SPARTA E ATENE Due modelli di polis tra geografia e storia Se l’evoluzione storica delle poleis greche non fu, come si è detto nel capitolo precedente, né omogenea né contemporanea in tutte le città, in età classica due poleis, Sparta e Atene, assunsero un ruolo tanto determinante da soppiantare città fino ad allora dominanti, come Mileto e altre colonie della Ionia. Le due città aggregarono intorno a sé, in due opposti schieramenti, tutte le altre poleis, polarizzando la politica su due diversi modelli. I fattori geografici, anche in questo caso, come nei molti altri che abbiamo analizzato finora, influirono significativamente sulla diversa evoluzione delle due poleis. Sparta, “città di terra”: il modello aristocratico guerriero Sparta sorse lontano dal mare, nell’alta valle del fiume Eurota, che scorre nel sud del Peloponneso. Quando nell’VIII sec. a.C. l’incremento demografico spinse gli altri abitanti della penisola a cercare nuove terre oltre mare (v. cap. colonizzazione), gli spartani, che non avevano grande dimestichezza con la navigazione, preferirono conquistare un’ampia regione confinante, molto fertile, la Messenia. La loro economia restò quindi legata all’agricoltura, la società statica, priva di cambiamenti significativi, perché il governo rimase saldamente in mano ad un ristretto numero di famiglie aristocratiche, che fondavano la loro ricchezza sullo sfruttamento dei campi e sulla capacità di controllare vaste masse di schiavi attraverso la forza militare. Quello spartano fu quindi un governo aristocratico basato sulla guerra e conservatore. Atene, “città di mare”: il modello democratico Al contrario, Atene sorse in Attica, una penisola dotata di tre porti naturali. Inevitabile fu quindi la vocazione marinara dei suoi abitanti, che fece ben presto della città una talassocrazia potente e incontrastata per quasi un secolo. L’Attica, per altro, è morfologicamente assai diversificata, con zone montuose, collinari e pianeggianti, caratteristica che permise lo sviluppo di diverse attività economiche, dall’agricoltura, alla pastorizia, alla pesca, all’artigianato e al commercio, e, di conseguenza, di ogni tipo di classe sociale. Proprio le esigenze diverse e spesso conflittuali delle varie classi determinò una profonda evoluzione della società e delle sue forme di governo, dalla monarchia, all’oligarchia, alla timocrazia, alla tirannide per giungere, infine, a quella forma rivoluzionaria e assolutamente originale che fu la democrazia. Tutt’altro che conservatrice, dunque, la società ateniese fu progressista, in eterna e spesso drammatica evoluzione. Modelli culturali senza confronto Nel corso della storia greca i due modelli politici di Sparta e Atene si scontrarono ad armi pari, ma sul fronte culturale lo scontro non ebbe storia: Atene ne fu l’indiscussa vincitrice. Sparta, infatti, chiusa nel Peloponneso, dominata da un’aristocrazia dedita esclusivamente alle armi, non diede spazio alla cultura. La poesia, che pure raggiunse un livello alto nel VII sec. a.C. con esponenti di spicco come Alcmane, celebre poeta lirico, e Tirteo, il poeta nazionale spartano cantore delle virtù guerriere e di una severa morale aristocratica, lentamente si esaurì per mancanza di stimoli e di contatti con altre culture. A Sparta non si costruirono monumenti, neppure mura che circondassero la città (gli ammiratori del modello spartano dicevano che le mura erano costituite dagli scudi dei suoi soldati), tanto che Tucidide, storico ateniese del V sec. a.C., scriveva: « […] se la città dei Lacedemoni fosse devastata e si salvassero solo i templi e le fondamenta degli edifici, penso che dopo molto tempo assai difficilmente i posteri potrebbero credere che la sua potenza fosse stata corrispondente alla fama: e sì che governa i due quinti del Peloponneso e ne ha l’egemonia generale, oltre a quella su molti alleati fuori del Peloponneso stesso. Pure, siccome la città non è centralizzata e non ha templi o edifici sontuosi, ma è abitata in diversi villaggi secondo l’antico modo dei Greci, potrebbe apparire non così importante. Se invece la stessa sorte toccasse ad Atene, ci si immaginerebbe una potenza doppia del reale in seguito a quello che di lei appare esteriormente». (Tucidide, La guerra del Peloponneso, I, 10) Per il timore che si corrompesse lo spirito bellicoso e rude dei suoi abitanti, Sparta restò chiusa al mondo esterno: i viaggi all’estero non erano consentiti e ai forestieri era concesso fermarsi solo pochi giorni, durante i quali erano costantemente sorvegliati. Gli spartani non tramandarono nemmeno il ricordo delle loro imprese e della loro storia, tanto che le fonti a cui gli storici possono attingere sono quelle ateniesi, non sempre imparziali e quindi non del tutto affidabili. Atene, al contrario, aperta ai contatti con altri popoli, cui l’avvicinavano i commerci, sviluppò il senso critico, mise in discussione le certezze, fu cosmopolita, si aprì ad altre culture e modi di pensare, fino a dar vita a nuove forme di pensiero con la filosofia, creazione tutta ateniese. Ma la sua ricerca si rivolse anche a tutte le forme d’arte, che ne fecero la culla stessa della civiltà occidentale. SPARTA NELL’ETÀ ARCAICA «Gli spartani non chiedono quanti siano i nemici, ma ove essi siano» (Agide II, re di Sparta, V sec. a.C.) LO SPAZIO La regione Sparta sorse nell’alta valle del fiume Eurota, una conca alluvionale, che si estende in direzione Nord-Sud nella parte meridionale del Peloponneso e copre una superficie di quasi 1100 km², unica zona adatta all’agricoltura, tra catene montuose che i terremoti hanno reso impervie, piene di avvallamenti e burroni. Anche a nord, verso l’Arcadia, i confini erano formati da montagne di difficile accesso, cosicché la Laconia si trovava da ogni parte sicura contro assalti improvvisi di nemici. In un burrone a ovest di Sparta, detto Ceada, profondo 200 metri, venivano gettati i condannati a morte, mentre un’immensa fenditura del promontorio Tenaro era considerata l’ingresso agli inferi. Anche il monte più alto del Peloponneso, il Taigeto, oggi chiamato Pentedaktylon (“di cinque dita”), è erto e dirupato e qui pare venissero abbandonati i neonati malformati. Se gli anziani lo giudicavano gracile o riscontravano difetti, ordinavano di abbandonarlo in un luogo impervio e isolato, detto Apothétai (lett. “depositi”), nei pressi del monte Taigeto. Tuttavia questa teoria non è supportata da scavi archeologici ed è stata smentita dallo studio dell’antropologo Theodoro Pitsios della Facoltà di Medicina di Atene, il quale ha appurato che tutti i resti umani ritrovati nell’area del monte appartenevano a individui di sesso maschile di età compresa tra i 18 e i 35 anni e non a neonati. Il monte è fresco e ricco d’acqua e di pascoli, ma anche di giacimenti di ferro. Esso fa parte di una catena montuosa, a metà della quale si apre una delle poche strade che collegano la Laconia ad altre regioni: nella valle del fiume Tiasa si apre infatti una grande e profonda sella per la quale passava un sentiero tracciato sul fianco della montagna, a tratti pericoloso, che da Sparta conduceva alla Messenia. I pascoli montani rendevano la regione assai adatta all’allevamento di bestiame, mentre le estese foreste erano abbondantissime di selvaggina, a cui si dava la caccia con i famosi cani laconi. L’unica zona adatta all’agricoltura era invece la valle dell’Eurota, il fiume oggi chiamato Vasilipotamos (“Fiume del re”) nel tratto superiore e Iri in quello inferiore, che scorre in direzione sud, con parecchie cascate, e sfocia nel golfo Laconico, il quale penetra profondamente nella costa meridionale del Peloponneso tra i promontori Malea e Tenaro. LA STORIA Le origini di Sparta Lungo la fertile valle dell’Eurota, adatta alla coltivazione di cereali, soprattutto orzo e grano, da secoli erano stanziati gruppi di agricoltori che avevano dato vita a villaggi sparsi nel territorio. I micenei la scelsero per fondarvi Lacedemone, una città potente, il cui mitico re Menelao, secondo il racconto di Omero, intraprese la guerra contro Troia. Con la caduta dei regni micenei, come si è visto, nel Peloponneso si stanziarono contadini di stirpe greca che parlavano il dialetto dorico. Essi dovettero affrontare la resistenza delle popolazioni locali, e solo nel IX secolo completarono la conquista della valle, si impossessarono delle terre più fertili, costituendosi in un’aristocrazia fondiaria chiusa in se stessa, che non si fuse con le popolazioni locali, ma le dominò con la forza del suo esercito. Sparta nacque per sinecismo, dall’aggregazione di almeno quattro villaggi distinti. La città non ebbe però una struttura urbana: i cittadini continuarono a risiedere in villaggi sparsi nella campagna e si riunivano nel centro principale solo per celebrare culti religiosi e decidere sulle questioni di interesse comune. I micenei e altri popoli che vivevano nei villaggi intorno a Sparta furono definiti perieci (“coloro che abitano intorno”) (v. oltre). BOX LESSICALE Sparta sorse nel sito dove i micenei avevano costruito la rocca di Lacedemone: per questo gli spartani venivano chiamati preferibilmente lacedemoni. I due termini sono ormai sinonimi. + termine laconico e spartano in italiano ecc) BOX Gli spartani sostenevano di essere i discendenti di Eracle, l’eroe a cui attribuivano la fondazione della città, cacciati in un antico passato dalla terra di Sparta e tornati a riprendere possesso delle terre appartenute ai loro antenati: perciò la loro migrazione fu presentata come il “ritorno degli Eraclidi” La conquista della Laconia La valle dell’Eurota era fertile, ma poco estesa, così nel corso dell’VIII sec. a.C. la città allargò il proprio dominio sull’intera regione della Laconia, giungendo fino al mare. Tuttavia l’economia rimase legata all’agricoltura e il commercio marittimo non si sviluppò mai. L’ampliamento dei confini non fu però sufficiente a sfamare la popolazione. La scoperta delle prime miniere di ferro, minerale raro in Grecia, proprio sul Taigeto, con la possibilità di produrre armi più resistenti e potenti, diede impulso ad ulteriori conquiste e influì, in qualche misura, sulla stessa struttura sociale della polis. A impossessarsi del prezioso metallo fu infatti l’aristocrazia che costruì armi e corazze, oggetto di ammirazione in tutta la Grecia, e assunse quel carattere guerriero che diverrà la peculiarità della società spartana. BOX La fondazione di Taranto L’VIII secolo a.C. fu un momento cruciale nella storia di Sparta. Dalla città furono cacciati i partheni, forse coloro che erano nati da unioni miste tra micenei e dori, i quali nel 707 a.C. fondarono Taranto, una delle poche colonie spartane e l’unica veramente importante. Per il resto Sparta preferì espandersi verso la Messenia. La conquista della Messenia e l’espansione nel Peloponneso Nell’VII secolo a.C., all’inizio della seconda colonizzazione, Sparta si espanse verso la Messenia, un’ampia regione confinante con la Laconia e molto fertile, intraprendendo due guerre che, lunghe quasi un secolo, richiesero un enorme dispendio di energie per un’aristocrazia costituita da un numero esiguo di famiglie. Alla fine i messeni furono assoggettati e divennero iloti (cioè “oppressi”), privi della libertà personale e del possesso del loro territorio, che fu spartito tra i nobili guerrieri spartani. Ma non si rassegnarono mai alla loro sorte. Così lo stato spartano dovette basarsi da allora su un’organizzazione e un sistema politico capace di far fronte all’emergenza di un’eventuale rivolta dei popoli sottomessi e di garantire un costante allenamento militare dei suoi cittadini. Pertanto, dopo una fase di espansione, ben presto la città abbandonò il progetto di ampliare i confini e preferì stabilire alleanze all’interno del Peloponneso. Alla fine del VI secolo a.C. strinse un’alleanza militare con varie città, tra cui Corinto, sull’istmo omonimo, ed Egina, la Lega (o Symmachía) del Peloponneso, con cui Sparta dominava di fatto l’intera penisola. Dalla Lega restavano escluse Argo, che aveva un regime democratico, e la regione montagnosa dell’Acaia. In base ai trattati della Lega, gli alleati: stipulavano accordi con Sparta, ma non potevano allearsi tra loro; non erano costretti a versare tributi; mantenevano la propria autonomia, ma dovevano garantire nella propria città un governo di tipo oligarchico sul modello di quello spartano; fornivano aiuto nel caso di rivolte degli iloti; si impegnavano ad avere “gli stessi amici e nemici” dei Lacedemoni, contribuivano con proprie truppe alle guerre decise unilateralmente da Sparta e affidavano alla città il comando in caso di guerre comuni; si riunivano periodicamente in assemblea a Sparta, per decidere questioni comuni e fornivano i propri rappresentanti al consiglio comune (il sinedrio). La Lega costituì intorno al 500 a.C. la più efficiente e potente struttura militare della Grecia. BOX Uno stato più ampio La conquista della Messenia raddoppiò l’estensione dei territori di Sparta che superarono gli 8000 km² e occupavano (come ci informa Tucidide) i due quinti dell’intero Peloponneso, che ne fecero la più estesa città greca, con un’economia agricola fiorente e ricca. Il commercio invece non si sviluppò mai, malgrado la città avesse ormai esteso i suoi confini fino alla costa, anche perché la decisione di coniare solo monete di ferro, che nel resto della Grecia aveva scarso valore, non permise scambi vantaggiosi. Sparta lottò a lungo anche con la città rivale di Argo, a cui aveva già strappato la Messenia, per la conquista dell’Argolide e di alcune città dell’Arcadia e per il primato sul Peloponneso, ma l’impegno militare comportava un allontanamento dell’esercito da Sparta, col rischio di rivolte interne. La costituzione di Sparta La costituzione spartana, attribuita a Licurgo (il cui nome letteralmente significa “colui che fa luce”), un personaggio di cui non si hanno notizie storicamente accertate e che presenta tutti i caratteri del mito, era definita Grande Rhetra, cioè accordo tra le varie categorie sociali, tanto che il sistema sociale e politico che ne derivò fu definito kosmos, “ordine”, e divenne un modello di perfezione per tutti i regimi oligarchici delle altre poleis greche. Alla costituzione si attribuivano origini divine che la legittimavano e che giustificavano il fatto che rimanesse immutata nei secoli (v. box). BOX Gli antichi consideravano Licurgo un personaggio realmente esistito e ne collocavano la vita tra la fine del IX e il VII secolo a.C. La critica moderna, invece, ipotizza che la sua figura sia da mettere in relazione con un’antichissima divinità solare venerata da popolazioni doriche, tanto più che il culto di Licurgo ebbe effettivamente caratteri religiosi. Si raccontava, infatti, che avendo intenzione di dare una costituzione a Sparta, Licurgo ne avesse chiesta l’autorizzazione all’oracolo di Delfi, che avesse quindi modificato lo stato e, come racconta Plutarco, si fosse quindi recato nuovamente dalla Pizia, dopo aver fatto giurare agli spartani che avrebbero rispettato la nuova costituzione finché egli non fosse tornato a Sparta. Ma, quando la Pizia gli annunciò che Sparta sarebbe stata fiorente fino a quando fosse stata rispettata la costituzione, egli si lasciò morire di fame e fece gettare le sue ceneri in mare, per non rischiare che, col suo ritorno in patria sia pure da morto, i suoi concittadini si ritenessero sciolti dal giuramento e cambiassero la costituzione, segnando la propria rovina. La tradizione diceva che in effetti la costituzione di Licurgo rimase immutata per almeno cinque secoli. LA SOCIETÀ La struttura della società Più che la costituzione, di origine incerta, furono le vicende storiche, influenzate dall’ambiente in cui la città si venne a collocare, a spiegare la particolare struttura che la società assunse sin dai primi secoli della sua esistenza. La netta e rigida divisione in classi, attribuita a Licurgo, si basava sulla differenza etnica tra il popolo di stirpe dorica che aveva imposto con la forza delle armi il suo potere e le altre etnie presenti sul territorio, emarginate dai conquistatori (i perieci) o addirittura private dei loro diritti (i messeni trasformati in iloti). Gli spartiati Gli spartiati erano i nobili guerrieri discendenti dai primi conquistatori, che fondavano la loro stessa esistenza sulla guerra e la loro cultura sul senso dell’onore (l’areté). Pare che in origine non superassero i 9000 individui, circa il 5% della popolazione spartana, destinato a scemare col tempo sia per le perdite di vite in guerra, sia perché il divieto di mescolarsi ad altre etnie impediva un incremento demografico: per essere spartiati, infatti, bisognava essere figli di padre e madre spartiati. Erano gli unici a godere dei diritti politici e della cittadinanza, perciò quando si parla di spartani in realtà è agli spartiati che ci si riferisce. Tra i loro doveri, c’era quello di condurre una vita irreprensibile, ottemperare ai doveri militari, contribuire ai pasti in comune obbligatori (i sissizi), versare allo stato tributi derivati dalla produzione dei campi, contribuire alle spese pubbliche, provvedere al proprio equipaggiamento militare, di educare i figli secondo regole imposte dallo stato. Quando uno spartiata si mostrava indegno e non rispettava gli obblighi, veniva declassato, privato dei privilegi ed emarginato. Perché potessero dedicarsi esclusivamente all’esercizio delle armi, lo stato attribuiva ad ogni spartiata un klaros (o kleros nel più noto dialetto attico), cioè un lotto di terreno, letteralmente “sorteggiato”, attribuito dai re in misura identica a tutti gli spartiati. Il kleros, che era indivisibile, inalienabile, cioè non vendibile, perché di proprietà dello stato, poteva essere trasmesso in eredità solo al primogenito. Coltivato dagli iloti, assegnati dallo stato insieme al kleros, permetteva ai nobili di vivere di rendita, senza la necessità di occuparsi di qualunque altra attività che non fosse la guerra. Gli spartiati quindi avevano originariamente tutti lo stesso tenore di vita che non si modificava col tempo (era loro vietato intraprendere attività commerciali), avevano gli stessi diritti e gli stessi doveri e ricevevano la medesima educazione, perciò si definivano homóioi, “uguali”. Tuttavia col tempo, per vari motivi, si crearono differenze di condizione economica anche notevoli, così l’uguaglianza rimase solo politica. I perieci I perieci erano gli abitanti dei centri minori, probabilmente di origine predorica, che circondavano la città e che Sparta aveva sottomesso, permettendo loro di mantenere il possesso della terra e di amministrarsi in autonomia. Tali centri costituivano una cintura protettiva di città-satelliti intorno a Sparta ed erano i centri di produzione artigianale e di attività commerciali. I perieci (da perí oikéo, “abito intorno”) erano gli unici a poter esercitare tali attività, che permisero loro una vita agiata, anche se priva della cittadinanza e dei diritti politici. Di condizione libera, dovevano pagare tributi a Sparta e fornire truppe ausiliarie di armati alla leggera, che costituivano in realtà il grosso dell’esercito. Si ritiene che il loro numero ammontasse nel V secolo a.C. a circa 50.000 individui, il 15% della popolazione. Gli iloti L’80% della popolazione, nel V secolo a.C., era costituito dagli iloti, tra i 140.000 e i 200.000 individui, di proprietà dello stato e assegnati agli spartiati insieme al kleros. La loro condizione era diversa da quella degli schiavi delle altre poleis, che solitamente erano stati strappati alla loro terra d’origine e venivano acquistati nei mercati. Gli iloti, invece, continuavano a risiedere nella propria terra, anche se non più di loro proprietà, la coltivavano a proprie spese e consegnavano ai nuovi proprietari, gli spartiati, le quote di prodotti agricoli stabilite, tenendo per sé la parte residua, in genere assai scarsa. Essi costituivano perciò un gruppo omogeneo e compatto e difficilmente potevano dimenticare la libertà perduta, non si rassegnavano alla loro condizione e approfittavano di ogni occasione per ribellarsi. Il loro numero era per altro assai superiore a quello degli spartani, i quali furono perciò costretti ad uno stato di guerra permanente: ogni anno Sparta dichiarava guerra alla Messenia e svolgeva vere e proprie azioni di guerriglia, con massacri di iloti (v. par. La crypteia). Eppure sugli iloti si fondava l’economia della città. Quando, nel 371 a.C., il comandante tebano Epaminonda a Leuttra inflisse la prima dura sconfitta a Sparta, mise definitivamente in ginocchio la rivale concedendo l’indipendenza alla Messenia. Persi gli iloti, Sparta non riuscì a superare la profonda crisi economica e sociale che ne seguì. BOX Gli iloti più fortunati Quando nel IV sec. a.C., il potere di Sparta cominciò a vacillare e il suo esercito ebbe bisogno di rinfoltire i ranghi decimati, furono arruolati anche gli iloti, cosa impensabile per gli schiavi di altre poleis. Tuttavia non fu loro concessa come ricompensa né la cittadinanza né altri diritti. Solo alcuni ottennero della terra e persino la libertà, che li rese neodamódeis (“neocittadini”). BOX L’uguaglianza degli uguali Il concetto di uguaglianza era alla base della società spartana e ne coinvolgeva tutti gli aspetti. Uguali, homóioi, gli spartiati erano per nascita: non si erano fusi infatti con altri popoli e avevano mantenuto inalterata la propria origine etnica. Uguali anche per livello economico: la terra di proprietà dello stato veniva suddivisa in lotti uguali che erano assegnati ad ogni spartiata già alla nascita. D’altro canto per evitare conflitti sociali lo stato impedì ogni forma di progresso economico e quindi di differenziazione sociale: era vietato agli spartiati il commercio e persino il possesso di oro, argento e denaro. Come racconta Senofonte, lo storico ateniese del V sec. a.C. che fu uno dei pochi stranieri ammesso a soggiornare a Sparta e poté così conoscerne di persona lo stile di vita, per possedere a Sparta una quantità di denaro di un certo rilievo, sarebbero occorse moltissime monete di ferro, che erano l’unico tipo di moneta coniato a Sparta ed erano di scarsissimo valore. Sarebbe stato impossibile allora nasconderle ad occhi estranei e il proprietario avrebbe rischiato la denuncia, l’atimia (l’“infamia”) e il declassamento! Come si diventa uguali L’uguaglianza degli spartiati (v. box) non era un diritto acquisito, bisognava esserne degni. Lo stato provvedeva ad omologare, a rendere “uguale” l’intera società attraverso l’educazione collettiva pubblica, l’agoghé, di carattere quasi esclusivamente militare, obbligatoria e uguale per tutti gli spartiati, perciò in grado di creare una comunità compatta, con un forte senso di identità e di superiorità. Infatti, secondo gli spartani, Licurgo non aveva lasciato leggi scritte e aveva persino vietato di trascriverle, proprio perché fossero trasmesse attraverso l’educazione. L’educazione pubblica costituiva un’anomalia in Grecia, dove di solito era affidata alla famiglia e restava circoscritta all’ambito privato. Sin dalla nascita il destino di uno spartiata era invece segnato per legge: se maschio sarebbe diventato un oplita, un soldato, se femmina una moglie in grado di generare figli robusti. In entrambi i casi il neonato doveva essere privo di imperfezioni che ne impedissero il futuro stabilito. (Vedi approfondimento) Approfondimento Educazione al maschile Fino a sette anni i bambini maschi ricevevano l’educazione in casa, dove venivano loro trasmessi saldi principi dalla madre, che si faceva portavoce della morale guerriera. Quindi venivano trasferiti in comunità, suddivisi in base all’età in compagnie, le aghélai (lett. “greggi”!), «dove avevano regolamento e cibi uguali in modo da abituarli a vivere sempre insieme sia nel gioco che nello studio. Come capo era scelto quello che si distingueva per coraggio e astuzia e gli altri lo prendevano come modello, ubbidendo ai suoi ordini e sottoponendosi alle sue punizioni. Imparavano la musica e la danza, ma a leggere e a scrivere solo quel poco che era necessario, mentre tutto il resto dell’educazione era diretto a imparare a obbedire, sopportare gli sforzi e vincere in combattimento. » (Plutarco, Vita di Ligurgo). La formazione culturale restava dunque ad un livello di base, mentre la rigida educazione militare era impartita dai ragazzi più grandi e soprattutto da pedónomi, magistrati educatori pubblici. A dodici anni gli adolescenti passavano ad un’altra aghela, dove venivano educati con un sistema di premi e punizioni severe, che arrivavano alle frustate, con la derisione e gli scherzi dei compagni più grandi, con prove sempre più dure, che miravano a instillare il senso dell’obbedienza, a sviluppare la capacità di sopportare fatiche e privazioni e di vivere in modo austero, “spartano” appunto. I ragazzi indossavano un semplice mantello, camminavano a piedi nudi, dormivano all’aperto su letti di canne, mangiavano in modo insufficiente in modo da essere spinti al furto per sopravvivere, perché, come dice Senofonte, «si considerava il furto una cosa positiva […] al fine di rendere i giovani più abili a procurarsi il necessario e più abili nella lotta», ma se venivano scoperti erano puniti severamente, perché «maldestri nel furto». Del resto per valutare la loro resistenza a scadenze fisse venivano percossi anche senza alcuna ragione. Chi non si mostrava all’altezza delle richieste di una simile educazione veniva disonorato ed emarginato dalla società. La krypteia La formazione del giovane spartiata si concludeva con un rito di iniziazione, che presso quasi tutte le società antiche segnava il passaggio dall’adolescenza alla fase adulta e che a Sparta era rappresentato dalla krypteia (“agguato”, dal verbo krypto, “nascondere”, e kryptéuo, “nascondersi”) e aveva il compito di forgiare definitivamente il futuro soldato. Ecco come la descrive Plutarco: «Le autorità di quando in quando mandavano fuori per la campagna i giovani che sembravano più accorti, permettendo loro di portare seco soltanto un pugnale, il necessario per mangiare e nulla più. I giovani durante il giorno si disperdevano in luoghi nascosti, ove riposavano indisturbati; come calava la notte, scendevano sulle strade e facevano la pelle a quanti iloti capitavano loro tra le mani. Sovente entravano anche nei campi e ammazzavano i contadini più robusti e valenti.» (Plutarco, Vita di Licurgo, in Vite parallele, trad. C. Carena, Einaudi, Torino 1959, ma potrei cercare una traduzione più moderna). La krypteia costituiva una milizia segreta che aveva lo scopo di tenere gli iloti in un continuo stato di terrore con il pericolo sempre in agguato di essere aggrediti e uccisi a tradimento, e nel contempo costituiva una prova decisiva per i giovani spartiati: chi vi prendeva parte doveva dimostrare di aver raggiunto il grado di esperienza e di coraggio necessario alle azioni di guerra. La vita dello spartiata A vent’anni il giovane diventava cittadino, veniva candidato a partecipare ai pasti in comune, dove era ammesso solo con l’approvazione degli anziani: un solo voto contrario era sufficiente ad escludere il candidato. I pasti collettivi a cui ogni spartiata doveva contribuire economicamente, con beni in natura o denaro, i syssizi (da syn, “insieme”, e sitos, “cibo”), erano imposti da una legge della rhetra di Licurgo. Gli spartiati adulti sedevano, divisi in gruppi di una quindicina, ad una mensa comune. Come racconta Senofonte, Licurgo «prescrisse anche una quantità [di cibo] che non fosse né eccessiva né troppo scarsa per le esigenze dei commensali. Spesso però si aggiungono supplementi straordinari ricavati dalle prede della caccia […]. Per consuetudine durante i pasti in comune si discorre di qualche bella impresa compiuta dai cittadini, con la conseguenza di non lasciare spazio all’insolenza e agli eccessi del vino, ai comportamenti indecenti e al turpiloquio.» (Senofonte, Costituzione degli spartani, 5). E Plutarco aggiunge: «Anche i fanciulli erano accompagnati ai sissizi come a una scuola, nella quale imparavano la temperanza, udivano parlare di politica, si trovavano liberi maestri, si abituavano a divertirsi moderatamente e a non aversi a male degli scherzi degli altri.» (Plutarco, Vita di Licurgo, 12). Il cibo preferito era il brodo nero, probabilmente uno spezzatino di maiale, reso scuro con l’aggiunta di sangue suino, che risultava disgustoso agli altri greci. Il giovane entrava nell’esercito a vent’anni, ma fino ai trent’anni non poteva lasciare la vita comunitaria in caserma e prender moglie. Anche quando gli spartiati potevano finalmente crearsi una famiglia, erano tenuti comunque a consumare almeno un pasto al giorno in comune e a continuare l’addestramento fino a sessant’anni. I sissizi, come la vita in caserma, erano parte integrante della vita del guerriero, perché garantivano la socializzazione e l’affiatamento indispensabile nella falange oplitica, in cui l’individuo doveva preoccuparsi non della propria vita, ma di quella del compagno. La vita comunitaria, d’altro canto, rinsaldava sia il senso dell’uguaglianza sia l’idea di non valere in quanto individui, ma in quanto parte di una comunità, dello stato. Obbedienza, disciplina, senso dello stato erano indispensabili a garantire l’ordine sociale e a concentrare tutte le energie cittadine per il controllo esterno, attraverso un esercito professionale. L’esercito di Sparta era in effetti il più forte e disciplinato di tutta la Grecia, capace di incutere terrore alla sola vista dei mantelli scarlatti e dei lunghi capelli degli opliti schierati nella falange e della Lambda, la “L” scarlatta che brillava sugli scudi degli spartani: «era uno spettacolo grandioso ed insieme terrificante vederli avanzare, al passo cadenzato dei flauti, senza aprire la minima frattura nello schieramento o provare turbamento nell’animo, calmi e allegri, guidati al pericolo dalla musica» (Plutarco, Lyc. 22.2.3). I flautisti, come spiega Tucidide «secondo la consuetudine erano stati schierati in mezzo a loro, non per seguire un rito, ma perché i soldati avanzassero camminando in modo uniforme e a tempo e lo schieramento non si scompaginasse, come fanno di solito i grandi eserciti quando si scontrano» (Tucidide, cit. 5.60) Educazione al femminile Nello stato spartano un ruolo fondamentale avevano anche le donne, spesso relegate in altre poleis al semplice ruolo familiare. Le giovani spartane invece ricevevano anch’esse un’educazione in qualche misura finalizzata alla guerra. Licurgo aveva infatti stabilito che fino ai sedici anni esse fossero educate come i maschi: «I corpi delle ragazze dovevano essere allenati attraverso la corsa, la lotta, il lancio del disco e del giavellotto, in modo che i bambini fossero generati da donne robuste. Per eliminare poi ogni scontrosità e timidezza [Licurgo] abituava le ragazze non meno dei ragazzi a cantare e danzare nude durante le feste, alla presenza dei giovani» (Plutarco). L’usanza ovviamente destava scandalo nel resto del mondo greco. Anch’esse all’età di sette anni venivano allontanate dalla famiglia ed educate in collegi in cui imparavano a tessere, a manipolare il grano, ma soprattutto esercitavano il corpo con duri esercizi fisici. Vestivano con tuniche corte e potevano liberamente circolare insieme agli uomini, cosa che spingeva gli altri greci a favoleggiare della libertà anche sessuale delle donne spartane. Per di più le ragazze non erano tenute a sposarsi troppo presto, come in altre poleis, anche se alla morte del padre, in mancanza di fratelli, erano obbligate a sposare il parente più prossimo. Tuttavia pare che, per non contrarre nozze sgradite, potessero pagare, cedendo metà del loro patrimonio, ma mantenendo la propria casa di città. Il matrimonio era comunque obbligatorio (vi erano sanzioni per i celibi) e il parto era considerato un atto eroico al pari del combattimento: la donna morta di parto riceveva onori funebri pari a quelli di un eroe caduto in battaglia. Dopo il matrimonio, le donne avevano in casa grande autorità su marito e figli, al punto che, come racconta Plutarco (14, 8), una volta uno straniero di passaggio avrebbe detto a Gorgo, moglie del re di Sparta Leonida: «Voi Spartane siete le sole donne che comandano i loro uomini». E Gorgo avrebbe risposto: «Siamo le sole che generiamo uomini». Alle donne gli uomini dovevano grande rispetto e il nutrimento necessario: in casi estremi era il marito a dover rinunciare al cibo in favore della propria sposa. Le mogli non si occupavano dei lavori domestici, affidati alle schiave, né dell’accudimento dei figli, affidato alle nutrici, e invece amministravano il kleros di famiglia, nei periodi in cui il marito era impegnato nell’addestramento o in guerra. Del resto le donne potevano avere la proprietà privata anche di grandi estensione di terre (pare che i 2 quinti dei 9000 kleroi appartenessero a cittadine, mentre a metà del III secolo a.C. due donne detenevano a Sparta le ricchezze maggiori). Esse potevano ereditare i beni paterni e, a partire dal IV secolo a.C., le ricche ereditiere assunsero anche un ruolo nella vita pubblica. L’adulterio, a quanto pare, non era condannato e veniva punito con pene pecuniarie (v. box su Gortina). La famiglia infatti non svolgeva un ruolo primario nella società spartana, perché non doveva garantire l’appartenenza del figlio ad una precisa famiglia (come accadeva nel mondo ionico), ma allo stato. La costituzione di Licurgo prevedeva addirittura che una donna sposata potesse generare figli da altri uomini, previo consenso del marito. Anche le donne venivano abituate a mettere al primo posto il valore in guerra, l’areté, dei propri uomini e famosa era la frase con cui li salutavano al momento della partenza per la guerra. Nella cerimonia della consegna dello scudo, mogli e madri vestite di bianco e con il capo velato, disposte davanti allo schieramento dei soldati, avanzavano verso di loro deponendo ai piedi del proprio uomo lo scudo. Poi, al suono del corno, lo raccoglievano infilandolo al braccio ed esclamavano: «Torna o con questo o sopra di questo». Non gli ponevano cioè altra scelta: o tornare vincitore oppure collocato per gli onori funebri sopra il proprio scudo, dimostrando così di non averlo abbandonato per facilitarsi la fuga dal campo di battaglia. Le donne dimostravano di avere più a cuore l’onore del figlio (o del marito) e il bene dello stato, piuttosto che il proprio affetto materno o coniugale: coraggiose, insomma, per essere degne dei loro uomini. Gli effetti di una ferrea educazione militare La conseguenza dell’agoghé fu quella di ottenere dal cittadino una dedizione assoluta al bene della polis fino alla morte, di addestrare un esercito potentissimo che rimase imbattuto in campo aperto fino al 371 a.C., di garantire stabilità allo stato, di trasformare Sparta in una potenza internazionale e in un modello per tutte le costituzioni di ispirazione oligarchica. Ma, di contro, a partire dal VI secolo a.C., quando l’agoghè si affermò definitivamente, furono trascurate le attività culturali e le arti, e la poesia si esaurì per sempre. È vero che forme d’arte continuarono ad essere usate (ad esempio le formazioni oplitiche spartane, a differenza degli altri eserciti dell’epoca, affrontavano i nemici con una lenta marcia accompagnata da canti e dal suono dei flauti), ma si continuarono ad usare le vecchie composizioni. (v. approf.) LE ISTITUZIONI La costituzione spartana Sparta non attraversò tutte le tappe tipiche di altre poleis. Anche la società spartana, come quella di altre comunità primitive, era formata da tre diverse tribù, ciascuna delle quali riuniva più fratrie, le quali, a loro volta, erano costituite ciascuna da un insieme di famiglie. Ad una prima fase monarchica seguì, in seguito a violente lotte di potere dell’aristocrazia guerriera contro le famiglie reali, un governo misto: una diarchia affiancata dall’aristocrazia, che di fatto deteneva saldamente nelle proprie mani il potere e impediva l’emergere di singole personalità. Proprio per questo non si verificò a Sparta la tirannide, che, come abbiamo visto era opera di un individuo che si assumeva il ruolo di arbitro della stasis e limitava il potere aristocratico appoggiandosi al demo, al popolo. Anzi la città intervenne attivamente per cacciare i tiranni di altre poleis, come i Pisistratidi da Atene, perché i tiranni avevano la tendenza ad allearsi tra loro e avrebbero potuto costituire un pericolo per Sparta. Invece la città «fin dalla più remota antichità ebbe una buona costituzione e non fu mai dominata dai tiranni: sono circa quattrocento anni o poco più dalla fine di questa guerra [contro la Messenia] che i Lacedemoni hanno la medesima costituzione e traggono da questo fatto la loro potenza che ha permesso loro di sistemare gli affari anche nelle altre città» (Tucidide, cit, I, 18) Se non è accertato che la costituzione spartana sia stata elaborata da un legislatore, è storicamente plausibile l’ipotesi che lo stato spartano si sia strutturato nel corso dell’VIII secolo, in coincidenza e dopo la prima guerra messenica. Fu in quel periodo che si delineò una netta divisione in classi sociali, lo stato intervenne nell’organizzazione dell’esercito, dei culti religiosi, dell’economia, stabilì regole di vita e di comportamento dei cittadini, diede indicazioni persino sul corretto abbigliamento e sull’alimentazione più adeguata. Furono creati nuovi ordinamenti e una forma di governo che nella sostanza rimaneva oligarchica, ma, secondo Aristotele (Politica, 1265b), era la migliore perché «combinazione di tutte le costituzioni […] E in realtà alcuni dicono che risulta composta di oligarchia, di monarchia e di democrazia», come dimostrerebbe la presenza di un consiglio di nobili (la gherusia), di due re (la diarchia) e di un’assemblea popolare (l’apella). La diarchia La nuova costituzione nacque probabilmente perché un’aristocrazia guerriera che la guerra rendeva sempre più potente esautorò il potere del re (basileus), il quale divenne un semplice magistrato dai poteri limitati. Il fatto che Sparta fosse nata per sinecismo può forse spiegare in parte perché il potere regale fosse suddiviso tra i discendenti delle due più autorevoli famiglie aristocratiche, quella degli Agiadi, la più antica, e quella degli Euripontidi, le quali sostenevano di essere della stirpe di Eracle, fondatore della città. La carica dei re si manteneva ereditaria e a vita, secondo la tradizione monarchica, ma i loro compiti si ridussero al potere militare - comandavano l’esercito, dichiaravano guerra e decidevano la pace - e alle funzioni religiose come sacerdoti di Zeus e tramite tra gli dei e la città. Gli efori Per controllare l’operato dei re, l’aristocrazia impose, a partire dal 753 a.C., cinque dei suoi rappresentanti, cui era affidata la giurisdizione civile di ciascuno dei cinque distretti territoriali in cui Licurgo avrebbe diviso la popolazione spartana. Per evitare, però, che abusassero del loro potere, il loro incarico fu annuale ed elettivo: venivano scelti tra tutti gli homóioi su indicazione della gherusia ed eletti per acclamazione dall’apella. Erano gli efori (che significa “sorveglianti”), a capo dei quali era posto l’eforo più anziano, che dava il proprio nome all’anno ed era perciò chiamato eponimo. Era lui a presiedere gherusia e apella. Furono attribuiti agli efori poteri esecutivi, inizialmente limitati alla sorveglianza della vita civile e politica (dovevano far eseguire le decisioni prese dall’assemblea), ma poi estesi sempre di più: convocavano l’apella e la guidavano, controllavano la vita e i costumi dei cittadini e l’operato degli altri magistrati, compresi gli stessi re, e avevano persino il diritto di arrestarli; si occupavano della politica estera e dell’interpretazione degli oracoli. Erano loro, appena assunta la carica, a dichiarare guerra agli iloti, per dare la possibilità a chiunque di ucciderli impunemente. L’eforato era l’unica magistratura riunita in permanenza e di fatto finì col governare la città. La gherusìa L’organo di governo più importante dello stato, accanto agli efori, era la gherusia, simile a quello che a Roma sarà il senato. Presieduta dall’eforo eponimo, era composta dai due re e da 28 aristocratici, i gheronti (“anziani”), scelti tra coloro che avessero superato i sessant’anni di età e fossero quindi ormai esonerati dal servizio militare. Erano eletti a vita dall’assemblea tra le famiglie aristocratiche più autorevoli e avevano compiti legislativi, perché discutevano e proponevano le leggi da far approvare all’assemblea, amministrativi e giudiziari: giudicavano infatti i reati più gravi, quelli che riguardavano i rapporti tra il cittadino e lo stato, come il tradimento e i delitti di sangue, imponevano multe, condannavano all’esilio o addirittura alla morte e dichiaravano àtimoi, “senza onore, infami” coloro che si erano dimostrati codardi in guerra o avevano tenuto comportamenti disonorevoli. La gherusia godeva di grande prestigio perché si poneva a garante della continuità e della stabilità politica e della fedeltà alle tradizioni. BOX Un’elezione in stile tv Originale e “moderno” il modo di eleggere i gheronti, descritto da Plutarco e simile a certe gare odierne in tv, in cui gli spettatori esprimono il proprio voto con l’intensità degli applausi. Accadeva qualcosa di simile quando si doveva eleggere un gheronte: i diversi candidati si presentavano davanti all’assemblea che applaudiva in ragione delle proprie preferenze. Per evitare di farsi influenzare nello stabilire l’intensità degli applausi – e in assenza di applausometri! – a giudicare chi avesse ricevuto l’applauso più intenso era un gruppo di persone chiuse in un edificio vicino al luogo dov’era riunita l’apella, che ignorava i nomi dei concorrenti. L’apella Era l’assemblea di tutti gli spartiati che avessero superato i 30 anni, decideva sulle leggi proposte dalla gherusia tramite acclamazione, senza possibilità di dibattito, né di modifiche, anche perché a prendere la parola erano i nobili più autorevoli e nessuno abituato all’obbedienza cieca e assoluta avrebbe osato dissentire. Aveva anche il compito di eleggere i magistrati, di decidere sulle controversie per la successione al trono, di inviare ambascerie e di conferire la cittadinanza in casi eccezionali. Era così chiamata perché si riuniva in occasione delle feste in onore di Apollo, dette Apéllai, in origine all’aperto, poi in un edificio nei pressi dell’agorá chiamato skiás (“pergolato” che deriva da skiá, “ombra”) Schema delle classi sociali Classe Definizione Costituita da homoioi uguali 9.000 spartiati perieci iloti abitanti intorno a Sparta, liberi cittadini oppressi schiavi Diritti libertà, cittadinanza, kleros, diritti politici Doveri agoghé, contribuire e partecipare ai sissizi, versare tributi, contribuire alle spese pubbliche, provvedere al proprio equipaggiamento 50.000 discendenti di libertà senza pagare tributi e combattere a micenei e altre cittadinanza né diritti fianco di Sparta, con truppe popolazioni pre-doriche politici; svolgere varie ausiliarie di armati alla leggera, sottomesse attività subirne le decisioni 140/200.000 messeni risiedere nella propria coltivare la terra a proprie spese e terra, ma non consegnare agli spartiati quote possederla stabilite di prodotti agricoli Schema riassuntivo della Costituzione di Licurgo Istituzion Definizione Costituita da Scelta da… Funzioni e per… spartiati ereditaria e a vita militari: comandare l’esercito, dichiarare diarchia 2 re guerra e decidere la pace religiose: sacerdoti di Zeus, tramite tra gli dei e la città. sorveglianti 5 spartiati eletti dall’apella esecutive: far eseguire le decisioni, efori per 1 anno convocare l’apella, controllare cittadini e magistrati, compresi i re, occuparsi di politica estera e interpretazione degli oracoli; dichiarare guerra agli iloti. Eforo eponimo: presiedere gherusia e apella. gherusia consiglio degli 28 spartiati oltre i 60 eletta a vita da amministrative anziani anni + 2 re, apella in base legislative: discutere e proporre leggi presieduta da eforo alle ovazioni giudiziarie: giudicare tradimento e gravi eponimo delitti di sangue, comminare multe, esilio, morte, atimía assemblea spartiati oltre i 30, deliberative: decidere sulle leggi proposte apella degli uguali presieduta da eforo e sulle controversie per la successione al eponimo trono, inviare ambascerie, concedere la cittadinanza elettive: eleggere i magistrati ATENE NELL’ETÀ ARCAICA LO SPAZIO La regione Atene, come Sparta, in epoca storica coincideva con la regione in cui sorgeva. L’Attica deve il suo nome alla parola greca Akté che significa “penisola, costa alta, promontorio”. Sono appunto queste le caratteristiche della regione: a forma di triangolo con il vertice in direzione sud-est, l’Attica è una penisola che confina a nord con la Beozia, ad est col mare Egeo, a sud-ovest col golfo Saronico e a ovest con la Megaride; ha un’estensione di 2.500 km² (un quarto circa dell’estensione del territorio controllato da Sparta); è alta, perché costituita da monti e colli isolati, ma molto vicini tra loro, brulli e inospitali, tra i quali si aprono alcune pianure. Alcuni di questi monti sono entrati nella mitologia. BOX Il Citerone e l’Elicona, vicini ma diversi nella morfologia, diedero origine al mito di due fratelli mutati in monti: il primo, alto 1410 m, aspro, erto, roccioso, famoso perché vi fu esposto Edipo (v. il mito di Edipo a p.???), era considerato la sede delle Erinni, le Furie vendicatrici; il secondo dalle dolci pendici fu scelto come sede delle Muse. I due monti, con il Parnete più ad est, difendono da nord la regione. A est invece si alza il monte Pentelico, celebre per il suo marmo pregiato di grana finissima e straordinaria bianchezza; alcune serie di alture coprono anche la parte meridionale dell’Attica e terminano in un giogo montuoso, il Laurio, che si spinge fino in mare col promontorio del Sunio. Il Laurio aveva numerose e ricche miniere di rame e soprattutto d’argento, che veniva utilizzato per battere moneta e contribuiva non solo alla ricchezza di Atene, ma anche alla sua democrazia. Ogni cittadino ateniese infatti, nel V secolo a.C. riceveva ogni anno una rendita di 10 dracme derivanti dall’argento del Laurio. Fondamentali erano anche le baie: a est la baia di Maratona, su cui si affaccia l’omonima pianura, è uno dei due soli punti da cui si può accedere per via di terra in Attica (l’altro è, a ovest, la zona di Megara). BOX Proprio dalla piana di Maratona tentarono di passare nel 490 a.C. i persiani che furono fermati dagli ateniesi con una famosa battaglia. Al centro della piana sorge un colle artificiale alto 12 m e con una circonferenza di 65: è il tumulo sepolcrale eretto in onore dei soldati ateniesi caduti in quella battaglia. a ovest la baia di Eleusi è lo sbocco della pianura sacra a Demetra, tanto ricca di cereali da costituire il granaio di Atene; i porti di Atene sono delimitati da una penisoletta che al centro ha il colle di Munichia (che forma la baia omonima) e nella punta il colle del Pireo che limita a sud l’omonimo porto, il principale di Atene, diviso in tre bacini utilizzati anticamente quasi esclusivamente come approdi commerciali. Le navi da guerra invece erano ancorate nella grande rada del Falero, a 35 stadi (poco più di 6 km) ad est di Atene, ben difesa dai venti e dalle tempeste. Di fronte ad Atene, assai vicina alla terraferma, si erge l’isola di Salamina, che con la sua forma a ferro di cavallo chiude la baia di Eleusi. Qui Temistocle attirò e distrusse le navi persiane in una battaglia gloriosa. Le risorse La regione dell’Attica è scarsamente irrigata e quasi tutti i corsi d’acqua in estate rimangono asciutti. Il fiume principale è il Cefiso, che scorre a ovest di Atene nella pianura principale, la Cecropia, e alla foce, presso la baia del Falero, un tempo d’inverno inondava il paese. Il fiume forniva l’argilla utile per forgiare vasi. A sud di Atene invece scorre l’Ilisso che nasce dal monte Imetto e si perde poi nella pianura. La terra non era molto fertile, come testimonierebbero i terrazzamenti artificiali che consentivano di sfruttare al massimo ogni pezzo di terreno. Eppure questa terra avara era favorita dal clima mite e dall’aria straordinariamente pura. Colpisce soprattutto il particolare splendore della luce, poiché le alture, per la massima parte nude, riflettono con gran forza i raggi solari. La secchezza dell’aria, per altro, ha contribuito alla conservazione degli edifici e delle opere d’arte. Gli abitanti traevano dalla terra prodotti in quantità discreta, soprattutto olio di ottima qualità, che veniva esportato in tutto l’Egeo (si diceva che il primo ulivo fosse stato piantato da Atena stessa sull’acropoli di Atene). Eccellenti e abbondantissimi i fichi, che servivano da dolcificante, tanto che, a quanto si tramandava, sarebbe stato vietato esportarne. Anche il miele prodotto sul monte Imetto era molto ricercato ed esportato con ingenti introiti per Atene. Tra l’altro in Attica si produceva anche la cicuta, una pianta da cui si traeva un veleno, divenuto famoso perché servì a giustiziare Socrate, il filosofo ingiustamente condannato a morte. Il legname fornito dal Parnete, particolarmente adatto per le costruzioni civili e navali, favorì la creazione di una flotta mercantile e militare in grado di imporsi su tutto il Mediterraneo orientale. Tra gli animali erano abbondantissime le pecore e le capre, mentre mancavano i cavalli, tranne che nella piana di Maratona; nel mare abbondavano i pesci. Nei crepacci dell’acropoli vivevano moltissime civette o nottole, tanto che esisteva un detto, “portar nottole ad Atene”, per indicare una cosa superflua. La civetta era animale sacro ad Atena e simbolo della dea, a cui si dava l’epiteto di “occhi di civetta, occhi lucenti” (glaucòpis). La suddivisione dell’Attica La particolare conformazione dell’Attica, con la presenza di tante catene montuose e collinari, favorì la suddivisione della regione in diversi distretti o demi, distinti in tre zone: la Pedía, la pianura, al centro e nord-ovest della regione, in cui sorgevano Atene e i principali insediamenti dell’Attica, tra cui Eleusi, celebre per lo splendido santuario di Demetra, costruito da Pericle, in cui si celebravano i misteri Eleusini. Era la zona più ricca dell’Attica, con le campagne più fertili, di cui si impossessarono i nobili; l’Akría, la zona montuosa, per la maggior parte sulla costa orientale, per lo più brulla, a parte la piccola piana di Maratona. Era la zona meno fertile, sede di pascoli e di pastori, ma anche dei contadini più miseri che strappavano ad una terra arida scarsi prodotti; la Paralía (“presso il mare”), la fascia costiera tra Atene e il Sunio, abitata da pescatori e commercianti, che le impressero col tempo grande impulso. L’influenza della regione sulla storia di Atene La morfologia dell’Attica ebbe un’influenza enorme sulla storia della più splendida città greca. La presenza di pianure che permettevano un’agricoltura progredita non solo favorì gli insediamenti sin dalla preistoria, ma costituì una fonte di guadagno notevole con l’esportazione di prodotti di qualità. Del resto la vicinanza del mare e la presenza di diversi porti proiettarono immediatamente gli ateniesi verso la navigazione e i commerci per mare. Se ne avvantaggiarono tutte le classi sociali di Atene: la nobiltà proprietaria dei latifondi della pianura, perché fondava la propria ricchezza sull’agricoltura; la classe mercantile padrona dei commerci attraverso tutto il Mediterraneo; l’artigianato, perché le ricchezze fornite dalla regione: l’argilla, il marmo, il rame, l’argento permisero di produrre prodotti di pregio molto richiesti anche all’estero; gli strati più umili della popolazione perché potevano essere ingaggiati sulle navi della flotta mercantile che divenne sempre più grande e potente. L’economia ateniese fu quindi variegata e favorì lo sviluppo di diverse categorie sociali. Dai loro conflitti emersero forme nuove di governo e costituzioni sempre più avanzate che portarono alla nascita della democrazia. LA STORIA Le origini La storia di Atene è legata alla conformazione della terra su cui sorgeva. La presenza di fiumi e pianure, per quanto ridotti di numero ed estensione, aveva favorito gli insediamenti già nel Neolitico. Nell’età del bronzo si svilupparono alcuni centri micenei e di un mitico re di Atene, Egeo, parlava la tradizione. Regione decentrata rispetto ai flussi migratori dei dori e protetta dalle montagne, l’Attica fu risparmiata dalle migrazioni e rimase abitata da ioni, che vi si erano stabiliti alla caduta dei regni micenei. All’inizio del Medioevo ellenico l’Attica era costellata di varie unità territoriali, che, secondo la tradizione, furono unificate dal figlio di Egeo, Teseo, l’uccisore del Minotauro, mentre gli storici parlano del consueto fenomeno del sinecismo, che tra il l’VIII e il VI sec. a.C. consentì ad Atene di estendersi sull’intera regione dell’Attica, dove tutti gli abitanti divennero cittadini ateniesi, a prescindere dal loro luogo di residenza. Gli stranieri, invece, difficilmente ricevano la cittadinanza, sebbene fossero ben accetti e ottenessero, se avevano un prostátes, un garante o patrono, il diritto di risiedervi e lavorare pagando una tassa. Essi erano definiti meteci, erano liberi, ma non potevano acquistare terreni in Attica; in caso di guerra dovevano combattere a fianco degli ateniesi. Fu proprio la maggiore apertura di Atene a garantirle lo sviluppo economico, sociale, politico e culturale che il rigido sistema spartano non poté permettere. BOX La città di Atene e i suoi porti Il nome greco e latino di Atene, che è plurale (rispettivamente Athenái e Athenae), sottolinea la pluralità di centri abitati, demi, che concorse a formare per sinecismo la città. Essa si venne perciò a costituire in un centro urbano, Atene, e nella chora (“regione”), il territorio circostante che comprendeva tutta l’Attica con le sue città minori. Atene era suddivisa nell’acropoli, letteralmente la “città alta”, l’asty, la città bassa, e i tre porti del Pireo, di Munichia e del Falero, collegati alla città attraverso le Lunghe Mura. Riguardo all’estensione della città prima delle guerre persiane non sappiamo molto, ma dopo la distruzione operata dai persiani nel 480 a. C., Temistocle la ricostruì splendidamente, la fornì di mura, fondò il porto del Pireo, avviò la costruzione delle Lunghe Mura, che unirono sin dal 456 a.C. Atene coi suoi porti: il muro settentrionale, lungo 40 stadi (7 km), detto anche “esterno” perché il più esposto agli assalti dei nemici, conduceva alla cinta settentrionale del Pireo; il muro meridionale conduceva al Falero. Poi si costruì un terzo muro, il “muro di mezzo”, che portava ancora al Pireo e serviva a garantire le comunicazioni della città col porto nel caso gli altri due fossero caduti in mano dei nemici. Anche tra i porti pare esistessero delle fortificazioni che li mettevano in comunicazione.] Il perimetro totale della città ricostruita e dei suoi porti era di oltre 31 km, mentre le mura intorno alla sola città erano lunghe quasi 8 km e dotate di 11 porte di accesso. Le strade cittadine erano per lo più strette e irregolari, le case, in genere povere, di mattoni crudi, ammontavano a 10.000 e gli abitanti, secondo i calcoli, si aggiravano tra i 100.000 e i 180.000. La zona delimitata dalle mura costituiva l’asty, la città bassa, al cui centro si eleva ad un’altezza di circa 100 m una rupe lunga, da ovest ad est, 300 m e larga al massimo 130, accessibile con un rapido pendio solo dalla parte occidentale. Qui sorgeva l’acropoli. Ad occidente dell’acropoli sorge il roccioso colle dell’Areopago (“colle di Ares”) alle pendici del quale sorgevano il tribunale dell’Areopago e il sepolcro di Edipo. A occidente dell’acropoli su una collina chiamata Pnice pare si riunisse il popolo in assemblea. La parte sud-occidentale della città era formata da un colle alto e dirupato detto Museo, dal nome del cantore che si diceva vi fosse sepolto. Nel quadrilatero che si viene a formare tra il Museo, la Pnice, l’Areopago e l’acropoli, si estendeva l’agorá, la piazza in cui si trovavano alcuni portici (stoái) e, a quanto pare, il Bouleuterion in cui si riuniva la Boulé, il Consiglio dei Cinquecento, a cui era affidato il governo democratico della città. LA STORIA E LE ISTITUZIONI L’affermazione dell’oligarchia Contrariamente a Sparta, Atene percorse tutte le tappe tipiche dell’evoluzione delle poleis greche. Di origine ionica, aveva una popolazione originariamente suddivisa in quattro tribù, phylái, che comprendevano diverse fratríe. Per essere cittadini ateniesi occorreva essere iscritti alla nascita ad una fratria. Atene fu originariamente governata da un basiléus, un magistrato unico scelto tra i diversi capi dei ghene (basileis), dotato di potere religioso, militare e giudiziario. Di una serie di re parla la tradizione, ma si tratta di figure leggendarie di cui mancano notizie certe. Tra il X e il IX sec. a.C., gli eupatridi (“figli di padri nobili”), cioè l’aristocrazia terriera che si era impossessata di tutte le terre migliori della pedía, esautorarono la monarchia, instaurando un regime oligarchico. Essi sostenevano di essere autoctoni e non immigrati ed erano raggruppati in ghene (da ghenos, “origine, stirpe”), insieme di famiglie nobili che, a garanzia della propria nobiltà, facevano risalire le proprie origini ad un antenato mitico comune. A garantire il loro potere era proprio l’origine familiare, l’appartenenza al ghenos, non l’origine etnica come a Sparta. I poteri del re passarono prima ad un arconte (“governatore” da archo, “comandare”), poi furono suddivisi fra tre arconti, scelti a turno dall’assemblea tra i diversi ghene: l’arconte basiléus manteneva le funzioni religiose del re e giudicava i reati di empietà, l’arconte polemarco (da pólemos, “guerra”) quelle militari, di comandante dell’esercito in guerra, l’arconte eponimo dava il nome all’anno (che ad Atene andava da luglio a giugno), aveva funzioni legislative, esecutive, giudiziarie, di diritto familiare (giudicava le liti familiari e le questioni relative alle eredità). La carica di arconte era originariamente vitalizia, poi divenne decennale, infine, nel 682 a.C., probabilmente per permettere una rotazione del potere tra tutte le famiglie nobili, divenne annuale. Sul finire del VII secolo a.C., la magistratura venne anche estesa con la creazione di sei arconti tesmotéti (“custodi delle leggi”), che avevano potere esecutivo: dovevano custodire e far applicare le leggi, che erano tramandate oralmente e considerate di origine divina. Al termine del loro mandato, gli arconti, se la loro condotta era stata irreprensibile, entravano di diritto a far parte dell’Areopago, un’istituzione aristocratica che si riuniva sulla collina omonima (v. sopra) e svolgeva funzione di Consiglio (aveva il diritto di veto all’approvazione di proposte di legge che considerava contrarie alle norme, nominava i nuovi arconti e ne giudicava l’operato) e di tribunale (emetteva sentenze sui delitti di sangue e talvolta anche sui reati di empietà). L’ecclesia, l’assemblea popolare a cui partecipavano tutti i cittadini maschi al di sopra dei vent’anni, era allora riservata solo a coloro che possedevano della terra, con esclusione quindi dei teti, i lavoratori privi di terra. Era convocata raramente e aveva ancora poteri molto limitati: prendeva atto delle delibere delle altre magistrature ed eleggeva gli arconti. L’espansione e i primi conflitti Nell’VIII sec. a.C. anche Atene, come altre poleis, ebbe un notevole incremento demografico, ma la sua economia, grazie ai commerci che si erano andati sviluppando (la ceramica ateniese arrivava fino in Siria), era tra le più ricche della Grecia e sufficiente a sfamare la popolazione. Così Atene non prese parte alla colonizzazione, tuttavia intraprese alcune guerre che le permisero di espandersi. La nuova ricchezza minò le basi del potere oligarchico dei ghene, nacquero conflitti tra le classi e una serie di vendette private. BOX Il primo tentativo di tirannide ad Atene Come in altre città, a cercare di placare la stasis fu un tiranno: un giovane aristocratico, vincitore olimpico, di nome Cilone, probabilmente nel 632, ordì una congiura e s’impadronì dell’acropoli. Il tentativo fallì per l’intervento di un arconte della famiglia degli Alcmeonidi, una delle più antiche e potenti di Atene, che liberò l’acropoli e fece strage dei congiurati, commettendo il sacrilegio di ucciderli nel tempio dove si erano rifugiati: ne seguì un periodo di vendette che insanguinarono le famiglie aristocratiche. La riforma di Dracone La giustizia era ancora affidata all’arbitrio dei nobili che si tramandavano le leggi oralmente e, come in altre civiltà, si basavano sulla vendetta privata. La necessità di spezzare la catena di vendette familiari e la richiesta di maggiore equità da parte del popolo potevano essere soddisfatte solo modificando la legislazione vigente e fissando le leggi per iscritto, in modo da evitare abusi. Ad assumersene il compito fu nel 621-620 a.C. un arconte, Dracone (o Draconte), un personaggio dai contorni leggendari, di cui si sa poco. E poco si sa della sua costituzione, tranne il fatto che le sue leggi furono giudicate dagli stessi antichi troppo severe. Pare però che Dracone abbia semplicemente trascritto usi e norme tradizionali, a cui apportò solo qualche significativa novità: sottrasse la giustizia alla vendetta privata e la affidò allo stato che la garantiva con un regolare processo: era la prima limitazione al potere dell’aristocrazia; distinse tra omicidio volontario, passibile della pena di morte, e omicidio involontario, meno grave, che si poteva scontare con l’esilio. La legge sull’omicidio rimase in vigore, senza modifiche, per tutta l’età classica. BOX LESSICALE Draconiano Le leggi di Dracone erano ritenute dagli antichi così severe che Plutarco (I sec. d.C.) scrisse: «coloro che avevano rubato ortaggi o frutta erano condannati alle medesime pene dei sacrileghi e degli omicidi. Perciò più tardi Demade divenne famoso per quel suo detto, che Dracone aveva scritto le sue leggi col sangue, non con l’inchiostro» (Plutarco, Vita di Solone, trad. M. Manfredini, Fondazione L.Valla-Mondadori, Milano 1977). Ancor oggi il termine “draconiano” indica un ordine o provvedimento severissimo e intransigente. Le notizie sulla costituzione di Dracone ci sono pervenute soprattutto grazie alla ripubblicazione delle leggi draconiane nel 409-408 a.C. su una stele di marmo, oggi al Museo epigrafico di Atene, che riguardano essenzialmente i delitti di sangue. Le leggi di Dracone non garantivano lo stesso trattamento tra le classi sociali: nel caso di debitori insolventi, ad esempio, i nobili non perdevano la libertà, gli appartenenti ad altri ceti sì. La tradizione attribuisce a Dracone anche la creazione, accanto all’Areopago, a cui rimaneva il compito di giudicare i reati più gravi, del tribunale degli eféti, 51 giudici scelti dalla nobiltà, a cui spettava giudicare l’omicidio involontario. Ma è probabile che gli efeti ad Atene esistessero già. Schema delle classi sociali prima della riforma di Solone Classe eupátridi (“figli padri nobili”) geomóri demos contadini teti meteci schiavi Costituita da Sede Base economica e diritti prevalente di aristocrazia terriera pedía possesso delle terre più fertili, accesso raggruppata in ghene alle magistrature aristocrazia cittadina città partecipazione all’esercito e all’ecclesia commercianti e paralía e attività di commercio e artigianato, artigiani città partecipazione all’esercito e all’ecclesia, privi di diritti politici akría possesso di appezzamenti di terreni poco fertili, partecipazione all’esercito e all’ecclesia, privi di diritti politici lavoratori privi di terra Attica lavori salariati, privi di diritti politici stranieri liberi Attica liberi col diritto di risiedere e lavorare ad Atene sotto tutela di un prostátes e pagando una tassa, privi di cittadinanza e diritti politici; divieto di acquistare terreni in Attica e dovere di combattere a fianco degli ateniesi. stranieri prigionieri di non liberi e privi di diritti. guerra Schema riassuntivo delle magistrature di Atene prima della Costituzione di Solone Istituzione Definizione Epoca Costituita Scelta da… Funzioni da per… un magistrato Medioevo uno dei nominato a - religiose: sommo sacerdote basiléus (re) ellenico capi dei vita - militari: comandante supremo fino al ghene - giudiziarie: giudica i reati di 1000 a.C. empietà quattro tribù insiemi di phylái fratríe fino al VI gruppi familiari insiemi di registrano i cittadini alla nascita fratrie sec. a.C. ghene stirpi nobili insiemi di ghene famiglie di eupatridi arconte governatore re scelti dai - assume le funzioni religiose e nobili giudiziarie del re basiléus - a vita arconte comandante assume le funzioni militari del re poi per militare polemarco dal X sec. tre nobili dieci anni legislative, esecutive, giudiziarie e arconte governatore che a.C. circa - dal 682 “denomina”, dà di diritto familiare eponimo a.C. per un nome (all’anno) anno arconti governatori dalla fine sei nobili scelti dai esecutive: del VII sec. nobili - custodisce e far applicare le leggi tesmotéti “custodi delle leggi” a.C. per un di origine divina, tramandate anno oralmente - controlla la legalità degli atti dei magistrati -pone il veto su proposte di legge areopago Consiglio politico dal X sec. nobili ex- a vita dal nome e tribunale a.C. circa arconti contrarie alle norme, (“colle di - nomina nuovi arconti e giudica il Ares”) loro operato della sede - giudica i delitti di sangue e talvolta i reati di empietà assemblea dal X sec. cittadini convocata raramente nell’agorà con ecclesia popolare a.C. circa maschi dai poteri molto limitati: 20 anni, - prende atto delle delibere delle possessori altre magistrature di terra - elegge gli arconti La stasis «Poiché la lotta infuriava e da tempo erano schierati gli uni contro gli altri, i cittadini scelsero di comune accordo come pacificatore e arconte Solone e misero nelle sue mani lo stato», Aristotele, filosofo ateniese del IV sec. a.C., riassume così la situazione ad Atene all’inizio del VI secolo, presentando un personaggio che era divenuto l’emblema della saggezza e della moderazione. La legislazione di Dracone non era stata sufficiente a placare gli animi e a soddisfare le richieste sociali dei ceti emarginati dal potere. Il demos, composto da commercianti e artigiani, che si erano arricchiti con lo sviluppo dei commerci e facevano parte dell’esercito oplitico cittadino, mal tolleravano di essere privi di diritti politici e pretendevano di partecipare alla vita politica per poter far sentire la propria voce e ottenere diritti e leggi adeguate alle proprie esigenze, ben diverse da quelle degli aristocratici. L’incremento demografico del VII secolo non permetteva di sfamare, soprattutto in occasione di carestie e calamità naturali, la popolazione in espansione e i contadini non riuscivano più a competere con i grandi proprietari terrieri nobili, che possedevano i campi più fertili. Così erano spesso costretti ad indebitarsi, ipotecando, a garanzia del prestito, la propria terra. Se non potevano saldare il debito, il creditore, che in genere era un nobile, confiscava la terra e rendeva schiavo il contadino finché non fosse riuscito a pagare il dovuto, ma difficilmente questo avveniva. Il numero dei cittadini liberi andava perciò scemando, ma i nobili restavano arroccati nei propri privilegi. Perciò i contadini aspiravano alla redistribuzione della terra. BOX Solone era nato a Salamina nel 640 a.C. da nobile famiglia ed era stato lui nel 612 a conquistare la sua isola natale durante la guerra contro Megara e ad annetterla ad Atene. La sua fama di uomo saggio lo indicò quale arbitro dei conflitti sociali, che garantisse l’eunomía, il buon governo, evitando gli eccessi: “nulla di troppo” era il detto dell’oracolo di Delfi alla base della sua idea di buon governo, e quando egli pensò d’averla realizzata, dopo aver fatto giurare ai concittadini di non modificare la sua costituzione per 10 anni, si allontanò «dal suo paese per 10 anni, mettendosi in mare col pretesto di vedere un po’ di mondo; ma in realtà per non essere costretto ad abrogare qualcuna delle leggi che aveva promulgato» (Erodoto, I. p. 44). Era anche un modo per permettere agli ateniesi di attuare la costituzione senza essere influenzati dalla sua presenza. Ma dovette constatare il fallimento della sua opera, quando, tornato ad Atene, non riuscì a contrastare l’avvento della tirannide di Pisistrato nel 561 a.C.. Morì poco dopo, nel 559, lasciando comunque di sé una fama di saggezza che lo fece annoverare tra i sette sapienti. La riforma di Solone La conseguenza della stasis sarebbe stata la tirannide, se Solone, a cui in effetti era stata offerta, non l’avesse rifiutata. Egli accettò invece, per l’anno 594-593 a.C., la carica di arconte con poteri straordinari di pacificatore, diallachthés, e promulgò una nuova politeia, “costituzione”, che si poneva l’obiettivo di soddisfare con moderazione ed equilibrio le richieste dei vari strati della popolazione. Innanzitutto evitò di scontentare i nobili ridistribuendo la terra come chiedevano i contadini, però promulgò la seisáchtheia (da seio, “scuoto” e achthos, “peso”, perciò “scuotimento dei pesi”): per “alleggerire il peso” dei debiti ridusse la quantità d’argento presente nella moneta ateniese, la dracma, in modo tale da svalutarla e abbassare l’ammontare del debito (v. box); annullò tutte le ipoteche che gravavano sui terreni (egli stesso contro i suoi detrattori si vantava di aver liberato la terra dai cippi che delimitavano i campi ipotecati), ridistribuì i terreni di proprietà dello stato di cui si erano impossessati i nobili, liberò coloro che erano diventati schiavi per debiti, riscattò quelli che erano stati venduti fuori da Atene, richiamò in patria quelli che erano fuggiti per debiti. La legge per altro era retroattiva e quindi ripristinò l’assetto demografico che l’ingordigia dei nobili aveva depauperato. Naturalmente la schiavitù abolita da Solone fu solo quella per debiti, perché nel mondo antico sarebbe stato inconcepibile abolire la schiavitù tout court, visto che su di essa si fondava l’economia stessa. Box La seisáchtheia Per ridurre i debiti Solone stabilì che 100 nuove dracme equivalessero a 73 delle vecchie e perciò chi aveva un debito di 100 vecchie dracme veniva a pagare la stessa somma, ma in dracme nuove, versando di fatto il valore di sole 73 vecchie dracme. Box di approfondimento Oltre la seisáchtheia Solone promulgò anche altre leggi che potessero garantire un riequilibrio sociale, garantendo ad ogni classe dei benefici: A favore dell’aristocrazia potenziò l’Areopago: gli attribuì la tutela delle leggi, la sorveglianza sull’amministrazione dello stato e sull’educazione e i costumi dei cittadini. A favore dei nuovi arricchiti limitò l’estensione dei latifondi, prescrivendo che alla morte di un aristocratico la sua proprietà venisse suddivisa tra tutti i figli, e non lasciata in eredità al solo primogenito, e che chiunque poteva acquistare terre di un nobile. A favore degli artigiani emanò leggi che incentivavano le fabbriche artigianali e favorivano l’apertura ad Atene di botteghe artigiane da parte di vasai di Corinto ed Egina, che erano le maggiori esportatrici di ceramica pregiata: a loro fu riservato il quartiere del Ceramico. A garanzia di artigiani, commercianti e consumatori fissò il valore di pesi e misure, in modo da garantire una misurazione standard uniforme, e incentivò la circolazione di monete d’argento, di maggior pregio. Vietò l’esportazione di derrate alimentari indispensabili all’approvvigionamento dei cittadini ateniesi, mentre favorì l’esportazione di olio in sovrapproduzione. La timocrazia Intervento ancora più decisivo fu l’allargamento della partecipazione alla vita politica di tutti gli strati della popolazione. Attribuendo diritti e doveri in base al censo, cioè alla timé, Solone diede vita ad una timocrazia che: mutava le basi stesse dello stato perché sottraeva importanza alle origini familiari, alla nascita, che sola garantiva l’areté su cui gli aristocratici fondavano i loro privilegi, dava dinamismo alla società, perché chiunque poteva arricchirsi e cambiare stato sociale. Per questo Solone viene considerato il primo fondatore della democrazia ateniese. Egli riordinò quindi le classi, in cui probabilmente era già suddivisa la società, e stabilì i criteri di appartenenza alle varie classi sulla base della quantità di cereali o di olio o vino prodotti, misurati rispettivamente in medimni (un medimno = poco più di 50 litri) e metreti (un metreto = circa 40 litri). Il privilegio di far parte di una delle quattro classi e di non poter essere ridotto in schiavitù né di essere torturato era riservato ai soli cittadini ateniesi. Pertanto Solone si preoccupò anche di distinguere i figli legittimi nati dal matrimonio da quelli nati dal concubinato. Donne, stranieri, meteci e schiavi non avevano diritti politici. Box A ogni classe i suoi beni La valutazione del reddito delle diverse classi era messa in relazione con i beni che il cittadino di una classe poteva acquistare: ad esempio, solo i cittadini delle prime due classi potevano permettersi di mantenere almeno un cavallo e di acquistare tutto l’armamento di cavaliere, mentre quelli della terza potevano permettersi la pesante armatura oplitica. Box La rivoluzione soloniana La riforma di Solone segnò una svolta storica fondamentale, perché si basò sul principio che il governo della città fosse fondato non su privilegi gentilizi (di appartenenza ad un ghenos, ad una stirpe nobile), ma sull’effettiva partecipazione alla vita dello stato. Il potere politico insomma spettava a chi, con la sua attività, si rendeva utile alla città. La riforma negava altresì i due principi sui quali si fondavano i governi del mondo antico: quello di legittimità religiosa, in base al quale il governo degli uomini era un’emanazione della legge divina (quando non era addirittura nelle mani di un dio presente tra gli uomini), come avveniva, ad esempio, in Egitto, e il principio dell’esistenza nella società di un gruppo etnico superiore (come a Sparta), che per diritto di conquista poteva non solo dominare, ma anche asservire e sfruttare gli estranei al gruppo stesso (nel caso di Sparta, i messeni). Schema delle classi sociali stabilite da Solone Classe Reddito Diritti I^ di almeno 500 Militare nella cavalleria. pentacosiomedimni medimni/metreti Essere eletti arconti, tesorieri della polis e partecipare all’Areopago, alla Boulé, all’Ecclesia II^ hippéis (cavalieri) di almeno 300 Militare nella cavalleria. medimni/metreti Essere eletti alle magistrature minori, partecipare alla Boulé, all’Ecclesia III^ zeugiti (piccoli proprietari in grado di mantenere una coppia di buoi, zeugos=giogo) IV^ teti (nullatenenti, operai, braccianti e piccoli proprietari) di almeno 200 Militare nella falange medimni/metreti oplitica (fanteria pesante). Partecipare alla Boulé, al tribunale degli efeti, all’Ecclesia meno di 200 Militare nella fanteria medimni/metreti leggera (frombolieri, arcieri ecc.) e come rematori. Partecipare all’Ecclesia Doveri provvedere al costoso armamento di cavaliere, pagare le spese pubbliche della polis in misura proporzionale alla rendita provvedere al costoso armamento di cavaliere, pagare le spese pubbliche della polis in misura proporzionale alla rendita provvedere all’armatura oplitica e alle spese pubbliche in misura proporzionale alla rendita Esonerati dal pagamento delle imposte e richiamati alle armi solo in casi estremi Le istituzioni Solone riformò anche le istituzioni ateniesi, in cui cercò di dare spazio a tutte le classi, sia pure in misura diversa: Accanto all’Areopago, istituì il Consiglio dei Quattrocento, la Boulé, formata da 100 rappresentanti di ognuna delle quattro tribù (phýlai), in cui erano tradizionalmente suddivise le stirpi ioniche e quindi anche i cittadini di Atene. La Boulé aveva il compito di discutere preliminarmente le leggi da sottoporre all’approvazione dell’Areopago. Istituì un nuovo tribunale popolare, l’Eliéa, composto da 6000 giurati popolari, estratti a sorte ogni anno tra tutti i cittadini maschi al di sopra dei trent’anni di qualsiasi classe. I giurati assai di rado si riunivano tutti insieme, normalmente erano suddivisi in dieci sezioni (dicastéria) in base ai reati da giudicare, che erano quelli meno gravi rispetto ai reati di competenza dell’Areopago. Ma all’Eliea si poteva anche ricorrere in appello contro le sentenze dei giudici aristocratici. Fu una vera rivoluzione, perché permetteva a tutti i cittadini di citare in giudizio chiunque davanti a un tribunale popolare, con una procedura chiamata graphé, che col tempo diverrà un’arma importante della lotta politica. L’Ekklesía, a cui potevano accedere tutti i cittadini ateniesi, aveva invece poteri ancora molto limitati: eleggeva gli arconti, approvava o respingeva le leggi proposte dalle altre magistrature. Schema riassuntivo delle magistrature di Atene dopo la Costituzione di Solone Istituzione Definizio Costituita da Scelta da… Funzioni ne per… a vita tutela le leggi, sorveglia l’amministrazione, Areopago Consiglio Ex arconti e l’educazione e i costumi, con funzioni: tribunale legislative: diritto di veto su proposte di legge dei nobili elettive: nomina gli arconti giudiziarie: giudica l’operato degli arconti, i delitti di sangue e i reati di empietà Giudici 51 giudici scelti dalla giudiziarie: giudicano l’omicidio involontario Eféti nobiltà Consiglio per ogni phýle 100 eletti legislative: discute le proposte di legge Boulé dei cittadini maschi delle Quattroc prime tre classi, oltre i 30 ento anni giurati 6000 cittadini maschi estratti a giudiziarie: corte d’appello e tribunale per i Heliéa popolari oltre i 30 anni di qualsiasi sorte ogni reati meno gravi classe suddivisi in 10 anno sezioni (dikasteria) Assembl tutti i cittadini ateniesi al si riunisce dieci volte all’anno nell’agorà con Ekklesía ea di sopra dei 20 anni funzioni: popolare legislative: approva o respinge proposte di legge elettive: elegge gli arconti Il fallimento della riforma soloniana L’intento di Solone era quello di garantire l’eunomía, il buon governo; di fatto, però scontentò tutti. Le critiche gli erano mosse: dai nobili, che, privati degli antichi privilegi, si vedevano costretti ad affrontare la concorrenza dei ceti emergenti; da commercianti e artigiani che non vedevano riconosciuta la ricchezza derivata dal denaro, che difficilmente essi potevano investire in terre; dai contadini per i quali Solone non aveva eliminato le cause dell’impoverimento e che chiedevano perciò una radicale ridistribuzione della terra. Una nuova stasis Allo scontento delle classi subalterne si aggiungevano contrasti tra le varie famiglie aristocratiche. Alcune di esse si fecero portavoce delle diverse rivendicazioni popolari e si misero a capo delle tre zone dell’Attica: i pediaci, i ricchi proprietari terrieri “della pianura”, che aspiravano a riprendersi l’antico potere, furono capeggiati da Licurgo (da non confondere col legislatore spartano); i parali, gli abitanti “presso la costa”, per lo più pescatori e soprattutto artigiani e commercianti, riconobbero come loro capo Mègacle della potente famiglia degli Alcmeonidi; i diacri, i contadini che abitavano “tra i monti” e che, pur avendo ottenuto la cancellazione dei debiti, non avevano i mezzi per riprendere le coltivazioni e soprattutto per essere concorrenziali con i grandi proprietari, furono guidati da Pisistrato, un nobile della zona, imparentato con Solone, ma più giovane di lui di trent’anni (era nato intorno al 600 a.C.). La tirannide di Pisistrato Proprio Pisistrato, impostosi come tiranno nel 546 a.C. (v. box di approfondimento), fece scelte politiche coraggiose, che gli consentirono di sedare i conflitti tra le classi sociali, di riportare la pace nella città e di dar il via ad una politica di sviluppo e di espansione. Il tiranno infatti: non infierì contro i nobili; garantì la sopravvivenza della piccola proprietà, sia attraverso i prestiti sia promovendo il passaggio dalle colture di orzo e grano a quelle assai più redditizie di ulivi e viti, che permettevano di esportare olio e vino; per consentire migliori condizioni di vita agli strati più umili della popolazione, allestì una grande flotta militare, in cui i nullatenenti potevano essere ingaggiati come rematori, e che consentì ben presto ad Atene di imporsi come potenza militare sull’Egeo; per garantire una giustizia più equa, istituì giudici itineranti che si spostavano da un demo all’altro per esercitarvi la giustizia, evitando ai contadini di spostarsi in città per le cause minori e garantendoli dallo strapotere dei nobili. La scelta tuttavia serviva anche a tener lontano il maggior numero possibile di persone dalla partecipazione alla vita politica che si svolgeva in città e che Pisistrato intendeva tenere saldamente sotto il proprio controllo; favorì e promosse in modo particolare lo sviluppo dei commerci: a. diffuse l’uso della dracma d’argento, con l’effigie di Atena su una faccia e la civetta, l’uccello sacro alla dea, sull’altra; b. con l’uso della moneta facilitò il pagamento di alcuni servizi che i cittadini svolgevano per lo stato, l’assunzione di mercenari, le attività commerciali. La dracma, diffusa proprio attraverso i commerci a tutto l’Egeo, ben presto divenne l’unità monetaria di base nel mondo greco; c. estese il controllo di Atene al promontorio del Sigeo, nella Troade, e del Chersoneso tracico, che consentì di controllare l’Ellesponto attraverso cui passava il commercio tra Atene e il Mar Nero: da qui Atene importava il grano, indispensabile ad alimentare una popolazione in crescita; d. stabilì anche rapporti diplomatici e commerciali con le colonie dell’Asia Minore, dove la città esportava i propri manufatti, e creò nuove basi commerciali. Box Pisistrato avviò una serie di opere pubbliche che garantivano lavoro a larghi strati della popolazione e davano lustro alla città: migliorò il sistema idrico urbano, con la creazione di acquedotti e di una grande fontana pubblica, che divenne anche luogo di aggregazione e di scambio di opinioni, come si nota nell’immagine (inserire immagine di Frugoni, p. 140), in cui alcune donne raccolgono l’acqua e altre nell’attesa chiacchierano; per rendere splendida la città costruì templi, tra cui quello di Atena sull’acropoli, e soprattutto, avviò il grandioso progetto, mai completato, dell’Olympieion, dedicato a Zeus Olimpio, con il quale Pisistrato intendeva rivaleggiare con i grandi templi delle splendide città della Ionia. box Ricchezza e diritti Artigiani e commercianti pretendevano maggiori diritti politici perché la loro ricchezza era decisamente in crescita. La nuova produzione della famosa ceramica dipinta a figure nere e rosse, molto raffinata, veniva esportata in una zona molto ampia, dal Mar Nero a Cipro, all’Egitto, alla Sicilia, all’Etruria e produceva enormi ricchezze. Gli scambi, inoltre, si avvantaggiavano della nascita della moneta d’argento ateniese, la dracma, destinata a diventare la moneta comune dell’intero mondo greco. Box di approfondimento Pisistrato secondo le fonti Pisistrato alla conquista del potere Pisistrato «approfittando che gli ateniesi della costa erano in discordia con quelli della pianura […] e mirando al dominio assoluto, diede vita a un terzo partito: raccolti, quindi, dei partigiani e facendosi, a parole, capo degli uomini dei monti, ricorse a questo stratagemma: dopo essersi ferito da solo e aver ferito le mule, spinse il carro nella piazza del mercato, come se fosse sfuggito ai nemici che, mentre egli si recava nei campi, avrebbero voluto ucciderlo. Chiedeva, perciò, al popolo di ottenere un corpo di guardia, egli che, già prima, s’era particolarmente distinto nella campagna contro i Megaresi, avendovi conquistato Nisea [il porto di Megara] e compiuto altre valorose imprese». La guerra tra Atene e Megara per il possesso dell’isola di Salamina, infatti, continuava e Pisistrato era riuscito a strappare definitivamente l’isola a Megara. «Il popolo di Atene, lasciatosi ingannare [malgrado gli avvertimenti di Solone, rientrato in patria], gli concesse di scegliersi fra i cittadini 300 uomini che furono non già i portatori di lancia di Pisistrato ma, piuttosto, portatori di clava, poiché lo scortavano seguendolo armati di clave di legno. Costoro, sollevatisi insieme con Pisistrato, si impadronirono dell’acropoli. Da quel momento Pisistrato fu signore di Atene, senza turbare l’esercizio delle magistrature che c’erano, né modificare le leggi: ma con le istituzioni vigenti governò la città, amministrandola in modo eccellente. Dopo poco tempo, però, i partigiani di Megacle e quelli di Licurgo, messisi d’accordo, lo scacciarono» (Erodoto, Le storie, I, 59-64, trad. Luigi Annibaletto, Mondadori, Milano 1956). Pisistrato tuttavia non si arrese e tornò una prima volta ad Atene, sebbene fosse ben presto costretto a fuggirne di nuovo. Restò in esilio per undici anni, durante i quali cercò l’appoggio di numerose città e si arricchì con il ricavato delle miniere d’oro e d’argento di un suo possedimento in Tracia. Arruolò, quindi, un gruppo di mercenari con cui, nel 546 a.C., si impadronì con la forza di Atene, cacciò dalla città gli Alcmeonidi, che lo avevano costretto all’esilio per ben due volte, e istituì la tirannide presentandosi come pacificatore. Giudizi sulla tirannide di Pisistrato «Pisistrato governava la città con equilibrio più da concittadino che da tiranno nel complesso, infatti, era generoso, mite e clemente con i malfattori, e per di più prestava denaro ai poveri per i lavori, cosicché si guadagnavano da vivere facendo i contadini» (Aristotele, Costituzione degli ateniesi, XVI, 2). Egli infatti stabilì la decima, cioè una tassa del 10 per cento sulla rendita dei terreni, che serviva a finanziare i piccoli proprietari in difficoltà e le opere pubbliche. Ma la tassa, che gravava soprattutto sui grandi patrimoni, era sentita come una forma di servitù dai grandi proprietari, abituati a contribuire liberamente e solo saltuariamente alle spese pubbliche. «Nemmeno nel resto egli tormentava il popolo con il suo governo, anzi gli procurava sempre tranquillità e manteneva la pace […] Soprattutto si elogiava il suo carattere democratico e socievole. In genere teneva a governare ogni cosa secondo le leggi, senza concedersi nessun privilegio» (Aristotele, Costituzione degli ateniesi, XVI, 2-8). Pisistrato non abolì, infatti, nessuna delle leggi e delle istituzioni della riforma di Solone, anche se assunse il comando della città e fece eleggere alle massime cariche i suoi sostenitori. Box di approfondimento La costruzione dell’identità ateniese La politica di Pisistrato mirava anche a dare una forte identità alla città e ai cittadini il senso dell’appartenenza ad una comunità coesa. Per ottenere il suo scopo e nel contempo per intrattenere i cittadini e ingraziarsene il favore, il tiranno promosse feste che avevano un carattere civile e religioso insieme: Istituì una processione quadriennale, le Panatenee, in onore di Atena Políade, cioè protettrice della città, in cui si svolgevano gare che vedevano la partecipazione di atleti provenienti da tutte le città greche. Diede il via alle Grandi Dionisie, che si svolgevano ogni anno in onore di Dioniso e che miravano all’integrazione della campagna con il centro urbano. Il dio del vino, dell’ebbrezza e della follia, ma anche della creatività, aveva infatti molto sèguito tra i più umili e gli emarginati, comprese le donne, e le feste in suo onore erano quindi particolarmente apprezzate dai ceti popolari, che trovavano nell’ebbrezza, prevista dai riti, una fuga dalle dure fatiche e dalla frustrazione di una vita quotidiana fatta di stenti. Tanto più le Dionisie erano amate perché prevedevano agoni teatrali, gare tra diversi poeti che si sfidavano con le loro tragedie e le loro commedie nelle prime rappresentazioni teatrali del mondo occidentale. Secondo la tradizione il primo vincitore di queste gare sarebbe stato, nel 534 a.C., il poeta Tespi, a cui si attribuiva l’invenzione stessa della tragedia. Anche i riti misterici ricevettero nuovo impulso da Pisistrato, in particolare quelli di Eleusi dedicati al culto di Demetra, dea delle messi, e della figlia Kore (Proserpina o Persefone), divinità molto vicine al mondo contadino. Ai misteri erano ammessi tutti senza distinzione di classe, tanto che vi potevano accedere anche gli schiavi. Il culto di Demetra e Kore riproponeva antichi culti connessi con la rinascita della terra in primavera e prometteva forme di resurrezione e una speranza di vita oltre la morte. Il tiranno, tra l’altro, ampliò il santuario di Eleusi in cui si svolgeva il rito di iniziazione dei fedeli. Con Pisistrato Atene si avviò pertanto a diventare la capitale culturale della Grecia. Egli infatti attrasse alla sua corte poeti, saggi e artisti. La politica culturale dei successori Insieme al fratello Ipparco, Ippia, successo al padre, proseguì la politica paterna di moderazione, incoraggiò le arti, invitò alla sua corte famosi poeti, come Anacreonte e Simonide, introdusse la lettura dei poemi omerici durante le Panatenee, incaricando alcuni studiosi di stabilirne il testo corretto. I poemi omerici, infatti, tramandati prima solo oralmente, da tempo venivano trascritti nelle varie poleis e manipolati per rispondere alle esigenze delle diverse città o di alcune famiglie aristocratiche. Il testo definito ad Atene durante la tirannide di Ippia, trascritto su papiro e conservato negli archivi della città, finì col soppiantare gli altri ed è quello che, trasmesso per secoli nelle scuole greche e ricorretto in epoca ellenistica, è giunto fino a noi. La tirannide di Ippia e il tirannicidio Pisistrato morì nel 528-7 a.C. e il suo potere era ormai così solido e ben accetto alla popolazione che la successione del figlio primogenito di Pisistrato, Ippia, fu accolta senza contrasti. I nobili ateniesi tuttavia tramavano per un ritorno all’antico potere oligarchico. In particolare era ancora molto potente la famiglia degli Alcmeonidi, che Pisistrato aveva esiliato. Box di approfondimento Condizionare gli dei Insediatasi a Delfi, la famiglia degli Alcmeonidi in esilio si era assunta il compito di ricostruire il santuario di Apollo, distrutto da un incendio, in forma ancora più splendida di un tempo, con la facciata in marmo di Paro. Si era così ingraziati i sacerdoti del tempio che, con oracoli ben costruiti, spinsero gli spartani, per altro da sempre propensi a cacciare i tiranni dalle altre poleis (v. sopra), ad appoggiare il tentativo degli Alcmeonidi di rientrare ad Atene e abbattere la tirannide. L’intento di Sparta era quello di instaurare ad Atene un regime oligarchico affine al proprio. La situazione precipitò quando due giovani aristocratici, Armodio e Aristogítone, congiurarono contro i Pisistratidi e uccisero il fratello del tiranno, Ipparco. Sebbene la tirannide sarebbe stata abbattuta solo quattro anni dopo, i due tirannicidi furono celebrati per secoli come i restauratori della libertà e venerati come eroi, con canzoni che si cantavano durante i banchetti. A loro si innalzarono anche statue e i loro discendenti ottennero privilegi pubblici. Box Tirannicidio o vendetta? Il fratello di Ippia, Ipparco, a quanto pare, aveva mostrato interesse per il bell’Armodio, suscitando la gelosia di Aristogítone. Rifiutato da Armodio, Ipparco lo aveva accusato di infamia e per di più ne aveva svergognato la sorella (v. sotto il par. Un’inferiorità storica), impedendole di prendere parte alle feste panatenaiche del 514 a.C. come canefora (le canefore erano le vergini delle famiglie più illustri che nelle Panatenee, nelle Dionisie e nelle feste in onore di Demetra portavano sulla testa, nella processione solenne, i canestri con gli arredi sacri. Per il loro nobile portamento, pieno di grazia ed eleganza, furono spesso rappresentate in statue, dette anche Cariatidi, poste nei templi). Mentre Ipparco preparava appunto le cerimonie per le Panatenee, i due nobili, con i pugnali nascosti sotto ramoscelli di mirto, si avventarono contro di lui e lo uccisero. Armodio fu subito catturato e fatto a pezzi dalle guardie, Aristogítone morì in seguito alle torture subite in carcere. La fine della tirannide ad Atene È probabile che il mito dei tirannicidi sia nato per far dimenticare che a ridare la libertà ad Atene fu in realtà l’intervento di Sparta. Dopo l’uccisione di Ipparco, Ippia si circondò di truppe mercenarie, sciogliendo l’esercito oplitico dei cittadini per timore che potesse attaccare il suo governo, divenne sospettoso e mandò a morte parecchi nobili, oppositori del suo regime. Sparta si decise allora a cedere alle pressioni dell’oracolo di Delfi, manovrato dagli Alcmeonidi (v. box) e ad appoggiare il loro tentativo di abbattere la tirannide e rientrare in città come liberatori. Nel 510 a.C., un esercito guidato dal re spartano Cleomene, accompagnato dall’alcmeonide Clistene, figlio di Mégacle, cacciò Ippia dopo avere sconfitto le sue truppe mercenarie. Il tiranno fuggì in Tracia e si rifugiò presso il satrapo persiano Artaferne, che egli istigò ad attaccare Atene, per vendicarsi dei suoi concittadini. La riforma di Clistene Una volta liberata Atene dal tiranno, gli spartani non ottennero da Clistene quella riforma in senso oligarchico con la quale speravano di tenere sotto controllo Atene. Appoggiarono allora contro di lui l’aristocratico Isagora. Si scatenò una lotta tra le varie fazioni di nobili, le eteríe, che durò due anni, fino a quando Clistene cercò l’appoggio del popolo, che aveva ormai raggiunto forza economica e politica e non sottostava più agli aristocratici, per riformare la costituzione in senso democratico. Eletto arconte per l’anno 508-507, Clistene attuò una serie di provvedimenti. Box lessicale Che significa popolo? Il concetto di popolo è piuttosto ambiguo e assume connotazioni diverse in base al contesto in cui il termine viene usato. Ad Atene il demos ha caratteristiche diverse dalla plebe romana o dalla classe operaria europea dell’Otto-Novecento. Ad Atene, il demos era costituito dai teti, i nullatenenti, i lavoratori dipendenti e tutti i cittadini che non avevano mezzi per procurarsi l’equipaggiamento per il servizio nell’esercito. Quindi erano considerati nullatenenti anche gli artigiani che si guadagnavano da vivere senza garzoni, oppure poverissimi contadini il cui podere era appena sufficiente a nutrire la propria famiglia, anche se non erano costretti a lavorare per un padrone. Tribù e demi Per spezzare il potere aristocratico, sciolse le quattro phylái, le tribù su base genetica della tradizione ionica, per sostituirle con 10 tribù territoriali, costituite da 10 demi ciascuna, cioè dai paesi e dai villaggi che popolavano l’Attica e che egli raggruppò a livello amministrativo per ridurne il numero a 100 (anche se col tempo questo numero quasi raddoppiò). Tutti i cittadini dovevano essere iscritti all’albo di un demo (v. box) e i demi diventarono la base della riforma di Clistene e del governo cittadino, un governo democratico, in cui il potere (kratos) era affidato appunto ai demi, che rappresentavano tutto il popolo (demos). box L’importanza del nome Il nome del demo, definito demotico, veniva aggiunto a quello dell’individuo e del patronimico (nome del padre): ad esempio, Temistocle (nome proprio), figlio di Neocle (patronimico), di Frearrio (demotico). In questo modo l’individuo era identificato su base territoriale, cioè in base al luogo di residenza, e allentava il suo rapporto con l’origine familiare, il ghenos, (tanto più che ogni ghenos era spesso distribuito su demi diversi), mentre rafforzava il suo legame con la città. Ogni demo teneva un registro dei suoi cittadini, possedeva terre, aveva propri culti religiosi e assemblee locali; era amministrato da un démarchos, un “sindaco”, e un tesoriere, eletti annualmente. Tribù e trittie Le tre zone dell’Attica, la paralía lungo la costa, la pedía, che comprendeva la città, i suoi porti e la pianura circostante, e la diacría (o mesógaia, “entroterra”) nella parte interna dell’Attica (v. sopra), furono da Clistene ben definite e suddivise al loro interno in 10 trittíe ciascuna. Tre trittie non contigue, una della costa, una della pianura/città e una della zona centrale collinare e montuosa costituiva una tribù. Ogni tribù perciò riproduceva in piccolo l’intera struttura geografica ed economico-sociale dell’Attica. Nelle tribù il potere dei nobili, che abitavano prevalentemente nella pianura, era minoritario rispetto a quello degli abitanti della costa (prevalentemente pescatori, artigiani e commercianti) e dei contadini (che avevano i terreni nella zona collinare/montuosa meno fertile), perché le trittie dei pediaci rappresentavano ovviamente solo un terzo del totale delle trittie. I componenti di una tribù non erano accomunati da legami personali o familiari né da interessi locali, visto che ogni tribù comprendeva territori diversi e a volte lontani tra loro. D’altro canto i ghene aristocratici venivano a trovarsi dispersi nei molti distretti e nelle varie tribù e non avevano la forza per imporre il peso dei loro legami familiari. Si ottenne così per la prima volta nella storia quell’isonomía, l’uguaglianza (isos) dei cittadini di fronte alla legge (nomos) che è alla base della democrazia. Ogni tribù doveva fornire un reggimento di opliti, eleggere uno stratego che lo comandasse e inviare alla boulè 50 rappresentanti, scelti a sorte tra i suoi cittadini di almeno trent’anni di età. Box Chi sono i cittadini ateniesi? La democrazia ateniese è molto diversa da quella a cui siamo abituati. Ne riparleremo meglio in seguito, ma intanto notiamo che erano giuridicamente cittadini a pieno titolo solo coloro che, figli di un cittadino ateniese e regolarmente iscritti a un demo, potevano difendere con le armi la città. Erano perciò esclusi dalla piena cittadinanza donne, schiavi e chi avesse commesso reati talmente gravi da essere dichiarato átimos (lett. “privo di onore”, perciò “indegno” di essere cittadino). Privato dei diritti politici, l’atimos era cittadino di seconda categoria, definito solo come astós, cioè abitante della città, intesa in senso fisico (asty), ma escluso dalla organizzazione cittadina (cioè dalla polis). LE ISTITUZIONI La boulé Clistene riformò anche la boulé, modificandone la costituzione e aumentando il numero dei bouleuti da 400 (100 per ognuna della antiche tribù) a 500: ogni tribù inviava alla boulé 50 membri, scegliendoli a sorte ogni anno tra i cittadini di diritto, di età superiore ai trent’anni. Siccome si poteva essere bouleuti solo due volte nella vita, le probabilità che tutti i cittadini ateniesi partecipassero almeno una volta alla boulé erano molto alte. Prima di essere ammesso alla boulé il cittadino doveva giurare che avrebbe sempre cercato il bene della polis e che non avrebbe mai oltrepassato il limite delle proprie prerogative. La Boulé o Consiglio dei Cinquecento era l’organo di governo della città: esaminava e approvava tutte le proposte che sarebbero state poi presentate all’assemblea popolare, l’ecclesia; aveva il potere esecutivo delle decisioni prese dall’assemblea; riceveva le relazioni dei generali e introduceva gli ambasciatori stranieri nell’assemblea; valutava l’operato degli arconti e degli altri magistrati; sorvegliava ogni ramo dell’amministrazione: appaltava la riscossione delle imposte e puniva col carcere gli appaltatori insolventi. A dirigere il Consiglio, come un nostro Capo del Governo (o Presidente del Consiglio) erano a turno i 50 membri di ogni tribù che restavano in carica per un decimo dell’anno e venivano definiti pritani. Ogni giorno i pritani sceglievano a sorte uno tra loro come presidente (epistátes) del Consiglio e dell’ecclesia, il quale custodiva il sigillo di Stato, le chiavi dei templi dell’Acropoli e del tesoro pubblico. I pritani avevano il compito di sorvegliare la città di giorno e di notte. BOX I privilegi del potere I privilegi dei bouleuti in carica non si possono paragonare a quelli dei nostri ministri. Ad Atene i bouleuti godevano solo di pochi privilegi, che oggi farebbero ridere: l’esenzione dal servizio militare, il posto speciale nel teatro e il diritto di portare una corona di mirto sul capo durante le riunioni del Consiglio; solo con Pericle (metà del V secolo a.C.) ognuno di essi ricevette il compenso di una dracma per ogni giorno di seduta. BOX Invece di Equitalia Nel mondo antico non esisteva un corrispettivo della nostra Agenzia delle Entrate, ma le tasse venivano riscosse da privati cittadini che ne ottenevano l’incarico dallo stato. In un certo senso il loro compito era quello che oggi l’Agenzia delle Entrate affida ad ente privato, Equitalia. BOX I palazzi del potere Le adunanze del Consiglio si tenevano tutti i giorni, eccetto i festivi, nel Bouleutérion (vedi sopra), un ampio edificio nei pressi dell’agorà, ed erano di solito pubbliche. I pritani, invece, restavano riuniti per tutta la giornata nel Pritaneo, l’edificio che custodiva la koiné hestia, il “focolare comune” con il fuoco sacro della comunità cittadina, e, in seguito, nel Tholos, vicino al Bouleuterion, con il compito di dirigere gli affari del Consiglio. Le magistrature sorteggiate Le magistrature ateniesi erano numerosissime, ammontavano a circa 700 (tra tesorieri, ispettori, controllori dei prezzi e delle misure ecc.), e si occupavano di tutti gli aspetti della vita cittadina, dalla giustizia alla manutenzione delle strade, all’approvvigionamento, agli appalti ecc. Quasi tutte rispettavano i principi che garantivano la democrazia: il sorteggio che dava pari opportunità a tutti, l’annualità (la durata della carica per un solo anno) e la collegialità (più magistrati per lo stesso incarico), che impedivano il rafforzamento di poteri personali, la remunerazione per permettere ai meno abbienti di partecipare alle magistrature sottraendo tempo alle proprie attività lavorative senza svantaggi economici, il controllo da parte dell’assemblea che accertava la correttezza dell’operato del magistrato. Ogni magistrato, infatti, prima di assumere l’incarico, veniva sottoposto ad un esame, la dokimasía, che valutava la sua adeguatezza al compito, e alla fine del mandato doveva rendicontare sul proprio operato. Se risultavano colpe o errori, il magistrato era sottoposto a processo. Le magistrature elette Le uniche magistrature elettive, non sorteggiate, erano l’arcontato e lo strategato, per le quali occorreva avere qualità e competenze precise. Per scegliere questi magistrati rimase in vigore la divisione in 4 classi stabilita da Solone, ma il censo non venne più calcolato in base alle rendite fondiarie, ma sul capitale. All’arconte polemarco, che formalmente manteneva il comando supremo, Clistene aveva affiancato 10 strateghi, comandanti militari, che invece venivano eletti dalla prima classe di censo e sulla base delle loro competenze militari. Potevano anche essere rieletti più volte. Uno di loro in particolare godeva di maggior prestigio e autorità e diventava di fatto l’uomo più potente di Atene proprio per le sue doti e le sue capacità di comando. In guerra gli strateghi assumevano il comando a turno, un giorno ciascuno. Box Esautorare il potere degli arconti Tuttavia a partire dal 487 a.C. anche gli arconti che venivano ancora eletti tra le prime due classi soloniane e che Clistene aveva portato a 10, uno per ogni tribù, furono sorteggiati e accessibili anche alle altre due classi di censo, perché il loro potere era ormai diminuito e si limitava all’ambito religioso. L’ecclesia Clistene mantenne in vita anche l’areopago che continuò a giudicare i delitti di sangue, ma ne limitò fortemente il potere. Al contrario incrementò l’importanza dell’ecclesia, a cui potevano partecipare tutti i cittadini al di sopra dei vent’anni, che fossero regolarmente iscritti in un demo. L’ecclesia era l’unica istituzione in cui si svolgeva l’attività politica. Essa infatti: deliberava per alzata di mano, quindi a scrutinio palese, sulle nuove leggi ed abrogava quelle ormai superate, eleggeva arconti e strateghi e li destituiva, in caso di inadempienza, decideva sulla guerra e la pace, sulle alleanze e i trattati internazionali, sull’uso del denaro pubblico, sulle modifiche dei tributi, sull’attribuzione della cittadinanza, sul diritto di vivere nel pritaneo a spese dello stato, onore che era riservato ai personaggi più degni. Le decisioni dell’ecclesia erano prese preferibilmente all’unanimità, avevano forma di legge (nomos) o di decreto (pséphisma), venivano pubblicate incise su pietra ed esposte in un luogo pubblico in modo da consentirne l’autopsia, cioè la possibilità di “vederle coi propri occhi”. La novità di queste leggi consisteva nel fatto che non erano considerate rivelazione degli dei, come accadeva nelle culture mesopotamiche, egizia o ebraica, né erano attribuite a personaggi mitici come Licurgo, a cui le leggi, secondo gli spartani, erano state dettate nelle linee generali da Apollo. BOX DI APPROFONDIMENTO Tempi, luoghi e modi delle adunanze Mentre originariamente l’assemblea si riuniva solo dieci volte all’anno nell’agorà, nel V secolo cominciò a riunirsi sempre più spesso fino a raggiungere il numero di quaranta adunanze in un anno. Visto che all’ecclesia potevano partecipare tutti i cittadini al di sopra dei vent’anni, che fossero regolarmente iscritti in un demo, e che il loro numero era in crescita (all’epoca si calcola che i cittadini aventi diritto assommassero a 30.000), le riunioni si fecero sulla Pnice, un anfiteatro naturale rivolto verso l’acropoli, che poteva contenere fino a 25.000 persone, con 18.000 posti a sedere, anche se in genere non partecipavano alle sedute più di 6000 cittadini. Prima della convocazione dell’assemblea da parte del presidente, l’epistátes, venivano affissi gli argomenti che si sarebbero affrontati nella seduta; in apertura si facevano sacrifici e preghiere a Zeus, quindi il presidente proponeva l’oggetto della discussione e il parere che ne aveva dato la boulé, sul quale il popolo votava, approvandolo o respingendolo. Le riunioni cominciavano all’alba e potevano durare tutto il giorno. Chiunque aveva la facoltà di prendere la parola in assemblea per esprimere il proprio parere, perché vigeva l’isegoría, l’“uguale libertà di parola”, anche se naturalmente alcune personalità più abili nel parlare e con maggiore esperienza politica avevano spesso la meglio sul popolo incolto. L’oratore si rivolgeva all’assemblea da una tribuna scavata nella roccia, accanto alla quale sorgeva l’altare di Zeus Agoraios al quale erano destinati i sacrifici d’apertura della seduta. Durante il suo discorso l’oratore aveva sul capo una corona come segno di inviolabilità, ma, se deviava dalla questione proposta o offendeva leggi e costumi, veniva allontanato. L’eliea L’ecclesia era titolare anche del potere giudiziario, che però essa non esercitava nelle adunanze generali, ma delegava al tribunale dell’Eliéa, espressione della stessa assemblea, costituito da suoi membri estratti a sorte. La sua sede principale era un edificio che portava lo stesso nome di Eliea ed era situato probabilmente nei pressi dell’agorà. L’Eliea rimase ancora diviso in diversi tribunali con funzioni specifiche, i dikastéria, che si riunivano in vari luoghi, anch’essi situati per lo più nei pressi della piazza del mercato. L’ostracismo Per evitare una nuova stasis e l’avvento di un’altra tirannide, Clistene o, più probabilmente, i prosecutori della sua politica istituirono l’ostracismo, un procedimento con il quale chi fosse sospettato di congiurare contro il sistema democratico poteva essere bandito da Atene per dieci anni, senza tuttavia perdere i propri diritti civili, né vedere confiscati i suoi beni, come accadeva in caso di esilio. L’ostracizzato, inoltre, poteva essere richiamato in patria senza disonore, quando l’ecclesia l’avesse ritenuto opportuno, il che avvenne spesso. L’ostracismo non era infatti la punizione per un reato commesso, ma una misura preventiva, volta a evitare forme di potere personale pericoloso per la democrazia. Perciò non occorrevano prove di accusa per espellere qualcuno, ma 6000 voti favorevoli all’espulsione (oppure la presenza di 6000 votanti presenti in assemblea che esprimessero a maggioranza parere favorevole all’ostracismo: le fonti non sono chiare in proposito). Si votava a scrutinio segreto, a differenza che per le altre decisioni, scrivendo il nome dell’indiziato su un pezzo di coccio, di terracotta, che in greco si chiama óstrakon: da qui il nome del procedimento. Il primo caso di ostracismo accertato risale al 487 a.C., ma l’istituzione non durò a lungo. La pratica doveva garantire la sicurezza dello stato, ma di fatto, con l’inasprirsi della lotta politica divenne un pericoloso strumento per sbarazzarsi degli avversari politici, per questo nel 417 a.C. venne abolito. Schema riassuntivo delle istituzioni di Atene dopo la riforma di Clistene Istituzione Definizione Luogo di riunione 10 phylai 10 tribù territoriali 3 trittie non contigue ciascuna 30 trittie 10 gruppi di demoi della - pedía - paralía tutte le classi sociali: =nobili, =pescatori, artigiani, commercianti =piccola proprietà cittadini della I e II classe di censo; dal 487 a.C. di tutte le 4 classi - diacría (mesógaia) 10 arconti 10 governatori, (1 basileus, 1 per tribù 1 eponimo 1 polemarco, 6 tesmoteti, 1 segretario) Consiglio degli areopago anziani assemblea Pnice ecclesia eliea tribunale popolare diviso in dikasteria Eliea e altri luoghi nei pressi dell’agorà Costituita da ex-arconti Scelta da… durata su base territorial e Funzioni dal 487 a.C. a sorte per un anno solo religiose a vita - militari: ogni tribù fornisce un reggimento di opliti, elegge uno stratego - elettive: ogni tribù sorteggia 50 bouleuti partecipano tutte all’ecclesia giudiziarie: giudica i delitti di sangue tutti i cittadini di - legislative: delibera sulle pieno diritto, nuove leggi ed abroga quelle maschi oltre i 20 superate, emana leggi e decreti anni, dotati di - elettive: elegge e destituisce isogoria e arconti e strateghi isonomia - giudiziarie: giudica l’attentato alla democrazia con l’ostracismo (tra il 487 e il 417 a.C.) e altri reati attraverso l’eliea - di politica estera: decide su guerra e pace, alleanze e trattati internazionali, invia ambascerie - amministrative: decide su uso del denaro pubblico, modifiche dei tributi, attribuzione della cittadinanza, diritto di vivere nel pritaneo a spese dello stato 600 cittadini a sorte da giudiziarie: su delega oltre i 30 anni ecclesia dell’ecclesia giudica i reati non per ogni tribù di sangue boulè Consiglio dei Cinquecento organo di governo della città Bouleutérion 10x50 cittadini di pieno diritto di oltre 30 anni, per ogni tribù (per un massimo di due volte nella vita per ogni cittadino) pritani capi del governo Pritaneo Tholos epistátes presidente della boulé e dell’ecclesia 10 strateghi 10 comandanti militari 50 membri di una tribù un pritano cittadini della I classe di censo con competenze militari a sorte da ogni tribù ogni anno - legislative: esamina e approva le proposte da presentare all’ecclesia; - esecutive: fa eseguire le decisioni prese dall’assemblea; riceve le relazioni dei generali; introduce gli ambasciatori nell’ecclesia; valuta l’operato degli arconti e degli altri magistrati; - amministrative: appalta la riscossione delle imposte e punisce col carcere gli appaltatori insolventi un - dirigono la boulé decimo - sorvegliano la città di giorno e dell’anno di notte a turno - eleggono ogni giorno un epistates scelto a dirige l’ecclesia, la boulé e i sorte dai pritani, custodisce il sigillo di pritani Stato, le chiavi dei templi ogni dell’Acropoli e del tesoro giorno pubblico eletti per militari: condurre la guerra e un anno e affiancare l’arconte polemarco rieletti anche più volte LA SOCIETÀ L’educazione L’evoluzione della società ateniese in senso democratico non modificò di molto le consuetudini di vita tradizionali. Anche ad Atene la costituzione stabiliva che le famiglie garantissero l’educazione dei giovani, sia pure solo quella elementare. Con la riforma democratica infatti la paideia, l’educazione, divenne un prerequisito per la partecipazione alle funzioni direttive e di governo, in qualsiasi rango e a qualsiasi livello, e quindi fu interesse preminente della comunità garantirla a tutti. A spese della polis però venivano educati solo gli orfani di guerra; negli altri casi l’educazione e l’istruzione, sebbene garantite per legge, erano a carico delle famiglie e le scuole erano aziende private, in genere di un solo insegnante. Le forme di educazione dei bambini erano molto diverse da quella delle bambine, che venivano educate esclusivamente in casa (v. approfondimento) Box di approfondimento L’educazione dei giovani maschi Ad Atene, come in altre poleis, i figli dovevano essere riconosciuti come legittimi dal padre al momento della nascita. In mancanza di un riconoscimento o qualora la famiglia non avesse i mezzi per allevare il neonato, come a Sparta, sebbene con minor frequenza, il bambino poteva essere esposto: adagiato in una grossa pentola con qualche piccolo oggetto che potesse permetterne il riconoscimento qualora chi lo aveva esposto cambiasse idea o condizione economica, veniva lasciato in un luogo nei pressi dell’abitazione stessa, a disposizione di chi lo volesse raccogliere per pietà o per allevarlo in mancanza di altri figli o per venderlo come schiavo. Ma anche se non veniva raccolto, il neonato non era destinato alla morte, perché lo stato provvedeva ad allevare i trovatelli a spese pubbliche, salvo a richiedere loro, una volta diventati adulti, di rimborsare le spese sostenute. L’esposizione (éktesis) era tuttavia socialmente riprovata e quindi poco praticata ad Atene. Mentre a Sparta l’usanza dell’ektesis derivava dalla necessità di garantire l’integrità genetica del gruppo dominante degli spartiati, impedendo infiltrazioni estranee o la presenza di persone deformi, ad Atene garantiva l’integrità della famiglia, tutelava il patrimonio e il livello di vita familiare, evitando che si allevassero figli illegittimi o semplicemente troppo numerosi. I bambini venivano educati in casa dalla madre e soprattutto dalla nutrice, la bambinaia, fino all’età di sei anni, quando iniziava la fase dell’istruzione scolastica. Alla scuola elementare, la scuola di “grammatica”, dove si insegnava a leggere, scrivere e far di conto, oltre ai rudimenti della musica, i ragazzi andavano dai sette fino ai dodici-quattordici anni. Le lezioni si svolgevano in casa del maestro o all’aperto sotto i porticati della città e si protraevano dal mattino fino al crepuscolo, con alcuni intervalli. Grande importanza si dava all’insegnamento della musica e della poesia, perché il ragazzo apprendesse il senso del ritmo, dell’armonia e della misura non solo nel parlare ma anche nell’agire. A partire dalla poesia omerica, che si dava ai ragazzi da memorizzare, l’educazione poneva come modello di comportamento gli eroi e i grandi personaggi del mito. Oltre ad Omero, si studiavano a memoria anche altri poeti, Solone, i lirici, testi mitologici e didascalici. Il maestro di ginnastica sviluppava poi l’efficienza fisica perché lo sviluppo del corpo non fosse inferiore a quello della mente e il giovane potesse affrontare la guerra come altre attività. La formazione superiore La fase successiva dell’educazione era riservata solo a coloro che non erano costretti ad intraprendere un’attività lavorativa e prevedeva lo studio della retorica e della filosofia, finalizzato, nell’Atene democratica, ad apprendere l’arte della parola. Per chiunque volesse partecipare alla vita pubblica era indispensabile saper usare la parola per convincere l’assemblea delle proprie opinioni e ottenerne il favore. Nel V secolo maestri dell’arte della parola furono i sofisti, di cui parleremo nei prossimi capitoli. La paideia più che semplice educazione diventava così un grado superiore di formazione, attraverso la quale si sviluppavano le capacità conoscitive della mente che permettevano di affidarsi alle proprie forze, più che all’intervento e all’aiuto degli dei, come in epoche precedenti. Proprio chi possedeva questa formazione superiore poteva ottenere prestigio e potere su chi non ne era dotato. L’efebia All’età di 18 anni, il giovane diventava efebo ed era pronto per l’addestramento militare: gli venivano rasati capelli, che i bambini portavano lunghi, per un anno si esercitava nell’uso delle armi, l’anno successivo veniva inviato a svolgere servizio nel presidio di qualche località. Lo stato provvedeva a nominare sei allenatori e istruttori pubblici per svolgere l’addestramento e una commissione governativa per vigilava sugli efebi, sul loro comportamento e la loro moralità, oltre che sui maestri e sul modo con cui svolgevano l’addestramento. Alla fine dell’efebia, cioè di questo periodo di istruzione militare, con una cerimonia solenne lo stato faceva dono ad ogni efebo di uno scudo e una lancia e il giovane prestava un giuramento solenne: «Non farò torto alle armi consacrate né abbandonerò l’uomo che si trova a me vicino, ovunque egli sia. Io porterò il mio aiuto alle cose sacre dello stato e sia da solo sia con gli altri compirò tutte le obbligazioni religiose. Inoltre non tramanderò diminuita la mia terra nativa, ma più grande e migliore di quanto sia al momento in cui mi viene affidata. Obbedirò a quelli che hanno potere di decidere e giudicare secondo il momento e le leggi vigenti e qualunque altra che il popolo concordemente sia per stabilire: se qualcuno tenterà di diminuire le leggi io non lo permetterò, ma respingerò questo tentativo sia da solo sia con tutti gli altri.» L’educazione delle fanciulle e la condizione della donna In una società patriarcale come quella greca, l’uomo deteneva il potere nella società a partire dal suo nucleo di base, la famiglia. Il termine stesso “patriarcale” deriva da pater che, sia in greco che in latino, significa “padre”. Si trattava in realtà di un padre padrone che esercitava il suo potere di vita e di morte non solo sui servi della famiglia, ma anche sui figli e persino, anche se parzialmente, sulla moglie. Il ruolo sociale e l’identità stessa della donna veniva definita dall’uomo, a partire dall’educazione delle ragazze, che avveniva esclusivamente nell’ambito della famiglia. Era un’educazione ristretta, limitata a quanto potevano insegnare la madre e qualche serva: rudimenti di musica, di scrittura e lettura, di calcolo. Un’istruzione superiore sarebbe stata pericolosa: i greci (e non solo loro purtroppo!) temevano donne colte, intelligenti, libere, di condizione sociale superiore alla loro, che potessero mettere in scacco il maschio. Invece la donna doveva avere il solo ruolo di soddisfare le esigenze, i desideri, i bisogni dell’uomo, a partire da quello di avere una discendenza legittima a cui destinare il patrimonio dopo la morte. Connesso col ruolo riproduttivo era quello della gestione della casa, che, nella società ateniese in cui il maschio era proiettato verso l’esterno, sia per l’attività economica sia soprattutto per quella politica, era il luogo riservato quasi esclusivamente alla donna. Le ragazze dovevano quindi imparare a filare, tessere, cucire, cucinare, aver cura della casa, governare i servi. Escluse dalle scuole, anche private, dalle palestre, dai teatri, dai banchetti, dagli affari e, naturalmente, dalla politica, le donne erano relegate in casa, anzi nello spazio più interno della casa a loro esclusivamente riservato, il gineceo (che deriva da ghyné, “donna”), dove gli uomini non potevano entrare. Da questo spazio le donne non potevano uscire se non in rare occasioni: visite ai parenti, nozze, funerali, feste religiose a loro riservate. Solo le donne di bassa condizione economica e sociale, costrette a svolgere un mestiere o a provvedere personalmente ai bisogni domestici, potevano uscire e fare esperienza del mondo. Le altre avevano schiavi che si occupavano delle faccende fuori dalle mura domestiche, mentre le spese erano gestite del marito. Un’inferiorità storica La segregazione della donna ateniese nasce con l’avvento stesso della polis, che si fonda sull’esclusione del diverso e quindi di due categorie di persone in particolare: le donne, sessualmente diverse dagli uomini, e gli schiavi, diversi dai cittadini liberi. Se in epoca micenea la funzione principale della donna era sì quella riproduttiva, ma ella aveva tuttavia un margine di libertà (v. cap.???), con la nascita della polis, i legislatori si preoccuparono di stabilire leggi che regolamentassero la riproduzione dei gruppi familiari. Dracone, che pure vietò l’omicidio come vendetta privata e affidò il compito di giudicare i delitti e comminare le pene ad un tribunale pubblico (v. sopra), ammise come omicidio legittimo quello di un uomo sorpreso in casa di un cittadino a intrattenere rapporti con una donna della casa: moglie, concubina, sorella, madre, figlia del padrone di casa. L’uomo poteva salvarsi offrendo, come in epoca omerica (v. p.???), una somma di denaro per l’offesa arrecata, sempre che l’offeso la accettasse. Il fatto che sussistesse questa forma di vendetta privata lascia intuire che il rapporto sessuale fuori dal matrimonio, anche con donne non sposate, era considerato un reato gravissimo. La donna scoperta in flagrante adulterio, però, non veniva uccisa, ma punita con il divieto di partecipare alle cerimonie sacre (in modo per svergognarla) e con il ripudio da parte del marito (se era sposata). Questa regola assai singolare, che salvava la donna dalla morte, si può spiegare col fatto che la donna era considerata incapace di autoregolarsi e perciò, anche se consenziente, era da ritenersi sedotta, “corrotta”, violata dall’uomo: non adultera, ma “adulterata”. L’uomo invece, anche qualora non fosse ucciso, perché non colto in flagranza di reato, poteva essere portato in tribunale da un cittadino qualunque, perché chiunque aveva il diritto di salvare il principio che non si potevano infrangere le regole della morale familiare, la quale stabiliva il possesso esclusivo della donna da parte del padre o del marito. Inferiore per natura e per legge A legittimare il predominio maschile sulla donna intervenivano sia la filosofia sia la legge. La donna era considerata per natura inferiore all’uomo, preda delle passioni, assolutamente priva di razionalità e di autocontrollo, incapace di prendere decisioni responsabili: restava insomma sempre una bambina. Anche giuridicamente perciò non raggiungeva mai la maggiore età e doveva essere sempre posta sotto la tutela di un uomo, padre, marito, figlio, fratello o un altro parente. Nel corso della sua vita una donna poteva solo passare da un tutore (kyrios, letteralmente “signore, padrone”) ad un altro: con il matrimonio, dal padre al marito e, all’eventuale morte del marito, al figlio maschio maggiorenne. In mancanza di un figlio in grado di assumerne la tutela, la vedova era costretta a risposarsi con un parente stretto, spesso il fratello del marito. L’inferiorità sociale della donna si manifestava già alla nascita: l’ektesis, l’esposizione dei neonati, riguardava (e purtroppo riguarda ancora oggi) un numero di bambine assai maggiore di quello dei bambini. Una bambina infatti era un peso per la famiglia, che doveva allevarla e, sia pure minimamente, istruirla, con l’unico scopo di darla in sposa, per di più fornendola di una costosa dote. La spesa per allevare una figlia femmina era, quindi, un investimento svantaggioso che non veniva compensato da alcun guadagno: se la ragazza andava sposa, non contribuiva al benessere della famiglia di origine, ma a quella del marito che da lei otteneva figli e dote; se invece non si riusciva a darle marito, ella gravava sul bilancio familiare come un peso inutile, tanto che il padre spesso finiva col venderla come schiava. Allora, anche per impedire che il numero delle femmine superasse quello dei maschi, col rischio che alcune donne restassero nubili, si preferiva esporre le neonate. Perciò in Grecia non esistevano le zitelle! (come ha notato uno studioso, U.E.Paoli, citato in Cantarella, L’ambiguo malanno). Le bambine che si decideva di allevare, invece, venivano promesse spose in età ancora infantile (in un caso citato dagli storici, all’età di 4 anni!) e sposate di norma dopo quattro o cinque anni dal momento dello sviluppo sessuale, quindi intorno ai 14/15 anni, mentre all’uomo si consigliava di prender moglie intorno ai trent’anni. La mortalità femminile, causata da parti in età precoce, era di conseguenza molto alta. I matrimoni erano sempre combinati per ragioni che non tenevano affatto conto dei desideri e dei sentimenti della giovane donna. La volontà di risparmiare sulla dote e mantenere integro il patrimonio familiare poteva indurre il padre a decidere addirittura un matrimonio tra i propri stessi figli, tra fratello e sorella, in modo che la dote restasse in famiglia. Ma il matrimonio poteva anche servire a stringere vantaggiosi rapporti di parentela con altre famiglie. Mai in ogni caso era la donna a scegliere chi sposare. Poteva però scegliere di lasciare il marito: soprattutto se i motivi che la spingevano a farlo erano gravi, ella si poteva recare dall’arconte per chiedere l’autorizzazione ad abbandonare il tetto coniugale. Peccato che il marito poteva impedirle di uscire di casa! Anche quando la donna riusciva a divorziare, la sua condizione di donna divorziata era comunque ritenuta disdicevole. Più facile invece era divorziare per l’uomo, che poteva ripudiare la moglie in qualsiasi momento e senza dichiararne la ragione. Lo tratteneva dal farlo solo l’inconveniente di dover restituire la dote. Ma ad annullare il matrimonio della figlia poteva essere lo stesso padre, che in genere aveva interesse a riprendersi la dote. Poteva farlo però solo se la figlia non aveva ancora generato un bambino. Era infatti la nascita di un figlio a far entrare definitivamente la donna nella nuova famiglia del marito e a farla considerare di sua proprietà. La donna aveva diritto ad ereditare il patrimonio del padre o del marito, nel caso in cui mancavano eredi maschi, ma solo per trasmettere ad altri l’eredità ricevuta. Se non aveva un figlio maschio a cui cederla, una volta diventato maggiorenne, o era nubile, l’ereditiera era costretta a sposarsi, di norma con il parente più stretto, in modo che il patrimonio restasse in famiglia. Non poche furono le cause giudiziarie per stabilire chi fosse il parente più stretto di una ricca ereditiera! Quattro donne per un uomo Non solo la donna era priva di libertà e di diritti, costretta a vivere relegata in casa, senza alcuna attività gratificante, ma non aveva neppure il diritto ad un marito in esclusiva. L’uomo ateniese si garantiva infatti, oltre alla moglie legittima (ghyné), altre tre donne a disposizione dei propri bisogni e dei propri desideri: una concubina (pallaké), un’etéra, cioè una “compagna”, e le prostitute (pórnai). La concubina a volte era accolta persino in casa e aveva doveri e diritti stabiliti: il dovere di essere fedele come una moglie e i diritti di successione per i suoi figli, anche se in subordine rispetto ai figli nati dal matrimonio. Il rapporto con una concubina non era infatti una forma di poligamia (il matrimonio di un uomo con più donne), ma restava al di fuori del matrimonio. L’etera era la compagna dell’uomo nel senso più moderno del termine: non era vincolata ad un rapporto stabile, era una donna libera che accompagnava l’uomo dove le altre due figure femminili non potevano andare: banchetti, incontri tra amici, spettacoli teatrali. Spesso colta e raffinata, assai simile alla geisha giapponese, era una professionista che garantiva all’uomo una compagnia affascinante e una conversazione intelligente, oltre che rapporti fisici non occasionali come quelli con una prostituta. Le etere spesso vivevano in belle case dove potevano intrattenere gli ospiti con dotte conversazioni. Certo la loro libertà era subordinata al piacere e al volere dell’uomo e non è paragonabile a quelle delle donne nelle società moderne più evolute. La porne era in genere una schiava, talvolta nata libera, esposta dal padre e raccolta da qualcuno per destinarla alla prostituzione. Offriva rapporti occasionali e, pur esercitando una professione non vietata dalla legge, che vietava solo la prostituzione maschile, era però malvista dalla società. Esisteva anche la prostituzione sacra, che si svolgeva nei templi e garantiva entrate cospicue nelle casse dei sacerdoti. Box Gli strumenti per scrivere Per scrivere gli studenti erano forniti di una tavoletta di legno ricoperta di cera, uno stilo, cioè una piccola stecca di osso, avorio o metallo, appuntita ad un’estremità e fatta a spatola dall’altra. Con la punta si incideva la cera, con la spatola la si spianava per cancellare la scrittura e riutilizzare la tavoletta. Più tavolette potevano essere legate insieme per allargare la superficie di scrittura. Solo a partire dal III sec. a.C. fu adoperato il papiro, che i greci chiamavano byblos, termine che passò poi ad indicare il “libro”. Box Gli strumenti musicali La musica, quando non era canto corale, era insegnata sulla lira, uno strumento costituito dallo scudo di una tartaruga che fungeva da cassa armonica, e sette corde, fatte di budello o di nerbo, che venivano fatte vibrare con un plettro. Inizialmente, finché non andò fuori moda, si usava anche il flauto (aulós), fatto di canna o legno, osso, avorio. Altri strumenti erano la cetra, simile alla lira, ma con una cassa armonica in legno che si allungava in due bracci, e almeno otto corde, che potevano arrivare anche a dodici; la tromba e il corno erano usati per scopi militari, i timpani e i cembali per la celebrazione di riti sacri. La musica faceva parte dell’insegnamento elementare perché proprio attraverso il canto e la danza i bambini potevano partecipare alle cerimonie sacre.