Il secolo Amleto "Mettere per iscritto le proprie impressioni dell

Il secolo Amleto
"Mettere per iscritto le proprie impressioni dell’Amleto
rileggendolo anno dopo anno significa virtualmente stendere
la propria autobiografia, perché noi diventiamo sempre più
esperti della vita, e così Shakespeare sembra contenere ciò che
abbiamo appreso".
(Virginia Woolf, Charlotte Brönte, in The Essays of Virginia
Woolf, Londra 1987).
Se è vero quello che ha scritto Virginia Woolf, allora raccontare quello che è stato Amleto nel
Novecento, anno dopo anno, nella critica e negli spettacoli, significa dunque raccontare un po’
l’autobiografia del secolo. Senza dimenticare l’annotazione di un critico di fama, Andrew Bradley,
secondo il quale Amleto è l’unico personaggio shakespeariano che avrebbe potuto scrivere le
opere di Shakespeare.
Per cominciare questo viaggio nel "secolo Amleto", ricco di spettacoli epocali ma anche di
curiosità e aneddoti, vale la pena di partire con un leggero anticipo, con uno spettacolo che
debutta nell’ultimo anno dell’Ottocento.
1899: Sarah Bernhardt
1900: sulla scena per la prima volta la versione integrale
1904: Shakesperean Tragedy di Andrew Cecil Bradley
1908: "Chi è Amleto" per August Strindberg
1909: Max Reinhardt e Alexander Moissi a Monaco e Berlino
1910-11: Craig-Staniskavskij a Mosca
1912-14: Ettore Petrolini
1915: Ruggero Ruggeri e i grandi attori italiani
1919: Amleto e i suoi problemi secondo Eliot
1922: John Barrymore a New York, Buster Keaton a Hollywood
1923: Riccardo Bacchelli e il suo Amleto rifiutato
1924: Le tragedie in due battute di Achille Campanile
1925: il primo Shakespeare in abiti moderni
1928: Sigmund Freud in Dostoevskij e il parricidio
1935: John Dover Wilson, What Happens in Hamlet
1936: Amleto nel Terzo Reich
1938: il sonetto di Bertolt Brecht
1939: Laurence Olivier nel castello di Elsinore
1945: Orson Welles tra Amleto e Falstaff
1946: "Essere o non essere" nel Far West
1948: gli Oscar a Laurence Olivier
1952: Io, Amleto ovvero Macario
1954: Shakespeare per tutti: Joseph Papp fonda il New York Shakespeare Festival; e a Mosca il
Gamlet del sipario di ferro
1955: Gassman-Squarzina in tv il 28 ottobre
1956: Shakespeare nostro contemporaneo: Jan Kott e Carl Schmitt
1957: l’Amleto di Jurij Zivago
1959: le scenografie di Svoboda
1961: il primo Amleto di Carmelo Bene
1962: Una notte con Amleto di Vladimír Holan
1964: il film di Grigori Kozincev
1965: Zeffirelli e Albertazzi
1966: Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard
1971: Jurij Ljubimov e Vladimir Vissockij alla Taganka di Mosca
1973: L’Ambleto di Giovanni Testori a Milano
1977: Hamletmaschine di Heiner Müller e la trasgressione di Peter Zadek a Berlino
1979: l’Amleto elettronico di Hansgünther Heyme e Volf Vostell
1982: Klaus Michael Grüber e Bruno Ganz a Berlino
1989: qualche Amleto di più (Heiner Müller, Patrice Chéreau, Andrzey Wajda, Juri Ljubimov)
1990: Leo è Totò Principe di Danimarca
1991: Star Trek VI: The Undiscovered Country (Rotta verso l’ignoto)
1992: Societas Raffaello Sanzio
1995: gli Amleti dei maestri (Peter Brook, Robert Wilson, Robert Lepage, Eugenio Barba e
ancora Carmelo Bene); e l'Oscar del porno all'Amleto di Luca Damiano e Joe D'Amato
1996: il film di Kenneth Branagh
1997: l’Hamletas di Eimuntas Nekrosius
1998: Federico Tiezzi a Prato
1999: gli Oscar a Shakespeare in Love
1899: Sarah Bernhardt
La grande attrice aveva già recitato nella parte di Ofelia e in ruoli maschili (tra i suoi cavalli di battaglia
c’erano Lorenzaccio e L’Aiglon). Quando debuttò come Amleto aveva 55 anni e avrebbe tenuto il ruolo
per altri 25, fino alla morte.
"Immaginava uno scolaro venticinquenne, non ‘un triste professore di Wittemberg’, l’elsa della spada in
una mano e un libro nell’altra; era per lei un uomo che decideva di compiere il suo dovere, vendicando
l’assassinio del padre; non era folle ma singolarmente sensato e lucido, tanto che sapeva mascherare il
suo pensiero per raggiungere lo scopo. Univa i tratti virili della tenacia, della forza e della lucidità con
l’apparenza debole, femminile. Così il suo Amleto, pur semplificato nell’identità intellettuale a vantaggio
di quella emotiva, restava una presenza complessa: ‘uno spirito pratico e un povero essere che temeva,
alla fine del dramma, di essere assassinato’; un eroe incline agli scatti di nervi, più violento che debole,
umanizzato dalla giovinezza e dalla semplicità (sicché questo gioco di contrasti avvalorava il suo
travestimento). L’attrice, inoltre, accentuava sia l’elemento d’intrigo sia la presenza della commedia nella
tragedia" (Laura Mariani, Sarah Bernhardt, Colette e l’arte del travestimento, pp. 120-121).
Va ricordato che l’attrice francese non è stata certo la prima né l’ultima donna a calarsi nei panni del
pallido principe: prima di lei per esempio Giacinta Pezzana aveva interpretato con successo il personaggio
nel corso di una tournée americana nel 1878; i suoi tentativi di riproporlo in Italia suscitarono invece
perplessità tra gli uomini e simpatie fra le emancipazioniste.
1900: sulla scena per la prima volta la versione integrale
A partire dalla Restaurazione, i testi di Shakespeare giungono sulle scene in versioni tagliate e adattate,
più o meno drasticamente, in base sia alla sensibilità dell’epoca (esemplare il caso del finale del King Lear,
ritenuto inaccettabile dalla sensibilità settecentesca) sia alle caratteristiche tecniche di un teatro assai
diverso da quello elisabettiano. Il teatro di fine Ottocento conquista gli spettatori grazie anche alle ricche
e complesse ambientazioni scenografiche, spesso ispirate al realismo e all’illusionismo della pittura
dell’epoca: una soluzione che mal si adatta alla struttura per scene brevi (di taglio quasi cinematografico,
diremmo oggi) che caratterizza i testi elisabettiani. Le pause necessarie ai complessi cambi di scena
allungano la rappresentazione e allentano la tensione drammatica, e dunque si ritiene che i capolavori di
Shakespeare non possano essere portati sulle scene in versione integrale.
Il pregiudizio lo sfata Frank Robert Benson, attore e regista inglese, direttore dello Shakespeare Festival a
Stratford-on-Avon dal 1888 al 1919. Proprio nel primo anno del secolo, Benson allestisce il suo Hamlet
integrale a Londra (lo riprenderà a Stratford nel 1909) e dimostra così che è possibile portare in scena
l’intero testo in cinque-sei ore. Lo spettacolo cambia l’atteggiamento del pubblico, che può cominciare a
pretendere il "vero" Shakespeare, e influenza anche l’atteggiamento di quella critica che riteneva
"irrappresentabili" i testi di Shakespeare nella loro forma originaria, riaccendendo l’interesse per la realtà
teatrale nella quale erano stati concepiti. Henry Granville Barker, dopo aver abbandonato la regia, scriverà
le sue Prefazioni a Shakespeare con l’obiettivo di fornire consigli ai registi su come allestire i suoi testi sui
moderni palcoscenici senza eccessive distorsioni.
1904: Shakesperean Tragedy di Andrew Cecil Bradley
Il saggio che Andrew Cecil Bradley ricava dal ciclo di lezioni che ha tenuto a Oxford segna il culmine della
tradizione critica di stampo letterario che aveva avuto tra i suoi predecessori tra gli altri Coleridge e
Hazlitt. Al centro del canone lo studioso pone le quattro tragedie (oltre all’Hamlet, Othello, King Lear e
Macbeth) che rispondono alla sua celebre definizione: "Noi restiamo di fronte al fatto inesplicabile, o al
non meno inesplicabile fenomeno, di un mondo in preda al tormentoso sforzo di partorire una perfezione,
ma che dà vita, assieme a un bene luminoso, ad un male che è capace di superare solo con la tortura e la
distruzione di se stesso. E questo fatto, o questo fenomeno, è tragedia" (Andrew Cecil Bradley, La
tragedia di Shakespeare, p. 42).
Bradley è assai attento alle motivazioni e alle intenzioni dei grandi eroi shakesperiani. L’implicito
presupposto è che i personaggi teatrali (che dopo tutto sono creature fittizie) abbiano una psicologia e
un’ideologia genuinamente umani: questa impostazione critica verrà messa in crisi negli anni successivi, in
saggi spesso polemici (come quello di L. C. Knights How Many Children Had Lady Macbeth?, 1946).
1908: August Strindberg
"Chi è Amleto? È Shakespeare; è l’uomo che dall’infanzia fa il suo ingresso nella vita e trova che ogni cosa
va in tutt’altra maniera da come s’era immaginato. Amleto è il giovane disincantato che scopre che il
mondo è fuori asse e si sente chiamare a raddrizzarlo e si dispera quando tende la schiena contro il
macigno, imparando che non si può smuovere" (August Strindberg, Chi è Amleto?).
1909: Max Reinhardt e Alexander Moissi a Monaco e Berlino
L’austriaco Max Reinhardt è sicuramente uno dei maestri della regia, si potrebbe dire uno dei suoi
inventori, anche se non ha certamente il fascino visionario di Stanislavskij, Gordon Craig o Meierchol’d. Ma
il suo successo nei teatri tedeschi è incontrastato: nel suo eclettismo, è abilissimo nell’assorbire i recenti
sviluppi della scenografia novecentesca, avvanedosi della collaborazione di artisti come Gordon Craig,
appunto, Ernst Stern e Fritz Erler, che firma la scenografia del suo Amleto nel 1909. Con spettacoli
ottimamente confezionati, di grande presa spettacolare, che utilizzavano i palcoscenici rotanti dei grandi
teatri tedeschi per velocizzare i cambi di scena, si muove all’interno di un illusionismo che all’epoca appare
innovativo e modernamente eclettico: ma già negli anni Venti, dopo l’avvento dell’espressionismo e della
sua opzione anti-illusionistica, Reinhardt appare datato, fuori moda.
Il protagonista del suo Amleto (ambientato in una scena essenziale e quasi astratta) è Alexander Moissi,
un altro tipico figlio della Mitteleuropa. Nato a Trieste da genitori italiani, iniziò a recitare in piccoli ruoli, in
tedesco, a Vienna e a Praga. L’ha scoperto e lanciato proprio da Reinhardt, che gli fa interpretare
Shakespeare (il Sogno nel 1905, Romeo e Giulietta nel 1907), Wedekind (Risveglio di primavera nel 1906) e
Ibsen (Spettri nel 1906), e poi Faust e Edipo Re.
L’Amleto di Moissi ha una grazia quasi femminile, sembra l’incarnazione di un sogno romantico. Oltre che
nei paesi di lingua tedesca, ottiene un clamoroso successo nelle tournée in Francia, Russia, Stati Uniti e
anche in Italia. Nel 1933 Moissi si esibisce per la prima volta in italiano, interpretando La leggenda di
Ognuno di Hugo von Hofmannsthal nel quadriportico della basilica di Sant’Ambrogio, a Milano. Visto il
successo, decide di cominciare una nuova carriera come attore italiano e nel 1934 riprende l’Amleto in
italiano con Wanda Capodaglio.
1910-11: Craig-Staniskavskij a Mosca
Quello tra l’inglese Edward Gordon-Craig, uno dei massimi teorici del teatro novecentesco, e Konstantin
Stanislavskij, fondatore del Teatro d’Arte di Mosca, inventore della regia moderna, sottile indagatore del
mistero dell’attore, è uno dei grandi incontri della storia del teatro del Novecento.
A metterli in contatto è la danzatrice americana Isadora Duncan. Il regista russo ha avuto finalmente
successo nel portare in scena i testi di Anton Cechov in spettacoli di coinvolgente credibilità, minuziosi
nella ricostruzione dell’ambiente (anche sonoro), nella partitura degli attori e dei loro movimenti nello
spazio. Tuttavia Stanislavskij si rende conto che il suo metodo, basato sulla ricerca del realismo, che
funziona così bene con gli autori contemporanei, non è adatto ai grandi testi del passato, ai tragici greci
come agli elisabettiani. Con i "classici" le convenzioni del naturalismo non possono funzionare.
Edward Gordon-Craig ha come bersaglio proprio l’illusionismo pittorico che caratterizza il teatro
dell’epoca: in linea con le più avanzate ricerche artistiche dell’epoca, sogna un teatro essenziale, fatto di
forme e di luci che modulino uno spazio astratto, in grado di rispondere alla musicalità e alle strutture
drammaturgiche dei testi.
"Gordon Craig sognava che tutto lo spettacolo si svolgesse senza intermezzi e senza sipario. Il pubblico
deve venire a teatro e non vedere la scena, ma i pannelli che siano una specie di continuazione
architettonica della sala degli spettatori con cui devono armonizzare e fondersi. Ma ecco, all’inizio dello
spettacolo, i pannelli incominciavano a muoversi, a scorrere solennemente, tutte le linee e i gruppi si
confondevano. Infine, i pannelli si fermavano e si fissavano in una nuova combinazione. Appariva la luce
non si sa di dove, posava i suoi riflessi pittoreschi, e tutto il teatro come in un sogno veniva trasportato
lontano, in un altro mondo, che il pittore aveva appena accennato e si completava con l’immaginazione
degli spettatori stessi" (Konstantin Stanislavskij, La mia vita nel teatro, p. 412).
Quella di Gordon Craig non è solo una visione scenografica, ma anche un’attenta lettura del testo, ricca di
intuizioni critiche e drammaturgiche. Il testo viene letto nella prospettiva del protagonista, "in
soggettiva", come una sorta di monodramma di Amleto. Gli altri personaggi sono filtrati dalla sua
sensibilità – o forse dalla sua immaginazione.
I risultati, almeno dal punto di vista dello spettacolo che va in scena a Mosca dopo una lunga e complessa
preparazione, non risultano del tutto convincenti (anche per motivi di ordine tecnico, dovuti alla
complessità della struttura e dei movimenti della scenografia). Tuttavia quell’esperienza resta un
momento affascinante e fecondo, come riconsce lo stesso Stanislavskij:
"Compresi che noi, attori del Chuldozestvennij Teatr, avevamo appreso alcuni metodi nuovi di tecnica
interiore e li adoperavamo con un certo successo nelle opere di repertorio contemporaneo, ma non
avevamo trovato i metodi e i mezzi adeguati per interpretare le opere eroiche, di stile elevato, e perciò in
questo campo ci attendeva ancora per molti anni un enorme, difficile lavoro.
Quello spettacolo portò ancora un’altra incertezza nelle mie ricerche e nel mio lavoro, per questo: noi
volevamo fare una messinscena più semplice e modesta, invece risultò insolitamente lussuosa, maestosa,
d’effetto, al punto che la sua bellezza colpiva l’occhio, si faceva notare, offuscando gli artisti [gli attori],
con la sua magnificenza. In tal modo risulta che quanto più si cerca di fare la messinscena dimessa tanto
più diventa chiassosa, pretensiosa, e dà nell’occhio con la sua ostentata semplicità" (Konstantin
Stanislavskij, La mia vita nel teatro, p. 421).
1912-14: Ettore Petrolini
Negli anni in cui esplode il furore modernista e iconoclasta dei futuristi, il teatro italiano applaude un altro
irresistibile provocatore, Ettore Petrolini, attore di varietà, creatore di maschere e macchiette di
irresistibile comicità (a cominciare dall’indimenticabile Gastone). Nel re del divertimento popolare i colti e
avanguardisti futuristi individuano uno dei possibili modelli del loro teatro. La cosa non sorprende più di
tanto se appena si ricorda l’esilarante e sofisticata parodia di Amleto con cui Petrolini fa allegramente
piazza pulita di ogni aura solenne e sacrale:
"Io sono il pallido prence danese
che parla solo, che veste a nero.
Che si diverte nelle contese,
che per diporto va al cimitero.
Se giuoco a carte fo il solitario
Suono ad orecchio tutta la Jone.
Per far qualcosa di ameno e gaio
Col babbo morto fo colazione.
Gustavo Modena, Rossi, Salvini
Stanchi di amare la bionda Ofelia
forse sul serio forse per celia
mi ha detto vattene, o Petrolini, coi salamini".
(Ettore Petrolini, Il teatro, p. 35)
1915: Ruggero Ruggeri e i grandi attori italiani
In Italia i testi di Shakespeare iniziano a essere conosciuti e apprezzati dal pubblico teatrale
nell’Ottocento, attraverso le interpretazioni di quelli una serie di grandi attori. È una tradizione che
prosegue anche nel Novecento: giunti all’apice della carriera, i capocomici italiani sentono il bisogno di
misurarsi con il personaggio di Amleto, considerato il banco di prova più efficace per misurare l’eccellenza
di un interprete. Di fronte all’interpretazione di Gassman, il critico Eligio Possenti non potrà fare a meno di
rievocare una serie di interpretazioni memorabili:
"Abbiamo visto l’Amleto angosciato, incisivo e aderente alla realtà di Zacconi, quello tormentato e
pittoresco di Amedeo Chiantoni, quello martoriato, spoglio e scattante di Moissi, quello estenuato,
impetuoso ed estetizzante di Ricci, quello inquieto, agitato e nevropatico di Benassi. Pare che tra gli attori
di un più lontano ieri sia stato un eccezionale Amleto Ernesto Rossi".
Rossi era stato peraltro a imporre Shakespeare al pubblico italiano, grazie alle sue interpretazioni di
Amleto, Otello e Lear; la sua arte ottenne anche straordinari riconoscimenti all’estero. Quando vide Rossi
nel corso di una tournée a Mosca nel 1877, lo stesso Stanislavkij, attore sommamente consapevole prima
ancora che regista, era rimasto molto impressionato: "Anche il mestiere richiede un talento speciale,
mediante il quale si può arrivare fino alla genialità. Tale era Rossi. Ciò non significa che Rossi non facesse
impressione, non avesse temperamento, espressività ed efficace forza interiore. Al contrario, egli
possedeva tutto questo in alto grado, e più di una volta abbiamo gioito e pianto insieme con lui a teatro.
Ma non erano lacrime che si versano per un turbamento profondo. Rossi era irresistibile, ma non per
questa forza spontanea, bensì per la logicità del sentimento, per la coerenza del disegno della parte, per
la calma dell’interpretazione, la sicurezza del mestiere e la presa sul pubblico. Quando Rossi recitava, voi
sapevate che vi avrebbe convinti perché la sua arte era veritiera. E la verità convince più di tutto!" (La mia
vita nell’arte, p. 72).
A proposito degli attori italiani, può essere utile mettere a confronto due diversi atteggiamenti, colti da un
osservatore ottocentesco, dell’attore di fronte al ruolo: da un lato chi costruisce il proprio personaggio
lavorando sulla comunicazione e in particolare sulla convenzionalità della comunicazione teatrale;
dall’altro invece cerca innanzitutto di costruire la credibilità umana del personaggio, e tende dunque a
lavorare sulla psicologia: "Salvini ha raffinato la scuola scenica e non so chi l’agguagli: Rossi ha migliorato
la scuola intima, e non trovo chi paragonargli. L’uno è il rovescio dell’altro; stimabili entrambi, io preferisco
il Rossi. (…) È muta la parola dell’autore; l’artista drammatico deve ravvisarla, cacciarci l’anima dentro e
portarla nella mente e nel cuore degli spettatori. Chi trascura la parte intima e le preferisce la scena non
adempie l’ufficio dell’interprete; solamente è interprete colui che il concetto, lo plasma d’umane forme e
ne aiuta il cammino e l’entrata. Il concetto è prima; la scena dopo. Mi pare che Rossi nell’Amleto faccia
così. Tu lo vedi preoccupato di non fare impressione, no; ma di essere esatto, fedele interprete
dell’autore; tiene a farti essere in presenza di Amleto; e quale il gran poeta lo concepì, tale Rossi lo ti
rende vivo e parlante. Rossi non fa la parte di Amleto, ma egli è Amleto stesso" (B. Marciano, "L’Italia", 4
maggio 1867, citato in Vito Pandolfi, Antologia del grande attore).
L’Amleto di Ruggeri, che debutta nel 1915, ha molti dei pregi e dei difetti degli spettacoli costruiti da un
primattore intorno alla propria interpretazione. Silvio D’Amico, pur riconoscendo la superiorità della sua
interpretazione rispetto a quella dei colleghi, annota che "Ruggero Ruggeri attore s’introduce troppo
violentemente fra l’autore e noi", con una traduzione mediocre e attraverso eccessivi tagli ("la cornice
storica è andata in pezzi") e aggiunte. Suscita perplessità anche la composizione della compagnia che
circonda il mattatore, "in verità meno che mediocre". Ma da questa intepretazione "traspare una
diligenza, una cura studiosa, uno scrupolo che non hanno nulla di comune con le improvvisazioni a braccio
cui i nostri grandi attori contemporanei ci hanno abituato" (Silvio D’Amico, Cronache del teatro, vol. 1, p.
108).
Antonio Gramsci (all’epoca critico teatrale dell’"Avanti!") ha di fronte a questo Amleto una reazione
ambigua: lo ammira per le doti tecniche (è un attore che conosce e usa tutti i trucchi del mestiere) e per
l’intelligenza duttile, e tuttavia annota che "non sa spogliarsi del suo virtuosismo (…) il suo lavorio
d’isolamento è trasportato anche alle opere d’arte; anche esse vengono raffazzonate, snaturate, e il
successo che le accompagna è in gran parte fittizio, perché ottenuto con mezzi esteriori alla loro intima
grandezza".
1919: Amleto e i suoi problemi secondo Eliot
Il conservatore T. S. Eliot è ossessionato dal classicismo: in un’epoca segnata anche in campo artistico
dall’idea di progresso e di evoluzione, l’autore del poema La terra desolata si chiede che cosa sia un
classico. Ponendosi nel solco di una lunga tradizione (il gusto settecentesco riteneva Shakespeare
barbaro e sgraziato), Eliot nega a Shakespeare il titolo di classico.
"La maturità di una letteratura riflette quella della società in cui si manifesta; un autore originale –
Shakespeare e Virgilio per eccellenza – può far molto per svilupparne la lingua; ma non può condurla a
maturità se i suoi predecessori non l’abbiano preparata per il tocco finale di lui. Ogni letteratura matura ha
quindi una storia dietro di sé: non soltanto una cronaca, un cumulo di manoscritti e opere di questo e di
quel genere, ma l’ordinato seppur inconscio progresso d’una lingua nell’acquistare consapevolezza delle
proprie possibilità entro i propri limiti (…) Certo non possiamo affermare che alcun poeta di lingua inglese
sia divenuto nel corso della propria esistenza un uomo più maturo di Shakespare; né alcun poeta abbia
fatto altrettanto nel rendere la nostra lingua capace di esprimere pensieri tanto sottili, e così raffinate
sfumature di sentimento. Malgrado ciò, non possiamo non sentire che una commedia come Così va il
mondo di Congreve è, per certi riguardi, più matura di qualunque commedia di Shakespeare: ma soltanto
nel senso che essa riflette una società più matura, riflette cioè una più grande maturità di costumi" (T. S.
Eliot, Che cos’è un classico?).
Anni dopo, condensando il pensiero di Eliot in una battuta, Carmelo Bene scriverà: "T.S. Eliot è, in merito,
più che sincero laddove si domanda se il tanto filologico averne scritto o detto sia la prova che l’Amleto è
un capolavoro, o se, invece, è un capolavoro per l’eccessivo averne scritto o detto" (Opere, pp. 1351-52).
1922: John Barrymore a New York, Buster Keaton a Hollywood
Progressivamente le idee di Gordon Craig, la sua intuizione di uno spazio teatrale essenziale, fatto di
forme elementari e modulato dalla luce, vengono messe in pratica nei teatri del mondo intero. A New
York, nel 1922, per il memorabile Hamlet diretto da Arthur Hopkins che ha per protagonista John
Barrymore, lo scenografo Robert Edmond Jones (che lavorerà anche per il Macbeth di Orson Welles)
inventa una reggia principesca, austera e monumentale, sormontata da un enorme arco. Nel corso dello
spettacolo, lo spazio viene rimodellato da tende e sipari, e da luci contrastate che esaltano
espressionisticamente le ombre.
Nel 1933 John Barrymore girerà un provino (5 minuti) dove veste per l’ennesima volta i panni di Amleto,
per un film che non verrà mai realizzato.
In questo stesso 1922 un altro attore americano incontra Amleto, anche se in circostanze assai diverse. Nel
cortometraggio Day Dreams (Sogni a occhi aperti) Buster Keaton è innamorato di una ragazza, ma il padre
di lui non ha alcuna fiducia in quello strano spasimante. Allora Buster decide di partire in cerca di fortuna,
tenendo informata la ragazza attraverso delle lettere, in cui le racconta i propri successi – che però sono
solo fantasie. Tra questi sogni a occhi aperti, ce n’è uno in cui sogna di interpretare Amleto, mentre in
realtà fa solo la comparsa.
1923: Riccardo Bacchelli e il suo Amleto rifiutato
Il romanziere italiano si inserisce nella folta schiera degli autori dell’Amleto con una tragedia che riprende
fedelmente la trama shakespeariana. Ma il suo protagonista è assai più consapevole del suo
predecessore. Anzi, proprio questo eccesso di consapevolezza gli toglie fin dall’inizio ogni ambiguità e lo
inaridisce irrimediabilmente: è un poeta – una proiezione autobiografica dell’autore – al quale è rimasto
solo il rimpianto di una vita per lui impossibile. "Dunque guarda questo vecchio e solitario mare. È l’ora
che i velieri sentono la brezza e rompono l’immobile panna notturna. Si scuote il timoniere intirizzito, e i
marinai si svegliano, sorgono alle manovre, e un brivido corre sul mare con la luce e la brezza, corre nei
corpi e negli animi sani e riposati. Le vele intrise di rugiada pesante si animano. E nei campi guerreschi le
trombe salutano l’alba. Tutto saluta la vita che è bella soltanto a saperla spendere…".
L’Amleto di Bacchelli testo verrà rappresentato solo nel 1956 – ma in una prima versione, completata nel
1918, non in quella del 1923, rifiutata dall’autore.
1924: Le tragedie in due battute di Achille Campanile
Quello di Petrolini non è certo il primo né l’unico sberleffo di cui è vittima Amleto. Al richiamo non resiste
per esempio l’umorista Achille Campanile (che nel 1924 inizia a pubblicare sul "Corriere Italiano" le sue
Tragedie in due battute, raccolte in volume solo nel 1978, due anni dopo la morte dello scrittore).
amleto in trattoria
Personaggi:
AMLETO
IL CAMERIERE
AVVENTORI, CAMERIERI, SIGARAIO, ECC.
In una trattoria di Danimarca, all’ora del pranzo.
AMLETO
esaminando il microscopico pollo che gli è stato servito
Cameriere, che è questo che m’avete servito?
IL CAMERIERE
Oh, signore, era un pollo, ma ora è morto, pace all’anima sua, e non è più niente.
(Sipario)
1925: il primo Shakespeare in abiti moderni
Il primo Shakespeare in abiti contemporanei segna una rottura rispetto sia alla tradizione di matrice
ottocentesca sia rispetto alle avanguardie teatrali. L’una e le altre, infatti, attraverso costumi di varie
epoche e fogge tendono a proiettare i testi in un altrove (nel tempo e nello spazio) rispetto alla realtà
dello spettatore: è una di quelle convenzioni mute, inconsapevoli, e proprio per questo più efficaci, che
caratterizzano la comunicazione teatrale. Quando una convenzione di tale forza viene messa in questione,
gli effetti possono essere dirompenti. (Può essere utile ricordare che, in base all’unico disegno
pervenutoci di una rappresentazione d’epoca di un testo di Skakespeare, gli attori della sua compagnia
indossavano un mix di abiti contemporanei e di costumi che rimandavano all’epoca e al luogo della
vicenda rappresentata.)
Il merito (o la responsabilità) del primo Shakespeare in abiti contemporanei (naturalmente l’Amleto)
spetta a Barry Jackson, direttore della Birmingham Repertory Company, da lui fondata nel 1911. Dopo
alcuni esperimenti in provincia, Jackson decide di lanciare la sua provocazione nella capitale.
In effetti c’erano già stati alcuni tentativi in questa direzione (compreso un Amleto di Reinhardt nel 1920, e
un Cimbelino della stessa compagnia di Birmingham nel 1923), ma Jackson è il primo a mettere in evidenza
la scelta, esplicitando i propri obiettivi. Preavverte che "questa messinscena in abiti moderni non è uno
scherzo irriverente" e spiega: "Finora non siamo mai riusciti a rendere Shakespeare davvero popolare.
Con il nostro spettacolo vogliamo convincere gli inglesi che oggi i testi di Shakespeare sono roba davvero
buona, anzi la cosa giusta" (non è una forzatura della traduzione, l’originale dice proprio "really good stuff
– the right thing"). Insomma, l’obiettivo è di riavvicinare Shakespeare al grande pubblico e alla sua
quotidianità, per renderlo finalmente popolare (o meglio, per farlo tornare popolare).
Così il protagonista Colin Keith-Johnston dà corpo a un Amleto con la camicia bianca e i pantaloni alla
zuava. Il regista H.J. Ayliff è consapevole che a un primo impatto lo spettacolo può scatenare le risate del
pubblico, e dunque decide di aprire il sipario su una scena quasi buia, facendo salire le luci lentamente, in
modo da evitare lo shock.
Non mancano le perplessità, come quella espressa dal critico dell’autorevole "Times": "La follia di Ofelia
risulta meno efficace per il fatto che la sua gonna è indiscutibilmente corta". Ma quella dell’astuto
produttore è la scelta giusta al momento giusto: la sua idea viene subito copiata e nel giro di pochi mesi
nei teatri del mondo intero è possibile vedere Shakespeare in abiti moderni.
La decisione di attualizzare un dramma scritto da tempo e ambientata in un remoto passato ha vantaggi e
svantaggi: aiuta a rendere evidenti le connessioni con l’attualità ed evidenzia gli snodi politici e sociali del
testo; d’altro canto può suggerire interpretazioni forzate e distorsioni dell’originale, oppure associazioni
troppo facili e banali. Ed è inevitabile che qua e là affiorino anacronismi più o meno ridicoli. Lo stesso
Jackson sperimenterà le trappole implicite nella sua scelta: il Macbeth che allestisce nel 1928, con uniformi
della Grande Guerra (ma in un’improbabile Scozia), non ottiene lo stesso successo.
1928: Sigmund Freud in Dostoevskij e il parricidio
"Non è certo un caso che tre capolavori della letteratura di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il
parricidio: alludiamo all’Edipo Re di Sofocle, all’Amleto di Shakespeare e ai Fratelli Karamazov di
Dostoevskij. In tutte e tre le opere è messo a nudo anche il motivo del misfatto: la rivalità sessuale per il
possesso della donna. (…) La rappresentazione fornita dal dramma inglese è più indiretta [di quella
dell’Edipo Re]: qui non è l’eroe in persona che ha compiuto l’azione, bensì un’altra persona per la quale il
misfatto non significa parricidio. Non c’è quindi bisogno qui di velare il motivo scandaloso della rivalità
sessuale per il possesso della donna. Anche il complesso edipico dell’eroe traspare per così dire in una
luce riflessa, quando veniamo ad apprendere l’effetto esercitato su di lui dal delitto dell’altra persona. Egli
dovrebbe vendicare l’assassinio, ma si trova stranamente incapace di farlo. Ciò che lo paralizza, come
sappiamo, è il suo senso di colpa: il quale viene trasferito sulla percezione della sua inadeguatezza a
eseguire questo compito, in un modo che ricalca quasi alla lettera i processi nevrotici. Secondo parecchi
indizi, l’eroe sente questa colpa come una colpa che travalica l’individuo. Egli disprezza gli altri non meno
di se stesso. ‘Trattate ogni uomo secondo il suo merito, e chi sfuggirà alla frusta?’" (Sigmund Freud,
Shakespeare, Ibsen e Dostoevskij, pp. 80-81).
Le intuizioni di Freud verranno in seguito diligentemente ampliate e approfondite da Ernst Jones nel suo
Hamlet and Oedipus (1949).
1935: John Dover Wilson, What Happens in Hamlet
A John Dover Wilson (1881-1969) si devono, oltre alla curatela del New Shakespeare (1921-1966), diversi
saggi su Shakespeare e le sue opere. In What Happens in Hamlet offre un minuzioso resoconto delle azioni
del dramma, quelle esplicitate nel testo, ma anche quelle implicite. Wilson esamina con particolare
attenzione il loro significato per lo spettatore elisabettiano: per esempio, discute in dettaglio le diverse
reazioni e commenti dei personaggi nei confronti dei fantasmi. La sua resta probabilmente la più
puntigliosa lettura di un testo shakesperiano.
1936: Amleto nel Terzo Reich
Come portare in scena Amleto quando in un paese "c’è del marcio"? Per esempio quando al potere è
salito un personaggio come Hitler? Una certa critica allineata con l’ideologia del regime vorrebbe vedere
nel pallido principe una prefigurazione dell’eroe tedesco: dunque tende a sottacere i suoi dubbi e le sue
incertezze, a ridurre la sua follia a finzione e astuzia, facendo invece emergere l’uomo d’azione. Da un
certo punto di vista, l’Amleto del più grande attore tedesco dell’epoca, Gustav Gründgens, sovrintendente
del più prestigioso teatro tedesco, lo Staatstheater di Berlino, va in questa direzione: è atletico, attivo,
agile, sia fisicamente sia mentalmente, sembra seguire un piano preordinato. Ma in una situazione
irrimediabilmente corrotta, un personaggio così consapevole è anche irrimediabilmente, assolutamente,
dolorosamente solo. Questo è, nella realtà, l’atteggiamento di Gründgens nei confronti dei suoi
supervisori nazisti: l’attore e regista è impegnato in un gioco sottile e pericoloso con il regime (nel
romanzo Mephisto Klaus Mann sottolinea in maniera forse eccessiva le sue complicità con il nazismo, ma il
suo opportunismo resta indiscutibile). Come Amleto, Gründgens è costretto a fingere, e per fingere deve
controllare ogni mossa, ogni gesto, ogni parola. Da questa guerra intima nasce un’interpretazione che
affascina il grande pubblico per centinaia di repliche, e colpisce (e inquieta) gli spettatori più consapevoli.
1938: il sonetto di Bertolt Brecht
Già nel 1931 Bertolt Brecht si era confrontato con Hamlet, in un adattamento radiofonico per Radio
Berlino, spostando l’accento dai dilemmi del protagonista ai rapporti sociali di una società feudale,
storicizzando così l’acquiescenza di Amleto alle violenze del suo ambiente. Negli anni dell’esilio utilizza lo
stesso metodo, con un’attenta analisi della situazione sociale e politica, quando inizierà a trasporre in
forma romanzesca Julius Caesar nell’incompiuto Gli affari del signor Giulio Cesare. Nel 1938, quando
interrompe la stesura del romanzo, Brecht dedica un sonetto a "Amleto", dramma di Shakespeare, dove il
protagonista è costretto a rinunciare all’umanesimo che sta scoprendo, perché in quel contesto non è
possibile metterlo in pratica. Il suo atteggiamento umanistico nei confronti della ragione si rivela
inaccettabile in una società irrazionale. E dunque è costretto ad abbandonare la sua repulsione nei
confronti dell’omicidio e praticare la violenza necessaria per raggiungere il potere nelle gerarchie feudali.
E finalmente il grassone vede rosso.
Capisce che abbastanza ha esitato,
Ora è il momento di azioni (sanguinose).
Così che si annuisce cupi, quando si sente:
"È certo che se fosse giunto al trono
avrebbe agito davvero regalmente".
(Bertolt Brecht, Poesie 1933-1956)
Qualche anno più tardi torna sul personaggio: "Amleto è semplicemente un idealista che si scontra con il
mondo reale e viene buttato fuori strada, un idealista che diventa cinico. Il problema non è agire o non
agire, ma tacere o non tacere, perdonare o non perdonare" (Bertolt Brecht, Arbeitsjournal).
La chiave di lettura brechtiana viene ripresa quarant’anni dopo, da un allievo di Brecht, lo svizzero Benno
Besson, che allestisce Hamlet nel 1977 a Berlino. La reggia di Elsinore è un labirinto di solitudini: Amleto
non cerca l’azione, la vendetta o la giustizia, vuole solo superare il proprio isolamento, ma invano.
Protagonista è un Manfred Karge che nella prima scena compare in pantaloni e bretelle sul petto nudo.
Più che un raffinato principe o uno studente umanista, il suo Amleto è un clown, un contadino rozzo e
carico di energia: il celebre monologo "Essere o non essere" lo recita facendo ginnastica. Riprendendo la
ricostruzione dello storico Robert Weimann (Shakespeare und die Tradition des Volkstheater, 1967), che
sottolineava i rapporti del teatro elisabettiano con lo spettacolo popolare e la tradizione medievale,
mettendo in luce l’esistenza di una contro-cultura plebea, Besson trasforma Hamlet in un morality play.
1939: Laurence Olivier nel castello di Elsinore
Nel 1939 la compagnia dell’Old Vic si reca in Danimarca per rappresentare Hamlet nel cortile del castello di
Elsinore. Lo spettacolo ha debuttato a Londra l’anno precedente e ora è in tournée. La regia di Alec
Guinness non rinuncia a un richiamo all’attualità: lo spettacolo è ambientato in una corte edoardiana,
minacciata da una moderna potenza militare. Amleto è Laurence Olivier. Per preparare lo spettacolo
Tyrone Guthrie, che dirige la compagnia dell’Old Vic, ha mandato Olivier a parlare con Ernst Jones, allievo
e biografo di Freud: forse il colloquio fa risuonare qualche corda nella personalità dell’attore, che quando
aveva nove anni era stato oggetto di violenza sessuale.
Tutto è pronto, quella sera a Elsinore, quando la meteorologia ci mette lo zampino: mezz’ora prima
dell’inizio dello spettacolo inizia a piovere a catinelle. È una serata di gala, sono state invitate numerose
autorità, e pur di non annullare lo spettacolo si decide di trasferirlo nella sala da ballo di un vicino albergo.
Viene improvvisato tutto: ma proprio questa freschezza, la vicinanza con il pubblico, trasforma quella
replica in una serata indimenticabile sia per gli attori sia per il pubblico. Lo stesso Guthrie si rende conto
che molto del successo è dovuto alla soddisfazione di essere riusciti a portare a termine lo spettacolo
malgrado tutte le avversità, in circostanze irripetibili. Ma Guthrie intuisce anche che l’effetto di quella
serata dipende anche da un altro fattore: l’abbandono della sala all’italiana, con la netta separazione tra
gli attori e il pubblico, con il boccascena a fornire una cornice illusionistica al "quadro" scenico. Insomma,
Guthrie capisce che un diverso spazio teatrale può essere "più logico, soddisfacente ed efficiente" per
portare in scena i testi di Shakespeare. Quello della ricostruzione dello spazio elisabettiano è del resto un
elemento ricorrente: già nella "Shakespeare Renaissance" di fine Ottocento i teatri tedeschi avevano
cercato di riprendere la struttura del palcoscenico elisabettiano, ma su un palco all’italiana: più che essere
veri teatri elisabettiani offrivano l’immagine di un teatro elisabettiano, e i risultati non potevano dunque
essere soddisfacenti.
Dopo quel celebre Amleto, Guthrie riprende quei tentativi con maggiore consapevolezza e
determinazione, in collaborazione con la scenografa Tanya Moiseiewitsch: nel 1948 allestendo una
morality di relativo interesse al festival di Edimburgo nella Sala dell’Assemblea della Chiesa di Scozia (che
diventa l’evento della rassegna), e l’anno successivo Henry VIII allo Shakespeare Memorial Theatre di
Stratford. Ma è nell’altra Stratford, una cittadina dell’Ontario che nel 1953 decide di inaugurare il proprio
festival shakespeariano, che Guthrie ha l’occasione per ricostruire per la prima volta un palcoscenico
elisabettiano. All’interno di un tendone viene eretta una struttura di legno che riprende il celebre disegno
di de Witt; ma l’elemento davvero nuovo è la disposizione del pubblico, sistemato circolarmente intorno
alla nuda scena. Guthrie e Moiseiewitsch realizzano una scena aperta, simile a quelle progettate dagli
sperimentatori d’inizio secolo (Appia a Hellerau, Reinhardt alla Grosses Schaspielhaus, Copeau al Vieux
Colombier) con l’obiettivo di fondere attori e pubblico in un’unità spirituale. È una soluzione che esalta la
presenza dell’attore (anche tenendo presente che a Stratford non viene fatto alcun tentativo per
ricostruire le condizioni d’illuminazione e le scenografie originali) e dà agli spettacoli realizzati a Stratford
un’atmosfera assai particolare.
1945: Orson Welles tra Amleto e Falstaff
"Poco prima di venire ucciso, il principe di Danimarca ha visitato l’Inghilterra. Supponiamo che ci sia
rimasto, e abbia evitato fantasmi e tombe (che comunque non gli piacevano) e sia vissuto fino a diventare
vecchio e grasso… Avrà cambiato nome?…
I grandi uomini di Shakespeare, nei loro più grandi momenti, sono travolti da una profonda, appassionata
repulsione per la malvagità del mondo. Tutti eccetto Amleto. Esiliato dalla tragedia, conduce una vita
peccaminosa in quel di Londra, e ride in faccia al mondo una risata che è la più grande della nostra lingua.
Solo una volta lo cogliamo senza uno scherzo sulle labbra: "Sono vecchio", dice John Falstaff di Elsinore.
"…Sono vecchio".
La vita allegra sta per trasformarsi nella sua morte. Si è rovinato, ma si è divertito. Amleto o Falstaff –
chiamatelo a piacer vostro – per i suoi peccati ha un solo rimorso, non averne commessi di più.
Shakespeare, un tipo socievole che amava scherzare coi ragazzi all’Osteria della Sirena, certo desiderava
che Amleto passasse a bere un bicchiere con lui, dopo lo spettacolo. Secondo me Falstaff è Amleto – un
Amleto vecchio e incanaglito – che si beve quel bicchiere in compagnia…".
(Orson Welles, Orson Welles Almanac, "New York Post", 6 febbraio 1945)
L’intera carriera di Orson Welles è segnata da un’autenticamente ossessione per Shakespeare. Dalle
apparizioni giovanili in alcuni spettacoli teatrali sia negli Stati Uniti sia a Dublino, alla curatela di
un’edizione delle opere di Shakespeare, dai numerosi adattamenti radiofonici degli anni Trenta agli
efficacissimi Macbeth (con un cast tutto nero e una contagiosa e inquietante atmosfera haitiana) e Julius
Caesar (con chiare allusioni a Mussolini) di New York, dai film realizzati a quelli solo progettati, la sua
carriera è un costante omaggio a Shakespeare. Anche se il regista non ha mai rinunciato a utilizzare i testi
e i personaggi per i propri obiettivi, adattandoli alle sue intuizioni ed esigenze e cercando spesso soluzioni
ad effetto.
1946: "Essere o non essere" nel Far West
Sono più numerosi di quanto non ci si immagini i western nei quali riecheggia Shakespeare, in una forma o
nell’altra. Può essere una trama ispirata a una delle sue tragedie (come accade in più di un’occasione per
King Lear), possono essere una situazione o una battuta rubati a uno dei suoi testi. Ma può anche essere
un intero brano, recitato a memoria da un cow boy in un saloon, come accade in Sfida infernale di John
Ford, dove Victor Mature nei panni di Doc Holliday recita il monologo di Amleto, sostituendo l’attore
ubriaco che ha dimenticato le parole.
In effetti, non deve apparire così strano che un cow boy sappia a memoria l’"Essere o non essere":
nell’Ottocento in America ottenevano notevole successo versioni abbreviate, parodie, travestimenti dei
testi di Shakespeare, recitati da attori venuti dall’Inghilterra o da attori americani, bianchi o neri (si ricorda
nel 1820, a New York, un Hamlet nero al Negro Theatre): era una forma di spettacolo popolare, assai
diffuso e amato dal pubblico. Un’ulteriore riprova della familiarità degli americano con Shakespeare viene
da Huckleberry Finn di Mark Twain: nel corso del loro vagabondaggio, giunti nell’Arkansas, Huck e Jim
ospitano sulla loro zattera due vagabondi che decidono di dare uno spettacolo, dove recitano tra l’altro la
parodia del celeberrimo monologo: la reazione del pubblico presuppone la conoscenza dell’originale.
1948: gli Oscar a Laurence Olivier
Dopo aver interpretato il ruolo per diversi anni, Laurence Olivier decide di dedicare a Hamlet un film di cui,
oltre a essere regista e interprete, cura in pratica anche l’adattamento (firmato con Alan Dent). Malgrado i
numerosi tagli (per esempio Reynaldo, Rosencrantz e Guildestern, Voltimando e Fortebraccio scompaiono
del tutto), la sua è una delle versioni più lunghe e fedeli del testo (almeno fino al film di Branagh). La
scena di Roger Furse è dominata da un intrico di scale, che vanno dalle profondità della reggia di Elsinore
fino ai merli delle torri di guardia (secondo le interpretazioni psicoanalitiche del film ricorderebbero la
scala dell’All Saints School dove Olivier bambino avrebbe subito violenza). Anche quando non è
inquadrato, Amleto-Olivier, che si è imbiondito i capelli, resta sempre al centro dell’attenzione degli altri
personaggi e dunque dello spettatore, in una serie di ambienti ampi e spogli. Sulla falsariga dello
spettacolo teatrale (si è già detto dell’incontro di Olivier con Ernst Jones), si tratta di una lettura in chiave
più psicologica che politica: è la tragedia di un figlio che non riesce ad avere un rapporto non violento con
il padre.
Il film vince il Leone d’Oro a Venezia e gli Oscar per il miglior film e la migliore interpretazione, oltre alle
nomination per la regia, per la miglior attrice a Jean Simmons, che era Ofelia, e per le musiche a William
Walton.
1952: Io, Amleto ovvero Macario
Tra le parodie, va ricordata quella di Macario, con la vistosa Rossana Podestà nei panni di Ofelia. Il film
diretto da Giorgio Simonelli, è una puntigliosa parodia dell’originale, ma in accordo con la vena comica si
conclude con un lieto fine.
1954: Shakespeare per tutti: Joseph Papp fonda il New York Shakespeare Festival
Anche negli Stati Uniti Shakespeare – che nell’Ottocento era un autore popolare, di cui tutti conoscevano i
personaggi, le trame e i passi più celebri – è diventato "cultura". I suoi drammi sono diventati "classici"
destinati al consumo di una élite. Anche negli Stati Uniti, è dunque necessario liberarlo da questa gabbia
dorata, perché i suoi testi ritrovino la loro vitalità, e il contatto con un pubblico più vasto. Così nel 1954 il
Dipartimento dell’Educazione dello Stato di New York affida a Josef Papp il compito di "incoraggiare e
coltivare l’interesse nella drammaturgia, in particolare in William Shakespeare e nei suoi contemporanei
elisabettiani, e di organizzare annualmente uno Shakespeare Festival". Dopo aver utilizzato diversi spazi,
nel 1962 il Festival troverà una sede stabile nel Delacorte Theatre a Central Park.
1954: a Mosca il Gamlet del sipario di ferro
In Russia Gamlet (così si chiama Amleto) è da sempre un personaggio molto popolare: di solito, sulla scia
delle interpretazioni romantiche, viene rappresentato come un giovane languido e nevrotico, egocentrico
e impossibilitato ad agire. Durante la Seconda guerra mondiale Stalin vieta però di rappresentare il testo.
Gamlet può tornare in scena solo dopo la sua morte, nel 1954, a opera di Nikolaj Okhlopkov, considerato
l’erede di Meierchol’d (scomparso pochi anni prima in una delle "purghe" staliniane). Okhlopkov, nello
spettacolo che va in scena al Teatro Meierchol’d di Mosca, usa il testo per leggere il passato recente del
suo paese. Amleto si ribella contro "il freddo abbraccio della prigione" danese e il regime tirannico di
Claudio. Anche se è destinato a morire, "oltre la sua morte, oltre la sua personale sconfitta, si intravede la
vittoria storica dell’umanesimo".
Lo scenografo Vadim Ryndin disegna una grande porta di metallo, decorata con borchie e simboli araldici.
Questo pesante sipario di ferro può scivolare verso i lati o aprirsi al centro, per mostrare le varie sezioni
del palcoscenico su cui si svolge l’azione: una reggia vichinga ingombra di oggetti massicci (colonne,
navi…). Nella scena della recita, questo portale-sipario si apre per mostrare i palchi su cui siedono gli
spettatori. Il segno più forte dello spettacolo è dunque quel marchingegno dai movimenti macchinosi, che
trasforma la reggia e l’intera Danimarca in una prigione: un messaggio inequivocabile per chi ha
conosciuto l’URSS di Stalin.
1955: Gassman-Squarzina in tv il 28 ottobre
L’Amleto con Vittorio Gassman, regia firmata dallo stesso attore con Luigi Squarzina aveva debuttato il 28
novembre 1952. Il testo è stato appositamente ritradotto: per la prima volta viene presentato al pubblico
italiano nella sua sostanziale integrità (o quasi). La scenografia è firmata da Mario Chiari: "la costruzione
d’un edificio irreale, in minacciosa pendenza contro lo spettatore, come un incubo, e diviso sia
orizzontalmente che verticalmente in tanti settori, atti a suggerire via via ora l’uno ora l’altro ambiente".
L’autorevole critico Silvio D’Amico si entusiasma: "L’Amleto incarnato da Vittorio Gassman emana un
fascino indicibile. Questo attore, cui Dio ha elargito tutti i doni – prestanza fisica e maschera espressiva,
inquieta cultura e moderna sensibilità, voce sonora e intimo tormento –; questo attore che, oggi non
ancora trentenne, ci è già apparso nei più svariati aspetti dell’arte classica, come di quella più
spregiudicatamente contemporanea; questo attore di virtù così prepotenti, e la cui suprema ambizione è
di farsi servo e messaggero della grande poesia; questo attore ci ha dato, della figura d’Amleto,
l’interpretazione più aderente alla nostra immaginazione, e pertanto più nuova. Tutta mossa dall’intimo;
agitata, dolorosa: straziata dalla delusione della malvagità circostante, e dalla propria incapacità di
superarla: pregna di spirito religioso, e tuttavia orribilmente incrinata dal dubbio. Dalle sue labbra hanno
spiccato il volo le profonde parole, le vaste immagini, come per un nativo, irresistibile impulso; s’è levato
al Cielo il canto del suo rancore, della sua rabbia, dei suoi intenerimenti e delle sue riprese, con un impeto
e un rapimento fino a oggi sconosciuto" (Cronache del teatro, vol. 2, p. 775).
Tre anni dopo, il 28 ottobre 1955, l’Amleto di Gassman arriva in televisione, con la regia televisiva di
Claudio Fino, "grande artigiano della radio, uno dei primi registi della nascente tv": "Anche se non ha
ottenuto i riconoscimenti di altri suoi colleghi, ha firmato numerose trasposizioni, dimostrando versatilià e
mestiere" (Aldo Grasso, Enciclopedia della televisione italiana, s.v.). Il ruolo del malvagio re Claudio, che in
teatro era stato di Mario Feliciani, passa a Memo Benassi, per un incontro rivelatore tra attori di
generazioni diverse.
1956: Shakespeare nostro contemporaneo: Jan Kott e Carl Schmitt
"L’Amleto rappresentato a Cracovia alcune settimane dopo il XX Congresso del Partito Comunista
dell’URSS, dura tre ore. Non un minuto di più. È aereo e trasparente, teso e crudele, moderno e coerente,
ridotto ad un unico problema. È tutto, da cima a fondo, un dramma politico. ‘V’è qualcosa di putrido nello
stato di Danimarca’. Questo è il primo accordo della nuova attualità dell’Amleto. E poi, ripetuto
sordamente per tre volte: ‘La Danimarca è una prigione’. E infine la magnifica scena coi becchini, spogliata
d’ogni metafisica, brutale e inequivocabile. I becchini sanno per chi stanno scavando le fosse. ‘Le fosse’,
dicono, ‘son costruite più forte della chiesa’. La parola ripetuta più spesso sulla scena è ‘sorvegliare’. Qui
sono sorvegliati tutti, senza eccezione, e in continuazione" (Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo,
pp. 57-58).
Tre anni dopo, il personaggio sta già radicalmente cambiando di segno "L’Amleto della messa in scena del
tardo autunno 1956 non leggeva che i giornali. Gridava che ‘la Danimarca è una prigione’ e raddrizzava il
mondo. Era un ideologo in rivolta, si consumava tutto nell’azione. L’Amleto del 1959 è già divorato dal
dubbio. È ridiventato il ‘povero ragazzo triste, con un libro in mano’ [secondo la definizione del
drammaturgo Wyspianski]. Non ci vuol nulla a immaginarcelo con un maglione nero e i blue jeans. Il libro
che ha tra le mani non sarà più Montaigne, ma Sartre, Camus o Kafka. Ha fatto i suoi studi a Parigi, a
Bruxelles o forse, come il vero Amleto, a Wittemberga. È rientrato in Polonia da tre o quattro anni. È
divorato dal dubbio se si possa o no ridurre il mondo a poche semplici formule. Talvolta è oppresso da
tristi pensieri sulla fondamentale assurdità dell’esistenza" (op. cit., pp. 66-67).
Nel fatidico 1956 anche Carl Schmitt, acuto filosofo della politica, ritiratosi a vita privata dopo aver
partecipato attivamente alla vita politica durante la Repubblica di Weimar e nei primi anni del regime
hitleriano, si dedica ad Amleto e pubblica un denso saggio. Misurandosi con il campione dell’indecisione, il
teorico del decisionismo inserisce la tragedia nel contesto politico in cui viveva Shakespeare: la
dissoluzione dell’ordine simbolico medievale e l’affermarsi di un ordinamento giuridico e spaziale della
terra, ma anche la successione di Giacomo I, il figlio di Maria Stuarda, a Elisabetta I.
1957: l’Amleto di Jurij Zivago
Nel Dottor Zivago, il romanzo che vale a Boris Pasternak il Premio Nobel, figurano alcune poesie scritte dal
suo protagonista. Una di esse dà voce, fin dal titolo, ad Amleto. Quello di Zivago-Pasternak è un AmletoCristo che si rifiuta alla parte che gli è stata preparata:
"Se solo è possibile, abba padre,
allontana questo calice da me.
Amo il tuo ostinato disegno,
e reciterò, d’accordo, questa parte.
Ma ora si sta dando un altro dramma
E per questa volta almeno dispensami".
1959: le scenografie di Svoboda
In diverse occasioni il grande scenografo ceco reinventa la sua Elsinore. È affascinante seguire la
progressione delle sue creazioni. La prima volta, nel 1959 a Praga, con la regia di Jaromír Pleskot, inventa
un gioco di specchi neri, riflettenti. Nel 1965, a Bruxelles, con la regia di Otomar Krejca, riprende
quell’intuizione: il castello è un labirinto di scale e specchi, lo spettro del padre è l’immagine di Amleto
riflessa, una sorta di trucco che il protagonista usa per portare Claudio e gli altri dalla sua parte. Nel 1982,
con la regia di Miroslav Machácek, la scena appare radicalmente semplificata: sui tre lati ci sono pochi
gradini, mentre lo sfondo chiuso è da un pesante sipario nero; i cambi di scena sono evocati solo dai cambi
di luce, in un omaggio a Appia. Finché, dopo la strage finale, il sipario che chiudeva la scena si apre per
mostrare una scala interminabile, che si perde nel nulla. Sulla gradinata s’inerpica lentamente il corteo
funebre con il cadavere del principe. Agli occhi di un pubblico che per più di tre ore aveva seguito uno
spettacolo in cui dal punto di vista visuale non succedeva quasi nulla, è un formidabile colpo di scena,
un’immagine d’impatto, con un fortissimo effetto sorpresa.
1961: il primo Amleto di Carmelo Bene
GLI "AMLETI DI MENO" DI CARMELO BENE
1961
Amleto da Shakespeare.
1967
Amleto o le conseguenze della pietà filiale da Laforgue.
1974
Amleto da William Shakespeare e Jules Laforgue.
1978
Un Amleto di meno (film tv, rielaborazione dello spettacolo del 1974).
1987
Hommelette for Hamlet operetta inqualificabile da Jules Laforgue.
1994
Hamlet Suite spettacolo concerto da Jules Laforgue.
1998
Hamlet Suite (film tv dallo spettacolo del 1994).
La carriera dell’attore pugliese ruota a prima vista attorno a una lunghissima fedeltà ad Amleto. Ma al tempo
stesso è anche un continuo e progressivo azzeramento del testo, della rappresentazione e del personaggio: in
definitiva, previo il rifiuto di ogni indagine e immedesimazione psicologica, è un progressivo processo di
dissoluzione-destrutturazione del soggetto e del senso quella che Bene conduce attraverso Amleto, fino ad
aspirare all’impersonalità della phoné, alla pura musicalità.
Aveva scritto Ennio Flaiano nel 1967: "Un Amleto scespiriano in frantumi, risolto qua e là con grandi silenzi, dialoghi
a bassa voce, bei tentennamenti, repentine interruzioni di cori (persino abruzzesi) e di arie celebri, e quel continuo
sospetto che la rappresentazione possa smettere per noia o per stanchezza del capocomico" (Lo spettatore
addormentato, p. 333).
Quello di Bene non è – fin dall’inizio – l’Amleto, ma la recita dell’Amleto, sul modello del racconto di Laforgue nelle
Moralità leggendarie. Gli altri personaggi sono proiezioni o emanazioni del protagonista – gli attori li rifiutano come
personaggi, così come i personaggi rifiutano la rappresentazione.
"L’Amleto io non l’ho mai "fatto", l’ho sempre "disfatto", in un continuo work in regress. Determinante, poi, è
stato l’incontro con i testi amletici di Jules Laforgue, il poeta francese: l’ho tradotto, reinventato. Il risultato è
un’analisi-sintesi spietata sul mito di Amleto, dove confluiscono materiali saccheggiati anche da altre fonti. Per
quanto mi riguarda, questa è la sintesi definitiva, la "summa" che liquida ogni ulteriore possibilità "amletica""
(Carmelo Bene, da un’intervista di Alessandra Cattaneo, "Corriere della Sera", 25 febbraio 1995).
Non è dunque un’interpretazione, ma il suo contrario: Bene distrugge l’Amleto, "un testo campione di scrittura
scombinata"): "Insomma, da un’edizione all’altra, sempre più disamletizzandomi, oltre ai dubbi, ho cancellato le
certezze dell’originale inglese". I suoi vogliono essere e sono "Amleti di meno".
1962: Una notte con Amleto di Vladimír Holan
Autorecluso nel suo appartamento sull’isola di Kampa, a Praga, dal quale non esce per quindici anni, dalla presa del
potere da parte dei comunisti nel 1948 alla destalinizzazione del 1963, il poeta Vladimír Holan lavora a un lungo
poema in cui dialoga con Amleto, tra reminiscenze omeriche e riferimenti mozartiani, intrecci con il mito di Orfeo
ed Euridice e liberi intrecci con altri personaggi shakespeariani.
"Ma chi è l’Amleto di Holan? Da dove proviene? Gli manca un braccio. È reduce dunque d’una guerra o da un Lager?
Dal suo racconto si trae l’impressione che egli abbia qualcosa di impuro, di represso, di sadico. Ora ti sembra un
maniaco sessuale, un venditore di frasi all’ingrosso, ora invece assomiglia a un tenebroso da feuilleton, da Série
Noire. In una notte-cauchemar, non diversa da quella in cui gli apparve il fantasma del padre, si presenta al poeta,
nella casa di Kampa, attorniata da una minacciosa Boemia-Danimarca, e, muovendosi con sicurezza di
sonnambulo, inizia il suo festival di cabotinage: ovvero dispiega, quasi a colmare l’orrendo mutismo del tempo,
una facondia irrefrenabile, che scivola a tratti nella magniloquenza" (Angelo Maria Ripellino, Prefazione a Una
notte con Amleto).
1964: il film di Grigori Kozincev
Il Gamlet realizzato da Grigori Kozincev è uno dei migliori film shakespeariani, ispirato allo spettacolo diretto dallo
stesso regista al Teatro Puskin di Leningrado, frutto delle discussioni con il suo maestro Okhlopkov. In Kozincev
riecheggiano tanto il costruttivismo russo quanto gli imperativi del realismo socialista, e le ambiguità di un artista
che è sopravvissuto a Stalin e ora si confronta con Kruscev. I tagli delle inquadrature sono sempre studiati e
raffinati, anche se spesso danno eccessivo spazio all’illustrazione "pittorica" della colonna sonora di Dimitri
Shostakovic. Amleto è Innokenti Smoktunosvki che, dopo essere stato fatto prigioniero dei tedeschi durante la
Seconda guerra mondiale, era stato deportato nell’Arcipelago Gulag ai tempi di Stalin. La sua solitudine è frutto
più di un isolamento politico che della sua nevrosi. Ma la sua ribellione resta solo un atto futilmente
autodistruttivo: dopo la sua morte, al tiranno Claudio succede semplicemente il tiranno Fortebraccio, mentre il suo
cadavere viene subito nascosto dalla folla che saluta il nuovo sovrano.
1965: Zeffirelli e Albertazzi
Uno "spettacolo che crede di esser nuovo ed è invece irremissibilmente ‘datato’ perché, nonostante la
disponibilità, l’analisi esistenziale e le aree depresse, è l’Amleto più nevrotico e romantico che io ho visto finora,
senza neppure l’ombra della grande malinconia del pellegrino che procede attraverso le lande infette del male con
gli occhi bene aperti e la coscienza sveglia e presaga del contagio inevitabile. Sul piano degli Amleti romantici e
nevrotici si può anche concedere che questo di Albertazzi possa dare forti emozioni riuscendo persino a illuminare
quell’angolo buio del cuore di Amleto dove si annida una gelosia filiale che fa pensare a qualcosa di molto più
inquietante, ma la chiarezza, la civiltà, la pietà nella furia di Amleto, il ‘metodo’ nella sua pazzia non li abbiamo
trovati" (Sandro De Feo, In cerca di teatro, pp. 224-225).
"Dopo aver buttato il programma, gonfio di parole che hanno soltanto l’apparenza delle idee, si torna a desiderare
delle due l’una: o un Amleto tutto poetico e cantato, anche con la stessa recitazione di Albertazzi, ma allora
intorno velluti e golettoni e corone in testa, magari stilizzati, e col suo spettro; oppure un dramma tutto prosastico
e critico, recitato con un’ironia borghese un po’ loica e un po’ terra terra alla Pirandello o alla Randone. O magari
anche un Amleto probabilmente impossibile: tutto-fatti, con gli attori che si affidano più alla lingua che al cervello,
fiduciosi (com’era Gielgud fino a qualche anno fa) che la poesia è già tutta nel testo quando è di un autore come
Shakespeare, perciò è inutile che l’attore si sforzi di aggiungere ‘del suo’, è sufficiente che faccia arrivare la voce
fino alle ultime poltrone, a tutto il resto ha già provvisto l’autore; e agli scenari anche, un bosco o un castello o una
tempesta sono molto più poetici ed emozionanti nei versi ben pronunciati che non in ‘carrelli’ e ‘praticabili’ costosi
e ridicoli" (Alberto Arbasino, Grazie per le magnifiche rose, p. 338).
Nel 1990 Zeffirelli farà anche un film, protagonista un Mel Gibson "più macho che malinconico" (e in ogni caso
privo di qualsiasi psicologia): la tragedia diventa un film d’azione (in costume) su una società che distrugge la sua
gioventù, perdendo fascino e spessore.
1966: Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard
Nel testo del drammaturgo inglese – che debutta con successo al Fringe (la sezione non ufficiale) del Festival di
Edimburgo, e sei mesi dopo approda al National Theatre – la tragedia viene vista attraverso gli occhi di due
personaggi minori, i due cortigiani che secondo il piano del re Claudio avrebbero dovuto approfittare del viaggio in
Inghilterra per uccidere il principe. Il testo è una ironica meditazione sul tema del teatro nel teatro, con riflessioni
tra Pirandello e Beckett, e insieme una denuncia dell’impossibilità di un’azione politica nella società
contemporanea. Il pubblico – soprattutto quello giovane – coglie in questi due antieroi piccolo-borghesi gettati al
centro di una trama che non controllano e non comprendono l’incapacità di cogliere il senso delle cose, e dunque
l’impossibilità di crearsi un proprio destino
Dal suo testo teatrale lo stesso Stoppard ricaverà nel 1990 il film omonimo (con Gary Oldman e Tim Roth nei panni
dei due protagonisti, e Richard Dreyfuss in quelli del capocomico), premiato con il Leone d’Oro alla Biennale di
Venezia.
1971: Jurij Ljubimov e Vladimir Vissockij alla Taganka di Mosca
Lo spettacolo di Jurij Ljubimov alla Taganka di Mosca segna uno dei più importanti eventi culturali e politici della
storia dell’URSS. Il protagonista è Vladimir Vissockij, poeta e chansonnier popolarissimo: non è certo il principe
paralizzato dal dubbio ma un giovane pieno di energia, che lotta contro un potere malvagio in un’epoca malvagia.
All’inizio dello spettacolo, vestito di nero, con un maglione a girocollo da esistenzialista, accompagnandosi con la
chitarra, davanti alla fossa con i due becchini, recita il poema che ad Amleto aveva dedicato Pasternak, in un
romanzo che i russi non possono ancora leggere. La scena di David Borovskij è dominata da un enorme sipario, che
può essere anche maneggiato dagli attori, ma che generalmente ne determina i movimenti, incombendo sulla
scena. Procedendo per scene e inserti staccati, usando poesia e canzoni (oltre alla traduzione di Pasternak),
Ljubimov costruisce uno spettacolo dal significato inequivocabile. Per le autorità della censura Gamlet è un
classico, ma per il pubblico è un testo nuovo, che parla con grande forza provocatoria del presente.
1973: L’Ambleto di Giovanni Testori a Milano
La chiave di volta di questa libera riscrittura è la compagnia dei comici: questa volta un gruppo di scarrozzanti che
gira per i paesi della Brianza testoriana con i suoi scalcagnati spettacoli – compreso appunto l’Amleto. A colpire è
soprattutto la lingua: un inventivo dialetto, impastato e spezzato, che distorce l’italiano per ritrovarne la forza
originaria, una concretezza e una carnalità che la lingua "alta", scritta, ha irrimediabilmente perduto. È una strada
– quella verso un dialetto magari recuperato o reinventato – che imboccheranno anche altri autori, scegliendo
spesso di misurarsi proprio con Hamlet: basti ricordare il napoletano di Enzo Moscato per Mal d’Hamlè (1994) e
l’alto vicentino utilizzato da Luigi Meneghello per tradurre alcune scene (1998-).
Nel caso di Testori (che per Amleto ha un interesse non casuale: nel 1971 aveva scritto la sceneggiatura per un film
mai realizzato, nel 1983 scriverà e farà rappresentare un Post Hamlet), questa "lingua madre" è la chiave per
riadattare il testo in chiave di lacerante confronto edipico tra Amleto e Gertrude (lo spettacolo, protagonista
Franco Parenti, regia di André Ruth Shammah, segna la nascita di un nuovo teatro milanese, il Salone Pier
Lombardo, e l’inizio del trittico testoriano che comprenderà Edipus e Macbetto).
1977: Hamletmaschine di Heiner Müller
"Io ero Amleto. Me ne stavo sulla costa e parlavo all’incendio BLABLA, con alle spalle le rovine d’Europa. Le
campane suonavano i funerali di Stato". Così inizia Hamletmaschine di Heiner Müller: un testo denso, costruito per
accumulo e compressione di frammenti rubati a Shakespeare ma anche all’autobiografia dell’autore. Il
drammaturgo tedesco inserisce il suo protagonista nelle apocalissi del secolo, tra poesia, ideologia e rivolta,
interrogandosi sulla catastrofe che sembra inghiottire l’umanità. Ne esce un grumo lirico costruito per accumulo di
frammenti (presi da Shakespare, ma anche da altri autori, dalla storia recente e dall’autobiografia dello stesso
Müller). Compresso fino all’ermetismo, a tratti indecifrabile nella sua densità di richiami poetici e filosofici, esprime
il violento grido di chi si rivolta alla macelleria della Storia: è anche una sfida ai registi, nel continuo suggerire e
negare interpretazioni e associazioni, viscerale e rigidamente formalizzato, oltraggio e disperato.
"Io non sono Amleto. Non recito più alcuna parte. Le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano il
sangue alle immagini. Il mio dramma non ha più luogo".
1977: la trasgressione di Peter Zadek a Berlino
L’iconoclasta Peter Zadek trasferisce Amleto in un capannone abbandonato alla periferia di Berlino. La traduzione
(firmata dallo stesso Zadek con Gottfried Greiffenhagen) è antiaccademica, colloquiale e spesso volgare. Lo
spazio, illuminato da lampade industriali fluorescenti, è disseminato di tappeti neri da ginnastica; lungo le pareti è
allineata una serie in apparenza incongrua di oggetti: un sofà, il manichino di un marinaio, un uccello impagliato,
uno scheletro… Le convenzioni teatrali vengono messe in evidenza, denunciate, infrante e parodiate: per
esempio, quando appare lo Spettro, impersonato da un’attrice, è visibile un gruppo di servi di scena indaffarati
intorno alla macchina del fumo. L’ironia di Zadek emerge in diverse occasioni e in maniera clamorosa: il
celeberrimo "Essere o non essere" viene ispirato ad Amleto (un Ulrich Widgruber energetico e clownesco) dalla
vista dei seni di Ofelia, denudati da Polonio – anch’egli impersonato da un’attrice. Spiega Zadek: "Il mio Amleto
vive in un mondo caotico, un mondo di apparenze, e gioca diversi ruoli mentre guarda gli altri che giocano i loro
ruoli".
1979: l’Amleto elettronico di Hansgünther Heyme e Volf Vostell
L’Hamlet firmato da Hansgünther Heyme allo Staatstheaterdi Colonia riflette l’avvento dei mezzi di comunicazione
di massa: lo scenografo Volf Vostell immagina un mondo in cui nulla può essere sperimentato direttamente ma
solo attraverso la mediazione elettronica. Il sipario di ferro del teatro è abbassato fin quasi al suolo; al di sotto
sono appesi 18 monitor televisivi che moltiplicano le immagini degli attori che recitano in proscenio. Il protagonista
si sdoppia: il primo Amleto, visibile in proscenio, è afasico, perso nelle fantasie dell’inconscio, ossessionato dal
proprio corpo che atteggia nelle pose più varie davanti al monitor. Il secondo Amleto è ridotto alla voce fuori
campo del regista, che legge le battute senza alcun rapporto con il corpo che agiva in scena.
1982: Klaus Michael Grüber e Bruno Ganz a Berlino
Tanto per cominciare, un cast di grande richiamo: protagonista Bruno Ganz, che torna al teatro dopo cinque anni
d’assenza, e intorno a lui Edith Clever (Getrude), Jutta Lampe (Ofelia), Peter Fitz, Werner Rehm e Bernhard Minetti
nel ruolo del capocomico. Poi l’enorme (e pressoché vuota) abside semicircolare e i muri di nudo cemento della
nuova Schaubühne, sul cui pavimento lo scenografo Gilles Aillaud ha ripreso il mosaico del celebre quadro di
Holbein Gli ambasciatori. In un allestimento di raffinata essenzialità e linearità, le citazioni pittoriche e scultoree si
sprecano, spaziando dal Medioevo al Rinascimento al Barocco, richiamati anche nei costumi e nell’accurata
coreografia dei gesti e delle figurazioni degli attori, spesso sollevate su piattaforme-piedistalli come gruppi
scultorei. È come se lo spettacolo, nel suo raffinato estetismo, riprendesse con piena consapevolezza, insieme per
ricapitolarla e per esaurirla, l’intera tradizione degli Amleti tedeschi e della loro ricezione da parte del pubblico dai
tempi di Goethe, a cominciare dalla scelta della traduzione romantica di Schlegel (con inserti della precedente
versione in prosa di Eschenburg) e dalla decisione di allestire la versione integrale del testo, in uno spettacolo di sei
ore. Il raggelato e straniato Amleto di Bruno Ganz non più vivere i dilemmi esistenziali del protagonista: può solo
citarli. Analogamente il lamento di Ofelia viene distanziato e recitato in forma di poema da Gertrude. Un eccesso
post-moderno di consapevolezza consente ormai di procedere solo per citazioni.
1989: qualche Amleto di più
(Heiner Müller, Patrice Chéreau, Andrzey Wajda, JuriJ Ljubimov)
In un anno chiave della storia d’Europa, le messinscene di Hamlet si moltiplicano, ispirando diversi importanti
registi: è il segnale che in questa fine secolo il pallido principe ha ancora molte cose da dire.
1. Heiner Müller
"Che cosa può l’artista contro il potere? Può osservarlo con interesse e ribrezzo, come Amleto osserva re Claudio.
Altro non può fare. L’8 ottobre scorso, mentre Honecker, sull’orlo del baratro, celebrava i quarant’anni della Rdt,
Heiner Müller stava provando al Deutsches Theater l’Amleto. A Berlino Ovest era andato appena in scena quello di
Patrice Chéreau, ‘bellissimo ma nient’altro che teatro’, aveva commentato allora Heiner Müller. Il suo sarebbe
stato di più, una resa dei conti con la storia reale del socialismo e del terrore e, in essa, con il ruolo
dell’intellettuale. Mentre parlavamo, arrivavano da fuori della finestra gli slogan inneggianti a Gorbaciov, scanditi
dai giovani che erano venuti a manifestare contro Honecker sotto il Palazzo della Repubblica. ‘Forse il regime cade
prima che Amleto vada in scena’, profetizzò Müller, ‘allora dovrò ripensare molte cose’. Il 18 ottobre Honecker si
dimise e il 4 novembre un milione di persone accorse sull’Alexander Platz per rispondere all’appello degli scrittori e
degli artisti di Berlino. Il Deutsches Theater diventò il centro dove gli intellettuali provavano la rivolta. Lì si
discuteva con passione il contenuto dell’appello, si trattava con le autorità per l’autorizzazione a manifestare, si
preparava il servizio d’ordine per evitare ogni possibile violenza. Ogni domenica mattina il teatro straripava di
giovani venuti ad ascoltare una volta Christa Wolf che leggeva un racconto inedito sulle intimidazioni della polizia
segreta, una volta, Ulrich Muhe che leggeva le memorie di Walter Jancka sui processi staliniani, gli anni di prigione
e il silenzio di coloro che per pavidità tacquero, prima di tutti Anna Seghers. Per un momento gli artisti ebbero
l’illusione di marciare insieme al popolo alla testa della storia. L’illusione durò davvero poco. Mentre gli intellettuali
provavano ancora i loro costumi di tribuni, il popolo se ne andava per un’altra strada. Chi, diversamente dagli
intellettuali, non aveva mai avuto le nicchie nelle quali rifugiarsi dava un voto rabbioso per l’Occidente, il
capitalismo, il mercato. ‘Per i prossimi trent’anni esisterà solo il capitalismo. È difficile convivere con il fatto di
essere morti’ ha detto Heiner Müller. Lui, in fondo, è stato il meno sorpreso. Scettico, pessimista, lo shock
dell’unificazione lo ha stupito meno degli altri. Già il 4 novembre aveva parlato sì dalla tribuna, ma con distanza:
solo per leggere un proclama affidatogli da un appena costituitosi sindacato autonomo. Ora Amleto è andato in
scena. È un intellettuale privilegiato e impotente, la cui sola arma è il cinismo, la follia, il ribrezzo. Il teatro di Müller
è stato fin dall’inizio una storia di addii. Ora l’addio non è solo alla Rdt ma al terrore delle idee e alla grandiosità
megalomane dell’artista che crede di poter cambiare il mondo. ‘Io ero Amleto. Me ne stavo sulla costa e parlavo
con i marosi bla bia, con alle spalle le rovine dell’Europa. Le campane suonavano i funerali di Stato’" (Vanna
Vannuccini, "il Venerdì", 14 dicembre 1989).
2. Patrice Chéreau
"Perché ha fatto quest’Amleto?
Perché per un regista e per un attore è inevitabile prima o poi confrontarsi con lui, perché non l’avevo mai visto a
teatro e non avevo voglia di vederlo diretto da altri, perché Desarthe mi ha detto: proviamo a fare la cosa più
difficile. Un invito per me irresistibile.
Cosa le ha insegnato Amleto?
Dal punto di vista teatrale la libertà di saper mescolare il moto tragico a moto comico con incredibile eleganza. Dal
punto di vista letterario, ad apprezzare sempre meglio la grande familiarità col palcoscenico di Shakespeare. Dal
punto di vista privato molto di più. Ma non mi pare il caso di raccontarlo qui.
Chi è per lei Amleto?
Mi intimidisce parlare di lui. Si rischia sempre di cadere nel banale, nel già detto. Posso dire che Amleto è una sorta
di crocevia dove si incontrano tutte le strade della vita. E unico che prende tutto in faccia, che si lascia ferire. Il
segreto del suo successo sta forse là... Ma, ripeto, non so parlare di Amleto" (Da un’intervista di Giuseppina Manin,
"Corriere della Sera", 3 ottobre 1989).
3. Andrzey Wajda
"È Jerzy Radziwilowicz a riportare le brevi ed essenziali parole di Wajda, che spiegano come e perché egli abbia voluto
Teresa per il suo quarto Amleto, dopo i suoi precedenti tre allestimenti realizzati nel corso di trent’anni e dei quali il
terzo, interpretato da Jerzy Stuhr e dalla stessa Teresa Budzisz Krzyzanowska nei panni di una Gertrude adunca e
appassionata, fu portato dallo Stary Teatr nel 1982 al Teatro Argentina.
Tante volte Wajda ha dichiarato, dice Jerzy, che essendo Amleto la storia di un attore, il sesso non ha importanza.
Teresa, inoltre, è il migliore ‘attore’ oggi in Polonia.
Lo spettacolo, aggiunge Stanislaw Radwan, deve essere ‘vissuto’, più che letto o visto, anche ricordando la presa di
posizione degli attori polacchi a favore della libertà politica e di espressione individuale nel nostro Paese e in
relazione agli eventi storici che hanno modificato recentemente in Polonia l’organizzazione politica e il rapporto
tra consenso popolare e governo.
Wajda – chiediamo alla protagonista – ha spesso dichiarato che all’età di trent’anni pensava ad Amleto come a
un’opera politica e che, col passar degli anni, è propenso a interpretarla come una meditazione sulla morte, sull’anima
di un uomo. Lei come vive in scena il suo Amleto?
Un critico di New York ha instaurato un confronto tra l’Amleto da me interpretato e la figura di Walesa. Io ritengo
che l’interpretazione politica debba essere visibile solo in trasparenza e attraverso simboli indiretti. Concordo con
questo Amleto di meditazione più che di azione e che scava nel rapporto tra attore e personaggio. Recitare Amleto
su un palcoscenico, in un camerino, è doppiamente importante in questo spettacolo: il teatro diventa l’unico luogo
dove si può tranquillamente, liberamente parlare ed è come la vita. Se sei impegnato sulle sue tavole, devi restarci
sino alla fine con i fantasmi, la follia, l’esser e il non essere, il dubbio, il destino" (Giovanna Grassi, "Corriere della
Sera", 4 ottobre 1989).
4. Jurij Ljubimov
"Ljubimov iniziò la sua carriera come attore in uno spettacolo che, come spesso accade in Unione Sovietica, non andò
mai in scena. Arrivò alla regia quasi per caso.
Volevo dirigere i drammi storici di Shakespeare. Mi ci vollero due anni di corrispondenza con le autorità perché la
mia richiesta fosse bocciata. Mi dissero di produrre uno dei classici di Shakespeare così come era stato scritto.
Risposi che volevo dirigere Amleto e loro: ‘D’accordo, ma è una vergogna perché Amleto continua a porsi
domande inutili come essere o non essere. Abbiamo stabilito da molto tempo che la risposta a questa domanda è:
essere’.
La prima produzione di Amleto rispecchiava la situazione sociale nella quale fu fatta.
Quello che mi interessava maggiormente nella tragedia era l’opposizione di Amleto nei confronti di tutte le cose
banali della vita. Ero incuriosito della sua libertà di pensiero, della sua ricerca di cose non trovate da altri. Fu il
primo rappresentante dell’intellighentzia danese.
Con il passare degli anni Ljubimov arrivò a concepire la tragedia come un’opera a sfondo religioso, percependo che
l’essenza del dramma è la d’irrealtà a vivere una vita senza fede.
Fin dall’inizio compresi l’aspetto cristiano della tragedia. Era la croce di Amleto, il suo grido verso Dio: ‘The time is
out of joint, O cursed spite that ever I was born to set it right’, reminiscenze di discorsi di Cristo al Padre nell’Orto
dei Getsemani prima che lo portassero sul Golgota. Credo che questa tragedia sia virtualmente incomprensibile
per un ateo. Chi non ha fede la comprende solo come un romanzo letto in gioventù o un film di Hìtchcock sui
fantasmi.
Il teatro di Ljubimov è un teatro di immagine. Egli dipinge con gli attori, le luci, gli oggetti inanimati. Passò lungo
tempo a cercare di risolvere il problema della messinscena di Amleto.
Cercavo una chiave di interpretazione. Sapevo che se avessi scelto una scenografia naturalistica lo spettacolo
sarebbe diventato tradizionale nel senso peggiore del termine. Trovavo terribilmente sciocco copiare natura e
oggetti. Preferivo metafore e immagini. E continuavo a cercare cosa avrebbe potuto rendere la tragedia dinamica.
La soluzione venne raggiunta con un sipario dotato di vita propria. È un interessante, quasi intimidatorio, materiale
scenico che ondeggia, gira, divide il palcoscenico cambiando continuamente il punto di osservazione del pubblico.
Risolve la tragedia esteticamente, le dà impeto ed è fedele a Shakespeare. Tra Ljubimov e Amleto è fondamentale il
nome di Vissockij Era un grande attore, un cantante, un poeta, uno degli uomini più interessanti della storia russa
recente. Una sorta di Marlon Brando o Bob Dylan con una forte influenza tra i giovani. Morì nel 1980 ed è a lui che
questo spettacolo è dedicato. Dice Ljubimov:
Ho parlato con lui del significato religioso della tragedia, del lato spirituale della vita. Speravo che, suscitando in lui
qualche interesse per la fede, avrebbe potuto sostenere meglio il suo ruolo nello spettacolo. Qualcosa si svegliò in
lui verso la fine della vita e recitava assai meglio la sua parte. Il suo spirito aleggia ancora nello spettacolo, come il
fantasma del padre di Amleto.
E la fede in Ljubimov?
Cristianesimo è una parola non facile da definire.
E alla domanda: Ljubimov che tipo di cristiano ritiene di essere?
In religione sono russo ortodosso... in arte protestante" (da un’intervista di Michael Goldfarb, dal programma di
sala dello spettacolo).
1990: Leo è Totò Principe di Danimarca
Lo spettacolo nasce da un’intuizione di Leo De Berardinis, che da sempre lavora sulla contaminazione tra
Shakespeare e la tradizione napoletana. Basti ricordare gli intrecci tra Re Lear e la sceneggiata ai tempi del Teatro
di Marigliano, negli anni Settanta: King Lacreme Lear Napulitane. Dice Leo De Berardinis:
"Totò e Amleto sono i miei due fortissimi riferimenti, le esplosioni naturali del primo vengono temperate
dall’estrema ‘solitudine’ ricercata dal secondo e viceversa. Sono due mie componenti come di qualsiasi altro uomo.
E nello spettacolo è come se Totò sognasse Amleto e Amleto sognasse Totò. Naturalmente non c’è nessuno
spazio per la parodia. La farsa viene assorbita pian piano, c’è un rientrare in sé, Totò viene inesorabilmente morso
dal serpente metafisico e contemporaneamente dà energia a Amleto. Amleto l’ho sempre vissuto come quel
particolare stato di coscienza in cui ci si distacca da un mondo e si entra in un altro. Avviene in chiunque, in
ognuno, Soltanto i livelli sono diversi".
1991: Star Trek VI: The Undiscovered Country (Rotta verso l’ignoto)
Le citazioni e i riferimenti shakespeariani nei vari episodi della saga di Star Trek sono numerosissimi. Il capitano
Picard, protagonista della nuova serie tiene sempre una copia delle Opere complete del bardo a portata di mano.
Ma reminiscenze si trovano ovunque.
Nell’episodio La coscienza del re (orig. The Conscience of the Kings) viene ripreso l’episodio della recita, questa volta
da parte di una compagnia di attori guidata a Anton Karidian, un criminale e serial killer. La sua compagnia,
nell’episodio, recita proprio Amleto…
Nell’ultimo episodio della serie cinematografica che vede per protagonista l’equipaggio originale, le citazioni da
Shakespeare sono numerosissime, a cominciare da quella del titolo: è il brindisi inaugurale della delegazione di
Klingon (va ricordato che i klingoniani sostengono che Shakespeare "è molto meglio nell’originale klingon").
1992: Societas Raffaello Sanzio
In antico norvegese amlodhi vuol dire deficiente. I cesenati della Societas Raffaello Sanzio prendono l’etimologia
alla lettera, nelle provocatoria messinscena (o meglio "smessinscena") del loro Amleto (1992), legata da indubbie
affinità con il gesto nichilista di Carmelo Bene (e forse radicalizzando la sua visione del rapporto tra il testo, la
scena e l’attore). C’è solo il protagonista, ridotto a una dimensione sadico-anale, regressiva ed escrementizia. In
una scena ingombra di cavi elettrici e luci al neon in forma di croce, di batterie da automobile e di oggetti di scarto,
una brandina metallica (che rimanda al "Morire, dormire" amletico). L’attore è ridotto a pura presenza fisica: urla,
si dimena, si percuote, urina in faccia al pubblico, compie gesti masturbatori, gioca con un orsacchiotto di peluche.
Ansima, tra scoppi di petardi e colpi di pistola. Emette solo mugolii, mugghi, lamenti e brandelli di frasi. Scrive
qualche parola sul muro, e poi la cancella: "I’M ABORTO" si riduce per esempio a un’unica lettera, "A". Fino
all’ultima regressione, quando Amleto seduto sul vasino defeca per poi imbrattarsi il viso e il muro con le feci, fino
a immobilizzarsi alla fine nella posizione fetale (quella in cui fu trovato il cadavere di Artaud). Da questa
decostruzione del mito di Amleto, la Societas Raffaello Sanzio partirà per altre operazioni di smontaggio
provocatorie ed estreme, continuando a portare in scena ciò che la scena tende a rifiutare.
1995: gli Amleti dei maestri
(Peter Brook, Robert Wilson, Robert Lepage, Eugenio Barba e ancora Carmelo Bene)
Ancora una volta, numerosi maestri della scena decidono contemporaneamente di affrontrare Amleto. Anzi, Peter
Brook decide di misurarsi sia con il testo di Shakespeare sia con i grandi pionieri della storia del teatro: Qui est la è
un montaggio di citazioni da Stanislavskij, Meierchol’d, Gordon Craig, Artaud, Brecht, Zeami e di battute
skakespeariane, una riflessione sull’arte del teatro e insieme un mosaico di schegge di possibili messinscene.
Wilson e Lepage, ciascuno a suo modo, scelgono la strada del monodramma, con il regista-attore nei panni del
protagonista. In Hamlet. A Monologue il regista texano usa l’ormai abituale "scrittura di luce" e la raffinatezza
visuale, in uno spazio quasi vuoto dove i suoi gesti assumono un valore grafico: il dramma viene proiettato come in
un sogno, in un denso flashback. In Elseneur il canadese Robert Lepage costruisce un’autentica macchina scenica
che lo inserisce nelle diverse situazioni e gli permette di trasformarsi nei diversi personaggi, grazie all’uso discreto
ma spettacolare delle moderne tecnologie: proiezioni ferme o in movimento, un piano centrale in grado di ruotare
su se stesso in tutti i sensi possibili a mostrare e nascondere, trasformandosi in porta, finestra, quadro, tomba.
L’anno successivo un altro maestro del teatro contemporaneo, Eugenio Barba, in The Island of Labyrinths, farà
interagire secondo la sua complessa tecnica di montaggio fa interagire il "guerriero" Amleto con altri miti, fiabe e
storie, poesie e canzoni.
1995: l'Oscar del porno all'Amleto di Luca Damiano e Joe D'Amato
Con un anno d'anticipo du Kenneth Branagh, il capolavoro di Shakespeare arriva sul grande schermo grazie a
Damiano (alias Franco Lo Cascio) e D'Amato (alias Aristide Massaccessi, autore nello stesso periodo anche di
adattamenti a luci rosse di Romeo e Giulietta,1995, Otello Furia nera, 1996, e Antonio e Cleopatra, The Love Nights of
Antonio and Cleopatra, 1996), i re dell'hard made in Italy. Chiaramente la pellicola si prende qualche libertà con
l'oroginale: al posto del celebre "Essere o non essere", l'Amleto di Christophe Clarke divaga "Fottere o non
fottere" (anche perché la formosa Ofelia di Sarah Louise Young si concede a tutti ma non a lui). Nel castello di
Balsorano, set del film, la corte danese si concede ogni sorta di amplesso. Con la pellicola girata per l'occasione, i
produttori hanno montato altri quattro film.
1996: il film di Kenneth Branagh
Kenneth Branagh ripercorre le tracce (cinematografiche) di Laurence Olivier: comincia con Henry V nel 1989,
trasformando il sovrano inglese in un fangoso capo-hooligan, e approda inevitabilmente all’Hamlet, dopo una
meditata tappa di avvicinamento. Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995) segue le avventure di una scalcagnata
compagnia di guitti che si ritirano a provare un Hamlet natalizio e parascolastico nel desolato paesino di Hope (che
significa beffardamente Speranza). La pellicola segue con affetto e ironia le peripezie degli attori alle prese con i
personaggi e con i loro problemi esistenziali, le loro velleità e la aspirazioni.
L’anno successivo l’ex ragazzo prodigio della Royal Shakespeare Company trasporta la Elsinore medievale in un
lussuoso palazzo della turbolenta (e nazionalista) Europa ottocentesca. Il suo è un Amleto guascone (con i capelli
biondi come quelli di Olivier), dalla sorprendente ampiezza dei timbri vocali, che però continua a portare con sé la
nostalgia dell’infanzia. Intorno a lui, un cast all stars, sia nei ruoli principali sia in quelli secondari: Julie Christie
(Gertrude), Kate Winslet (Ofelia), Derek Jacobi (Claudio), Michael Maloney (Laerte), Nicholas Farell (Orazio),
Charlton Heston (il capocomico), John Gieguld (Priamo), Judy Dench (Ecuba), Billy Crystal (il primo becchino),
Robin Williams (Osric), Jack Lemmon (Marcello), Gérard Depardieu (Rainaldo), Richard Attenborough
(l’ambasciatore inglese). Il successo del film (insieme a quello del Romeo e Giulietta di Luhrmann) fa
immediatamente salire quotazioni di Shakespeare come sceneggiatore.
1997: l’Hamletas di Eimuntas Nekrosius
Quella del lituano Eimuntas Nekrosius non è una regia nel senso tradizionale del termine, non mira a svelare
inedite chiavi di lettura. Per lui il testo è una molla che fa germinare immagini toccanti e insolite, che riflettono un
immaginario sorprendente e ricco. Lo spettacolo in apparenza sembra procedere per illuminazioni o associazioni
improvvise e gratuite, per scosse e folgorazioni, e solo alla fine si scopre che quei segni compongono una partitura
di grande coerenza e assoluto rigore fatta di suoni, movimenti, oggetti, immagini, costumi e parole. Amleto non è
un attore, ma un cantante rock, Andrius Mamontovas, che ha la capigliatura e la gestualità dei punk, adolescente
ferito e già consumato dalla vita. Ofelia è una ragazzina tutta urli e mossette. L’impatto è quello di un incubo
dall’aspetto barbarico ma dalla sensibilità assolutamente contemporanea: la scena è popolata di vecchi arredi e
inquietanti attrezzi da officina. Al centro un enorme blocco di ghiaccio sospeso sul lampadario si scioglie
lentamente. Lo schienale della sedia a dondolo su cui riposa lo spettro del padre (che assume il valore di una
presenza centrale, il perno intorno a cui ruota l’intero spettacolo) prende improvvisamente fuoco. Attraverso
Amleto sospeso tra acqua e fuoco, Nekrosius riesce a dar forma ai propri demoni interiori, così come emergono
dal caos e dalla follia.
1998: Federico Tiezzi a Prato
La domanda che sembra ossessionare il teatro del nostro secolo è sempre la stessa: qual è il modo giusto di
portare in scena l’Amleto? Ma forse non c’è una messinscena esatta, solo una serie di possibilità credibili di allestire
il testo, sembrano suggerire le Scene di Amleto che Federico Tiezzi, leader di una delle compagnie storiche della
ricerca teatrale italiana, I Magazzini, inizia a presentare al Fabbricone di Prato nel 1998, in un progetto pluriennale.
Il regista toscano porta in scena solo alcuni frammenti del capolavoro shakespeariano, ripresi da varie traduzioni:
dalla prima versione italiana, in versi, di Michele Leoni (1814), da quelle più recenti di Gerardo Guerrieri (1963) e
Alessandro Serpieri (1997), e da alcuni limpidissimi frammenti inediti tradotti dal poeta Mario Luzi. La regia spazia
per frammenti da un campo guerrigliero-terroristico a un raffinato estetismo (ispirato alla storica messinscena di
Gordon Craig e Stanislavskij nel 1911), da un realismo d’ambientazione contadina alla distanza ironica
dell’intellettuale che rilegge la propria avventura. Sono tutte letture legittime, credibili ed efficaci del testo.
Ciascuna di esse potrebbe sostenere per intero uno spettacolo. Questo decostruzionismo tipicamente postmoderno sembra svuotare di senso ogni pretesa autoritaria della regia (che vorrebbe imporre al testo la propria
interpretazione), e al tempo stesso sembra invocarla.
1999: gli Oscar a Shakespeare in Love
L’ambiente è quello del teatro elisabettiano, tra impresari senza scrupoli, compagnie rivali, prepotenze del Master
of the Revels, potere assoluto della regina. La vicenda non ha alcuna base storica, ma è congegnata con abilità e
ironia dagli sceneggiatori Marc Norman e Tom Stoppard: uno Shakespeare in crisi creativa (Joseph Fiennes) ritrova
l’ispirazione grazie all’amore con la nobildonna appassionata di teatro Viola de Lesseps (Gwineth Paltrow). Il loro
amore non ha futuro (lei è costretta a sposare il nobile Wessex e a partire per il Nuovo Mondo), ma finché dura
l’appassionato William scrive un capolavoro come Romeo and Juliet, conquista il favore del pubblico e dimostra alla
regina e a tutti i suoi sudditi che un poeta può raccontare l’amore così come è nella realtà. Il film diretto da John
Madden è un travolgente successo internazionale, dimostra che il linguaggio e il mondo elisabettiani non
spaventano il pubblico, anzi, e vince ben 7 premi Oscar, tra cui quello per miglior film, miglior attrice, migliore
attrice non protagonista (Judi Dench, nei panni della regina Elisabetta).
Shakespeare in Love non è peraltro un titolo originale: l’aveva già utilizzato il drammaturgo (nonché avvocato) di
Philadelphia Richard Penn Smith (1799-1854) in un testo dai toni melodrammatici.
copyright Oliviero Ponte di Pino e Garzanti Libri s.p.a., 2000