si riscontra in un PVS. E in presenza di quali politiche aziendali per sostenere la
diffusione dei diritti sociali nei paesi in cui l’impresa delocalizza gli impianti. Quale cura vi è
ad es. perchè nella catena delle forniture non si verifichino guadagni da ribasso dei costi
essenzialmente dovuti alla violazione di diritti umani negli stabilimenti fornitori delocalizzati?
Esiste, poi, un programma di collaborazione con le ONG del proprio paese e del paese di
destinazione volto a sostenere lo sviluppo dei diritti sociali dei lavoratori operanti negli
stabilimenti delocalizzati, in tal modo riducendo per il paese ospite l’onere dell’osservanza
di standard sociali più elevati, per i quali può non disporre dell’infrastruttura?
Questi temi pongono problemi effettivi nell’interpretazione a livello globale dell’idea di
giustizia sociale, poiché è evidente che non si tratta di applicare ovunque gli stessi schemi
remunerativi (lo stesso salario pagato a Calcutta e a Boston creerebbe gravi disuguaglianze
sociali a Calcutta). Tuttavia le idee di giustizia e di equità sono principi generale che hanno
interpretazioni locali diverse, ma che conservano uno stesso significato ovunque,
assolutamente riconoscibile come adeguato ai vari casi, specie se riguarda condizioni di
lavoro e di salario che permettano l’accesso uguale a beni principali essenziali e
l’acquisizione di capacità e livelli base di benessere, e se riguardano un livello non
oltraggioso di disuguaglianze. Anche se declinati variamente nel tempo e nello spazio, tali
concetti hanno un nucleo e un significato riconoscibile universalmente.
Inoltre, si può domandare: quali produzioni vengono delocalizzate e con quale ritorno su
quelle che vengono mantenute nel paese di origine ad esempio a maggior tasso di ricerca e
valore aggiunto? In particolare quale impegno alla protezione di investimenti specifici
precedentemente effettuati dagli stakeholder si attua nel paese di partenza? Esiste una
strategia, come in certi caso di maggior successo, volta a salvaguardare gli investimenti in
capitale umano e in capitale sociale (reti di relazioni) nel luogo di origine, attraverso il
finanziamento in questi ambienti della ricerca e sviluppo di nuovi prodotti e la
delocalizzazione delle produzioni mature a minor valore aggiunto, oppure semplicemente si
cerano le condizioni di massimo ribasso del costo del lavoro?
Insomma, esiste una strategia per rendere i processi di riorganizzazione e
internazionalizzazione mutuamente vantaggiosi, e quindi in grado di essere ricondotti alla
logica del contratto sociale (tra impresa e stakeholder nell’ambiente di partenza, tra impresa e
stakeholder nell’ambiente di approdo)? Oppure si tratta di azioni opportunistiche che
rompono di volta in volta i legami e sacrificano gli investimenti (degli altri) sulla base
appunto delle opportunità del momento?
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E poi, una volta che si sia giunti alla fase dolorosa dei tagli al personale, quale criterio di
imparzialità, oggettività ed equità è esercitato nella distribuzione dei costi e dei risarcimenti?
Quale rispetto del diritto di informazione, partecipazione e della possibilità di provvedere per
tempo a soluzioni alternative? Quale collaborazione con le istituzioni locali per creare
alternative produttive che consentano il riassorbimento della forza lavoro eccedente in attività
sostitutive. Spesso nei territori esistono reti di relazioni e competenze da esse sostenute, che
sono risorse, vero e proprio capitale sociale prezioso per una riconversione e recupero di
impianti e dei lavoratori ad attività alternative a quelle che vengono smobilitate
dall’abbandono di una impresa transnazionale. Ma se tali reti di fiducia vengono
definitivamente lacerate da comportamenti apertamente opportunistici allora tali risorse si
perdono per sempre.
Analoghe questioni si pongono per quelle imprese che, grazie alle riforme del mercato del
lavoro, sfruttino, a fianco delle più tradizionali forme di rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, le innumerevoli opportunità di flessibilità del lavoro. Quale cura è data al
problema essenziale di utilizzare tali forme essenzialmente per dare maggiore flessibilità in
entrata, senza tuttavia dimenticare che lo sviluppo deve essere in direzione di una maggiore
stabilità del rapporto, con la conseguente possibilità di riconoscere gli investimenti in capitale
umano specifico dei giovani, anziché mantenere una parte dei collaboratori in permanente
stato di precarietà? Eppoi quali politiche aziendali, con riferimento all’indotto delle piccole e
medie imprese, si intendono attuare per superare l’insopportabile contraddizione tra, da un
lato, l’impiego di lavoratori immigrarti con una forte propensione all’auto-sfruttamento e
dall’altro l’ostacolo alla loro integrazione, cui concorre certamente il fatto che essi non siano
in grado di contribuire ai costi della propria integrazione a causa dei trattamenti economici
svantaggiati ai quali sono sottoposti?
Il tema della competizione per le risorse umane più appetibili è il caso in cui la logica del
contratto sociale si applica più direttamente, poiché è evidente il mutuo vantaggio. Pone
tuttavia in modo diretto la necessità di rispettare i criteri di trasparenza ed equità, di
protezione dall’abuso di autorità e possibilità esercitare una partecipazione almeno parziale
alle decisioni sul lavoro, sia nella fase di acceso che in quella di gestione del rapporto, per
garantire l’investimento in capitale umano da parte del lavoratore al quale anche l’impresa ha
interesse.
Ma pone un problema ulteriore, ovvero che l’attrazione delle persone ad alto potenziale
richiede non solo la considerazione dei loro interessi materiali, ma anche la soddisfazione
delle loro preferenze morali o ideali circa i valori e le procedure dell’impresa (cioè criteri non
solo rivolti a sé stessi., ma anche agli altri..). E pone con particolare importanza il tema non
solo dell’uguaglianza di trattamento ma dell’uguale rispetto delle diversità, nel senso del
rispetto delle diverse concezioni del bene e dei diversi piani di vita (si pensi alle donne, ma
anche ai lavoratori di nazionalità e religione diversa rispetto a quella prevalente ecc.)
6. Il vantaggio competitivo dell’impresa la cui struttura di leadership sia moralmente
legittima e le preferenze morali dei collaboratori
Molto in questa nota è dedicato a evitare un’impostazione strumentale dell’etica della
gestione delle risorse umane, cioè a porre nei giusti termini la considerazione che le persone
in azienda sono agenti o pazienti morali. A questo punto si può tuttavia anche sottolineare il
vantaggio dell’etica delle risorse umane per gli altri stakeholder (inclusi gli shareholder) e per
l’impresa in genere.
11
Ovvero, intesa in senso proprio, una leadership basata su una legittimazione morale ottiene
molto di più in termini di apporto dalle persone, e quindi in effetti essa costituisce oltre che un
fine, anche un mezzo per generare maggiore valore per l’insieme dell’impresa. Detto che
l’etica ha a che fare con le persone come fini e non come mezzi, se ne può ora enfatizzare la
sostenibilità economica: proprio perché l’impresa è un sistema di cooperazione, l’etica della
leadership verso le persone genera un più elevato livello di cooperazione volontaria e quindi
maggiore creazione di valore per tutti gli stakeholder (shareholder inclusi).
Ciò che bisogna mettere a fuoco in questa parte è che le motivazioni umane (e quindi quelle
di chi lavora) sono “complesse”. Esse contengono certamente la componente egoistica volta
alla ricerca di utilità materiali e monetarie, ma limitare a questo la descrizione delle
preferenze sarebbe solo una grottesca caricatura economicistica del concetto di preferenza e
di utilità umana, che la migliore micro-economia non accetta più da tempo.
Bisogna invece rendere conto di fenomeni quali l’attrazione esercitata sui collaboratori da
organizzazioni che hanno una missione non puramente egoistica e che si impegnano
effettivamente a realizzarla, imprese che rispettano principi di giustizia e di equità nei
processi produttivi anche nella relazione con stakeholder esterni (catena delle forniture da
PVS), che hanno una relazione positiva con la comunità circostante, che abbiamo un sistema
di organizzazione del lavoro in cui possono fiorire relazioni umane ricche, cioè beni
relazionali ecc.
Tali organizzazioni registrano maggiore capacità di attrazione e fedeltà, e anche maggiore
disponibilità a svolgere il lavoro di team (che non può essere incentivato in modo fine con
incentivi individuali, proprio perché l’apporto e lo sforzo è associato alla dimensione
cooperativa del gruppo, che perciò presuppone la fiducia che nessuno nel team o nella
valutazione agisca opportunisticamente) e anche disponibilità al lavoro volontario per “buone
cause”, funzionali all’accettazione sociale dell’impresa, ma alla quale i collaboratori
intendono partecipare in proprio (ad es. tempo dedicato a volontariato co-promosso con
l’impresa).
L’aspetto interessante per l’economista è sfatare la convinzione che di questi comportamenti
non egoistici si debbano occupare le discipline minori, di rango inferiore nella gestione
dell’impresa, mentre ai piani alti si parlerebbe il linguaggio dell’economics, nel quale per
tutto ciò non vi sarebbe spazio. Solo l’ignoranza può indurre a credere che l’economics sia
solo finanza aziendale basata sulle ipotesi micro-economiche classiche dell’auto-interesse e
della massimizzatine del valore per gli azionisti. L’economia recente, alla luce della svolta
behaviorista e della sua interazione con la teoria dei giochi e con l’economia sperimentale,
mette la complessità delle motivazioni al centro dell’analisi del comportamento economico. E
ottiene ormai innumerevoli applicazioni nell’ambito dell’economia del lavoro (contratti),
della finanza, dell’organizzazione eccetera.
L’idea generale è rendere più complessa la nozione di preferenza economica coerente e quella
di utilità del consumatore, del lavoratore ecc., introducendo nuovi argomenti delle funzioni di
utilità espressi via ulteriori parametri o funzioni più complesse dei paramenti tradizionali.
Perciò in linea di massima si osserverà che l’utilità egoistica del salario o delle conseguenze
materiali per il singolo agente non sono che uno degli argomenti della funzione di utilità,
mentre esso viene affiancato da altri argomenti che rappresentano la componente ideale o
psicologica dell’utilità.
A tale proposito si potranno trovare modelli in cui viene inserito l’altruismo, oppure una
preferenza per la minimizzazione delle disuguaglianze, o per la gentilezza. In molti casi ci si
12
orienta a far dipendere la preferenza da una qualche forma di reciprocità del comportamento,
ovvero ad esempio da una misura della gentilezza reciproca nel modo col quale ciascun
agente tratta la controparte, in termini di distanza dall’utilità media possibile di questa ultima.
Ho dato un contributo a questa letteratura con l’idea di preferenze conformiste., secondo cui le
preferenze degli agenti economici (lavoratori, consumatori, investitori ecc.) contengono una
componente psicologica basata sul fatto che (i) se i membri di un’organizzazione hanno
partecipato (anche ipoteticamente) ad un accordo su un codice morale dell’impresa, (ii) se si
aspettano reciprocamente conformità ai principi del codice da parte degli altri partecipanti
all’organizzazione, (iii) se essi stessi si conformano, allora la conformità ai principi etici
concordati offre loro una componente aggiuntiva di utilità tale da controbilanciare l’incentivo
ad approfittare opportunisticamente dell’adesione altrui per non fare la propria parte. Se un
dato valore è stato affermato e accettato (concordato) allora c’è una preferenza per la sua
reciproca osservanza. E’ evidente la relazione tra questa versione dell’idea della complessità
motivazionale e quella del contratto sociale dell’impresa: è la reciproca conformità attesa al
contratto sociale che genera la nuova fonte di utilità (posto che essa sia associata a un
parametro disposizionale esogeno abbastanza elevato, cioè a un peso motivazionale dato alle
ragioni di conformità).
Queste spiegazioni sono supportate da abbondati risultati sperimentali sul comportamento
economico in laboratorio, ove si simulano varie situazioni di scelta, ad esempio

la decisone di contribuire a un bene pubblico, che è sempre superiore a quella nulla
predetta dalle teorie tradizionali;

la decisione di non accettare un ultimatum, la scelta di punire, anche se in modo costoso,
un comportamento iniquo, che sono sistematicamente maggiori rispetto a quelle previste
in base all’egoismo razionale che consiglierebbe acquiescenza in tali casi.

la decisone di agire in modo da avvantaggiare un terzo beneficiario intrinsecamente
debole e senza potere di influenza, che dovrebbe essere nulla per le teorie classiche,
mentre nella realtà è significativa se esiste qualcosa come una ideologia organizzativa
condivisa (si pensi a imprese non profit, o anche profit ma visionarie).
Oltre che gli esperimenti di laboratorio, tale nuovo filone di studi consente di dare spiegazioni
razionali e predizioni convincenti circa fenomeni del mondo reale quali
a) l’erroneità di certi meccanismi di remunerazione incentivante, che distruggono la
disponibilità autonoma dei collaboratori a offrire prestazioni di lavoro basate sulla
fiducia, a causa del crowding out effect (cioè lo spiazzamento delle motivazioni
intrinseche per effetto di quelle estrinseche, il che alla fine aumenta il costo per
l’impresa dell’ottenere le medesime prestazioni che potrebbero essere ottenute
spontaneamente).
b) L’incentivo perverso che può essere associato a molti piani di stock options, anche al
di là dei tempi e delle modalità di realizzazione tecniche. L’aspetto di fondo è che
l’allineamento dei manager con gli interessi proprietari anziché con i doveri fiduciari
verso gli stakeholder distrugge motivazioni etiche e induce comportamenti egoistici
che alla lunga producono effetti negativi di distruzione di valore anche per gli
azionisti (sotto condizioni di discrezionalità e manipolabilità dell’informazione da
parte del management, degli amministratori, degli analisti e revisori).
13
c) La presenza di motivazioni intrinseche al lavoro, legate alla missione o alla visone
etica di impresa oltre che alla remunerazione materiale, il che spiega perché nel settore
non profit esista maggiore produttività a salari inferiori rispetto al settore pubblico e
privato a parità di settore (nei servizi sociali )
In generale questo filone di studi dimostra come la produttività del lavoro possa essere
aumentata da una leadership etica nel senso definito. La spiegazione data dalle preferenze
conformiste è che, grazie alla condivisone dei valori, in quanto basati sull’ideale del contratto
sociale costitutivo dell’impresa, fintanto che le aspettative di reciproca conformità vengono
confermate, il lavoratore agisce in modo perfettamente razionale secondo modalità che prima
facie sembrerebbero irrazionali, in quanto non rette dall’egoismo razionale. Cioè offre più
sforzo di quanto gli incentivi materiali o i meccanismi di sorveglianza non potrebbero indurre
a credere. Ma può ridurre l’offerta di impegno/sforzo proprio in presenza di incentivi
economici mal congeniati e di meccanismi di sorveglianza mal posti.
Al contempo spiega anche il terribile rischio di perdita di reputazione e fiducia per l’impresa,
che può andare ben la di là di quanto si potrebbe precedere alla luce dell’entità del danno
materiale subito dagli stakeholder per una pratica scorretta o ritenuta immorale. Molti effetti
negativi per l’impresa non hanno a che fare con l’attesa di danni materiali da parte del
collaborare o lo stakeholder, ma dal fatto che sono le sue preferenze morali a esse
insoddisfatte, il che porta a sanzioni reputazionali e disaffezione.
Tutto ciò spiega poi comportamenti che in altri contesti sono stati veramente impressionanti,
come il crollo e la cancellazione per fallimento del titolo di Artur Andersen a Wall Street (per
effetto della caduta di reputazione legata al suo coinvolgimento negli scandali Enron e altri).
Ma in questi termini si possono anche interpretare le campagne di boicottaggio, il consumo
equo e solidale, o genericamente responsabile, la finanza etica e i loro riflessi sul clima
interno di lavoro nelle imprese
7. Alcune prospettive di lavoro.
Qui di seguito si elencano alcuni problemi pratici che potrebbero essere utilmente collocati
nell’agenda dei top manager e dei loro capi del personale, qualora essi intendessero prender
sul serio la domanda di legittimità morale dell’autorità e della leadership
a) I codici etici di impresa, sono solo una materia da ufficio legale (231) per “tenersi al
largo da guai” oppure sono l’occasione per creare il contratto sociale tra le persone?
Quale è lo schema di un codice etico di impresa in grado di assicurare legittimità
morale all’esercizio della leadership, nella gestione delle RU in particolare e dell’
autorità organizzativa in genere?
b) Quali sono i lineamenti di un codice etico professionale del “capo del personale”
nell’affrontare le scelte più dolorose di riorganizzazione come le delocalizzazioni
produttive? Quali sono i vincoli propri della sua professione? Cosa implica per il
profilo di CSR dell’impresa di cui egli fa parte?
c) La formazione etica in impresa e le competenze morali dei leader: Quali sono le
competenze morali che occorrerebbe formare in un capo? Devono favorire
l’autonomia morale dei collaboratori o plasmarne il loro carattere con una forma di
novello catechismo aziendale? Che rapporto tra l’etica e le regole aziendali, le regole
14
possono essere interiorizzate come accettate volontariamente (è equo il contratto
sociale implicito?).
d) Utilità intrinseca e incentivazione: in che modo e in quali contesti gli incentivi
condizionati ai risultati possono essere vantaggiose o perverse in termini di risposta da
parte dei collaboratori (in termini di sforzo) alla luce di una analisi della complessità
motivazionale ?
e) Etica, remunerazioni intrinseche e incentivi: si può pagare per l’etica senza pervertire
le motivazioni intrinseche e l’adesione volontari? Come si premiano i comportamenti
virtuosi? Come si premia il raggiungimento di obbiettivi di CSR? L’importanza dei
premi di gruppo e di evitare messaggio contraddittori come premiare i furbi e coloro
che non ottengono gi obbiettivi rispettando le regole e i valori.
Questi temi partici dovrebbero essere affrontati dai capi del personale se è chiaro, come ho
cercato di dimostrare, che non è vero soltanto che l’etica dell’accordo tra gli stakeholder offre
una legittimazione morale all’autorità manageriale e alla leadership – senza la quale quella
funzione professionale è vuota, ma è vero anche che una leadership etica nel senso detto è
una componente essenziale stessa della professionalità di chi dirige le persone in vista di uno
scopo organizzativo condiviso.
Essa infatti valorizza le motivazioni morali dei collaboratori e ottiene spontaneamente da loro
un apporto e un contributo superiore che nel caso in cui essi siano disprezzati (o anche
cinicamente “apprezzati”) come agenti egoisticamente ristretti alla ricerca del loro mero
vantaggio materiale.
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