Eneide - LIBRO I
Il poeta si propone di narrare le imprese di Enea, l'eroe scampato all'eccidio di Troia, il quale, per volere del
Fato, sbarcherà dopo molti travagli sulle coste del Lazio, per fondarvi una nuova città, Lavinio,da cui trarrà
origine Roma. Invoca Calliope, la musa della poesia epica, affinché gli renda noti i motivi per cui la regina
degli dei, Giunone, perseguitò con implacabile odio un uomo tanto pio. Ed ecco la storia. Dopo la distruzione di
Troia, Enea prepara una flotta di venti navi e fugge dalla città distrutta dalle fiamme. Trascorrono sette anni di
viaggio, un viaggio avventuroso e difficile, prima che i profughi giungano in vista dell'Italia, la terra che il Fato
assegna loro come nuova patria. E' questa l'antica Ausònia, donde era venuto Dàrdano, il capostipite dei
Troiani. Qui l'eroe dovrà trapiantare i Penati di Troia e dare origine ad una nuova stirpe che fonderà un nuovo
regno. Ma Giunone protegge Cartagine, città fenicia dell'Africa, e sa che la gente romana, vittoriosa e superba,
un giorno la distruggerà. Di qui l'odio per Enea, progenitore di questa gente, che s'aggiunge all'antico rancore
per il giudizio di Pàride; di qui il proposito d'impedire ad Enea di pervenire alla meta sospirata del suo viaggio.
Si reca da Eolo, re dei venti, e lo persuade a scatenare una furiosa tempesta che travolge alcune navi e disperde
le altre. Fortunatamente interviene Nettuno che ristabilisce la calma, consentendo ad Enea di sbarcare, con le
sette navi superstiti, sulle coste della Libia. Intanto, nell'alto dei cieli, Venere si accosta a Giove e, piangendo,
gli chiede perché mai Enea, suo figlio, sia tanto perseguitato dalla sventura e non riesca a raggiungere la patria
promessa. Giove la tranquillizza dicendole che il destino di Enea non è cambiato: da lui discenderà la stirpe
Giulia, dominatrice del mondo, e nel Lazio sorgeranno Roma e l'Impero. Poi Venere, travestita da cacciatrice, si
presenta al figlio per assicurarlo sugli abitanti del luogo e per esortarlo a recarsi nella vicina Cartagine, dove gli
verrà offerta una regale ospitalità. E gli parla della regina Didone che, costretta a fuggire dalla città fenicia di
Tiro, sua patria, in seguito all'uccisione del marito Sichèo da parte del fratello di Pigmalione, aveva fondato la
città di Cartagine, in Libia, di cui era protettrice Giunone. Accompagnato dal fido Acate, Enea entra in città non
visto, perché avvolto da Venere in una nuvola di nebbia, e giunge al magnifico tempio di Giunone, nel quale
vede dipinti episodi della guerra di Troia. Ma ecco che, seguita da un corteo di principi, appare Didone fulgente
di meravigliosa bellezza: siede sul trono e dà inizio alla sua attività di regina. Poco dopo entra nel tempio un
gruppo di Troiani, che Enea credeva scomparsi nella tempesta. Sono guidati da Ilioneo, il quale supplica la
regina di aiutare gl'infelici naufraghi, desiderosi di salpare verso l'Italia. La regina acconsente e promette di far
ricercare il loro re scomparso. A questo punto la nube che nascondeva Enea si dissolve, e l'eroe appare, per
forza e bellezza, del tutto simile ad un dio. Saluta i compagni e ringrazia con parole di commossa riconoscenza
Didone che, stupita e lieta, invita i Troiani alla reggia, dove fa preparare per loro un sontuoso banchetto. Enea
fa chiamare intanto Ascanio, rimasto di guardia alle navi, ma Venere, trepidante per la sorte del figlio, manda
Cupido, dio dell'amore, sotto le forme di Ascanio. E Cupido insinua nell'animo della regina, a poco a poco, una
grande passione d'amore per Enea. Alla fine del banchetto Didone prega Enea di narrare le sue straordinarie
avventure.
Eneide - LIBRO II
Fra il silenzio generale l’eroe, con la tristezza nel cuore, inizia il racconto della caduta di Troia. Dopo dieci anni
di assedio i Greci, visto inutile l’uso della forza per prendere la città, decidono di ricorrere all’inganno.
Ammaestrati da Minerva, costruiscono un enorme cavallo di legno, nel cui ventre racchiudono i più forti
guerrieri. Poi fingono di partire e si nascondono con la flotta dietro all’isola di Tenedo, lasciando il cavallo sulla
spiaggia per dono votivo a Pallàde. I Troiani escono dalla città per festeggiare l’inattesa liberazione, ma anche
per ammirare la strana mole del cavallo. Subito Timète propone di trasportarlo dentro le mura, mentre Capo
consiglia di gettarlo in mare oppure dargli fuoco. Quand’ecco Laocoonte, sacerdote di Apollo, scendere
dall’alta rocca gridando che quel cavallo non era un dono, ma bensì un’insidia dei Greci, per cui bisognava
distruggerlo. E, ciò dicendo, vibra l’asta contro la pancia del cavallo, provocando un sinistro rimbombo. Intanto
sopraggiunge una folla di pastori:trascinano un prigioniero che afferma di chiamarsi Sinone, di essere un greco
sfuggito ai suoi compatrioti, da lui odiati perché volevano immolarlo agli dei, per ottenere in cambio un felice
ritorno in patria. Convinto e impietosito dalle sue menzogne, Priamo gli fa grazia della vita, ma gli chiede
precise notizie sul cavallo. E Sinone risponde: il cavallo fu costruito per placare l’ira di Minerva offesa dal ratto
del Palladio, e di proporzioni gigantesche perché non venisse introdotto in città, nel qual caso ai Troiani sarebbe
toccato l’impero del mondo. Quasi a conferma delle parole ingannatrici di Sinone, si verifica un terrificante
prodigio voluto da Pallade: due spaventosi serpenti, usciti dal mare, s’avventano sui due figli del sacerdote e li
divorano; poi avvinghiano il padre accorso in loro aiuto e lo soffocano. Compiuta la strage, i due mostri si
dirigono al tempio di Pallade e si raggomitolano tranquilli ai piedi della statua. A tale vista i Troiani non esitano
più: fanno una breccia nelle mura e trascinano sulla rocca il cavallo. Ma, durante la notte, Sinone fa uscire i
guerrieri dal cavallo, e costoro, uccise le guardie, spalancano le porte della città. Allora tutto l’esercito greco,
ritornato con la flotta da Tenedo, irrompe nelle vie e nelle piazze di Troia immersa nel sonno, saccheggiando,
incendiando, trucidando barbaramente gli abitanti. Ad Enea appare in sogno l’ombra dolente di Ettore, che lo
esorta a fuggire con i sacri Penati per trapiantarli nella sede voluta dal Fato. Destatosi di soprassalto, l’eroe sale
sul tetto e, rendendosi conto della terribile realtà, prende le armi e si getta nella mischia. Ma rimane sopraffatto
e, solo con due compagni superstiti, giunge alla reggia. Qui Pirro, penetrato con i suoi nel palazzo, insegue
Polite, figlio di Priamo, uccidendolo sotto gli occhi del padre. Poi afferra il vecchio re, che ha tentato
inutilmente di colpirlo, e lo sgozza nel sangue del figlio, ai piedi dell’altare. A tale vista Enea si ricorda dei suoi
e, esortato a ciò anche dalla madre Venere, corre senza indugio a casa per condurli in salvo. Quindi, deciso a
seguire l’ammonimento di Ettore, prende sulle spalle il padre Anchise, al quale affida i Penati, e col piccolo
Ascanio per mano e seguito dalla moglie, fugge dalla città in fiamme. Ad un certo punto della fuga s’accorge,
però, che nel trambusto ha smarrito Creusa. Tornato indietro a cercarla, gli appare l’ombra di lei che gli
annuncia d’essere stata assunta fra gli dei. E’ l’alba. Enea torna dai suoi e, rimesso il padre sulle spalle, prende
la via dei monti.
Eneide - LIBRO III
L’eroe trova scampo ad Antandro, ai piedi del monte Ida, dove si sono rifugiati altri Troiani. Qui, durante
l’inverno, fa costruire una flotta di venti navi sulle quali, al principio della primavera, s’imbarcano tutti i
profughi di Troia. Hanno inizio così le lunghe peregrinazioni alla ricerca di una nuova patria. Dapprima i
Troiani approdano in Tracia, terra amica di Troia, dove, mentre Enea s’accinge a fondare una città, da
chiamarsi Eneade, si verifica un fatto raccapricciante: dai rami di un mirto sgorga del sangue ed esce una voce
lamentosa. E’ Polidoro, l’ultimo figlio di Priamo, che il padre aveva mandato presso Polimestore, re di Tracia,
per sottrarlo alla guerra. Ma il re, vista la cattiva sorte toccata a Troia, lo aveva ucciso per impadronirsi delle
sue ricchezze. Ed ora Polidoro, trasformato in arbusto, esorta Enea a lasciare quella terra maledetta. Data
solenne sepoltura a Polidoro, i Troiani riprendono il mare dirigendosi verso Delo, l’isola sacra ad Apollo. Sono
accolti benevolmente dal re Anio, vecchio amico di Anchise, e si recano ad interrogare l’oracolo del dio, il
quale li ammonisce a “cercare l’antica Madre”. Seguendo il consiglio di Anchise, i profughi si recano a Creta,
da cui era partito Tèucro, progenitore dei Troiani. Subito si mettono al lavoro per fondare una nuova città da
chiamarsi Pergamèa, quando scoppia una terribile pestilenza che danneggia uomini, animali e mèssi. Convinti
d’avere sbagliato, gli esuli decidono di abbandonare anche quel luogo. Durante la notte, i Penati appaiono in
sogno ad Enea e gli additano l’Italia come la terra degli avi: l’Italia, donde venne il progenitore Dardano.
Ripresa la navigazione, una furiosa tempesta sospinge i Troiani alle Stròfadi, le isole delle Arpie, creature dal
volto di donna e dal corpo di uccello. Le quali, insozzando le mense, impediscono loro di magiare, mentre una
di esse, Celeno, li atterrisce con funesti presagi. Fuggono di là e, risalendo il mar Ionio, sbarcano sul lido di
Azio, dove celebrano giuochi e compiono sacrifici in onore di Apollo. Quindi, rimessisi in mare, giungono a
Burtroto, nell’Epiro, dove regna Eleno, figlio di Priamo, che ha sposato Andromaca, la vedova di Ettore.
Essendo indovino, Eleno predice ad Enea le sue future peregrinazioni prima di giungere alla terra promessa dal
Fato. Lo istruisce sul percorso da seguire e gli indica i segni per riconoscere il luogo dove dovrà fermarsi e
fondare la città. Dopo uno scambio di preziosi doni, i Troiani sono nuovamente in mare e, al mattino seguente,
vedono profilarsi all’orizzonte le coste dell’Italia. Prima Acate, e poi tutti gli altri la salutano con un grido di
gioia: “Italia!Italia!”. Per evitare gli scogli di Scilla e Cariddi, girano attorno alla Sicilia, approdando ai piedi
dell’Etna, nel paese dei Ciclopi dove raccolgono Achemenide, un greco dimenticato a terra da Ulisse. Avvertiti
del pericolo cui possono andare incontro, i Troiani hanno appena il tempo di fuggire, che Poliremo urlando si
spinge nel mare per inseguirli. Sbarcano quindi a Drepano, l’odierna Trapani e là il vecchio Anchise muore.
Salpano di nuovo, ma una violenta tempesta li sbatte sulle coste dell’Africa. E qui finisce il racconto di Enea.
Eneide - LIBRO IV
Didone, ormai innamorata di Enea, trascorre la notte pensando a lui, senza mai trovar riposo. Al mattino si
confida con la sorella Anna, che la incoraggia ad assecondare il nuovo sentimento, anche per i vantaggi che
deriverebbero al regno dall’unione dei Cartaginesi con i Troiani. Confortata da queste parole, Didone accarezza
volentieri l’idea di nuove nozze e, intanto fa sacrifici agli dei per renderseli propizi. Cerca di stare spesso in
compagnia di Enea e tratta con affetto materno Ascanio, ma trascura i suoi doveri di regina, per cui nella città il
fervore di opere cessa del tutto. Giunone contenta di tenere Enea lontano dall’Italia, favorisce questa passione.
D’accordo con Venere, fa si che durante una battuta di caccia, indetta dalla regina per onorare l’ospite scoppi
un violento temporale: tutti si sparpagliano in cerca di riparo, mentre Didone ed Enea si ritrovano soli nella
stessa grotta, e lì, col favore di Giunone pronuba, l’unione matrimoniale dei due si compie. Preso la notizia si
divulga. Jarba, re dei Getuli, che era stato respinto da Didone, si rivolge sdegnato al padre suo, Giove Ammone,
chiedendo vendetta per l’affronto subito. E Giove manda Mercurio da Enea per ricordargli la missione che gli è
stata affidata dagli dei, per ingiungergli di salpare alla volta dell’Italia. Enea rimane atterrito, ma capisce che
deve ubbidire al comando divino. Non trovando il modo di parlare con Didone, decide di partire all’insaputa di
lei e, per tanto, ordina ai suoi di allestire in segreto la flotta. Didone però s’accorge dei preparativi e, sdegnata e
pazza di dolore investe Enea con parole di rimprovero e di minaccia, ma pure di preghiera e di scongiuro. Enea,
irremovibile nel suo proposito, le risponde tergiversando che non voleva partire segretamente, ma che neppure
le aveva promesso di rimanere per sempre a Cartagine. Ed aggiunge che, suo malgrado, deve rispettare la
volontà del Fato che, avendogli tolto la patria, lo spinge a fondarne una nuova in Italia. Allora Didone,
guardandolo torva, gli manifesta tutto il suo disprezzo. Vada pure verso il proprio destino: lei morrà e, ombra
implacata, lo seguirà ovunque per maledirlo. Il “pio” Enea sebbene tormentato anche lui dalla passione
d’amore, rimane saldo nel suo proposito ed affretta la partenza delle navi. Invano la regina, in un estremo
tentativo, manda la sorella Anna a supplicarlo di trattenersi ancora un po’ di tempo, nell’attesa che spirino venti
più propizi, per modo che Didone possa abituarsi all’idea del distacco. Allora l’infelice decide di morire.
Persuasa da funesti presagi e torturata da sogni minacciosi, studia come attuare il triste proposito senza destare
sospetti nella sorella. Dice di voler ricorrere alle arti magiche per liberarsi dalle sofferenze dell’amore. Fa
costruire a cielo aperto, un’alta pira di legna resinose e vi fa mettere sopra il letto nuziale, la spada, le vesti e
l’effigie dell’eroe amato. Poi, assieme ad una maga, vi gira intorno celebrando rituali magici. Intanto Enea
dorme tranquillo sull’alta poppa della nave, quand’ecco Mercurio apparirgli in sogno e, con parole concitate,
sollecitarlo a partire perché Didone potrebbe, nella sua furia, dar fuoco alle navi. L’eroe sveglia subito i
compagni e taglia con la propria spada gli ormeggi. Allorquando Didone, sul far dell’alba, vede la flotta troiana
navigare nel mare aperto, cade in preda alla più cupa disperazione. Invoca dagli dei una tremenda maledizione
su Enea: che trovi nella nuova patria guerra e dolori; che muoia anzi tempo; e che perpetua sia la rivalità tra i
suoi discendenti ed il popolo dei Tiri, cioè fra Roma e Cartagine. Poi, impaziente di morire, sale sul rogo e si
trafigge con la spada avuta in dono da Enea. Pianti ed urli echeggiano nella reggia Anna sale sul rogo in tempo
per raccogliere l’estremo respiro della sorella. La morente cerca con gli occhi tremanti la luce che fugge, poi
manda un gemito e giace senza vita.
Eneide - LIBRO V
Mentre la flotta veleggia in alto mare, Enea vede i bagliori del rogo di Didone e, benché non sappia la causa di
quel fuoco, è contristato da foschi presentimenti. Anche il mare è cupo e, intorno alle navi, sta addensandosi
una minacciosa tempesta, sicché Palinuro, il nocchiero della nave di Enea, suggerisce di puntare verso la
Sicilia, dove potranno contare sull’ospitalità del troiano Aceste, re di Segesta. Lo stesso re, infatti, visto
dall’alto l’arrivo delle navi amiche, si reca sul lido per riceverli ed offrire ad essi ospitalità e ristoro. La mattina
seguente, ricorrendo l’anniversario della morte di Anchise, colà sepolto l’anno prima, Enea indice giochi
funebri in suo onore. Poi muove verso la tomba del padre, dove immola vittime e fa libagioni di latte, vino e
sangue. All’alba del nono giorno da inizio ai giochi, ai quali prende parte anche la gioventù del luogo. Quattro
sono le gare con ricchi premi per i vincitori:la regata, vinta dalla nave “Scilla” comandata da Clonato; la corsa a
piedi, vinta da Eurialo col favore di Niso; la lotta del cesto (pugilato), vinta dal siciliano Entello sul troiano
Darete; la prova dell’arco, vinta da Eurizione, ma il premio viene consegnato al vecchio Aceste, la cui freccia,
volando tra le nubi, ha preso fuoco lasciando dietro di sé una scia luminosa. Si svolge, poi, un torneo di
fanciulli a cavallo: tre squadre, di dodici giovinetti ciascuna, compiono una specie di danza equestre o di finta
battaglia. S’impone tra tutti, per bellezza e bravura, Ascanio, il quale cavalca un destriero donatogli da Didone.
La giornata sta per concludersi lietamente, quando Giunone manda Iride ad istigare le donne troiane che,
stanche del continuo peregrinare, appiccano il fuoco alle navi. Al divampare del fuoco tutti corrono al porto, ed
Enea, in preda ad un profondo scoraggiamento, invoca l’aiuto di Giove, il quale, impietosito, rovescia dal cielo
una violenta pioggia che spegne l’incendio. Pur tuttavia, quattro navi sono andate perdute. Enea, ora, è incerto
sul da farsi. Ma nella notte gli appare l’ombra del padre, che lo esorta a seguire il consiglio del vecchio Naute, il
quale propone di fondare in Sicilia una città dove lasciare le donne, i vecchi e i malati, e di continuare il viaggio
solo con i più giovani e forti. Anchise aggiunge che, prima di sbarcare nel Lazio, l’eroe dovrà discendere
nell’Averno per incontrarsi con colui che gli svelerà i suoi destini gloriosi. Il “pio” Enea, determinato a seguire
la volontà degli dei, traccia i solchi della nuova città per coloro che rimangono: essa si chiamerà Acesta ed avrà
come re l’amico Aceste. Inoltre, sul monte Erice getta le fondamenta di un tempio a Venere, sua madre. Dopo
nove giorni di feste e sacrifici, viene il momento della partenza. Abbracci e pianti a non finire, quindi le navi
salpano per l’Italia col vento in poppa. Venere ha ottenuto una felice navigazione per il figlio. Ma il dio del
mare ha preteso in cambio il sacrificio di una vittima umana: sarà Palinuro, il nocchiero della nave di Enea, il
quale, ingannato dal Sonno, s’addormenta e precipita in mare insieme al timone. Enea, svegliatosi presso gli
scogli delle Sirene, avverte la mancanza del nocchiero: corre subito a prendere il posto dell’amico e ne piange
amaramente la morte.
Eneide - LIBRO VI
Le navi approdano finalmente a Cuma. Mentre i compagni vanno a tagliare legna e a cercare acqua, Enea sale
sulla rocca, dov’è il tempio di Apollo, vicino alla grotta della Sibilla. L’eroe si sofferma a contemplare il
tempio costruito da Dedalo, sulle porte del quale sono raffigurate le tragiche vicende di Androgeo e del
Minotauro. Ma ecco che avanza la Sibilla: la sacerdotessa invita Enea a celebrare i sacrifici ad Apollo e,
compiuto il rito, ad entrare nella sua grotta. Qui Enea invoca il potente dio, protettore dei Troiani, perché ponga
fine al suo lungo peregrinare e gli conceda finalmente di fondare il regno promesso. Allora la Sibilla, invasa
dallo spirito profetico di Apollo, tutta agitata e tremante, pronuncia l’atteso vaticinio: “I Troiani giungeranno
nel Lazio, però vi troveranno guerra e sangue. Ma alla fine, anche per l’aiuto di una città greca, saranno salvi e
vincitori”. Placatasi la sacerdotessa. Enea la prega di condurlo nei Campi Elisi perché possa incontrarsi col
padre, ed ella risponde che prima dovrà cogliere un ramoscello d’oro, sacro a Proserpina, e dare sepoltura al
compagno Miseno. Infatti Miseno, il trombettiere di Enea, giaceva cadavere sul lido. Avendo osato sfidare
Tritone nel suono della tromba, il dio sdegnato lo aveva fatto cadere nell’acqua e morire annegato. Si decide di
rendere onori funebri al morto. Tutti vanno nel bosco a raccogliere legna per il rogo; anche Enea, il quale,
guidato da due colombe messaggere di Venere, giunge presso un albero che ha un ramoscello d’oro. Subito lo
stacca e corre dalla Sibilla. Dopo aver compiuto le esequie di Miseno, cui dà sepoltura sul promontorio che da
lui prese nome, Enea offre sacrifici agli dei infernali, perché gli concedano di entrare nel regno dei morti.
All’ordine della Sibilla, Enea si inoltra con lei nell’oscurità di un vestibolo, dove s’aggirano fantasmi
spaventosi che personificano i peggiori mali che tormentano l’umanità: le Malattie, la Fame, la Miseria, la
Paura, la Guerra, la Morte, e così via. Nel mezzo sorge l’albero dei Sogni, mentre i mostri mitologici (Centauri,
Scilla, Briareo, Idra, Gorgona, Chimera…) sono a guardia delle porte. Enea, spaventato, impugna la spada, ma
la Sibilla lo ammonisce che sono vane ombre. Sulla riva dell’Acheronte, fangoso e torbido, l’eroe vede le anime
degli insepolti, condannati a vagare per cent’anni prima di essere accolti nella barca di Caronte. Fra essi Enea
scorge Palinuro, il nocchiero caduto in mare, che gli racconta come venne assalito ed ucciso da gente crudele
che lasciò abbandonato il suo corpo sulla spiaggia. Ma quella stessa gente crudele – la Sibilla lo rassicura – gli
darà solenne sepoltura e chiamerà col suo nome il promontorio dove morì. Caronte,intanto, scorge Enea e gli
intima di fermarsi: non lo traghetterà, perché è vivo. Ma le parole della Sibilla e la vista del ramoscello d’oro
fanno sì che il nocchiero s’acquieti e li trasporti entrambi. Sull’altra sponda trovano, a guardia dell’Antinferno,
Cerbero che latra rabbiosamente. La Sibilla gli getta una focaccia soporifera ed il mostro si addormenta. I due
entrano così, senza difficoltà, nel regno dei morti. Appena dentro odono un confuso suono di voci e di vagiti
infantili: sono le anime dei bambini morti anzitempo, quelle dei condannati a morte ingiustamente, dei suicidi e
dei guerrieri caduti. Giudice di tutte queste anime è Minosse. Nei campi del pianto, fra le anime dei suicidi per
amore, Enea scorge Didone. Le si avvicina e, piangendo, le rivolge parole affettuose, ma la regina non risponde
e, guardandolo biecamente, s’allontana da lui per accostarsi all’ombra del marito Sicheo. Fra i guerrieri Enea
incontra molto Troiani, e tutti si affollano intorno a lui desiderosi di parlare, mentre i Greci fuggono atterriti.
Enea si intrattiene a lungo con Deifobo, figlio di Priamo, che gli narra la sua tristissima fine. Il colloquio è
interrotto dalla Sibilla che mostra ad Enea un bivio: di qua c’è il Tartaro, dove sono puniti eternamente i
malvagi, di là i Campi Elisi. Nel Tartaro i giusti non possono entrare, sicché ad Enea non è permesso vederlo.
Dall’alto di una torre vigila Tisifone, una delle tre Furie .All’interno vi è il giudice Radamanto che, dopo aver
giudicato le anime, le precipita giù nell’abisso. Attorno al Tartaro, cinto da una triplice muraglia, scorre la
corrente infuocata del Flegetonte. Ripreso il cammino i due giungono ai Campi Elisi. Enea appende sulla porta
il ramoscello d’oro in omaggio a Proserpina ed entra nei luoghi ameni – verdi prati, boschi, ruscelli- dove i
buoni conducono una beata esistenza. Il poeta Museo guida Enea da Anchise che muove incontra al figlio,
felice di rivederlo sano e salvo. Enea, piangendo di commozione, vorrebbe abbracciare il padre, ma per tre volte
l’ombra sfugge al suo amplesso. Poco distante da lì, presso la riva del fiume Lete, s’aggira una folla leggera di
anime simili a sciami d’api sui fiori. Quelle anime -spiega Anchise- sono destinate a trasmigrare in altri corpi,
dopo aver bevuto nel Lete l’oblio della precedente vita terrena. Fra di esse, Anchise addita al figlio le anime
che, rinnovando la prole dardania, diventeranno i suoi gloriosi discendenti. Ecco Silvio, che nascerà da Enea e
da Lavinia, poi i re di Albalonga, e Romolo fondatore di Roma, e via via, fino a Cesare e ad Augusto, che
porterà l’impero ai confini del mondo. E la rassegna termina con l’ esaltazione della missione civilizzatrice di
Roma. Quindi Enea prende commiato dal padre ed esce dall’Averno. Raggiunti i compagni, s’imbarca con essi
alla volta di Gaeta, dove, appena giunto, fa ancorare le navi.
Eneide - LIBRO VII
A Gaeta muore la vecchia nutrice di Enea, Caieta, che viene sepolta in quel golfo e gli dà il nome. Dopo il
funerale, Enea si rimette in mare e, costeggiata la terra della maga Circe, approda presso la foce d’un grande
fiume. E’ il Tevere, il tanto sospirato Tevere, che scorre nel Lazio dove regna il vecchio re Latino, padre di
un’unica figlia, Lavinia, promessa sposa di Turno, re dei Rutuli. La regina Amata, preferendo Turno agli altri
principi italici, è lieta di averlo come genero, tanto più che egli è suo nipote. Ma re Lavinio, credendo nel
vaticinio di un oracolo, attende un genero straniero, venuto di lontano, la cui stirpe è destinata a dominare il
mondo. Dall’avverarsi di alcune profezie, Enea comprende che quella è la terra assegnatagli dai fati. Offre
sacrifici agli dei e manda cento cavalieri con ricchi doni al re Latino, per chiedergli un’accoglienza ospitale.
Intanto, traccia con lieve solco la cinta delle mura per la nuova città, munendola di terrapieni e steccati. Nella
sontuosa reggia di Laurento, i Troiani sono accolti favorevolmente dal re, il quale, vedendo avverarsi l’antico
presagio, offre ad Enea la sua amicizia e la mano della figlia Lavinia. Ben venga, dunque, da lui ospite da
tempo atteso. E, ricambiando i doni, gli manda un occhio ed una coppia di valenti destrieri. Ma Giunone sta in
guardia. Ella sa che i discendenti di Enea fonderanno Roma, e che Roma, un giorno, distruggerà Cartagine, la
sua città prediletta. Per questo, traendo profitto dalla situazione, accende gli animi contro Enea. Manda la furia
Aletto a suscitar discordie: prima dalla regina Amata e poi da Turno. La regina, eccitata da un insano furore,
inveisce contro Latino, ostinato a sposare la figlia ad un esule di Troia, poi si mette a correre come una baccante
per le vie della città, trascinandosi dietro altre donne e la stessa figlia Lavinia, che consacra, fra urli e moti
scomposti al dio Bacco. A sua volta Turno rompe i patti col re Latino e, spinto da un atroce desiderio di
vendetta, chiama a raccolta i Rutuli per muovere guerra a Troiani e Latini insieme. Intanto, sempre per opera di
Aletto, Ascanio ferisce a morte un cervo che Silvia, figlia di Tirro, pastore del re, aveva addomesticato e
custodiva con grande amore. L’episodio suscita l’indignazione dei contadini che, armati di bastoni, si scagliano
contro i Troiani. Ne nasce una zuffa sanguinosa con morti e feriti da entrambe le parti. Amata e Turno, forti
delle grida bellicose provenienti dalla folla, ne traggono un valido motivo per indurre Latino a dichiarare guerra
ad Enea. Ma il re non cede: piuttosto che macchiarsi di una tal colpa contro i decreti del Fato, egli depone il
potere e si ritira. Allora Giunone stessa spalanca le porte del tempio di Giano, la cui apertura precedeva la
dichiarazione di guerra, e tutta l’Ausònia, prima pacifica e tranquilla, è percorsa da un solo terribile grido:
“Guerra!”. Febbrilmente si fabbricano nuove armi e tutti si addestrano per prepararsi allo scontro imminente. Il
poeta, dopo aver invocato nuovamente le Muse, passa in rassegna i guerrieri italici corsi in aiuto dei Rutuli. C’è
l’etrusco Mezenzio, spregiatore degli dei, col figlio Lauso; Aventino, figlio di Ercole; i fratelli Cavillo e Cora,
con gli abitatori di Tivoli; Messalo, figlio di Nettuno, che guida i Fescenni ed i Falasci; Clauso, con la gente
della Sabina; il medico Umbrone con i Marsi; Ebalo con i Campani; e tanti, tanti altri che sosterranno Turno
nella rivendicazione dei suoi diritti. Infine, c’è Camilla, regina dei Volsci, donna forte e gentile che guida uno
squadrone di cavalieri. Tutti accorrono al suo passaggio per ammirarla.
Eneide - LIBRO VIII
Turno inalbera sulla rocca di Laurento il vessillo che dà il segnale della guerra: da ogni parte accorrono schiere
di guerrieri armati. Per avere altri aiuti contro l’odiato nemico, Turno manda un’ambasceria in Puglia, dove
l’eroe greco Diomede ha fondato la città di Arpi. Intanto Enea, ammonito in sogno dal dio Tiberino, prepara
due biremi con cui salire il corso del fiume: si recherà a Pallanteo, la città fondata dal greco Evandro, per
stringere con lui un patto d’alleanza. Ed ecco uscire dalla selva una candida scrofa con trenta porcellini: è
questo il segno, come gli aveva predetto Eleno, che là deve stabilire la sua sede. Subito Enea immola quelle
vittime a Giunone per propiziarsi la dea nemica e comincia a navigare nel Tevere mentre le acque calme e le
selve verdeggianti guardano stupite quell’insolito spettacolo. Quando raggiunge Pallanteo – una piccola città
murata sul colle Palatino –, il re Evandro con il figlio Pallante ed i migliori Arcadi stanno celebrando un
solenne sacrificio ad Ercole. Nel vedere navi piene di armati, quelli balzano in piedi atterriti, ma Pallante va
arditamente incontro agli stranieri e chiede loro chi siano, e se rechino guerra o pace. Enea, tendendo dalla nave
un ramo d’olivo, risponde breve e preciso alle domande. Poi, invitato a sbarcare viene condotto da Evandro. Il
re, che un tempo in Arcadia, aveva ospitato Anchise, lo accoglie con affettuosa benevolenza e, dopo averlo
ascoltato, gli promette di essere suo alleato contro i Latini. Per cominciare, Enea parteciperà al banchetto
preparato in onore di Ercole. Dopo aver mangiato e bevuto, Evandro spiega che l’origine del culto di Ercole in
quei luoghi è collegato con l’uccisione, da parte del dio, di Caco, un mostruoso gigante e ladrone sanguinario
che spargeva il terrore nella contrada. Ad Ercole liberatore fu costruita l’Ara massima intorno alla quale, ogni
anno, si celebrano riti di ringraziamento. Finita la festa, tutti scendono verso la città, e , cammin facendo,
Evandro racconta all’ospite la storia dell’antichissimo Lazio. Un tempo quei boschi erano abitati da Fauni e
Ninfe e da uomini selvaggi usciti dai tronchi delle querce. Ma quando Saturno, cacciato dall’Olimpo venne qui
a rifugiarsi, diede savie leggi a quelle rozze genti. Fu “l’età dell’oro”: gli uomini vivevano in pace, lavorando la
terra e ignorando le ingiustizie. Ma poi i tempi mutarono e si passò all’età dell’argento e quindi a quella del
ferro. Mutarono pure i dominatori: sulla terra chiamata Saturnia giunsero gli Ausoni, che le cambiarono il nome
in Ausonia, più tardi i Sicani; quindi il re Tebro, da cui prese il nome il fiume. Ultimo giunse lui, Evandro,
insieme con la madre Carmenta, sacerdotessa di Apollo. Ciò detto, Evandro mostra ad Enea i luoghi dove
sarebbe sorta un giorno la Città Eterna, dall’asilo di Romolo al Lupercale, dall’Argileto alla Rupe Tarpea, dal
Campidoglio al Foro. Arrivano insieme alla modesta dimora di Evandro, sul Palatino, dove Ercole non sdegnò
di riposarsi. E l’eroe troiano si sdraia, per riposare, su un mucchio di foglie coperte dalla pelle di un orsa.
Durante la notte, Venere si reca dal marito Vulcano e, con vezzi e moine, ottiene che fabbrichi armi belle e
robuste per Enea. All’indomani, sull’alba, Evandro ha un colloquio con l’eroe troiano. Il buon re può offrirgli in
aiuto solo quattrocento cavalieri condotti dal figlio Pallante, ma gli dà un buon consiglio: si rechi nella città
etrusca di Cere, i cui abitanti hanno cacciato il tiranno Mezenzio, che ora è ospitato e protetto da Turno; chieda
alleanza agli Etruschi, i quali, sperando di avere nella mani Mezenzio per dargli la morte, accetteranno
volentieri la richiesta, giacché una profezia ha loro detto che, per ottenere la vittoria, debbono farsi guidare da
un duce straniero. Il consiglio di Evandro lascia commosso e pensoso Enea, ma un segno propizio di Venere lo
avverte che le armi sono già pronte per lui. Compiuto il rito sacrificale, Enea ritorna alle navi e divide i
compagni in due schiere: parte dei Troiani tornerà al campo presso Ascanio, parte seguirà lui e Pallante a Cere,
presso Tarconte, re etrusco. Enea e i suoi sono quasi giunti alla meta, quando decidono di riposarsi. A questo
punto , Venere, vedendo i figlio solo, in disparte, discende rapidamente dal cielo e gli consegna le splendide
armi foggiate da Vulcano. L’eroe, lieto di tanto onore, ne contempla stupito la straordinaria bellezza, ma
soprattutto ammira lo scudo nel quale Vulcano ha raffigurato i più grandi eventi ed i personaggi più illustri
della Roma futura, fino al trionfo di Augusto celebrato sullo sfondo dell’Urbe plaudente e festante.
Eneide - LIBRO IX
Frattanto Giunone, approfittando dell’assenza di Enea, manda Iride da Turno per suggerirgli di attaccare subito
il campo troiano. Il prode re dei Rutuli, bramoso com’è di combattere, rompe gli indugi e avanza contro il
nemico, scagliando in aria una freccia in segno di sfida; ma i Troiani, obbedienti all’ordine impartito da Enea,
non rispondono alla provocazione e rafforzano le difese. Allora Turno s’avventa contro le navi riparate dietro
un argine e, con una fiaccola accesa, vi appicca l’incendio. Ma Cibele tramuta in ninfe oceanine quelle navi
costruite con il legno del monte Ida, nel bosco a lei sacro. I Rutuli sono atterriti dal prodigio, ma Turno,
interpretandolo come un lieto auspicio, rassicura i suoi dicendo che Giove ha voluto privare i troiani di ogni
possibilità di fuga e condannarli allo sterminio. Pertanto, sicuro della vittoria, dispone per il mattino seguente
l’assalto al campo nemico, ordinando ai Rutuli di accamparsi sul posto ed a Messalo di sorvegliare le porte e di
accendere fuochi intorno alle mura. Ma pure i Troiani vegliano per sventare un eventuale aggressione. A
custodia delle porte stanno due giovani noti per la loro fraterna amicizia, Eurialo e Niso; costoro decidono di
attraversare il campo dei Rutuli per andare da Enea ed avvertirlo del grave pericolo che incombe sui Troiani.
Penetrati nottetempo nell’accampamento nemico, uccidono molti valorosi guerrieri, distesi qua e là sull’erba,
immersi nel sonno e storditi dal vino. Ma poi, sul far dell’alba, sono avvistati da una schiera di cavalieri latini
che, guidati da Volscente, vengono in soccorso di Turno. I due giovani fuggono nel bosco vicino: Niso corre
più spedito e riesce a mettersi in salvo, ma quando si avvede di non essere seguito dall’amico, torna indietro e
scorge Eurialo già circondato dai nemici. Allora scaglia, uno dopo l’altro, due dardi che colpiscono a morte due
nemici. Volscente, infuriato, si slancia contro Eurialo per vendicare la morte dei suoi cavalieri. Niso, a tale
vista, esce dal folto del bosco e grida: “Me, me uccidete! Io ho colpito! Tutta mia è la colpa!”. Ma la spada di
Volscente ha già trafitto Eurialo che cade come un fiore reciso dall’aratro. Allora, pazzo di dolore, Niso si
scaglia contro Volscente e l’uccide, ma poi, trafitto da mille dardi, cade morto sul corpo esamine dell’amico. Le
teste dei due giovani, conficcate in cima a due grandi aste, vengono mostrate ai Troiani: spettacolo miserando
per tutti, ma crudelissimo per la madre di Eurialo che piange disperatamente il suo bel figliuolo. Squilla la
tromba di guerra. I Volsci, schierati a testuggine, muovono all’assalto delle mura, ma la strenua resistenza degli
assediati li scompiglia. Turno riesce, tuttavia, ad appiccare il fuoco ad una torre di legno, che precipita giù
travolgendo i suoi difensori. La mischia divampa feroce e, da una parte e dall’altra, molti sono i caduti. In
questa circostanza Ascanio compie il suo primo atto di valore, uccidendo Remolo, cognato di Turno, mentre
avanza baldanzoso e lancia insulti sanguinosi e parole di scherno ai Troiani. Pandaro e Bizia, due fratelli di
natura gigantesca, aprono la porta che avevano in custodia e, piantandosi ai lati come due torri, massacrano i
Latini che irrompono in massa. Si precipita anche Turno, ed uccide Bizia. Allora Pandaro, compiendo uno
sforzo erculeo, riesce a chiudere la porta, lasciando dentro alcuni nemici, fra cui lo stesso Turno. Il quale
continua a combattere con la ferocia di una tigre, ammazzando Pandaro e quanti gli si parano davanti. Alla fine
i Troiani, animati da Mnesteo e Seresto, lo circondano, lo stringono da presso, lo costringono ad arretrare
lentamente verso il fiume. Qui Turno, coperto da una pioggia di frecce, si getta armato nel biondo Tevere che,
paternamente benigno, lo trasporta incolume in mezzo ai suoi compagni.
Eneide - LIBRO X
Giove raduna gli dei a concilio e deplora chi contrasta il volere del Fato parteggiando per questo o quel
contendente. Venere e Giunone insorgono a difendere ciascuna le proprie ragioni, ma Giove, inflessibile,
emette la sentenza: “Nessuna differenza tra Troiani e Rutuli: ciascuno sia artefice del proprio destino, senza
intervento di dei né pro né contro i combattenti”. E sigilla il comando con un solenne giuramento che fa tremare
l’Olimpo. La guerra si riaccende furiosa. Da una parte , i Rutuli intensificano l’assedio con incendi e stragi,
dall’altra i Troiani, ed Ascanio in mezzo a loro, compiono grandi atti di valore. Intanto giunge Enea che,
ottenuta l’alleanza degli Etruschi, è accompagnato da una flotta di trenta navi guidate da prodi guerrieri:
vengono da Chiusi, da Populonia, dall’isola d’Elba, da Pisa, da Mantova….Ad affrettarne l’arrivo, gli era corsa
incontro una schiera di ninfe: quelle stesse in cui Cibele aveva trasformato le navi per sottrarle al fuoco dei
Rutuli. Una di esse, Cimodocea, lo informa di tutto e lo esorta ad attaccare battaglia per primo. Non appena in
vista del campo, Enea sale sulla poppa ed inalbera lo scudo fiammeggiante. Da lontano gli assediati lo vedono e
levano un grido esultante di gioia. I Rutuli restano per un attimo sgomenti, ma Turno li sprona ad occupare il
lido prima che avvenga lo sbarco. Enea riesce a prevenirlo e, con ordini rapidi, fa sbarcare i suoi compagni. Poi
attacca per primo uccidendo Terone, un gigante formidabile, e abbattendo numerosi altri nemici. S’accende
feroce la lotta con atti di valore da entrambi le parti e reciproca strage. I cavalieri Arcadi, non essendo avvezzi a
combattere appiedati, stanno sul punto di sbandarsi quando interviene Pallante che li rimprovera, li rincuora, li
sprona con l’esempio gettandosi coraggiosamente nel folto della mischia. Trascinati dall’esempio, i suoi si
battono strenuamente riuscendo a tener testa al nemico. Pallante compie prodigi di valore, finché si trova di
fronte Lauso, figlio di Mezenzio. Sono due giovani avversari, entrambi belli e prodi, e Giove non vuole che si
azzuffino tra di loro, perché debbono avere l’onore di cadere per mano di più potenti nemici. Allora Turno,
ispirato dalla ninfa Giuturna, sua sorella, prende il posto di Lauso e muove superbamente contro Pallante. Il
quale, affrontandolo con coraggio, lancia per primo l’asta, ma il colpo cade a vuoto. Turno, invece, colpisce a
morte il giovinetto, trapassandogli lo scudo, la corazza e il petto. Poi calpesta col piede il cadavere e lo spoglia
del cinto d’oro. La morte di Pallante, fedele alleato ed amico, fa sorgere nell’animo di Enea la brama della
vendetta. Con la spada sguainata, corre furente in cerca di Turno e, intanto, uccide quanti nemici gli si parano
davanti. Giunone, in cielo, ottiene da Giove di ritardare la morte di Turno e, discesa sulla terra, foggia una finta
immagine di Enea che fugge; Turno la vede e, imbaldanzito, si slancia all’inseguimento, incalzandola lungo la
riva, fin sopra una nave. Allora Giunone, che non aspettava altro, taglia gli ormeggi e spinge la nave al largo. Il
fantasma ora scompare e Turno si accorge dell’inganno: per la vergogna vorrebbe suicidarsi, ma la dea lo
trattiene dall’insano proposito. Frattanto è trasportato dalle acque alla città di Ardea, sua patria. Sul campo, il
feroce Mezenzio prende il posto di Turno e rialza un po’ le sorti della battaglia che volgono male per i Latini.
Furioso come un leone affamato in cerca di preda, ferisce, uccide e spoglia delle armi i nemici che gli
impediscono il passo. Enea lo vede di lontano e gli muove contro: il duello è inevitabile. Il dardo lanciato da
Mezenzio viene respinto dallo scudo di Enea, opera di Vulcano, e ferisce un altro guerriero. Invece l’asta di
Enea, trapassato lo scudo del nemico, si conficca nella coscia di Mezenzio. Il quale cadrebbe sotto la spada
dell’eroe se Lauso non proteggesse col proprio scudo il padre. Enea urla minaccioso a Lauso di ritirarsi, ma il
giovane non abbandona l’impresa, anzi provoca ed insulta Enea, finché un colpo di spada dell’eroe troiano lo
atterra in un lago di sangue. Enea stesso geme pietoso sul suo cadavere – Lauso è una vittima generosa
dell’amor filiale – e consente ai compagni di portarselo via con addosso le care armi. Mezenzio riceve le
spoglie del figlio mentre sta sulla riva del Tevere a medicarsi la grave ferita. Pazzo di dolore, impreca contro se
stesso e maledice le colpe che lo hanno fatto cacciare dal trono. Ma lui, lui solo doveva espiarle, non
l’innocente Lauso. Che gli rimane ora se non morire? Monta faticosamente a cavallo e, lanciandosi fra le
schiere, muove alla ricerca di Enea. Il Troiano, che è a piedi, prima gli uccide il cavallo, poi gli punta la spada
nella gola. E Mezenzio, pronto a ricevere il colpo mortale, gli chiede solo di essere sepolto accanto al figlio.
Eneide - LIBRO XI
All’alba Enea, con le armi di Mezenzio, innalza un gran trofeo a Marte. Quindi esorta i suoi a seppellire i
cadaveri ed a prepararsi per la nuova battaglia. Il suo pensiero è rivolto in particolare al giovane Pallante, la cui
salma è stata vegliata tutta la notte dal vecchio Acete, scudiero di Evandro, e da una folla di Troiani: le donne
con le chiome disciolte in segno di lutto. Enea, col pianto che gli sale in gola, rivolge un commosso saluto
all’amico morto; poi dispone che si formi un corteo di mille soldati per riportare ad Evandro la salma del figlio.
Seguono il feretro, intessuto con rami di quercia e di albatro, i trofei tolti ai nemici uccisi e, con le mani legate
dietro la schiena, i prigionieri destinati ad essere immolati sul rogo di Pallante. Da Laurento vengono, intanto,
gli ambasciatori latini a chiedere una tregua per poter dare sepoltura ai loro morti. L’eroe accoglie
benignamente la richiesta, dichiarando che accorderebbe volentieri la pace anche ai vivi, perché non nutre
rancore contro di loro: egli è venuto nel Lazio per volere del Fato, non per combattere i Latini, e sarebbe stato
più giusto che Turno, il quale vuole opporsi al destino, avesse combattuto in duello con lui. I Latini si guardano
stupiti e il vecchio Drance, irriducibile avversario di Turno, rivela che molti a Laurento non vogliono la guerra
e promette che interporrà i suoi buoni uffici per la pace. Si pattuisce così una tregua di dodici giorni, durante i
quali Troiani e Latini tagliano liberamente legna nei boschi per gli innumerevoli roghi da costruire. Frattanto il
corteo funebre giunge a Pallanteo: il vecchio Evandro, in preda al più straziante dolore, esce dalla reggia e va
incontro alla bara. Dopo aver ripetutamente baciato ed abbracciato il figlio, prorompe in angosciosi lamenti.
Ormai non gli resta che prolungare l’odiosa vita quel tanto che basta per portare a Pallante, nell’Ade, la notizia
della morte di Turno per mano di Enea. A Laurento, capitale dei Latini, si piangono i caduti e si impreca contro
la guerra. Ad attizzare il dolore e lo sdegno, il vecchio Drance va ripetendo che la guerra potrebbe terminare
subito se Turno fosse disposto ad affrontare Enea in duello. E’ ritornata, intanto, l’ambasceria presso Diomede:
l’esito è negativo, perché l’eroe greco è contrario alla guerra e consiglia di trattare la pace. Allora Latino raduna
il consiglio e, udita la relazione di Venulo, capo dell’ambasceria, propone di concludere la pace con Enea:
concedendogli un tratto di territorio presso il Tevere, se egli vorrà stabilirsi là, oppure fornendogli le armi
necessarie, se vorrà cercare altre terre. Prende la parola Drance che approva la proposta di Evandro, ma esorta il
re a concedere ad Enea anche la mano di Lavinia. Quanto a Turno, se vuol risparmiare il sangue di tanti
innocenti, decida con un duello chi dei due, Enea o lui, debba sposare Lavinia. Con l’animo colmo di sdegno,
Turno risponde che è pronto a combattere da solo, ma che bisogna difendere la patria minacciata da in nemico
invasore. Se manca l’aiuto di Diomede, molti altri valorosi combattono al fianco dei Latini. Mentre ancora si
discute, giunge la notizia che i Troiani avanzano contro la città. Tutti corrono alle difese. Turno balza fuori per
combattere, ma incontra Camilla che gli propone un piano di battaglia: lei stessa, con i suoi cavalieri Volsci,
affronterà la cavalleria nemica, mentre Turno s’apposterà con la fanteria sui monti per tendere un agguato ad
Enea costretto a passare di là. Ma Diana, vedendo Camilla andare incontro alla morte, chiama una delle sue
ninfe, Opi, e le ordina di uccidere chi oserà ferire l’eroina a lei consacrata, ancora bambina, dal padre Metabo e
tanto a lei cara. La battaglia infuria sotto le mura di Laurento: lo scontro fra la cavalleria troiano-etrusca e
quella latina è tremendo. A ondate, ora l’una ora l’altra cavalleria avanza e si ritrae. E’ strage aperta: la vergine
Camilla esulta e lancia dardi o maneggia la bipenne, e tanti sono i colpi, tanti i nemici atterrati. Ma, purtroppo,
anche per lei si avvicina l’attimo fatale.. Mentre l’eroina sta inseguendo Cloreo, già sacerdote di Cibele, attratta
dalla magnificenza delle sue vesti e delle sue armi, l’etrusco Arrunte, che stava spiando il momento propizio,
scaglia un dardo che trafigge il petto di Camilla. La giovane tenta di togliersi la freccia dalla ferita, ma sente la
morte avvicinarsi, per cui prega Acca, la più fedele delle sue amiche, di recarsi subito da Turno a dirgli che
prenda il suo posto. Qualche istante dopo scivola da cavallo, reclina il capo e muore. Arrunte gioisce, ma solo
per poco, giacché Opi tende l’arco e lo stende morto nella polvere. Caduta Camilla, la cavalleria dei Volsci si
disperde nella fuga. Fuggono pure Latini e Rutuli che si dirigono verso la città. Sotto le mura la lotta cresce in
accanimento e ferocia: anche le donne si armano e, dall’alto dei bastioni, lanciano dardi e sassi sul nemico.
Intanto Turno, che ha ricevuto il messaggio di Camilla morente, lascia precipitosamente il luogo dov’era in
agguato per correre verso Laurento. In tal modo Enea, che marcia verso Laurento, trova via libera ed avanza
speditamente. Ma sopraggiunge la notte e la battaglia è rimandata all’indomani.
Eneide - LIBRO XII
Vedendo i Latini ridotti a mal partito, Turno decide di battersi in singolar tenzone con Enea per mettere fine alla
guerra. Invano il vecchio re Latino lo prega di accontentarsi del regno paterno e di rinunciare a Lavinia,
destinata dal cielo ad un principe straniero. Inutilmente la regina Amata lo supplica di non affrontare con le
armi Enea. Esortazioni e lacrime lo infiammano ancora di più, facendolo vibrare di sdegno e di gelosia: egli non
intende affatto ritirarsi da una prova in cui è in balli il suo onore. Pertanto, manda un araldo ad Enea per
sfidarlo a duello: all’alba si trovi sul campo pronto a disputarsi la mano di Lavinia. Durante la notte, Turno
prova le armi e si prepara al prossimo cimento, desideroso di combattere come un toro irato. Enea, da parte sua,
è lieto di poter finire la guerra col duello, e conforta i compagni ed Ascanio ricordando loro le profezie dei vati.
Troiani e Rutuli, appena spuntata la luce del giorno, apprestano il campo dove si svolgerà il duello e, nel
mezzo, vi innalzano gli altari per i sacrifici comuni. Indi, poggiando a terra lance e scudi, occupano ciascuno il
proprio posto, mentre sull’alto dei tetti e delle torri le donne, i vecchi ed i bambini attendono di vedere la lotta.
Tutto è pronto per la sfida, Latino e Turno da una parte, Enea ed Ascanio dall’altra hanno giurato il patto: se la
vittoria toccherà a Turno i Troiani si ritireranno nella città di Evandro; se vincerà Enea, egli costruirà una nuova
città cui darà il nome della sposa Lavinia e Troiani e Latini convivranno insieme sotto uguali e con uguali
diritti. Un sacerdote getta sul fuoco le vittime sgozzate: il duello comincia. Ma presto dalla parte dei Rutuli, si
nota un movimento incomposto: essi già ritenevano ineguale il combattimento ed ora vedono Turno agitato,
pallido ed incerto. Ne approfitta la ninfa Giuturna, sorella di Turno, che prende le sembianze di Camerte, un
valoroso e nobile guerriero e spinge l’augure Tolumnio a scagliare un dardo che ferisce mortalmente un
etrusco. In breve la battaglia divampa di nuovo violenta. Vanamente Enea, ricordando i patti giurati cerca di
frenare l’ira e di riportare la calma. Anzi, proprio mentre parla è ferito da una freccia, lanciata non si sa da chi e
posto fuori combattimento. Turno se ne accorge e, ridiventato impetuoso, vola tra le schiere troiane seminando
strage e spavento. Ma Enea ricompare presto sul campo. Ha pensato a curarlo la madre Venere la quale,
servendosi d’un miracoloso rimedio, ha guarito perfettamente la sua ferita al ginocchio. Riarmatosi, l’eroe
riprende a combattere con più forza di prima. Uccide chiunque gli si pari davanti, ma cerca Turno, lui solo, e lo
chiama a gran voce al duello. Ma Giuturna, preso l’aspetto di Metisco, l’auriga di Turno, conduce il cocchio
lontano dalla zuffa, con l’intento di salvare il fratello. Ferve intanto la battaglia. Un’orrenda carneficina viene
compiuta da entrambe le parti. A questo punto Venere suggerisce ad Enea di portare l’assalto a Laurento e di
appiccare il fuoco alle mura. Alla vista delle fiamme, la regina Amata crede che tutto sia perduto e si impicca
nelle sue stanze. Latino e Lavinia cadono in preda alla disperazione. Intanto Turno, accortosi dell’inganno di
Giuturna, si ribella. Preso da vergogna e furore, balza giù dal cocchio, e aprendosi la via fra le schiere nemiche,
corre verso le mura della città in fiamme. A voce altissima invita Rutuli e Troiani a deporre le armi, perché lui
solo combatterà. Enea ode la parole di Turno ed esultante di gioia accoglie la sfida. Tutti smettono di
combattere per assistere alla singolare tenzone. I due si lanciano l’uno contro l’altro come tori infuriati. Turno,
per il primo, mena un gran fendente, ma la spada, sbattendo sull’elmo di Enea si spezza come se fosse di
ghiaccio. Nella fretta, quando era balzato giù dal cocchio, aveva preso la spada di Metisco anziché la sua.
Disperato, fugge chiedendo la propria spada ai Rutuli, ma Enea minaccia di morte chiunque osi accostarsi al re.
Intanto lo insegue, incalzandolo, e ben cinque volte compiono il giro del campo. Il troiano non può colpire da
lontano il fuggiasco, perché l’asta si è conficcata nelle radici d’un ulivo sacro a Fauno, divinità favorevole a
Turno, ed egli non trova modo di estrarla. Sennonché avviene che Giuturna porti la spada a Turno e Venere
l’asta ad Enea, ragion per cui i due campioni tornano nuovamente l’uno di fronte all’altro, e la lotta riprende
con maggiore foga. In cielo, frattanto, Giove e Giunone concludono un accordo: Enea vincerà, Troiani e Latini
diventeranno un sol popolo, e il nome di Troia tramonterà per sempre. Il Lazio, invece, non muterà il nome, né i
costumi né il linguaggio delle sue antiche genti. Dalla fusione dei due popoli, nascerà la stirpe dei Romani, dai
quali Giunone sarà venerata più che da qualsiasi altro popolo. Placata la dea, Giove manda sulla Terra una Furia
per affrettare la fine dello scontro. La dea si trasforma in gufo, uccello del malaugurio, e svolazza davanti al
volto di Turno, il quale, terrorizzato, comprende che ormai è la fine. A sua volta Giuturna, piena d’angoscia si
ritira lacrimando. Enea provoca il suo avversario, lo schernisce, lo sfida. Turno risponde che non teme lui, ma
gli dei avversi e tenta vanamente di colpire l’avversario con un macigno, le sue forze sono all’estremo: le
ginocchia vacillano, la mente si offusca. Del suo smarrimento approfitta Enea per conficcargli l’asta nella
coscia. Abbattuto e vinto, Turno supplica il vincitore di rendere il suo corpo al vecchio padre. Enea, commosso,
sta per lasciargli la vita, ma vede luccicare sulla spada di Turno il cinto d’oro di Pallante. Allora, infiammato
d’ira e furore gli immerge la spada nel petto dicendo:”Muori. Questo colpo ti dà Pallante”. L’anima di Turno
sdegnata contro il suo crudele destino, fugge gemendo verso il regno delle ombre.