dalla crisi dello stato liberale all`avvento del fascismo

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
Scuola di Specializzazione per la formazione degli insegnanti della scuola superiore.
Dalla crisi dello Stato liberale
all’avvento del fascismo: causalità e periodizzazione storica
Corso di storia:
Specializzanda:
Prof. Maria Carmela Soru
Silvia Rundini
Prof. Aldo Accardo
Anno Accademico 2005-2006
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Unità didattica di storia
Dalla crisi dello Stato liberale
all’avvento del fascismo: causalità e periodizzazione storica
Classe di riferimento: Quinta classe di un istituto tecnico.
Disciplina coinvolta: storia.
Premessa
Il presente percorso didattico viene proposto ad una quinta classe di un istituto tecnico e si
propone l’obiettivo di analizzare una fase storica ricca di eventi che hanno determinato in Italia
la crisi dello Stato liberale e l’ascesa al potere del fascismo.
La finalità primaria del docente sarà problematizzare gli eventi storici incentivando così negli
studenti la riflessione e l’analisi critica delle cause da cui ogni evento scaturisce e degli effetti
prodotti dal verificarsi dell’evento stesso. La presentazione dei rapporti di causa-effetto tra gli
eventi rappresenta un’operazione imprenscindibile per la comprensione globale di ogni fase
storica. L’attività didattica si svilupperà in diverse fasi articolate in un’analisi critica degli eventi
più significati che hanno segnato questo complesso periodo storico.
La scelta di analizzare questa tematica è da ricercare nell’importanza della comprensione di una
fase cruciale della storia del nostro Paese che ha conosciuto l’esperienza drammatica di una
dittatura le cui origini e cause risalgono proprio allo sviluppo di eventi politici, sociali,
economici e culturali che hanno caratterizzato l’età storica presa in esame. La conoscenza e la
comprensione del passato consentirà agli studenti di valutare meglio il presente e di acquisire la
consapevolezza delle proprie radici storiche per promuovere in essi il senso di appartenenza
collettivo. Gli studenti alla fine del percorso dovranno dimostrare la capacità di esporre in forma
chiara e coerente i problemi relativi agli eventi storici analizzati, distinguendo i molteplici aspetti
che caratterizzano ogni evento e evidenziando l’incidenza in esso dei diversi soggetti storici. Il
docente infine guiderà gli studenti nell’utilizzo di metodi appropriati per l’inquadramento e la
periodizzazione degli eventi storici. Gli studenti così comprenderanno l’importanza della
periodizzazione che non deve essere intesa soltanto come una semplice scansione all’interno di
un lungo arco temporale, quanto piuttosto come un’operazione preliminare del lavoro
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storiografico, indispensabile per individuare i caratteri specifici di ogni età e per determinare un
punto di cesura che renda evidente e giustifichi il passaggio da un’epoca storica ad una
successiva.
I Fase:
La Grande Guerra, con le sue pesanti ripercussioni sociali, economiche e politiche, ha
rappresentato un evento centrale nella storia dell’Europa e nello specifico del nostro Paese. La
guerra è stata infatti la più grande esperienza di massa mai vissuta prima di allora nella storia
dell’umanità e ha determinato profonde e radicali trasformazioni in ogni settore della vita
associata. In una corretta periodizzazione storica il 1918, anno in cui si concluse la prima guerra
mondiale, rappresenta una data fondamentale in quanto segna l’inizio di una nuova epoca storica.
Tutti i paesi belligeranti, con la sola eccezione degli Stati Uniti, uscirono dal conflitto in
condizioni di gravissimo dissesto economico. La guerra aveva inghiottito come in una voragine
una quantità incredibile di risorse. In Italia, come in Francia e in Germania, le spese sostenute
per il conflitto furono pari al doppio del prodotto nazionale lordo dell’ultimo anno di pace. Per
far fronte a queste enormi spese, il governo italiano, seguendo un iter comune ai Paesi europei
coinvolti nel conflitto, era ricorso dapprima all’aumento delle tasse, successivamente, facendo
appello al patriottismo dei risparmiatori, lanciando prestiti nazionali e allargando a dismisura il
debito pubblico; infine contraendo massicci debiti con i Paesi amici, in primo luogo con gli Stati
Uniti. Tali espedienti tuttavia non erano stati sufficienti a coprire le spese di guerra, di
conseguenza i governi avevano sopperito al fabbisogno di denaro stampando carta moneta in
eccedenza e mettendo in moto un rapido processo inflazionistico. L’inflazione fino a quel
momento era stato un fenomeno sconosciuto all’Europa occidentale, vissuta per più di un secolo
in regime di prezzi relativamente stabili. Tra il 1915 e il 1918 i prezzi crebbero di due volte e
mezzo in Italia. Nei primi due anni del dopoguerra la tendenza risultò ulteriormente accelerata,
determinando un vero e proprio sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle stesse
gerarchie sociali. Se infatti la guerra aveva creato fortune improvvise in prevalenza tra gli
industriali e gli speculatori, al contrario l’inflazione erodeva i risparmi del ceto medio e
distruggeva posizioni economiche che fino ad allora erano risultate solidissime, come quelle di
molti proprietari di terre o di case i quali riscuotevano canoni d’affitto svalutati.
L’economia italiana presentava in quegli anni le caratteristiche tipiche della crisi postbellica:
sconvolgimento dei flussi commerciali, grave disavanzo nel bilancio statale, aumento del debito
pubblico e inflazione crescente. Tutti i settori della società erano in fermento. Nell’estate del
1919, l’Italia attraversò una fase di convulse agitazioni economico-sociali che videro coinvolti i
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contadini e gli operai La classe operaia, tornata alla libertà sindacale dopo la compressione degli
anni di guerra e infiammata dagli echi di quanto stava accadendo in Russia, chiedeva
miglioramenti economici, reclamava maggiore potere in fabbrica e manifestava in alcune frange
velleità rivoluzionarie. Il proletariato industriale che aveva ormai da alcuni decenni nel Partito
Socialista, nelle Camere del lavoro e nei sindacati i propri strumenti di intervento pubblico e
sociale, era animato dalla prospettiva di socializzazione dei mezzi di produzione e dalla speranza
che i socialisti potessero assumere il potere. Se gli operai dell’industria, organizzati nei sindacati,
erano riusciti a resistere all’ascesa dei prezzi ottenendo aumenti salariali, diversa era la
condizione della gran parte dei lavoratori costituiti da contadini piccoli proprietari e da
braccianti, i quali versavano in condizioni di vita piuttosto misera. Ai contadini e ai braccianti,
che avevano formato la massa dei soldati in guerra, la classe dirigente italiana nel 1917, anno
cruciale del conflitto, aveva promesso leggi di riforma agraria; conseguentemente questi ultimi
erano ansiosi di vedere mantenute le promesse. Molti di loro quando vennero smobilitati
rimasero disoccupati ed emarginati socialmente in un sistema produttivo troppo debole per
offrire loro un’occupazione. Impoveritisi durante il conflitto e nell’immediato dopoguerra, erano
pervasi da un profondo senso di delusione per le proprie crescenti difficoltà economiche e per le
speranze disattese. Furono queste le cause che determinarono la mobilitazione dei contadini,
spesso ex combattenti, in vaste aree della valle padana e nelle campagne meridionali, che
culminò nell’occupazione delle terre incolte dei grandi proprietari terrieri.
II Fase:
Un evento importante di questa fase storica è costituito dalla nascita del movimento fascista nel
marzo 1919 a Milano. Il movimento si basava su due istanze fondamentali: un acceso
nazionalismo e una feroce avversione verso i socialisti. Aderirono al movimento gruppi di ex
combattenti, animati da un sentimento di rivolta e dal desiderio di azione, di avventura e di
comando. Il clima della guerra in cui avevano combattuto pesò su di essi, rendendo loro
intollerabile il ritorno alla vita civile, ordinata e tranquilla. Molti di essi poi avevano ricoperto al
fronte ruoli di comando e non si rassegnavano ora a svolgere un lavoro subordinato. Lo sviluppo
del movimento fascista fu all’origine lento e stentato anche a causa dell’incoerenza del suo
programma politico, ma si contraddistinse da subito per il suo carattere spiccatamente violento e
aggressivo. Non a caso i fascisti furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile
dell’Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista, avvenuto a Milano un mese dopo la
costituzione del movimento, culminato con l’incendio della sede dell’Avanti, il quotidiano del
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Partito Socialista Questo grave episodio costituì il primo segno di un clima di violenza e di
intolleranza che avrebbe portato in pochi anni al crollo delle istituzioni liberali.
III Fase:
Un’altra importante cesura nella periodizzazione di questa complessa fase storica è costituita
dalle elezioni politiche del novembre 1919 che, basate sul metodo della rappresentanza
proporzionale, segnarono l’inizio di un periodo nuovo nella storia parlamentare italiana. Infatti
per la prima volta i gruppi politici derivati dalla Destra e dalla Sinistra storiche, non raggiunsero
la maggioranza alla Camera, al contrario furono favorite le forze politiche organizzate su base
nazionale, come il Partito Socialista e il Partito Popolare, che si era costituito nel gennaio dello
stesso anno. L’enorme crescita dei socialisti e dei popolari costituì un evento fondamentale nel
processo di sviluppo dal liberalismo alla democrazia, che sarebbe potuto essere decisivo se non
fosse stato interrotto poco dopo dall’avvento del fascismo.
La nascita e l’affermazione politica del Partito Popolare, se considerata in relazione al secolo
precedente, ha rappresentato un importante fattore di novità nella storia politica italiana, in
quanto ha segnato la partecipazione ufficiale e di massa alla vita politica dei cittadini cattolici,
che prima di allora erano in gran parte rimasti estranei ad essa. L’imponente crescita dei partiti di
massa, il cui apparato organizzativo era complesso e centralizzato, determinò la crisi delle
tradizionali forme dell’attività politica che, svolgendosi nei circoli ristretti dei notabili,
culminavano nell’azione parlamentare. Questo nuovo fenomeno di “massificazione” della
politica fu una diretta conseguenza della guerra che aveva dimostrato l’importanza
dell’organizzazione delle masse. I ceti sociali, che avevano vissuto l’esperienza del conflitto ed
erano stati colpiti dalle sue conseguenze economiche, per far valere i propri diritti e per
affermare le proprie rivendicazioni si iscrivevano nelle organizzazioni gestite dalle forze
politiche socialiste e cattoliche, che riuscirono ad interpretare le nuove dimensioni assunte dalla
lotta politica. Al contrario la classe dirigente liberale non si mostrò capace di dominare i
fenomeni di mobilitazione di massa che il conflitto mondiale aveva suscitato.
Le conseguenze delle elezioni del ’19 sulla funzionalità del Parlamento furono gravissime in
quanto alla Camera si trovarono a lavorare insieme con risultati spesso negativi o comunque
poco costruttivi, due settori nettamente diversi, che esprimevano due fasi storiche divergenti
della vita politica italiana: uno moderno, legato ai meccanismi dei grandi partiti organizzati,
l’altro vecchio, legato alla tradizione dei gruppi liberali che avevano governato l’Italia dall’Unità
in poi.
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IV Fase:
Nell’estate-autunno del 1920 i conflitti sociali conobbero il loro evento più drammatico
nell'agitazione
dei
metalmeccanici,
che
sfociò
nell’occupazione
delle
fabbriche
e
nell’esperimento rivoluzionario dei consigli di fabbrica, organismi eletti direttamente dai
lavoratori e ispirati alle ideologie del gruppo torinese dell’Ordine Nuovo, che aveva in Antonio
Gramsci il proprio leader politico e culturale.
Il settore metalmeccanico, che aveva avuto uno sviluppo enorme durante il conflitto mondiale
grazie alla produzione bellica, era minacciato ora dai primi segni di una crisi produttiva. I
metalmeccanici costituivano una categoria operaia compatta, combattiva e organizzata dal più
forte dei sindacati aderenti alla CgL, la Fiom, che diede inizio alla vertenza avanzando la
richiesta di aumenti salariali, respinta dagli industriali. In risposta alla serrata attuata da
un’azienda milanese , la Fiom ordinò ai suoi aderenti di occupare le fabbriche.
La maggior parte dei lavoratori visse questa esperienza come l’inizio di un moto rivoluzionario
destinato ad allargarsi oltre i confini della fabbrica. In realtà il movimento non fu in grado di
porsi in maniera concreta il problema della conquista del potere da parte della classe operaia e
finì col prevalere la linea dei dirigenti confederati, basata sulla decisione di mantenere il
movimento circoscritto all’ambito sindacale. Tale esito fu favorito dall’iniziativa mediatrice di
Giolitti, il quale attenutosi a una linea di rigorosa neutralità e resistendo alle pressioni esercitate
dal padronato per un intervento repressivo contro gli occupanti, riuscì a far accettare ai riluttanti
industriali un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della Fiom. Se sul
piano sindacale gli operai uscivano vincitori dalla lotta, sotto il profilo politico la sensazione
dominante era di profonda delusione rispetto alle attese maturate nei giorni eroici
dell’occupazione. In generale l’esito dell’occupazione delle fabbriche determinò nelle file del
movimento operaio uno strascico di recriminazioni e di polemiche. I gruppi di estrema sinistra
accusavano da una parte i dirigenti riformisti della CgL di aver svalutato la rivoluzione in
cambio di un accordo sindacale, e dall’altra la direzione massimalista del Partito Socialista di
avere assunto un atteggiamento incerto. Queste polemiche si intrecciarono con le fratture
provocate all’interno del II Congresso del Comintern, che tenutosi a Mosca nel luglio 1920,
invitava i partiti aderenti ad assumere la denominazione di Partito Comunista e imponeva
l’espulsione delle forze politiche riformiste. Serrati e la corrente massimalista rifiutarono di
sottostare a queste condizioni in quanto le ritenevano lesive per l’autonomia del partito e in
quanto spinti dalla convinzione che, con l’espulsione dei riformisti, il partito avrebbe perso gran
parte dei suoi quadri sindacali, dei suoi deputati e dei suoi amministratori locali. Nel congresso
del partito tenutosi nel gennaio 1921, i riformisti non furono espulsi, fu invece la minoranza di
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sinistra ad abbandonare il Psi per costituire il Partito Comunista, che nasceva con una base
piuttosto ristretta e con un programma rigorosamente leninista proprio nel momento in cui la
prospettiva rivoluzionaria si andava dileguando in Italia e in tutta Europa.
V Fase:
La nascita del fenomeno squadrista nel novembre del 1920 e il suo successivo sviluppo segnano
una tappa fondamentale nel lento e inesorabile processo che portò in breve tempo
all’esautorazione dello Stato liberale e all’avvento del fascismo. L’obiettivo principale
dell’offensiva squadrista era la completa distruzione delle organizzazioni socialiste, in
particolare quelle contadine della valle padana, e l’eliminazione fisica dei dirigenti e dei semplici
militanti. Il movimento fascista che fino a quel momento aveva svolto un ruolo marginale nella
vita politica, rimanendo circoscritto nell’ambito di piccoli gruppi di matrice interventista a base
urbana, intellettuale e piccolo borghese, subì un rapido processo di trasformazione che lo portò a
costituirsi in strutture paramilitari. Le cause che determinarono questa trasformazione sono da
ricercare in una scelta mirata di Mussolini, che decise di cavalcare l’onda di riflusso
antisocialista seguita all’esperienza rivoluzionaria dell’occupazione delle fabbriche. Il fascismo
vide affluire nelle sue file nuove reclute formate da ufficiali smobilitati che faticavano a
reinserirsi nella vita civile, giovani e giovanissimi che non avevano partecipato alla guerra, ma
che, animati da un esasperata brama di violenza e di aggressività, trovavano ora un’occasione per
combattere i presunti nemici della patria. In breve tempo il fenomeno dello squadrismo dilagò in
tutte le province padane, estendendosi anche nelle zone mezzadrili della Toscana e dell’Umbria e
facendo qualche sporadica comparsa nelle grandi città centro-settentrionali. L’uso sistematico
della violenza portò alle dimissioni di gran parte delle amministrazioni socialiste e allo
scioglimento di diverse leghe e cooperative, che in due anni di lotte aspre e vittoriose erano
riusciti ad ottenere notevoli miglioramenti salariali e a sostenere con successo le rivendicazioni
dei salariati agricoli senza terra, mirando all’obiettivo finale della socializzazione.
L’utilizzo di strutture paramilitari non può spiegare completamente il dilagare del fenomeno
squadrista nelle zone in cui la presenza dei socialisti era particolarmente forte. In realtà il
movimento operaio si trovava a combattere una lotta impari contro il fascismo che godeva
dell’aperto sostegno di buona parte della classe dirigente liberale e degli apparati statali. Gli
organi di pubblica sicurezza e i comandi militari, portati a vedere nel fascismo un alleato contro i
socialisti, mai si opposero alle violenze squadristiche, al contrario le sostennero, fornendo alle
squadre fasciste armi, munizioni, camion per le spedizioni punitive e assicurando di fatto una
larghissima impunità ai crimini commessi. Le ragioni dell’appoggio alle squadre d’azione da
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parte delle autorità militari erano da ricercare nell’antisocialismo che, da lungo tempo diffuso
nell’esercito, si era acuito durante il conflitto mondiale per il neutralismo dei socialisti.
L’avversione verso questi ultimi, presente anche tra i carabinieri, nella guardia regia e nella
polizia per ragioni affini a quelle accennate per l’esercito, era aggravata in questi corpi da una
lunga tradizione di timore e di sospetto verso i movimenti popolari. Anche la Magistratura adottò
nei confronti dei fascisti criteri ben diversi da quelli piuttosto severi attuati invece contro i
socialisti. Pesanti furono poi anche le responsabilità del governo che, pur evitando di favorire
apertamente lo squadrismo, guardò con malcelata compiacenza al suo dilagare, pensando di
servirsene per ridimensionare la forza politica dei socialisti e in seguito di poterlo
“costituzionalizzarlo” inserendolo nella maggioranza liberale.
Il dilagare della reazione fascista nelle campagne padane fu reso possibile dall’appoggio
finanziario e politico dei grandi proprietari terrieri, i quali parteciparono attivamente alle azioni
squadristiche. La grande borghesia agraria, ansiosa di recuperare il proprio potere economico
limitato dalla forza dei lavoratori organizzati e la propria autorità politica locale frenata dal
potere esercitato dai socialisti nelle amministrazioni comunali, vedeva nell’offensiva fascista un
efficace mezzo di annientamento delle posizioni di predominio assunte dai socialisti.
VI Fase:
Le elezioni indette da Giolitti nel 1921 segnarono la legittimazione da parte della classe
dirigente del fascismo e l’inizio della fase cruciale della crisi del sistema parlamentare che
avrebbe portato in breve tempo al crollo delle istituzioni liberali. Giolitti favorì l’ingresso dei
fascisti nelle liste di coalizione in cui i gruppi liberali-democratici si unirono per contrastare una
nuova affermazione dei partiti di massa.
L’esito delle elezioni tuttavia non consentì allo
schieramento politico facente capo a Giolitti di raggiungere una maggioranza stabile e compatta.
Le divergenze interne alla compagine liberal-democratica indussero il vecchio statista a
rassegnare le dimissioni. La crisi ministeriale venne superata con la costituzione del ministero
Bonomi, basato su un equilibrio piuttosto precario. Da questo momento divennero frequenti le
crisi ministeriali determinate propria dalla debolezza degli schieramenti che, non potevano avere
più come in passato una maggioranza compatta che potesse garantire la possibilità di imprimere
all’azione di governo una linea energica e coerente.
VII Fase:
L’episodio di Sarzana, avvenuto nell’estate del 1921 rappresenta un evento scatenante che
determinò la stipulazione del “patto di pacificazione” tra fascisti, socialisti e Cgl. Una spedizione
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di fascisti, che aveva occupato la stazione di Sarzana e si accingeva ad entrare nella città per
ottenere la liberazione di alcuni fascisti arrestati in seguito a violenze commesse nella Lunigiana,
venne dispersa dal fuoco dei carabinieri.
L’episodio suscitò una grave impressione in seno al movimento fascista, perché per la prima
volta le forze dell’ordine erano intervenute, dimostrando di poter rispondere con efficacia alla
sua violenza. Mussolini, temendo che venisse meno la connivenza delle autorità pubbliche e
nutrendo il sospetto di un eventuale isolamento politico del fascismo, favorì la realizzazione del
patto. La strategia politica di Mussolini, non conciliava con quella dei capi fascisti delle province
padane, i quali, legati agli interessi della borghesia agraria e fiduciosi nell’azione armata
piuttosto che nell’efficacia del sistema parlamentare, miravano alla completa distruzione delle
organizzazioni socialiste e alla loro sostituzione con quelle fasciste, che stavano già sorgendo nel
ferrarese e nel bolognese. Il dissidio tra i nuclei rurali e regionali e la direzione mussoliniana
portò i dirigenti provinciali fascisti a stabilire che ogni decisione attinente all’applicazione o
meno dell’accordo fosse competenza dei singoli fasci. In sostanza il patto di pacificazione non fu
altro che una manovra voluta dall’alto, rispondente prevalentemente alle ambizioni politiche di
Mussolini, estranea alle finalità e agli interessi della vasta area in cui imperversava lo
squadrismo.
VIII Fase:
Nella periodizzazione dell’epoca storica presa in esame la costituzione del Partito Fascista
rappresenta un evento centrale. La trasformazione del movimento fascista in partito consentì a
Mussolini di compiere un ulteriore passo avanti nel processo di istituzionalizzazione del
fascismo e al contempo di evitare la perdita della direzione del movimento a vantaggio dello
squadrismo, che rappresentava la principale forza all’interno del movimento stesso. Grazie alla
costituzione del partito, Mussolini poteva disporre ora di un’organizzazione unitaria nella quale
veniva riconosciuto come capo indiscusso. La forza raggiunta dallo squadrismo persuase il capo
fascista della necessità di proseguire la lotta contro le organizzazioni dirette dai socialisti e anche
quelle che facevano capo ai popolari. Le squadre d’azione pertanto diventarono parte integrante
del Partito Fascista e acquistarono in tale modo valore istituzionale. Grazie all’identificazione
delle squadre d’azione con l’organizzazione partitica, i capi dello squadrismo diventavano
dirigenti politici. Il nuovo partito nella sua struttura organizzativa si presentava come un
moderno partito, tuttavia l’esistenza di una vera e propria milizia lo differenziava completamente
dai partiti tradizionali e ne evidenziava nettamente le caratteristiche violente e illegalitarie.
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IX Fase:
Un altro evento cruciale e fondamentale per comprendere appieno l’ascesa politica del fascismo
è costituito dalla nascita nel gennaio 1922 della Confederazione delle corporazioni sindacali, un
organismo strettamente legato al Partito Fascista.
Il notevole sviluppo raggiunto dai sindacati fascisti procedette di pari passo all’opera di
smantellamento delle organizzazioni avversarie. Il partito fascista, facendo propri gli obiettivi
degli squadristi, mirava al disfacimento della compagine sindacale amministrata dai popolari e
dai socialisti e alla loro sostituzione con quella fascista. La stampa nazionale, fatta eccezione per
“Il Secolo”, come evidenziò il leader del partito fascista nel “Popolo d’Italia” il quotidiano di cui
era direttore, non espresse alcun giudizio in merito alla costituzione della confederazione delle
corporazioni e sullo sviluppo del sindacalismo fascista, dimostrando così quanto sfuggisse
all’opinione pubblica la forza politica e sociale raggiunta dal fascismo, che non poteva più essere
considerato un movimento di modesta portata e facilmente inquadrabile nella tradizione liberale.
La recessione economica che nel ’21 gravava su quasi tutta l’Europa, influì negativamente in
prevalenza nel settore industriale nazionale. Ancora nella primavera del ’22 tutti i settori della
produzione industriale continuavano a registrare gli effetti negativi della crisi economica. L’alto
livello di disoccupazione, determinato dalla crisi, provocò un flusso di manodopera dalle città
alle campagne, alla ricerca di un impiego che scarseggiava nei centri industriali. Nelle campagne
si riversò una enorme massa di disoccupati, i quali inevitabilmente guardavano con avversione le
organizzazioni lavorative locali gestite dai socialisti che, prevedendo ruoli chiusi, difficilmente
avrebbero consentito il loro inserimento. Il malcontento diffuso tra la manodopera in cerca di
un’occupazione venne sfruttato strategicamente dai dirigenti sindacali fascisti, i quali riuscirono
ad ottenere l’iscrizione nei loro sindacati di un ingente numero di disoccupati, che si aggiunse ai
lavoratori della terra che avevano aderito alle corporazioni in seguito alla distruzione delle
organizzazioni sindacali a cui precedentemente avevano preso parte.
Il passaggio dei lavoratori agricoli dalle disgregate organizzazioni avversarie ai sindacati fascisti,
non sempre avveniva coattivamente; altre volte era il disorientamento dei contadini che si
trovavano privi di una struttura sindacale, che tutelasse i loro interessi, a spingerli ad aderire alle
corporazioni. Un altro fattore che può spiegare un’adesione così massiccia è rappresentato dalla
promessa fascista della “terra a chi la lavora e la fa fruttare”, che costituì un perfetto strumento di
attrazione su questa categoria di lavoratori e un importante espediente per screditare l’azione dei
socialisti. I sindacati fascisti in vaste aree delle campagne padane imposero il loro predominio,
stipulando con i grandi proprietari terrieri accordi contrattuali che sostituirono quelli conclusi in
precedenza dai sindacati socialisti e popolari. I fascisti in tale modo andavano incontro agli
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interessi della grande borghesia terriera, i cui obiettivi erano la revisione dei contratti agrari
esistenti, in quanto troppo favorevoli ai lavoratori, e la soppressione del monopolio socialista
della manodopera contadina. I patti agrari conclusi dai sindacati fascisti, vanificando le conquiste
ottenute dagli altri sindacati in anni di lotte aspre e vittoriose, determinarono quasi tutti un netto
peggioramento delle condizioni dei lavoratori, ricollegabile solo in parte alla difficile situazione
economica.
X Fase:
La protesta fascista per la mancata concessione da parte del governo di stanziamenti per i lavori
pubblici, che avrebbero consentito l’impiego di numerosi disoccupati organizzati nei sindacati
fascisti in diverse zone della provincia ferrarese, offrì il pretesto per dare inizio alle grandi
mobilitazioni di massa che portarono, tra la primavera e l’estate del ’22, all’occupazione di
grandi e medi centri urbani. Le mobilitazioni fasciste, che coinvolsero migliaia di squadristi
inquadrati e comandati militarmente dai ras, ufficialmente traevano origine da rivendicazioni di
carattere economico - sindacale, in realtà venivano progettate per ottenere il trasferimento dei
funzionari locali che si opponevano al fascismo e per costringere l’autorità centrale a scendere a
patti con gli squadristi. Si apriva così una nuova fase nella lotta politica intrapresa dal fascismo;
le mobilitazioni, che erano state realizzate già in autunno, assumevano adesso il carattere di vera
e propria sfida nei confronti dello Stato, ponendosi l’obiettivo di screditare l’autorità del
governo, rivelandone la totale impotenza di fronte alle pretese e alle violenze degli squadristi.
Nel maggio 1922 il ras Italo Balbo fece affluire dalle province dell’Emilia e della Romagna
migliaia di disoccupati e di lavoratori inquadrati nelle squadre d’azione per ottenere la
tradizionale concessione di lavori pubblici, interrotta dal governo per tentare di risanare il
disavanzo del bilancio dello Stato. Per due interi giorni la città subì una vera e propria
occupazione, che ebbe termine definitivamente soltanto nel momento in cui il governo cedette
alle richieste dei fascisti, autorizzando la realizzazione del programma di lavori pubblici che
avrebbero interessato le varie zone della provincia ferrarese, nelle quali era alto il livello di
disoccupazione. La forza politica e organizzativa della mobilitazione realizzata dai fascisti a
Ferrara e il sostanziale cedimento del governo, esautorato ed incapace di fronteggiare la
situazione, convinsero Mussolini a ripetere a Bologna una spedizione squadristica.
L’occupazione di Bologna prese le mosse dalla contestazione verso l’ordinanza, emanata dal
prefetto Mori, in base alla quale veniva proibito lo spostamento della manodopera da una
provincia all’altra, con lo scopo di evitare i frequenti conflitti tra i lavoratori locali e quelli
portati sul posto dai fascisti, provenienti da altri comuni e da altre province. Le disposizioni
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stabilite dal decreto rappresentavano un ostacolo alla strategia fascista, che prevedeva la
mobilitazione di disoccupati e lavoratori, iscritti ai loro sindacati, verso le province dove forte
era la presenza di manodopera appartenente alle organizzazioni sindacali avversarie. I fascisti
utilizzavano la loro manodopera per scompaginare il sistema sindacale operante nel luogo e per
contenere, qualora fosse stato ritenuto necessario, la resistenza locale dei lavoratori. Il decreto
venne contestato anche da diverse associazioni locali di proprietari terrieri, in quanto tutelava il
monopolio esercitato dai socialisti nelle cooperative di consumo, in quelle di lavoro e nelle
cooperative di produzione, operanti attivamente nella provincia di Bologna. In larghe zone del
bolognese infatti i socialisti erano riusciti ad arrestare l’espansione fascista, mantenendo intatta
la loro forza organizzativa. Dopo cinque giorni di occupazione, devastazioni e incendi a camere
del lavoro, cooperative, circoli, e abitazioni private, le squadre d’azione abbandonarono la città
per ordine di Mussolini, il quale era fortemente preoccupato che l’indignazione manifestata dalla
stampa nazionale potesse in qualche maniera screditare agli occhi dell’opinione pubblica il
prestigio politico della sua figura, del partito fascista e del fascismo in generale.
XI Fase
L’occupazione fascista di Cremona, appoggiata politicamente dai gruppi politici che costituivano
il governo, i quali auspicavano lo scioglimento del consiglio comunale diretto dai socialisti, e in
generale l’intera situazione interna del Paese, determinarono la crisi ministeriale del governo
Facta nel luglio 1922. I popolari avevano negato il loro appoggio al governo accusato di non
essere stato capace di far prevalere con risolutezza la propria autorità al fine di opporre un valido
argine al dilagare dei disordini sociali. Mussolini, sospettando il timore di un eventuale
costituzione di un ministero di coalizione antifascista, prese la parola alla Camera e, nel suo
ultimo discorso pronunciato in qualità di deputato, dichiarò che il partito fascista avrebbe reagito
mediante un’insurrezione, qualora si fosse costituito un ministero di evidente orientamento
antifascista. Il leader fascista presentò l’insurrezione come prospettiva attuabile soltanto in
conseguenza di un esplicito tentativo, da parte del ministero di prossima costituzione, di
impedire l’ascesa politica del fascismo. La forza politica raggiunta dal partito fascista non poteva
più essere ignorata; era necessario pertanto che di ciò prendessero atto tutti i gruppi politici e in
particolare la classe dirigente liberale, che aveva il dovere di adoperarsi al più presto per
agevolare l’inserimento del fascismo nella maggioranza di governo. Il discorso di Mussolini
conteneva al suo interno l’ammissione gravissima resa nota all’intero ambiente politico
nazionale, dell’utilizzo del metodo insurrezionale come arma di ricatto per la conquista del
potere.
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Le difficoltà maggiori opposte alla realizzazione di un governo di matrice antifascista, basato
sulla collaborazione tra i socialisti ed i popolari, furono sollevate da Giolitti. Le motivazioni che
spingevano lo statista a ostacolare tale progetto, risiedevano nella convinzione che le forti
divergenze tra i due gruppi politici avrebbero inficiato la compattezza della coalizione di
governo. Il vecchio statista non nascose inoltre l’aperta ostilità verso l’ipotetico ministero che,
perseguendo come obiettivo primario, se non l’unico, la lotta al fascismo, avrebbe potuto
determinare il pericolo di una guerra civile. L’assenza di un governo e il proseguimento
indisturbato delle spedizioni fasciste in diversi centri urbani, contribuirono ad acuire la profonda
frattura tra la società civile ed il sistema parlamentare. Il dilagare delle violenze nel Paese aveva
messo in luce la sostanziale debolezza del governo e la sua scarsa capacità di contenere
l’offensiva fascista, rivolta oramai contro gli stessi rappresentanti dello Stato.
XII Fase:
La proclamazione dello sciopero generale, indetto il 31 luglio 1922 dall’Alleanza del Lavoro, un
organismo di carattere politico che aveva assunto il compito di ristabilire e di garantire “il libero
esercizio delle funzioni sindacali e politiche” delle organizzazioni lavorative, rappresenta un
altro evento importante nella scansione periodica di questa fase storica e nella comprensione di
essa. Il comitato nazionale dell’Alleanza del Lavoro era affidato alla direzione ideologica e
politica dei socialisti riformisti, i quali conferirono allo sciopero un carattere “legalitario”, in
maniera tale che lo sciopero stesso fosse inteso come una manifestazione il cui unico obiettivo
era il ripristino del rispetto della legge e la “difesa delle libertà politiche e sindacali”.
La parziale e limitata partecipazione dei lavoratori allo sciopero fu determinata in prevalenza
dalla scarsa capacità di coordinamento, mostrata dall’Alleanza del Lavoro, sul piano operativo.
Contribuì a rendere esigua l’adesione allo sciopero da parte delle categorie lavorative,
l’indebolimento dell’intera organizzazione sindacale diretta dai socialisti, determinato
dall’offensiva fascista divenuta negli ultimi mesi ancora più violenta. Concorsero inoltre alla
modesta estensione dello sciopero anche l’ordine intimato dai fascisti ai lavoratori aderenti alle
corporazioni di proseguire il lavoro per assicurare il funzionamento dei servizi pubblici e
l’imposizione di contrastare gli scioperanti anche con l’uso della forza. La minaccia fascista di
intervenire per sedare lo sciopero qualora il governo, insediatosi il giorno stesso della
proclamazione dello sciopero, non avesse imposto entro due giorni la cessazione definitiva di
esso, spinse l’Alleanza del Lavoro ad annunciarne la fine. Lo sciopero “legalitario”, indetto
senza un piano strategico stabilito validamente in precedenza, e diretto da una forza politica
lacerata al suo interno da profonde divisioni, aveva rivelato nella sua pienezza le debolezze dei
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socialisti e l’incapacità da parte di questi ultimi a fronteggiare e gestire la crisi con mezzi più
adeguati e in circostanze politiche a loro più favorevoli.
Il fallimento dello sciopero “legalitario” produsse come effetti immediati il consolidamento della
forza politica e sindacale del fascismo, nelle zone in cui esso era riuscito a penetrare, e
l’estensione del suo dominio in aree, di importanza strategica, le quali ancora sfuggivano al suo
diretto controllo. La massiccia affluenza dei lavoratori nelle corporazioni, determinata
sostanzialmente dalla sfiducia nutrita da questi ultimi nei confronti del movimento sindacale
socialista, indebolito nella sua forza e nella sua compattezza, persuase Mussolini che le
circostanze fossero propizie per il proseguimento delle mobilitazioni in vista del completo
annientamento della forza politica e sindacale del partito socialista. Vennero organizzate
mobilitazioni di massa in diverse località situate in prevalenza nel settentrione e nel centro
dell’Italia, con il proposito di arrivare ad accerchiare e minacciare la capitale. Una vasta area del
paese fu scenario di occupazioni, devastazioni, aggressioni e violenze che si susseguirono quasi
ovunque senza incontrare resistenza alcuna da parte della forza pubblica. Tra le tante
mobilitazioni, realizzate dai fascisti in vista della occupazione di centri urbani, assunsero
maggiore rilevanza sul piano politico ed economico quelle effettuate, nei giorni immediatamente
successivi alla conclusione dello sciopero, a Milano e a Genova, città in cui ancora era
consistente il potere politico e l’attività sindacale dei socialisti. Parallelamente all’occupazione di
Palazzo Marino, sede del Municipio di Milano, attuata per imporre con la violenza lo
scioglimento dell’amministrazione socialista, si scatenò a Genova l’offensiva fascista contro
l’organizzazione dei portuali gestita dai socialisti. La mobilitazione ebbe il sostegno finanziario
degli armatori, i quali miravano a porre fine al monopolio socialista sulla gestione delle attività
portuali. I dirigenti del Consorzio Autonomo del Porto, l’organismo a cui era affidata la gestione
di tutte le attività economiche portuali, vennero estromessi dai fascisti con la forza; in seguito la
commissione esecutiva del consorzio, affidata ad un comitato d’azione presieduto da dirigenti
fascisti, rescisse i contratti stipulati con le cooperative socialiste, impose il principio della
pluralità dei sindacati ammessi alla gestione delle attività portuali e sancì l’apertura dei ruoli. Le
conseguenze dell’azione fascista contro l’organizzazione portuale di Genova furono gravissime
sotto il profilo sindacale, in quanto determinarono una grave sconfitta per il movimento operaio,
che aveva perduto una delle conquiste più rilevanti ottenute dai socialisti in anni di lotta
sindacale. Non meno gravi furono gli effetti della vittoria fascista sul piano economico in quanto
Genova, che insieme a Milano, costituiva uno dei più grandi centri industriali del Paese, venne
sottoposta al dominio politico del fascismo.
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L’offensiva fascista durante il mese di agosto, consentì al proprio partito il raggiungimento di
una notevole estensione territoriale nel Paese. Il fascismo, che esercitava il proprio dominio nelle
campagne della pianura padana, riuscì ad imporre il controllo politico anche nei maggiori centri
urbani dell’Italia settentrionale e centrale. La forza politica raggiunta dal fascismo non poteva
più essere ignorata neanche dalla classe dirigente liberale, la quale aveva compreso che
l’indebolimento dei socialisti e dei popolari aveva spostato l’asse di forza verso il partito fascista.
La sola alternativa che si prospettava alla compagine liberal - democratica, per garantire il
mantenimento della sua vitalità politica, era costituita dal tentativo di inserire il fascismo nello
schieramento costituzionale. I principali esponenti liberali svolsero in autunno un’attività
frenetica in vista dell’obiettivo che prevedeva la costituzione di un ministero da essi presieduto,
basato sulla collaborazione tra i liberali e i fascisti. Le grandi mobilitazioni realizzate dai fascisti,
avevano reso evidente la presenza in Parlamento di larghi gruppi politici in parte favorevoli
all’avanzata politica del fascismo e in parte tolleranti nei confronti degli abusi compiuti da esso.
Il disorientamento politico dei socialisti e l’errata strategia dei gruppi liberal- democratici,
costituirono i fattori che maggiormente contribuirono ad agevolare la strategia di Mussolini in
vista della conquista del potere. L’esito fallimentare dello sciopero “legalitario” acuì le
divergente interne al Partito Socialista che sfociarono nella la scissione tra la corrente
massimalista e quella riformista, la quale staccatasi dal partito, costituì il Partito Socialista
Unitario Italiano. Il partito socialista, che nel ’19 aveva raggiunto una notevole forza
parlamentare, alla vigilia dell’ascesa al potere del fascismo, si trovò diviso in tre distinti partiti,
senza poter disporre in Parlamento e nel Paese di uno schieramento unitario sotto il profilo
politico e consistente sul piano numerico.
Gli esponenti della compagine liberal - democratica non mostrarono una migliore abilità politica
nel loro tentativo di stabilire trattative separate con Mussolini, in vista della costituzione di un
ministero che prevedesse la collaborazione con i fascisti.
La convinzione di poter influire sulle scelte politiche di Mussolini e la speranza di poter
assimilare il fascismo all’ideologia liberale, spinse i leaders politici della vecchia classe dirigente
a muoversi in tale direzione. Sfuggiva loro la giusta comprensione della vera natura del
fascismo, considerato ancora come un possibile alleato delle forze politiche tradizionali e
pertanto facilmente manovrabile per il raggiungimento dei loro fini. Divisi da reciproci
antagonismi personali e politici, i leaders dello schieramento liberale agirono separatamente in
vista di un accordo con Mussolini al fine di perseguire ciascuno un proprio progetto politico, che
garantisse loro la guida del ministero di prossima attuazione con la collaborazione dei fascisti.
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Mussolini, sfruttando le rivalità, le ambizioni e le divisioni degli esponenti liberali e democratici,
svolse un’azione politica assai complessa, tendente a intrecciare con questi ultimi continue
trattative segrete e separate, in maniera tale da potersi garantire l’eventualità di scelta tra le
diverse alternative da essi proposte.
XIV Fase:
La costituzione della Milizia per la Sicurezza Nazionale, che in sostanza era un comando
unificato delle formazioni militari fasciste, e la stesura del suo regolamento costituirono sul
piano politico un evento di estrema gravità in quanto rappresentarono un’aperta violazione dello
Statuto Albertino. La Milizia venne costituita in vista del progetto di un’azione sovversiva di
corpi armati diretti verso la capitale per rovesciare il governo in carica. Una volta organizzata la
milizia, l’azione politica di Mussolini mirò a rimuovere o almeno limitare gli ostacoli che
avrebbero potuto intralciare l’attuazione del progetto della marcia su Roma. Poiché le difficoltà
maggiori erano rappresentate dall’esercito, divenne indispensabile nella strategia di Mussolini
impedire che esso intervenisse a reprimere l’azione insurrezionale. Per garantire la neutralità
dell’esercito, il leader fascista si impegnò a condizionare l’orientamento della monarchia in
favore del fascismo. Difficilmente infatti l’esercito, malgrado le simpatie e le connivenze con il
fascismo diffuse a tutti i livelli della gerarchia, nel caso in cui la monarchia avesse stabilito di
bloccare l’avanzata dei fascisti verso Roma, avrebbe esitato a intervenire in difesa della Corona.
Il sovrano non nutriva sentimenti filo fascisti, piuttosto diffidava dei trascorsi rivoluzionari di
Mussolini e di molti dirigenti fascisti e in particolare non gradiva l’orientamento repubblicano
dell’ideologia fascista. Mussolini Mediante dichiarazioni pubbliche, assicurò la completa
disposizione a rinunciare alla tendenza repubblicana in modo da rimuovere le diffidenze del
sovrano e tenne continui e riservati colloqui con alcuni alti ufficiali dell’esercito e della guardia
regia, affinché esercitassero le proprie influenze sul re orientandolo in senso favorevole al
fascismo.
Nella riuscita di questi colloqui svolsero un ruolo non indifferente le massonerie allora esistenti,
quella di Palazzo Giustiniani e quella di Piazza del Gesù tra i cui adepti vi erano numerosi
dirigenti fascisti e alti ufficiali dell’esercito e della guardia regia. In particolare la massoneria di
Piazza del Gesù svolse una funzione importante al fine di scongiurare il rischio di una resistenza
armata alla mobilitazione verso Roma.
La marcia verso la capitale vide il propagarsi dei concentramenti delle squadre fasciste nelle città
e nelle località previste dal piano militare. Quasi ovunque le autorità civili, dopo un primo
tentativo di resistenza pacifica, cedettero i poteri alle autorità militari fasciste. L’assenza di
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coordinamento e di comunicazione tra il comando militare stanziato a Perugia e il resto della
milizia, la scarsità di armamento e le difficoltà dei trasporti verso la capitale, resero quanto mai
improvvisato e caotico lo sviluppo della mobilitazione. Tuttavia al di là degli aspetti prettamente
militari, il successo effettivo della mobilitazione fascista fu quello di aver creato una situazione
caotica che rese quanto mai difficile all’ambiente parlamentare l’esatta comprensione degli
avvenimenti. Il fascismo era riuscito a diffondere nel Paese la sensazione di impotenza e di
disfacimento della autorità dello Stato.
La decisione del re di non sottoscrivere il decreto nel quale veniva annunciata la proclamazione
dello stato d’assedio risaliva constatazione che una azione di forza contro i fascisti avrebbe
acuito la crisi, in quanto si sarebbe creato un vuoto di potere nello schieramento politico di
centro-destra, verso cui ormai erano orientati i gruppi politici ed economici dominanti nel Paese.
Il sovrano affidò a Mussolini l’incarico di formare il governo che, basato sulla collaborazione tra
fascisti, popolari e liberal-democratici, si costituì il 30 ottobre 1922. I contrasti in seno alla classe
dirigente, la progressiva perdita di autorità e di prestigio dello Stato e le frequenti crisi
ministeriali costituirono i fattori che consentirono maggiormente al fascismo di conquistare il
potere nell’ottobre del ’22.
Metodologie:
Ogni fase dell’attività didattica verrà strutturata su una articolazione dei seguenti momenti:

Lezione frontale per la presentazione dei contenuti;

Lezione dialogata per la riflessione con gli studenti sulle cause che determinano l’evento
storico e sulle conseguenze da esso prodotte;

La ricerca e l’interpretazione delle fonti per l’arricchimento delle conoscenze e lo sviluppo
negli studenti delle abilità interpretative.
Strumenti:

manuale scolastico (A. Giardina- G. Sabbatucci- V. Vidotto, L’età contemporanea, Roma-
Bari, Laterza, 2003). L’utilizzo del manuale servirà agli studenti come approccio orientativo su
quanto analizzato in classe.
Verifiche:
Per quanto concerne le verifiche si prevedono i seguenti livelli:

verifica in ingresso per testare le conoscenze pregresse;

verifica in itinere;
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
verifica finale che consisterà in una prova scritta a risposta aperta. La prova sarà coerente
con l’attività didattica svolta e sarà corredata da apposite griglie di valutazione. I criteri di
valutazione serviranno a testare la conoscenza dell’argomento, la padronanza del lessico
specifico, lo spirito critico e le competenze acquisite da ciascuno studente.
Verifiche sommative:
Quesiti a risposta aperta:
1.
Spiega quali furono le conseguenze più rilevanti dell’adozione del sistema proporzionale
nelle elezioni del novembre 1919.
2.
Esponi quali furono gli eventi e le convinzioni politiche che portarono alla nascita del
Partito Comunista d’Italia.
3.
Analizza le cause che determinarono lo sviluppo impetuoso dello squadrismo,
evidenziandone il ruolo predominante nella presa fascista del potere.
Bibliografia:
Alatri Paolo, Le origini del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1963;
Balbo Italo, Diario 1922, Milano, Mondadori, 1932;
U.Baldocchi- S.Bucciarelli, S. Sodi, Insegnare storia, Pisa, ETS, 2002;
Chabod Federico, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1961;
Cordova Ferdinando, Le origini dei sindacati fascisti 1918 – 1926, Roma-Bari, Laterza, 1974;
De Luna Giovanni, La passione e la ragione, Milano, Mondadori, 2004;
Gentile Emilio, Le origini dell’ideologia fascista (1918 – 1925), Roma – Bari, Laterza, 1975;
Gentile Emilio, Storia del Partito fascista 1919 – 1922. Movimento e milizia, Roma – Bari,
Laterza, 1989;
Gramsci Antonio, L’Ordine Nuovo, 1919-1920, Einaudi , Torino;
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Mussolini Benito, Opera omnia, Vol. XVIII, Dalla conferenza di Cannes alla marcia su Roma
(14 gennaio 1922 – 30 ottobre 1922), a cura di Edoardo e Duilio Susmel, Firenze, La Fenice,
1956;
Nenni Pietro, Storia di quattro anni (1919 – 1922), Torino, Einaudi, 1946;
Repaci Antonino, La marcia su Roma. Mito e realtà, Roma, Canesi, 1963;
Sabbatucci Giovanni, La crisi dello Stato liberale, in Storia d’Italia, Vol. IV, Guerre e fascismo,
a cura di G. Sabatucci – V. Vidotto, Roma – Bari, Laterza, 1997;
Salvemini Gaetano, Scritti sul fascismo, Vol. I, a cura di R. Vivarelli, Milano, Feltrinelli, 19611974;
Tasca Angelo, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922, Bari, Laterza, 1974;
V. Vidotto, Guida allo studio della storia contemporanea, Roma – Bari, Laterza, 2004.
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