L'etica del dovere. a. I doveri e le leggi. Il Settecento conosce anche teorie che contrappongono morale e diritto. Si fa risalire agli stoici l'elaborazione sistematica del concetto di dovere, che permetteva di costruire una morale come un insieme di regole più che come una tavola di prestazioni, quali erano le virtù. Gli stoici avevano semplificato la teoria delle virtù riprendendo un principio caro ai seguaci di Socrate: chi possiede veramente una virtù le possiede tutte, come se si dicesse che solo chi è giusto può dar prova di autentica generosità. Ciò permetteva di essere molto drastici nel distinguere tra comportamenti positivi e negativi. Tuttavia gli stoici dovettero ammettere che c'erano casi apparentemente indifferenti rispetto alle virtù: i doveri indicano appunto quello che un sapiente farebbe in questi casi. Gli stoici stessi finirono per sviluppare una casistica, cioè la discussione di situazioni particolari nelle quali le regole morali sembrano in contrasto tra loro: era celebre il conflitto tra il dovere di rispettare i patti, che impone di restituire i prestiti, e il dovere di impedire un misfatto, che imporrebbe di non restituire la spada avuta in prestito, se si sapesse che essa verrebbe usata per uccidere. La teoria dei doveri si diffuse nella nostra cultura soprattutto grazie al De officiis di Cicerone e fu impiegata nei manuali correnti di etica. La teoria dei doveri servì a riprendere e riformulare l'idea scolastica di legge di natura. Per Pufendorf il diritto naturale contiene soltanto i doveri verso gli altri, non i doveri verso Dio o quelli verso se stessi, che pure vincolano gli uomini. Per Christian Thomasius (Fundamenta juris naturae et gentium, 1705) non appartengono propriamente al diritto, il quale comporta che ci sia una sanzione e qualcuno deputato a comminarla, neppure i doveri positivi verso gli altri. Egli infatti distingueva i doveri verso gli altri in positivi (che impongono di promuovere il benessere altrui) e negativi (che impongono di non impedire il benessere altrui), e accostava i doveri positivi a quelli interni, che sono doveri verso se stessi. Nella teoria scolastica la legge di natura è il fondamento della legge positiva e ne costituisce la cornice, perché la seconda interviene a determinare ciò che la prima lascia indeterminato. Con Pufendorf, e soprattutto con Thomasius, il diritto naturale è attratto verso la sfera dei doveri, ma non è più un vero e proprio diritto: è piuttosto un consiglio. I teorici seicenteschi ritenevano che tutte le regole dei comportamenti umani fossero accompagnate da sanzioni, implicite o esplicite, collegate al piacere e al dolore; per Pufendorf e Thomasius invece la sanzione qualifica solo il diritto positivo. b. Il dovere per il dovere. La teoria del diritto naturale elaborata da Pufendorf e Thomasius faceva di leggi e doveri tipi diversi di prescrizione, un motivo che diventava centrale nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785), nella Critica della ragion pratica (1787) e nella Metafisica dei costumi (1797) di Kant. Partendo dal primato della prescrizione Kant rifiutava tutte le teorie etiche settecentesche, anche quelle che avevano tentato di 'addolcire' e 'liberalizzare' l'interpretazione hobbesiana della morale attraverso la nozione di sentimento. Per Kant sono sempre il desiderio di ciò che piace e l'avversione per il dolore che spingono all'azione, perché l'uomo ha un rapporto causale con le cose che, proprio in quanto causa di piaceri e dolori, determinano i comportamenti. Ma Kant rifiutava anche la morale della virtù dei filosofi antichi, che erano partiti dal concetto di bene. Anche in questo caso Kant accettava l'antropologia di tipo hobbesiano, secondo la quale ci appare come buono solo ciò che può produrre piacere. Agli occhi di Kant perciò filosofi moderni e filosofi antichi avevano preteso di formulare leggi morali generali partendo dalle relazioni che di fatto si stabiliscono tra le cose e gli uomini. Invece queste sono relazioni molto varie, e non è detto che ciò che piace a una persona o ciò che una persona ritiene buono valga per tutti. La morale non deve stabilire quello che gli uomini generalmente fanno, ma quello che tutti gli uomini devono fare: essa perciò è in primo luogo un atto di obbedienza a un sistema di comandi, di imperativi. L'impostazione kantiana rappresentava una novità rispetto alle teorie etiche tradizionali. Quelle antiche avevano sempre interpretato i comportamenti attraverso il concetto di fine: il fine costituisce il bene dell'uomo e la virtù garantisce il raggiungimento di quel fine. Quelle moderne si erano invece riferite alla causa dell'azione, cioè alla capacità delle circostanze di produrre piacere o dolore. Causa e fine possono anche essere termini di riferimento dell'azione umana, ma i loro contenuti non sono uniformi. Se si subordinano gli imperativi al fine o alla causa si hanno imperativi ipotetici, che prescrivono mezzi per realizzare un fine, il quale a sua volta è dettato dalle circostanze nelle quali si determina l'azione. 'Se vuoi arricchire, lavora!' è un imperativo ipotetico: la connessione tra lavoro e arricchimento può essere generale, nel senso che generalmente il lavoro produce ricchezza, ma l'imperativo stesso non è universale, perché non è detto che tutti desiderino arricchire. Anzi a rigore se fosse adottato da tutti l'imperativo non si potrebbe realizzare, perché la ricchezza consiste nell'avere più di altri, e se tutti si proponessero di essere ricchi, tendenzialmente tutti avrebbero beni nella stessa misura, e perciò nessuno sarebbe ricco. Propriamente universali sono solo gli imperativi categorici, che sono incondizionati, non vincolati a uno scopo. Proprio perché non sono sottoposti a questo vincolo gli imperativi categorici valgono per tutti, indipendentemente dai desideri di ciascuno. D'altra parte se per qualcuno non vale, l'imperativo non è categorico. Tutti gli imperativi categorici sono imperativi morali e un imperativo che non sia categorico non può essere morale. Se si può rendere universale un imperativo senza generare contraddizioni, si ha la prova che si tratta di un imperativo morale. La menzogna non è moralmente lecita in nessun caso, perché per essere lecita essa dovrebbe configurarsi come caso particolare dell'imperativo universale 'menti!'. Ma se tutti mentissero non esisterebbe più la verità, mentre la menzogna consiste nella presentazione di una proposizione falsa come vera. Neppure un imperativo come 'arricchisciti più che puoi!' potrebbe configurarsi come universale, perché seguendo quel comando qualcuno sarebbe autorizzato a ridurre qualcun altro alla condizione più misera. Kant riteneva perciò che segno della moralità fosse non la rispondenza di una regola alla natura umana o al fine naturale dell'uomo, ma la possibilità di inserirla in una legislazione universale priva di contraddizioni. La formula stabilita da Kant suonava infatti: "Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come legge universale". In un'altra celebre formula Kant reintroduceva il concetto di fine, ma in forma subordinata: "Agisci in modo da trattare l'umanità nella tua persona, come nella persona di ogni altro, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo". Qui non si tratta di trovare quale sia il fine dell'umanità, ma semplicemente di stabilire che la prescrizione universale deve rivolgersi a tutti nello stesso modo. La prescrizione 'arricchisciti più che puoi!' potrebbe condurre a un'umanità collettivamente molto ricca, ma una situazione di questo genere non sarebbe accettabile, perché i poveri diventerebbero solo mezzi per l'arricchimento dell'umanità nel suo complesso. D'altra parte l'imperativo categorico 'non rubare!' suppone che esista la proprietà e questa esige che gli uomini siano anche mezzi, come strumenti di lavoro o perché assoggettati ai vincoli che la proprietà istituisce; ma l'importante è che anche i lavoratori possano essere proprietari, e cioè non siano solo mezzi, come sono gli schiavi. Alla luce di questa teoria Kant riprendeva l'interpretazione tradizionale dei doveri: sono doveri perfetti quelli verso se stessi, cioè quelli stabiliti da massime universali tali che non si può pensare senza contraddirsi che si dia anche una sola eccezione, mentre sono doveri imperfetti quelli verso gli altri, cioè quelli stabiliti da massime universali tali che non si può volere senza contraddirsi che ci sia anche una sola eccezione. Sono del primo tipo i doveri di non darsi la morte e di non mentire, mentre è del secondo tipo il dovere di promuovere le capacità razionali. Ma la distinzione tra i doveri non coincide con quella tra legge di natura e legge positiva, perché la legalità può essere coestesa con la moralità. La prima, che caratterizza il diritto, deve tutelare la compatibilità delle libertà esterne degli uomini, cioè deve rendere impossibili i comportamenti di un individuo che ledano la libertà degli altri, ma consiste nella semplice conformità di atti a regole, indipendentemente dalla motivazione, mentre la moralità esige l'esecuzione del dovere 'per il dovere'. Kant contrapponeva drasticamente il mondo del dovere a quello della società politica e riteneva che solo un 'regno dei fini', erede del 'regno di Cristo' e retto anch'esso sulla fede nell'esistenza di Dio, potesse dar senso al comportamento morale. La società politica, che i filosofi del Seicento e del Settecento avevano sempre considerato teatro dell'azione umana, è confinata nel mondo della legalità, che solo in una prospettiva infinita può convergere con la moralità. Kant si poneva così su posizioni affini a quelle di autori come Rousseau (Discorso sulle scienze e le arti, 1750, e Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, 1755) e Herder (Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità, 1774), critici radicali della società moderna, vista come il prodotto dell'intelligenza tecnica. Rousseau come Hume usava tesi filosofiche che risalivano ad Aristotele: che solo la volontà può spingere all'azione e che la volontà è in sé sempre buona, ma può essere ingannata da false immagini del bene. Questo è accaduto quando l'umanità ha abbandonato lo stato originario e si è affidata allo sviluppo delle arti. È vero che gli uomini sopravvivono solo in stati artificiali, ma le arti e le tecniche hanno preso il dominio sulla volontà e sono diventate strumenti con i quali gli uomini combattono gli uni contro gli altri per appropriarsi della terra e delle cose: anziché essere strumenti della volontà la ingannano con false immagini del bene, che mettono le volontà particolari in contrasto tra loro. Nel Contratto sociale (1762) la salvezza è additata in una volontà generale che può essere la volontà di tutti. Kant interpreta la volontà generale di Rousseau quando dice che la moralità è costituita da imperativi universali. Utilizzando strumenti scolastici e filosofici tradizionali Kant esprimeva la rottura di un miraggio che si era creato con l'assorbimento delle teorie morali dei filosofi antichi entro la credenza cristiana: non è vero che la moralità è iscritta nella natura o che può essere costruita artificialmente amministrando i moventi naturali ai quali l'uomo è soggetto. La realizzazione della moralità si pone in una prospettiva religiosa all'infinito.