La pratica di portare il burqa davanti al parlamento francese: atto primo (una cronaca) di D. Ferrari 1. Il principio di laicità in Francia: dalla Dichiarazione del 1789 alla legge sul velo islamico. Nell’esperienza francese, il principio di laicità ha vissuto varie fasi di sviluppo, espressioni di alcuni dei passaggi fondamentali della storia d’Oltralpe. A tal proposito, sono state individuate tre principali momenti di caratterizzazione di tale nozione. Il suo primo fondamento ideologico compare nell’ordinamento francese, con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che, all’articolo 3, afferma in modo totale la sovranità della Nazione, di cui sarebbe diretta emanazione quella dello Stato. Già in questa enunciazione, troviamo il segno di quel conflitto fra Stato e Chiesa che avrebbe attraversato la società francese per tutto l’ottocento. A fronte, infatti, di una religione tradizionale, per i più compromessa irrimediabilmente con l’ancien regime, si faceva spazio un credo civile, nato dall’incontro fra gli ideali rivoluzionari di libertà e uguaglianza, che, in questa fase, andavano disegnando una nuova idea di laicità, intesa anche come ostilità aperta verso la religione in genere, e il Cattolicesimo, in particolare. L’affermazione della laicità in senso giuridico sarebbe avvenuta poco più tardi, tentando una mediazione fra posizioni opposte. Conferma di questo tentativo furono alcune leggi, come quelle “Ferry”, tra cui particolare rilievo ebbe la legge che, nel 1882, soppresse l’insegnamento religioso dalle pubbliche scuole, sostituendovi l’istruzione morale e civica. Quindi, assistiamo ad una prima affermazione del rilievo che assume la libertà di coscienza degli alunni, attraverso l’affermazione di una scuola laica. Con la legge del 1905, si introdusse il principio della separazione tra Stato e confessioni religiose, che, ancora oggi, costituisce il fondamento del regime giuridico della laicità francese. Tale legge tradusse quello spirito interventista e attivista dello Stato, che si ritrovava già nella Dichiarazione del 1789, in un’ottica di limitazione e delimitazione del fenomeno confessionale a tutela dell’identità dello Stato laico (siffatta tendenza riemergerà, molto tempo dopo, nella legge che vieta l’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici). Con la Costituzione del 1946, l’espressione Stato laico faceva, per la prima volta, il suo ingresso formale nell’ordinamento francese, proclamandosi, all’articolo 1, che la Repubblica francese era una Repubblica laica. Anche il Preambolo instaurava un significativo nesso con tale principio, là dove si affermava la gratuità e la laicità della scuola pubblica. Questi riferimenti espressi confermavano, peraltro, un processo di profondo cambiamento della nozione di laicità, non più arma dello Stato per comprimere il fenomeno religioso, ma impegno da parte del medesimo a garantire la libertà di coscienza di tutti i consociati, pur rimanendosi in un’ottica di separazione fra sfera pubblica e sfera confessionale. La Costituzione del 4 ottobre 1958, richiama, anch’essa, direttamente tale categoria all’articolo 2, nel quale si esprime un’ulteriore configurazione di tale principio, che non appare più soltanto un postulato ideologico, teso a segnare le distanze fra Stato e Chiesa, ma si riempie di un più “mite” contenuto di neutralità, di rispetto e di non discriminazione nei confronti dei rivolgimenti interiori di tutti i consociati. Tuttavia, il grande limite di tale separazione garantista fra Stato e Chiesa sarebbe quello di costituire un freno alla libertà religiosa, almeno nella misura in cui pretenderebbe di dare riconoscimento alle istanze dei cittadini e di gruppi sociali, in materia confessionale, in termini di stretta uniformità ed omogeneità, rispetto alle altre manifestazioni della libertà di pensiero, circoscrivendo la rilevanza di tale fattore in nome di parametri estranei alla stessa esperienza spirituale e rispondenti, piuttosto, a criteri sociologici. Comunque sia, col trascorrere degli anni, lo Stato-comunità francese è pervenuto ad esprimere nuove identità, frutto di quei fenomeni globali che vedono l’arrivo di popoli portatori di nuovi contenuti culturali, ponendo ulteriori interrogativi e la conseguente ricerca di moduli di convivenza differenziati. Proprio alla luce di tali vicende, per cui, tra l’altro, l’Islam è divenuta la seconda religione francese per numero di fedeli, si può interpretare la legge n. 228/2004, maggiormente nota, come “legge sul velo islamico”, ma che, in realtà, vieta indiscriminatamente l’esposizione o la manifestazione di simboli religiosi o di tenute manifestanti un’appartenenza religiosa nelle scuole, collegi e licei pubblici. Uno dei processi che ha determinato l’esigenza di approdare ad un testo legislativo “forte”, si manifesta, infatti, quando l’Islam inizia ad esprimere, in una società frammentata e problematica come quella francese, un valore aggiunto di difficile elaborazione. In particolare, ormai immemore dei conflitti fra Stato e religione, la Francia si trova davanti ad un paradigma antropologico e culturale indenne dai contraccolpi della modernità, ancora portatore di quei caratteri, ai quali le religioni occidentali, sottoposte alle sfide dei tempi, avevano dovuto in tutto o in parte rinunciare. Lontano, infatti, dagli orizzonti democratici e di libertà individuale dell’esperienza occidentale, l’Islam sembra avere tutte le carte in regola per essere il nuovo destabilizzatore dell’equilibrio maturato fra Stato francese e Cristianesimo. Le due conseguenze più importanti dell’inculturazione dell’Islam in Europa sono, del resto, rappresentate dalla centralità dell’individuo fedele, e dalla progressiva trasformazione in “discorso razionalmente comprensibile” del contenuto etico e politico del suo messaggio. Espressione, però, della difficoltà, per una certa classe politica e intellettuale, di comprendere ragionevolmente il messaggio islamico è tutto il dibattito scatenato dal foulard islamico. Si pensi alle numerose decisioni con le quali le autorità scolastiche hanno allontanato dalle scuole pubbliche studentesse musulmane, perché indossavano il velo. Tutto questo, forse, accade dal momento che lo Stato francese, avendo un ordinamento ispirato al costituzionalismo liberaldemocratico, ha costruito un modello repubblicano basato sul mito dell’integrazione dell’individuo cittadino nella nazione, e, di conseguenza, si sente minacciato da un’idea alternativa di comunità, come è quella espressa dall’Islam. Davanti a questa sensazione di minaccia, occorre chiedersi se, tenendo conto che ci troviamo nella culla dei diritti inviolabili dell’uomo di rivoluzionaria memoria, una risposta repressiva rischierebbe di apparire irragionevole e lesiva dei valori fondanti dell’ordinamento francese. Infatti, com’è convinzione abbastanza diffusa, la percezione della violazione dei diritti supererebbe di gran lunga la soddisfazione per le violazioni effettivamente accertate e punite, mentre, corrispondentemente, eventuali sanzioni infrangerebbero in maniera fatale il principio di uguaglianza, sancendo il privilegio dei soli “autoctoni” con riguardo al potere di incidere sulla cultura e sugli spazi pubblici, attraverso la manifestazione del loro convincimento religioso. La repressione, per altro verso, potrebbe attuarsi attraverso la determinazione di reati associativi. Tuttavia tali fattispecie delittuose non si adattano facilmente all’obiettivo di sciogliere i gruppi, ritenuti genericamente pericolosi: mentre i così detti reati di opinione risulterebbero troppo infaustamente evocativi perché si possa pensare di farvi sistematico ricorso per impedire la libera circolazione di idee e proclami. La linea meramente repressiva, dunque, perdendosi lungo tanti sentieri quanti sono i casi affrontati, non riuscirebbe a costruire uno schermo capace di contenere le proiezioni del pericolo comunitarista. Si potrebbe individuare, per così dire, una via più morbida, nella quale si sottolinea il processo di secolarizzazione, individuandosi, nell’affrancamento dei giovani dalla loro comunità confessionale un necessario passaggio evolutivo. La scuola, in questo senso, è venuta ad assumere un significato peculiare come simbolo della Repubblica, capace di emancipare ogni singolo individuo. Qui si pone un aspetto specifico della scuola pubblica francese, dal momento che gli studenti vengono definiti liberi di autodeterminarsi in uno spazio che deve essere neutrale, come neutrali devono essere i suoi operatori. Quindi, nel sistema francese, la laicità della scuola pubblica consiste essenzialmente nella neutralità dell’insegnamento, che risulta garantita da una serie di disposizioni che formulano il divieto dell’insegnamento religioso al suo interno. In questo senso, appare importante il Code de l’education, che, all'art. L 2, riconosce la libertà di informazione e di espressione agli studenti dei collegi e dei licei, subordinandola, però, al rispetto del pluralismo, del principio di neutralità e delle attività di insegnamento. Proprio questa disposizione ha manifestato una valenza profondamente ambigua nei confronti di un fenomeno che, come quello del velo islamico, si è molto diffuso nelle scuole pubbliche. Qui lo Stato, infatti, anziché essere coerente con le indicazioni espresse nel Code de l’education, ha ristretto le maglie della laicità, stigmatizzando la manifestazione di simboli identitari, e, conseguentemente, compromettendo la possibilità di sviluppo di un desiderio informato di preferenza critiche. 2. Il legislatore francese di fronte ad un fenomeno nuovo: il burqa. - La scelta di disciplinare il manifestarsi delle diverse libertà religiose e la loro convivenza ha un’ulteriore conferma nell’ordinamento francese, dopo la legge n. 228/2004, nella proposta di legge n.1121, presentata all’Assemblea Nazionale il 23 settembre 2008, dal deputato del gruppo dell'Unione per un movimento popolare, Jacques Myard, rubricata “Invito a lottare contro gli attacchi alla dignità della donna, determinati da certe pratiche religiose”. Già nella presentazione del disegno di legge, viene delineata una definizione del principio di laicità, come garanzia per vivere in pace nel rispetto delle religioni, con un ampio riferimento alla legge n. 228/2004, identificata come un presidio di garanzia per il mantenimento e il rispetto dei valori repubblicani, in un’ottica di serena convivenza tra tutti i consociati, liberati dall’oppressione dei simboli religiosi, e in particolare, per le donne, dal chador, dal quale bisogna distinguere pratiche più estreme, come quella del burqa, che diventa una sorta di barriera che avvolge il corpo della donna, rendendolo invisibile agli occhi degli altri soggetti, e negandone di fatto l’identità A livello di tecnica normativa, il testo presenta una struttura di chiaro stampo penalistico, e , segnatamente, ricorda il reato di mascheramento, così com’è recato, nell’ordinamento italiano, dall’art. 85 del T.U.L.P.S., dal momento che, anche in quest’ultimo caso, il divieto di mascherarsi trae la propria ragion d’essere dall’esigenza di un sicuro ed immediato riconoscimento del soggetto al fine di tutelare l’ordine pubblico. Per vero, la proposta appare, almeno per quanto attiene ai suoi profili sanzionatori, di dubbia legittimità costituzionale, dal momento che, se l’art. 2 della Costituzione dichiara come la Francia sia una Repubblica laica, nel medesimo articolo è contenuta anche la garanzia dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di origine, razza o religione, nel rispetto di tutte le credenze. Ma, leggere una manifestazione religiosa, com’è la pratica di indossare il burqa, unicamente con riferimento ad un’astratta esigenza di tutela dell’ordine pubblico, senza distinguere e qualificare la natura del simbolo religioso, nonché la sua portata oggettiva e soggettiva, rischia di costituire anche una grave discriminazione nei confronti di quegli stessi soggetti che si vorrebbe tutelare, i quali vengono spogliati dallo Stato della loro identità in modo autoritativo, sulla base di una non meglio definita valutazione di pericolosità sociale. A ben vedere, se l’obiettivo del divieto è quello di tutelare la dignità della donna, non parrebbe efficace la soluzione prospettata, dal momento che, pur non essendoci dubbi sul fatto che una donna debba lasciarsi identificare per ragioni di sicurezza, imporle di togliersi il velo integrale nei luoghi pubblici, di fatto verrà percepito come una condanna senza processo dalle donne stesse, con esiti controproducenti, in quanto impedirà a molte di queste di uscire dall’ambiente domestico. Nonostante tutti questi profili problematici, la proposta di legge in questione non è rimasta isolata, trovando conferma in una seconda proposta tesa ad interdire gli abbigliamenti e gli accessori, che permettono di mascherare l’identità di una persona. Il proponente, il deputato Christian Vanneste, del gruppo dell'Unione per un Movimento Popolare, individua le ragioni del divieto di indossare abbigliamenti che impediscano l’identificazione di un soggetto, nell’esigenza di tutelare e garantire la sicurezza pubblica, qualificata come la prima delle libertà pubbliche. A tal proposito, viene richiamato anche il disposto dell’articolo 9 della C.E.D.U., che prevede la possibilità di limitare le libertà di manifestazione religiosa, quando si rendano necessarie misure preordinate, in una società democratica, alla tutela dell’ordine, della sanità, della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il 9 giugno 2009 è stata, poi, presentata all’Assemblea Nazionale una proposta di risoluzione “bipartisan”, tendente a creare una commissione d’inchiesta sulla pratica di portare il burqa o il niqab sul territorio nazionale. Il testo della risoluzione ripercorre la storia del principio di laicità nell’ordinamento francese, dalla Dichiarazione del 1789 fino alla Costituzione del 1958, individuando in tale principio la piattaforma di valori condivisi, che accomunano tutti i membri dello Stato-comunità, a prescindere dalle loro coloriture confessionali, nella dimensione della cittadinanza. Il 23 giugno 2009, attraverso la Conferenza dei Presidenti, si è proceduto, quindi, alla nomina di una Missione d’informazione, avente come obiettivo quello di individuare lo stato dei luoghi in Francia, in cui v’è la pratica di portare il velo integrale, con particolare attenzione alla comprensione delle origini di questo fenomeno, della sua ampiezza e della sua evoluzione. Inoltre, la missione avrebbe dovuto rivolgere la sua attenzione anche alle conseguenze concrete di questa pratica nella vita sociale, così come alla sua compatibilità con i principi della Repubblica francese e, in particolare, con la garanzia della libertà e della dignità delle donne. Con tali propositi, la Commissione avrebbe dato inizio ad un ciclo di audizioni, concluse il 15 dicembre 2009, con la presentazione di proposte conclusive all’Assemblea: 3. L’obiettivo di una legge anti-burqa: tra sofferenze di legittimità e problemi precettivi. - I lavori della Commissione sono spesso tornati, al di là della necessità di inquadrare la pratica oggetto di inchiesta in un’ottica giuridico-sociologica, sulla possibilità di formulare una legge di divieto di indossare il burqa nei luoghi pubblici. Orbene, non pochi interrogativi hanno posto le possibili tecniche redazionali di una legge siffatta, sia con riferimento alla scelta degli strumenti sanzionatori eventualmente apprestati dall’ordinamento, sia in comparazione con leggi simili già esistenti in Francia. Il primo problema da risolvere ha riguardato, dunque, la stessa possibilità per il legislatore di dettare una disciplina con riferimento ai luoghi pubblici, giacché v’è una differenza radicale con le regole che possono essere decretate per disciplinare lo svolgimento dei pubblici servizi come, appunto, la scuola. È evidente, infatti, come il funzionamento dei servizi pubblici possa comportare delle costrizioni, che legittimano l’adozione di regole specifiche, mentre non ritroviamo tali costrizioni nello spazio pubblico, dove le libertà fondamentali sono il principio e la restrizione è l’eccezione. In quest’ottica, il divieto del burqa è parso, infatti, determinare gravi interferenze con l’esercizio di almeno tre diritti fondamentali: - la libertà di religione, dal momento che essa include in sé il diritto di manifestare la propria religione e, quindi, di esprimere anche attraverso l’abbigliamento la propria identità confessionale; - la libertà di opinione e, pertanto, ancora una volta, la libertà di esprimere i propri convincimenti, anche riguardo al comportamento che i consociati vogliono adottare in pubblico; - la libertà di circolazione, dal momento che una legge che impedisca alle donne di camminare con il burqa per la strada potrebbe essere considerata una limitazione alla loro mobilità. Da questo punto di vista, poiché le leggi francesi vivono sotto lo stretto controllo dei giudici, questi ultimi, in applicazione dell’art. 55 della Costituzione della Quinta Repubblica, potrebbero disapplicare una legge anti-burqa, ritenendola contrastante con la superiore norma internazionale: quale, ad esempio, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove questo non dovesse avvenire, la Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbe anche essere chiamata a pronunciarsi direttamente), mentre non può escludersi che, in base alla riforma sul sindacato di costituzionalità, il Consiglio costituzionale, possa essere chiamato - anche prima - a pronunciarsi sui contenuti di una legge antiburqa dalla via a posteriori . Per essere, invece, considerata valido dai giudici, a sommesso parere di chi scrive, il divieto del burqa dovrebbe probabilmente venire incontro a due esigenze. Esso dovrebbe essere giustificato da un obbligo giuridico di pari valore delle norme da cui discendono i diritti che ne sarebbero limitati, vale a dire derivare da una prescrizione costituzionale o europea. Inoltre, la limitazione, nell’economia del giudizio di ragionevolezza in senso stretto, non dovrebbe apparire sproporzionata, chiedendosi, in ultima analisi, se, stante il fatto che la democraticità di un ordinamento è espressa dalla capacità di difesa delle minoranze, sia veramente necessaria una restrizione di tale libertà, o se essa non appaia invece sbilanciata rispetto all’esercizio delle altre libertà. Gli strumenti giuridici, individuati durante i lavori della Missione, utili per esaminare la validità di un eventuale divieto del burqa sono principalmente tre: 1) il principio di laicità, 2) la protezione dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica e 3) la dignità della persona umana e di genere, specificamente delle donne 3.1. La laicità. - Preliminarmente, l’esigenza di laicità, potrebbe giustificare il divieto in questione? Questa strada costituisce, senza dubbio, una tentazione per l’ordinamento, tanto più alla luce delle risposte date in argomento dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, soprattutto nel famoso caso Leyla Şahin v. Turkey. I giudici di Strasburgo, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità del divieto del velo imposto dalla legislazione turca, lo hanno ritenuto accettabile nelle Università, in nome della tutela e dell’affermazione della laicità dello Stato. Tuttavia, tale pronuncia non sembrerebbe tanto utilizzabile in Francia, in quanto, nella sua decisione, la Corte ha insistito molto sulla situazione abbastanza peculiare della Turchia, descrivendola come un paese assediato ed indebolito dalla minaccia islamica, la cui esistenza si affida alle politiche di identità, basate sulla forza della premessa di laicità. E se, nella causa del 2009, Aktas contro Francia, la stessa Corte europea non ha condannato la Francia per il divieto del velo islamico, ma, al contrario, ha ritenuto legittima l’esclusione dalla scuola di una ragazza che aveva rifiutato di togliere il velo durante le ore di ginnastica, ancora una volta la decisione rischia di essere “un falso amico” per i nemici del burqa in strada, proprio perché riguarda il caso di una scuola, nonché soggetti giuridici ritenuti sensibili, rispetto ai quali vi è un dovere specifico di protezione. Conclusivamente, anche alla luce della giurisprudenza sopra nominata, l’esigenza di laicità rappresenta una fondamentale connotazione dello Stato e del suo divenire istituzionale, ma deve essere illuminata dalla libertà di coscienza e, quindi, dal rispetto di tutte le confessioni. Di conseguenza i privati non possono essere soggetti ad un obbligo di laicità, se non quando svolgono funzioni pubbliche, in quanto in quella sede incarnano lo Stato ed hanno un obbligo di neutralità, mentre non si giustificherebbe, a parere di chi scrive, l’imposizione di obblighi a carico di cittadini che non svolgono alcuna funzione pubblica. 3.2. L’ordine pubblico. - Un altro possibile presupposto su cui fondare il divieto in questione potrebbe essere costituito dall’esigenza di tutelare l’ordine pubblico, anche perché l’esibizione della carta d’identità, ai fini di una compiuta identificazione, non sarebbe sufficiente, essendo necessario mostrare anche il viso. Con riferimento a tale profilo. si potrebbe, dunque, evidenziare come abbigliamenti che coprono tutto il corpo possano essere ritenuti pericolosi, non solo perché impediscono l’identificazione della persona, ma anche perché vi è un rischio di occultamento di armi ed esplosivi, come accade in India o in Pakistan ad esempio, dove il burqa è visto con preoccupazione per il rischio di attentati. Un’altra possibile declinazione dell’esigenza di garanzia dell’ordine pubblico, su cui si potrebbe incardinare il divieto del burqa, potrebbe discendere da un obbligo di identificazione aprioristico e continuativo posto a carico di tutti i consociati, tenuti a circolare a viso scoperto. Ma, se non v’è dubbio che un ufficiale di polizia abbia il diritto di chiedere ad una donna in burqa di rivelare la propria identità (e quindi il suo viso) sul campo, diversa è la questione se una immediata identificazione possa essere imposta in generale, al di fuori di qualsiasi applicazione di sicurezza o ordine pubblico. Anche in questo secondo caso non mancano, infatti, i dubbi circa la fondatezza di un tale obbligo, mentre la giurisprudenza attuale del Consiglio costituzionale non individua affatto un obbligo per cittadini a mostrare il loro volto in ogni momento, ad essere riconosciuti ovunque e in tutte le circostanze, fuori, appunto, dai casi in cui un ufficiale di polizia effettua un controllo d'identità. Inoltre ancora una volta ciò potrebbe sembrare discriminatorio, anche se fondato su un’esigenza d’identificazione, dal momento che non dovrebbe riguardare solo il burqa, ma, ad esempio, anche chi indossa un casco integrale o qualsiasi abbigliamento idoneo a travisare. Peraltro, su una simile pretesa a controllare in modo ampio e generale la vita dei consociati, la Corte europea dei diritti dell'uomo potrebbe non essere affatto favorevole, dato che il grado di sfida alla vita privata sarebbe troppo alto, mentre, per quanto riguarda i meccanismi di sorveglianza posti in essere dai privati, non sussisterebbero sufficienti garanzie circa la gestione dei dati sensibili. Anche se va, comunque, rimarcato che, pur essendo lo spazio pubblico il luogo delle libertà costituzionalmente protette, esistono dei limiti, rappresentati, per esempio, da alcuni principi costituzionali, come la dignità della persona umana e l’uguaglianza tra i sessi; tali limiti devono essere comunque valutati in un più ampio arco, di diritti e libertà costituzionalmente sanciti, tra i quali vi è anche, tra l’altro, la libertà di coscienza. Proprio da qui, mi pare consegua il diritto alla differenza per ogni consociato, non ragionevolmente emendabile sulla base di un principio assoluto di uguaglianza e sicurezza, declinato in termini di divieto. Infatti la libertà alla differenza, comporta necessariamente anche la differenza nei diritti e conseguentemente nei limiti che caso per caso l’ordinamento può formulare. Comunque sia, la strada costituzionale per dimostrare la legittimità del divieto appare molto insidiosa, dal momento che libertà e diritti devono andare di pari passo 3.3. La tutela della dignità della donna. - Sembra, infine, opportuno riflettere anche sulla possibilità che provvedimenti che vadano ad interdire l’uso del velo integrale in pubblico possano, anziché tutelare le donne, rinforzarne l’esclusione dal circuito sociale, dal momento che, a parere dei rappresentanti della Ligue des droits de l’Homme, già la legge n. 228/2004, anche se limitatamente agli ambienti scolastici, sembra aver accentuato tale esclusione. Tra l’altro, in un paese come la Francia, dove “in luogo di una religione di Stato, si pone la libertà di coscienza, che può essere esercitata, nel rispetto e nei limiti dei diritti e dei valori dell’ordinamento, sia in pubblico che in privato, difficilmente può apparire ragionevole una censura mirata a colpire una specifica identità confessionale nella sua proiezione pubblica”. Inoltre, è anche vero come alcune donne non siano costrette ad indossare il velo integrale, ma lo rivendichino come simbolo identitario forte, capace di distinguerle dal resto dei consociati. In tale quadro, se l’obiettivo è quello di difendere le vittime di violenze o costrizioni, non sembrerebbe necessaria una legge, come quella anti-burqa, dal momento che già esiste un complesso arsenale legislativo, per promuovere l’uguaglianza tra uomo e donna (la difficoltà è, se mai, nell’applicazione di queste normative, per cui il Parlamento dovrebbe aprire una riflessione per individuare tali difficoltà e superarle). Quindi una buona risposta al velo integrale, non sarebbe un divieto o una prescrizione, ma la promozione dei valori repubblicani. Tuttavia, e la domanda viene quasi spontanea, se, nel sistema valoriale della Quinta Repubblica, trovano posto anche la parità dei sessi e la dignità della persona, proprio alla luce di questi principi si potrebbe costruire e legittimare il divieto? Il principio della dignità della persona umana non è scritto nella Costituzione del 1958, ma il Consiglio costituzionale lo ha senza difficoltà dedotto dal Preambolo della Costituzione del 1946, richiamato da quello della Costituzione del 1958. Il Preambolo del 1946, nell’enunciare dignità e libertà, attribuisce il ruolo di maggiore pregnanza al libero arbitrio: ognuno ha la stessa volontà libera, lo stesso diritto come il suo vicino di governare il proprio corpo ed il suo comportamento in città. Se ci atteniamo a queste ipotesi forti, non dovrebbe esserci nulla che possa giustificare un governo al di fuori dei corpi e delle menti. Al contrario, c'è tutto il bagaglio giuridico necessario per tutelare la libertà di tutti di autodeterminarsi liberamente, nel rispetto della libertà di pari valore degli altri. Sulla scorta di tale valutazione, il giudice costituzionale potrebbe allora non condividere la validità del divieto riguardante il burqa. Infatti, se il cuore della dignità delle donne si realizza esercitando il libero arbitrio, e quindi la libertà, esso potrebbe esprimersi anche attraverso l’uso del burqa. A questo proposito, spesso si afferma però, come le donne che indossano il burqa non siano libere in tale pratica, ma indotte e coartate da meccanismi culturali e sociali. Tale riflessione non cambierebbe tuttavia i termini del problema, in quanto il destino delle democrazie è necessariamente quello di vivere nella finzione del libero arbitrio (si pensi, ad esempio, alle influenze a cui è sottoposto il corpo elettorale quando esercita il diritto di voto, ma questo non incide sulla portata dei loro diritti). La libertà sarebbe quindi una finzione, ma le democrazie raramente intervengono per irreggimentarla, e solo con procedure molto rigorose e garantiste, come nel caso dell’ospedalizzazione involontaria. Quindi, a prescindere dal fatto che le donne in burqa siano o non siano libere, lo Stato non potrebbe decidere per loro, privandole della libertà, e negando in buona misura i principi più importanti di organizzazione della società moderna. L’interrogativo fondamentale sembra, dunque, riferirsi ai limiti che si possono porre alle libertà individuali, in modo tale da giustificare delle misure restrittive, che siano, tra l’altro, anche compatibili con i diritti fondamentali della persona.. Sarà il legislatore in buona sostanza che dovrà scegliere se il divieto avrà carattere generale, cioè colpire qualsiasi ideologia che affermi la disuguaglianza tra gli uomini e le donne, o riguardare solo le ideologie talebane o salafite. 4 Divieti parziali già esistenti: possibili modelli per il divieto di indossare il burqa? L’elemento centrale da valutare rimane, quindi, la fattibilità giuridica di un divieto totale, come sarebbe quello di indossare il burqa in strada, e alla soluzione di tale questione può anche contribuire la messa a fuoco delle caratteristiche giuridiche dei divieti parziali che l’ordinamento francese ha già espresso, per quanto riguarda l’abbigliamento e i simboli religiosi. Così, ad esempio, i funzionari e dipendenti pubblici non possono, nell'esercizio delle loro funzioni, indossare simboli religiosi. Analogamente in base alle decisioni di diversi tribunali, anche i dipendenti delle aziende private possono essere soggetti a vincoli molto forti su questo tema, per motivi di igiene e sicurezza o per la qualità del rapporto con i clienti. Come già ricordato, inoltre, gli studenti nelle scuole sono già soggetti a un divieto, ai sensi della legge 228/2004, che si rivolge direttamente ai minori, in un contesto in cui lo Stato svolge un funzione pubblica di primaria importanza, per la formazione dei futuri cittadini, che devono essere protetti dal rischio di proselitismo. Lo spirito di quest’ultima legge è che lo Stato ha una responsabilità unica nei loro confronti, e appare quindi ragionevole che non si preveda, invece, alcun divieto per gli studenti universitari. Tuttavia, una legge anti-burqa non potrebbe essere giustificata alla luce di tale esigenza, in quanto riguarderebbe anche persone adulte, con una propria capacità di autodeterminarsi, rispetto alle quali lo Stato non ha alcun dovere di protezione educativa. 4.1. Soggetti qualificati, obblighi specifici e burqa: le risposte dell’ordinamento. - La situazione di soggetti sottoposti a particolari obblighi che impongono una immediata e compiuta identificazione non sembra porre particolari problemi; ad esempio, in giurisprudenza, non vi è dubbio che la realizzazione di documenti di identità, in particolare per quanto riguarda le fotografie, sia incompatibile con un indumento che, come il burqa, copra il viso, così come nel caso di un soggetto che indossi un turbante sikh, non vi è dubbio che abbia l'obbligo di farsi fotografare a capo scoperto. Tutti gli obblighi attuali posti a carico dei consociati di rendersi identificabili si fondano però su circostanze di luogo e di tempo qualificate e specifiche. Da questo punto di vista quindi nella normativa vigente, vi è la gestione privata della identificazione delle persone nei posti sotto sorveglianza video. Del resto l’ordinamento francese ha già preso in considerazione, seppure non in termini generali, il fenomeno del burqa, manifestando però sempre una certa difficoltà riguardo la possibilità di inquadrare giuridicamente tale pratica. Comunque, stante la complessità e l’eterogeneità delle normative e della giurisprudenza sul tema dei simboli religiosi, si possono individuare tre differenti qualificazioni ordinamentali con riferimento alla pratica del burqa. In primo luogo, vi è la sentenza già menzionata, che ha negato il riconoscimento della cittadinanza francese ad una marocchina che indossava il velo integrale, anche se non è tanto il velo integrale in sé che ha determinato la decisione, quanto lo stile di vita adottato dall’interessata. Ancora nel settembre 2008, l’Alta autorità di lotta contro le discriminazioni e per l’uguaglianza (HALDE) ha espresso un chiaro giudizio di valore sul velo integrale, affermando come l’uso del burqa porti un significato di sottomissione della donna che supera la sua portata religiosa, integrando potenzialmente un attentato ai valori repubblicani. Una tale formulazione ricorda quella adottata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, in una sentenza del 2001 QUALE??. Con riguardo ad un'insegnante che portava il foulard, la Corte aveva infatti giudicato che il porto del foulard fosse un “segno esterno forte”, “ imposto alle donne per un precetto religioso e difficilmente conciliabile col principio di uguaglianza dei sessi.” In questo senso, si possono rievocare anche talune risposte ministeriali espresse in Parlamento: il Ministro della giustizia, M. Dominique Perben, aveva chiarito nel 2003 che, affinché sia certo il consenso degli sposi durante il matrimonio, il viso deve essere scoperto imperativamente. Al di là di questi casi, si può ritenere, per allargare eventualmente il campo delle soluzioni giuridiche pertinenti, che il velo integrale si inquadri nei “segni o nelle tenute che manifestano un'appartenenza religiosa", come recita il testo della legge del 2004, o in un atto motivato o ispirato da una religione o da una convinzione religiosa. Se si considera integrato il disposto delle legge 228/2004, le conseguenze sono chiare: si pensi in primo luogo, alla sfera specifica dei servizi pubblici, o alla giurisprudenza relative agli ospedali pubblici, così come all'interdizione generale fatta ai funzionari ed agenti pubblici di manifestare le loro convinzioni religiose nell'esercizio delle loro funzioni. 4.2. Libertà di vestire: gli obblighi imposti tra settore pubblico e settore privato. Di particolare rilievo appaiono pure tutte quelle situazioni soggettive in cui le donne affermano il loro diritto a non indossare il velo integrale, esprimendo a livello soggettivo la speculare libertà negativa. La dichiarazione del 1789 fornisce una protezione molto forte al diritto di vestirsi liberamente in Francia. Ne è conferma la recente cancellazione, da parte del giudice amministrativo francese, di un’ordinanza comunale che vietava alle persone di circolare in costume, per le vie di una cittadina, in quanto tale condotta era da considerarsi contraria al buon costume. Il tribunale amministrativo ha invece stabilito che non v’era un motivo sufficiente, per imporre tale divieto. È vero anche, però, che la legge francese ha subito un processo di internazionalizzazione, con la conseguenza che oramai l’ordinamento giuridico interno è sottoposto alla supervisione della legislazione sovranazionale europea, dovendosi confrontare in particolare con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che forniscono ulteriori elementi in materia di diritti fondamentali della persona ed eventuali restrizioni. In tal senso, la libertà di vestire può riferirsi a due diritti garantiti dagli strumenti internazionali: il diritto al rispetto della vita privata - non menzionato nella Dichiarazione interna - e la libertà di espressione religiosa, definita molto accuratamente in sede internazionale come la libertà di manifestare la propria religione, individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, le pratiche e l'osservanza dei riti.. Tale forma di libertà è quindi molto forte e non sembra poter essere derogata da norme eccessivamente restrittive. Le persone che indossano indumenti, possono trovarsi in due diversi ambiti, afferenti rispettivamente la sfera della vita privata o la dimensione pubblica. La privacy è proprio lo spazio in cui il soggetto non entra in rapporti giuridici con terzi, e in ragione dell’assenza di collegamento con gli altri, eventuali restrizioni imposte alla libertà di vestire non possono rispondere ad uno degli obiettivi di interesse generale sollevato dalle convenzioni. L’area degli imperativi di sicurezza pubblica si realizza, dunque, quando una persona lascia la sua vita privata ed instaura dei rapporti giuridici con terzi o con l'autorità pubblica o con soggetti privati, in particolare, nei rapporti contrattuali. Esempi di restrizioni giustificate da esigenze di abbigliamento del genere non mancano. Si consideri, in primo luogo, il caso di un contratto il cui scopo impone delle limitazioni nell’abbigliamento, tese a tutelare i diritti di terzi. Ad esempio, il diritto del lavoro contiene una disposizione che è direttamente ispirata alle norme di necessità e proporzionalità del diritto comunitario: l'articolo L 1121-1 del Codice del lavoro stabilisce che "nessuno può fare restrizioni che non siano giustificate dalla natura del compito, né proporzionata all'obiettivo perseguito”. Sulla base di questo testo, la Camera sociale della Corte di Cassazione, controlla le restrizioni alla libertà di vestiario che un datore di lavoro può imporre ai suoi dipendenti così che la restrizione deve essere giustificata dalla natura dei compiti e proporzionata al raggiungimento dell'obiettivo, in particolare in termini di sicurezza. Inoltre, la limitazione nel vestire nel rapporto di lavoro deve essere connessa all'esecuzione del compito, escludendosi quindi qualsiasi considerazione in merito alla natura simbolica dell’ abbigliamento. In una decisione del 28 maggio 2003, la Cassazione ha sottolineato che la libertà di vestirsi come si vuole, non rientra nella categoria delle libertà fondamentali. La sicurezza pubblica è un'altra ipotesi di deroga alla libertà di vestirsi, sicché, essenzialmente a causa di vincoli collegati alla sicurezza o all'igiene, le imprese private possono imporre ai loro impiegati delle regole nella scelta del vestiario da indossare durante l’attività lavorativa. Tuttavia, la Suprema Corte francese non è mai stata, fino ad oggi, chiamata a decidere sulla questione di indossare un velo religioso nell'esecuzione di prestazioni di lavoro, e questo dimostra l'esiguità del contenzioso su questo punto. 5 .Burqa e corti: la giurisprudenza tra Francia ed Europa. - Le soluzioni apprestate sono state, peraltro, solo eccezionalmente legislative e invece in larga misura giurisprudenziali, talvolta con il ricorso anche a strumenti di natura molto varia e giuridicamente non costrittivi, come raccomandazioni, codici di buona condotta o carte. Il fatto che si tratti principalmente di un diritto giurisprudenziale non è sorprendente, ma ha la sua importanza perché il giudice, fatta eccezione per quello costituzionale, statuisce prendendo in considerazione la situazione specifica che gli viene sottoposta, ed è questo il motivo per cui certe giurisprudenze possono sembrare contraddittorie. Del resto il fatto che il diritto sia concretamente parcellare e formalmente eterogeneo non ne impedisce la sua sostanziale coerenza. 5.1. Le risposte dei giudici francesi alle problematiche poste dal burqa. - Tentando una breve rassegna, non di poco momento appare anzi tutto la sentenza del Consiglio di Stato, Morsang-surOrge, il famoso caso noto come "nano-lancio". In questa sentenza la Corte ha delineato una concezione della dignità della comunità umana, secondo cui è lo Stato a dire come la gente dovrebbe comportarsi con il proprio corpo. Se si sviluppa tale concezione, non sarebbe assolutamente inconcepibile affermare che una donna nascosta in un burqa degradi la propria dignità, autodeterminandosi in modo del tutto contrario al patrimonio di diritti e libertà che l’ordinamento le mette a disposizione. Tuttavia questa impostazione "paternalistica" , in cui lo Stato si riconosce il diritto di sostituirsi ai consociati, al fine di declinare per loro la dignità, indicando ciò che è bene e ciò che è male, non appare né desiderabile né coerente con i principi dell’ordinamento francese, ma anzi riecheggia quasi una visione di quello Stato etico, propria delle esperienze totalitarie del Novecento. Conferma di tali perplessità è anche il fatto che solo il Consiglio di Stato francese ha realmente sostenuto questo orientamento. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha, infatti, assunto una nuova posizione, dopo una sentenza nella quale si era mossa nella stessa direzione. Nel caso Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito, la Corte aveva avvallato la legittimità del riconoscimento della penale responsabilità degli imputati , dal momento che gli stessi avevano posto in essere un attacco alla loro dignità. Tuttavia, dopo questa pronuncia, l’orientamento è radicalmente mutato, come dimostra la sentenza KA e AD c. Belgio. Il ragionamento fatto in questo caso è l'opposto del precedente. Infatti ciò che rileva e merita la protezione della legge, nello spirito attuale della Corte, è l'autonomia della donna, la sua volontà e, quindi, anche, ad esempio, la sua libertà di accettare percosse. In questa prospettiva ricostruttiva, la dignità non è messa in campo, quello che conta è il libero arbitrio. Ne consegue, che alla luce di tale interpretazione, non abbiamo più gli stessi strumenti legali per impedire a una donna di indossare il burqa se vuole. Anzi è piuttosto il contrario: se è la volontà della persona che conta, e in quanto tale la dimensione dell’autodeterminazione merita tutela, diventa molto difficile impedire la scelta di determinati abbigliamenti, se tale è la volontà del soggetto. Pertanto sembrerebbe azzardato, o per lo meno imprudente concludere che il principio della dignità della persona umana possa fondare unilateralmente un divieto di indossare il burqa. Se mai, la costrizione di indossare un abito potrebbe integrare di per sè una violenza psichica punita dalla legge in modo del tutto autonomo da eventuali violenze fisiche o minacce. Tra l’altro, la legge penale francese prevede anche una specifica aggravante, se tali condotte sono poste in essere dal marito. Un esame della giurisprudenza mostra che i giudici sono molto sensibili a questo tipo di azione penale: analogamente, sul versante civile, l'esame della giurisprudenza francese permette di individuare molte pronunce nelle quali i giudici hanno dovuto affrontare difficili situazioni familiari, in cui si contrapponevano mariti o padri, che volevano imporre il velo alle proprie mogli e figlie. Questo, tra l’altro, integra un motivo di divorzio o il divieto di affidamento o di visita. Ad esempio, la Prima sezione civile della Suprema Corte ha affermato, in una sentenza del 24 ottobre 2000, che non viola la libertà di religione, sancita dall'articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la sentenza della Corte d'Appello che, in nome dell’interesse del minore, aveva sospeso il diritto di visita e di coabitazione di un padre verso le sue figlie, basandosi sulle pressioni morali e psicologiche che il padre esercitava sulle giovani figlie, tra cui l’obbligo di indossare il velo islamico ed il divieto di nuoto nelle piscine pubbliche. Vi è un'altra decisione, che non afferisce all'uso del velo integrale, ma è indicativa della difficoltà di valutazione in materia penale, dei simboli religiosi: una rivista aveva pubblicato un articolo che riportava l'intervista fatta ad un imam, in cui si affermava che il Corano permette all’ uomo di colpire la moglie adultera. Ebbene, con ordinanza del 6 febbraio 2007, la Sezione penale della Corte di cassazione ha ritenuto che essa aveva provocato intenzionalmente i reati di violenza su base volontaria. 5.2. Simboli religiosi e Corti europee. - Un altro orizzonte che deve essere assolutamente esplorato riguarda i rapporti tra una eventuale legge di divieto di indossare il burqa, e le già ricordate Carte dei diritti europee: pensiamo specialmente all’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Da questo punto di vista, anche la giurisprudenza europea può fornire, ancora qualche indicazione su potenziali scenari giurisdizionali futuri. In un caso molto eloquente, Cons Kokkinakis Grecia, 25 Maggio 1993, la Corte di Strasburgo ha statuito che la dimensione religiosa della libertà, garantita dall'articolo 9 CEDU, è tra gli elementi essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso, risorsa per atei, agnostici e scettici. Vi è quindi l’affermazione di un pluralismo ottenuto con fatica nel corso dei secoli. La libertà religiosa è quindi estremamente forte. Ma a tale libertà si contrappone il principio della laicità, non sancito formalmente dalla Convenzione, ma ricavabile da una serie di sentenze. In Francia, in Svizzera ed in Turchia, la laicità è un principio costituzionale, fondativo dei rispettivi ordinamenti: pratiche religiose, che si dovessero porre in contrasto con questo principio non sarebbero necessariamente considerate parte della manifestazione della libertà di coscienza e potrebbero non beneficiare della protezione del predetto art. 9. Inoltre, quando vi sono questioni che riguardano il rapporto tra Stato e religione, particolare importanza assumono le soluzioni apprestate a livello nazionale, capaci di registrare le peculiarità dei diversi sistemi sociali, e questo soprattutto quando si tratta di regolamentare l'uso di simboli religiosi nelle scuole. Anche se non vi è giurisprudenza copiosa sulle istituzioni educative, vi sono state alcune importanti decisioni, in particolare la già citata decisione Leyla Şahin, che ha enunciato i principi fondamentali, poi ripresi in diverse sentenze o decisioni che riguardano la Francia. Di grande interesse appare anche la decisione Phull. In essa, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato che, anche se la religione Sikh costringe i suoi seguaci a portare tutto il tempo il turbante, essi potrebbero essere costretti a rimuoverlo ai fini di un controllo d'identità. Questo viene riaffermato anche nella decisione El Morsli, per controllare l'ingresso in un consolato. Così si può, senza violare il diritto alla libertà di religione, costringere un credente per identificarlo a togliersi il velo o il turbante temporaneamente . E ancora nella decisione Cons c. Regno Unito 12 luglio 1978, la Corte ha stimato che in nome della sicurezza, si potrebbe benissimo chiedere ad un seguace della religione Sikh di togliere il turbante per indossare un casco da motociclista. Inoltre, nel caso Dogru c. Francia, è stato stabilito che il divieto posto a carico di una studentessa del collegio di Flers, di indossare il velo durante le ore di educazione fisica, non integrava una violazione dell’art. 9 della Convenzione, in quanto la studentessa, rifiutando di indossare tenute idonee, era venuta meno ai suoi doveri scolastici, primo fra tutti quello di frequentare i corsi. La Corte ha motivato tale decisione nel merito senza rinvio alcuno alla legge n. 228/2004, ma richiamando quella del 9 dicembre 1905 sulla separazione tra lo Stato e la Chiesa, il preambolo della costituzione del 1946, l’articolo 10 della legge n. 89-486 del 1989, di orientamento sull’educazione, nonché il parere del Consiglio di Stato n. 346.893 del 1989, sulla compatibilità tra spazio scolastico e simboli religiosi. La valutazione giuridica riguardante il velo, inoltre, si può basare anche su un pericolo di discriminazione tra uomini e donne, con conseguente passaggio dalla dimensione della laicità a quella della dignità. Sebbene la Convenzione europea dei diritti dell'uomo non utilizzi la parola “dignità”, è stata la giurisprudenza della Corte a sviluppare tale categoria a livello interpretativo giurisprudenziale. Così, per affermare e rafforzare i diritti delle donne, nelle sentenze C.R. e S. W. c. Regno Unito,22 novembre 1995, ha ammesso che l'art. 7 CEDU non impedisce l'accusa di violenza sessuale tra coniugi, evidenziando il carattere essenzialmente degradante dello stupro, e, nella medesima occasione, ha affermato che la libertà e la dignità sono i fondamenti della Convenzione. Nella causa Sig. C. contro Bulgaria, sostenendo che ci può essere violenza sessuale, anche in assenza di resistenza fisica, la Corte ha auspicato una nuova definizione del delitto di stupro. Ancora la sentenza Cons Opuz Turchia impone agli Stati di criminalizzare e punire la violenza domestica sulle donne. La tutela delle donne è, dunque, al centro della giurisprudenza della Corte, in particolare il concetto di dignità. Un importante collegamento viene posto in essere dalla Corte tra secolarismo e tutela delle donne, nel famoso caso Refah Partisi contro Turchia, che ha riguardato la messa al bando di un partito. La Corte ha ritenuto che lo scioglimento sia conforme alla Convenzione, essendo quest’ultima assolutamente incompatibile con la Sharia, la quale riserva una posizione inferiore alle donne. Non può, però, infine, nemmeno trascurarsi la circostanza che molte donne, che indossano il velo integrale, dicono di farlo volontariamente. Nella causa Leyla Şahin/Türken la ricorrente aveva spiegato piuttosto chiaramente come il divieto di indossare il velo all’università integrasse una lesione della propria autonomia personale. 6. Il rapporto conclusivo della missione: la proposta di una risoluzione parlamentare. - Il 26 gennaio 2010, la Missione parlamentare d’informazione, nella persona del suo Presidente M. Andre Gerin, ha rassegnato le proprie conclusioni alla Conferenza dei presidenti dell’Assemblea nazionale, evidenziando la procedura seguita dalla Missione nelle audizioni, al fine di valorizzare l’impostazione di partecipazione diretta dei diversi rappresentanti dello Stato comunità ai lavori. La commissione ha condotto un dibattito pubblico, al cui termine è stato licenziato un esteso rapporto, in cui si conclude affermandosi la contrarietà del burqa ai valori della Repubblica francese, in quanto forma di riduzione in schiavitù per le donne. Questa conclusione è però accompagnata anche dalla consapevolezza della scarsa efficacia e della dubbia legittimità costituzionale di un divieto generale, corazzato dallo strumento penale e immesso nell’ordinamento attraverso una legge, apparendo sia giuridicamente sia politicamente più opportuna una risoluzione che, promanando solo dall’organo parlamentare, darà ragione di quel complesso lavoro di partecipazione popolare che ha caratterizzato i lavori della missione, rinunciando peraltro ad un’ipotesi di divieto nell’ambizioso terreno del luogo pubblico, e questo per rientrare nel più rassicurante paradigma del servizio pubblico. È per tale ragione che, nel rapporto conclusivo, si propone come strumento capace di dare una risposta tempestiva, l’adozione di una risoluzione, ex art. 34-1 Cost., così come riformato dalla legge organica n. 2009/403 del 15 aprile 2009. La materia sembra, poi, prestarsi particolarmente ad essere fatta oggetto di una risoluzione: ed “il fatto che la prima risoluzione del Parlamento affronti tale questione appare simbolico”, come ha affermato Bertrand Mathieu durante la sua audizione. Sarebbe infatti l'occasione per riaffermare l'impegno del Parlamento in difesa dei principi repubblicani di libertà, uguaglianza e fraternità. Inoltre, una risoluzione che condanni la pratica di indossare il velo integrale e riaffermi i principi fondanti della Repubblica potrebbe probabilmente essere approvata all'unanimità dai membri dell'Assemblea, e di conseguenza avrebbe una certa risonanza. Occorre, tuttavia, dare conto del fatto che forti pressioni si stanno esercitando sul Parlamento francese, perché, ad imitazione del caso belga, provveda a dar vita ad una vera e propria legge per arginare il fenomeno del burqa. L’elemento, quindi, che lascia disorientato l’osservatore esterno è che per il raggiungimento di tale obiettivo, si sia disposti a rinunciare al patrimonio cromosomico di diritti e garanzie fondamentali dell’ordinamento, emendandolo alla luce di una non meglio definita paura per la donna velata. Insomma, vero è che il multiculturalismo reca con sè una innata problematicità, e questo è particolarmente evidente sul piano giuridico, ma sembra abbastanza singolare che in un paese come la Francia, ormai ampiamente secolarizzato, si torni a parlare di laicità, scoprendo un’improvvisa emergenza nella garanzia dei diritti e delle libertà dei consociati, che sarebbero minacciati da pratiche potenzialmente eversive dei valori fondamentali dell’ordinamento. Paradossale sarebbe infatti negare i principi fondamentali al fine di garantirli, dal momento che in tal modo il legislatore negherebbe sè stesso, abbandonando la pregevole abitudine a bilanciamenti specifici, in nome di una limitazione tanto generica quanto lesiva dei diritti e delle libertà delle donne. Da qui la perplessità sull’opportunità di legiferare su una pratica come il porto del velo integrale, anche alla luce dei numerosi dubbi, che si è cercato in precedenza di evidenziare, sulla possibilità di inquadrare giuridicamente tale pratica. Questo rilievo, mi pare, imponga ai membri della Missione di porsi tre domande concernenti rispettivamente la nozione di spazio pubblico, la pratica oggetto di normazione ed i principi in causa. Innanzitutto bisognerà individuare la nozione di spazio pubblico, a partire da una ricognizione delle indicazioni normative presenti nell’ordinamento. Da un punto di vista giuridico si distingue lo spazio pubblico, individuandolo a contraris rispetto a quello privato. La vita privata si riferisce al domicilio, allo spazio chiuso, è distinta, separata, dalla vita pubblica, qualunque sia il suo contesto. Si può immaginare di opporre lo spazio pubblico allo spazio privato, come un orizzonte che, non appartiene in particolare a nessuno. In base a tale paradigma ricostruttivo lo spazio pubblico non sfugge al diritto, ma il diritto ha per oggetto di permettere a ciascuno di godere anche delle stesse libertà, tra cui anche quella di indossare il burqa. Il secondo elemento da valutare è la pratica di portare il velo. Qui ci si trova in una situazione più delicata, dal momento che una pratica siffatta non ha alcuna vocazione ad avere una definizione giuridica, anche se costituita da elementi obiettivi. Comunque il ruolo del diritto, anche in un’ottica definitoria, non è di valutare, in termini positivi o negativi, una religione od un uso religioso, né interpretare le ragioni per cui una religione impone certi obblighi, o certi vestiti. Tutt’al più, essendo il porto del velo integrale, o di altri segni o tenute, un modo di esercitare la libertà di religione, il diritto potrà determinare le condizioni di esercizio di questa libertà. L’auspicio è che il Parlamento riesca a liberare sé stesso dalle pressioni esterne che lo stanno attualmente compulsando, e, riuscendo ad operare un bilanciamento ragionevole e non gerarchico dei principi in gioco, cerchi di dimostrarsi poco emotivo e più etico. Una legge recante un divieto generale infatti, oltre a violare in modo irragionevole il patrimonio cromosomico di diritti e libertà dell’ordinamento francese, non riconoscerebbe alcun ruolo alle donne velate, costrette a spogliarsi del velo integrale, senza poter scegliere. In questo senso si pone la risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa: approvata quasi all’unanimità, il 23 giugno 2010, il cui testo chiarisce come negare il velo, più che favorire il processo di parificazione tra uomo e donna nella cultura islamica, rischierebbe di favorire derive islamofobe e incontrollate. Sul tema, cfr. CAVANA, Interpretazione della laicità, Roma, 1998, 82 ss. A tal proposito, cfr. S. CECCANTI, Una libertà comparata. Libertà religiosa, fondamentalismi e società multietniche, Bologna, 2001, 85 ss. Su tale questione, cfr. F. MEJAN, La laicité de l’Etat en droit positif et en fait, Paris, 1960, 201 ss. In proposito, cfr. specialmente O. RAY, Global muslim. Le radici occidentali del nuovo islam, Milano, 2003. Com’è noto, il “fenomeno” musulmano reca con sé un messaggio totalizzante, che non scinde la sfera privata da quella pubblica, ma, anzi, coglie l’individuo in un’unica cornice confessionale e antropologica, dalla quale tutto, anche lo Stato, quindi, promana. Per dirla in altri termini, la categoria della laicità appare ontologicamente incompatibile con il messaggio di Maometto, in quanto tutto ciò che è nel mondo è voluto da Allah (in merito, cfr. A. PREDIERI, Sharì’a e Costituzione, Bari, 2006, 100. Tutte queste potenziali problematiche sono rimaste sullo sfondo fino a quando le comunità islamiche non hanno iniziato ad assumere una consistenza numerica importante. In particolare, fra i giovani musulmani nati in Francia, si è venuta a determinare una netta separazione fra coloro che abbracciano il pensiero occidentale, ritenendosi individui liberi e negando il ruolo della religione come momento unificante di tutte le dimensioni dell’esistenza, ed altri che invece si sono attaccati con forza al loro paradigma identitario. Questa difficile transizione da un’identità tradizionale e confessionale ad una democratica e libera, o comunque diversa, genera numerose disfunzioni e pone l’Islam davanti alle religioni europee, le quali hanno trovato un posto significativo nelle pieghe dello Stato, diventando religioni civili, cioè portatrici di valori e contenuti, che hanno peso e rilevanza anche nella vita pubblica. Al proposito, cfr. L. PARISOLI, L’affaire del velo islamico. Il cittadino e i limiti della libertà, in Materiali per una storia della cultura giuridica, I, 1996, 189 s. Cfr. S. BELOUCIF, L’islam entre l’individu et le citoyen, in Th. FERENCZI, Religion et politique. Une liaison dangereuse?, Bruxelles, 2003, 151. Sul rapporto tra Islam e occidente, nonché sui mutamenti che tale rapporto ha determinato in senso alle comunità islamiche, si rinvia a B. KHADER, Islam, freno o motore della modernità?, in Pol. Intern., vol. 2, 1994, n.22, 119 ss. In particolare I. BERLIN, Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano, 2000, 26 ss., descrive la possibile deriva della libertà positiva. Con la già citata legge Ferry del 1882, all’insegnamento religioso nella scuola primaria, venne sostituito l’insegnamento di istruzione morale e civile. La stessa legge, comunque, introdusse la possibilità di fruire di un’astensione facoltativa per un giorno di lezione alla settimana, al fine di consentire ai genitori di far impartire l’istruzione religiosa ai propri figli al di fuori degli edifici scolastici. Si è dovuto, però, aspettare un’ordinanza del ministro dell’Educazione nazionale del 12 maggio 1972 per individuare la fissazione del giorno nel quale tale astensione è permessa. Tale ordinanza che, fissava il mercoledì, come giorno per poter seguire gli insegnamenti di carattere confessionale è stata, poi, modificata da un decreto del 1985, che, nell’ambito dell’organizzazione delle attività educative delle scuole materne ed elementari, ha previsto la possibilità, su domanda della maggioranza dei membri del consiglio della scuola, di modificare la ripartizione abituale degli orari, spostando eventualmente l’istruzione religiosa dal mercoledì al sabato. Tale modifica non deve essere ritenuta di scarso rilievo: anzi, per buona parte della dottrina e della società francese, essa esprime una conferma dell’orientamento che il legislatore assume per quanto riguarda gli ambiti pubblici di carattere educativo e formativo, i quali, come detto nel testo, devono essere all’insegna della neutralità. Per quanto riguarda la convivenza tra spazio pubblico e simboli religiosi, cfr. CAVANA, Interpretazione della laicità, cit., 117 ss. Sul tema della laicità in Francia e sulla legge n. 228/2004, cfr., tra gli altri, E . POULAT, Libertè et Laicitè. La guerre des deux France et le principe de la modernitè, Parigi 1987; J.M. COLOMBANI, Francia, i rischi della legge sulla laicità, in Le Monde, 13 dicembre 2003; D. TEGA, Il parlamento francese approva la legge anti-velo, in Quad. Cost., 2, 2004, 389 s.; S. FERRARI, Francia-laicità. Le ragioni del velo, in Il Regno att., 4, 2004, 89; J. HINKE- R. MINERATH- R. SCHMALE- W.ZARYN, L'emergence des Droits de l'Homme en EuropeAnthologie de textes, Conseil de l'Europe, 2000 ( http://www.aede-france.org/DossierDocumentaire-Europe.html). Di grande rilievo sul punto R. DEBRAY, L’enseignement du fait religieux dans l’École laïque, Rapport au ministère de l’Education nationale, 2002,(http://media.education.gouv.fr/file/91/4/5914.pdf). Assemblea nazionale, XIII legislatura, doc. n.1121, Proposition de loi visant à lutter contre les atteintes à la dignité de la femme résultant de certaines pratiques religieuses (http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion1121.asp). Con riferimento a tale pratica, si esprimono gravi preoccupazioni, identificandola come una negazione della personalità della donna, ridotta ad un oggetto davanti a sé e agli occhi degli altri consociati. In tal modo le viene impedito qualsiasi rapporto umano, al di fuori del contesto familiare, disumanizzandola, e integrando in tal modo una grave violazione della dignità umana e dei principi essenziali, su cui si fonda l’ordinamento francese, primo fra tutti la parità tra i sessi. L’articolato disciplina in termini di divieto tutte quelle pratiche religiose e culturali, che prevedono la copertura del viso o del corpo. In particolare l’art. 1 recita testualmente: “Nessuna prescrizione culturale o religiosa può imporre a qualcuno di velarsi il viso sulla pubblica via; tutte le persone che vanno e vengono sul territorio nazionale devono avere il viso scoperto, per permetterne facilmente il riconoscimento o l’identificazione. Il principio menzionato al comma precedente non si applica né ai servizi pubblici in missioni speciali, né a certe attività culturali come il carnevale o le riprese cinematografiche”. Il fatto che sia stato scelto lo strumento penale trova conferma nel regime sanzionatorio, definito all’art. 2. della L. 228/2004 in riferimento alla punizione di tutte quella condotte che violano il dettato dell’art.1, ed in particolare viene previsto l’arresto fino a due mesi e l’ammenda fino a 15,000 euro, con un aggravamento in caso di recidiva, ad un anno di detenzione e 30,000 euro di ammenda. Tale cornice edittale è ampliata dall’articolo 3, che, individuando una condotta di incitamento alla violazione del divieto di cui all’art. 1, prevede la sanzione amministrativa dell’allontanamento dal territorio nazionale, su decisione del Ministro dell’interno o del Prefetto, competente a livello territoriale. Di interesse sul punto, R. HANICOTTE, La dissimulation du visage au regard de l'ordre public,in AJDA, 2010, 417 ss; V. AVENA ROBARDET, Polygamie et allocations familiales, in AJ Famille 2010, 247. Assemblea nazionale, XIII Legislatura, doc. n. 1942, registrato il 29 settembre 2009, Proposition de loi à interdire l’ensemble des vêtements ou accessoires permettant de masquer l’identité d’une personne. (http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion1942.asp). In linea con tale previsione, continua il proponente, la giurisprudenza amministrativa francese, in molti casi, ha vietato l’esibizione dei simboli religiosi, là dove questi integravano una violazione dei beni giuridici sopra menzionati (ad esempio, un motociclista sikh si era visto vietare la possibilità di indossare il turbante mentre guidava la moto, oppure alcune studentesse erano state espulse dagli istituti scolastici, perché si erano rifiutate di togliersi il velo, durante le lezioni di ginnastica). Quindi la stessa valutazione in termini di divieto potrebbe essere formulata in modo generale da una legge che, contemperando le esigenze di ordine pubblico con il diritto alla sicurezza di tutti i cittadini, vada ad espungere dall’orizzonte sociale tutti quegli abbigliamenti che, di fatto impediscono l’identificazione delle persone. Nell’articolato, inoltre, sono individuate le medesime condotte delittuose e sanzioni di cui alla proposta n. 1121. A tal proposito si segnala anche: Assemblea nazionale, XIII legislatura, doc. n.2272, registrato il 28 gennaio 2010 Proposta di risoluzione Gerin-Raoult: nei suoi profili introduttivi la proposta in oggetto richiama quelle sopranominate, (http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion2272.asp). Per hijab si intende il foulard che le donne musulmane appoggiano sul capo e sulle spalle, ma che non copre il resto del corpo e comunque non il volto, come accade invece nel caso del burqa. Assemblea nazionale, XIII Legislatura, doc. n. 1725, registrato il 9 giugno 2009, Proposition de résolution, tendant à la création d’une commission d’enquête sur la pratique du port de la burqa ou du niqab sur la territoire National. Operativamente i lavori della missione si sono tradotti in un articolato ciclo di audizioni, nelle quali sono stati sentiti operatori del diritto, sociologi, esponenti del governo, magistrati e rappresentanti del mondo islamico, al fine di indagare profondamente la pratica in oggetto, e capire la possibilità o meno di vietarla attraverso una legge. In riferimento a tale profilo W. TAMZALI e C. BER, Burqa?, Montpellier, 2010,13 e ss. Audition de M. Rémi Schwartz, Conseiller d’État, rapporteur (http://www.assembleenationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp). Peraltro tale controllo, che non può prescindere dai presupposti indicati dalla Costituzione, ovvero la presenza di un atto internazionale idoneo, ratificato o approvato, e la relativa pubblicazione, ha avuto un’elaborazione giurisprudenziale piuttosto allargata, tanto che nella categoria di atto, vengono fatti rientrare non solo i trattati classici, ma anche le carte dei diritti, e in generale tutto quello che deriva da accordi di natura internazionale (Consiglio Costituzionale, dec. n.77-90 DC). La l. organica n. 2009/403 del 15 aprile 2009, che ha introdotto tale controllo incidentale da parte del Consiglio, enfatizza in modo particolare la garanzia dei diritti, prevedendo che l’eccezione di illegittimità costituzionale possa essere sollevata solo ad istanza di parte, e confermando anche una espansione del sindacato di costituzionalità, in linea con il modello kelseniano. a tal proposito si rinvia a: B. FRANÇOIS, La Constitution Sarkoz, Paris, 2009; O. DUTHEILLET DE LAMOTHE, Contrôle de conventionnalité et contrôle de constitutionnalité en France, rapport presentè à Madrid, 2-4 avril 2009, (http://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil- constitutionnel/root/bank_mm/pdf/Conseil/madrid_odutheillet_avril_2009.pdfhttp://www.conseilconstitutionnel.fr/conseilconstitutionnel/root/bank_mm/pdf/Conseil/madrid_odutheillet_avril_2009.pdf). Sull’avvio della nuova procedura di controllo incidentale, cfr. P. COSTANZO; Decolla in Francia la questione prioritaria di costituzionalità: la Cassazione tenta di sparigliare le carte, ma il Consiglio costituzionale tiene la partita in mano (una cronaca) in Consulta OnLine (http://www.giurcost.org/studi/CostanzoConseil.htm) Decisione del 29 giugno 2004, n. 4774/98, Leyla Sahin c.Turchia. Decisione del 30 giugno 2009 , n. 43563/08, Aktas c. Francia. Sul punto di interesse, D. BOUZAR- L. BOUZAR, La Rèpublique ou la burqa, Paris, 2010, 25 ss. In merito al rapporto tra ordine pubblico e eterogeneità del sistema sociale francese, v. W. TAMZALI e C. BER, Burqa?, cit., 69 e ss. Anche se invocare il rischio terroristico in Francia non convince tanto, così che un divieto imposto a tal fine verrebbe valutato con ogni probabilità sproporzionato e discriminatorio. Del resto, se si volesse evitare qualunque rischio di nascondere armi o esplosivi, dovrebbero essere sottoposti al divieto zaini e valigie e tutto ciò che in generale è idoneo a occultare. Su tale aspetto si rinvia a J. M. PASTOR, Voile intégral : le refus de la République , in Ajda, 2010, p.124. Decisione del 19 gennaio 2006, n. 2005-532 DC; http://www.conseil- constitutionnel.fr/decision/2006/2005-532-dc/decision-n-2005-532-dc-du-19-janvier2006.979.html?version=dossier_complet. Anche il Consiglio di Stato, nell’Étude relative aux possibilités juridiques d’interdiction du port du voile intégral, presentato al Primo ministro il 30 marzo 2010, ricostruisce in termini di estrema problematicità la possibilità giuridica di fondare un divieto generale di indossare il burqa, il cui porto può essere limitato solo in situazioni qualificate da una particolare esigenza di sicurezza e garanzia dell’ordine pubblico; per il testo integrale del rapporto http://www.conseiletat.fr/cde/node.php?articleid=2001. Significativa in questo senso l’alinea 3 del Preambolo del 1946, che ha riaffermato il principio di uguaglianza nella sua proiezione relazionale tra uomini e donne, chiarendo come l’eguaglianza porti con sé una necessaria uguaglianza nei diritti da parte di entrambi i sessi. Sulle sofferenze di legittimità che un interdizione generale di indossare il velo integrale incontrerebbe nell’ordinamento francese, di interesse risultano le osservazioni di R. HANICOTTE, Belphégor ou le fantôme du Palais-Royal .L'avis du Conseil d'État sur le voile integra, in La Semaine Juridique Administrations et Collectivités territoriales n° 16, 19 Avril 2010, 2142 ss. Assemblea nazionale, XIII Legislatura, audition PierreDubois, presidente della Ligue des droits de l’Homme, Mme Françoise Dumont vice-presidente e M. Alain Bondeelle (http://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp). Chiaramente tale ricostruzione ha fondamento, nella misura in cui qualifichiamo in termini religiosi, o comunque culturali, tutti quegli abbigliamenti che, oscurando il viso, sarebbero colpiti dal divieto di un’eventuale legge. In quest’ottica sarebbe forse più costruttivo dar corpo ad una laicità positiva, non antireligiosa, capace di favorire il pluralismo, senza la pressione delle religioni. Quindi i contenuti e gli obiettivi di un eventuale disegno di legge dovrebbero riguardare più che il divieto di indossare il burqa in pubblico, un tessuto normativo teso a combattere la violenza sulle donne, sanzionando in tal modo, non le donne come avverrebbe nel primo caso, ma gli autori delle violenze. Tuttavia il Presidente della Lega francese ha espresso la propria perplessità sulla possibilità di favorire un processo di emancipazione delle donne musulmane, attraverso un sistema di divieti imposti autoritativamente dallo Stato. A tal proposito decisivo, non sarebbe l’indossare un abbigliamento determinato o comunque diverso dal burqa, ma l’uguaglianza assoluta di uomini e donne, in quanto il velo integrale cadrà non il giorno che verrà strappato, ma quando tutti i consociati avranno fatto propri quei valori di uguaglianza e tolleranza, tanto cari all’ordinamento francese. Assemblea nazionale, XIII Legislatura, audition de M. Rémi Schwartz, Conseiller d’État, rapporteur (http://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp ). Che recita testualmente “dopo la vittoria riportata da popoli liberi sui regimi che hanno tentato di ridurre in schiavitù e degradare la persona umana”. La filosofia umanista, che si pone alla base di tale dichiarazione è inequivocabile, nell’affermare la dignità di tutti gli uomini di essere liberi, e di non essere dominati e resi schiavi da parte di chiunque, rifiutando qualsiasi provvedimento coercitivo da parte di un altro uomo, in uno scenario di libertà e parità delle volontà e dei consensi. Preambolo, Costituzione, del 4 ottobre 1958, con particolare riferimento al richiamo al preambolo della Costituzione del 1946, come fonte di rango parametrico. Cfr. W. TAMZALI e C. BER, Burqa?, cit., 85 e ss. Da questo punto di vista allo stato attuale del diritto positivo, il divieto generale di indossare il burqa sarebbe estremamente fragile e potrebbe causare più problemi di quanti ne risolva. Tale divieto affermerebbe un preoccupante paternalismo, profondamente contraddittorio, perché sarebbe incapace, sia di difendere la libertà delle donne che desiderano indossare il burqa privandole della libertà di farlo, sia priverebbe gli altri consociati della libertà di scegliere se aderire o meno all’eventuale proselitismo espresso da questi soggetti. Su tali problematiche e sul probabile intervento per la via incidentale del Conseil constitutionell, qualora la legge venisse approvata, di rilievo R. NOGUELLOU, L'interdiction du port du voile integra, in Droit Administratif , 2010, 35 ss. In particolare anche il Consiglio di stato, con la sentenza 286-798/08, negando il riconoscimento della cittadinanza francese ad una donna marocchina, per difetto di assimilazione, ha affermato il principio della parità tra uomini e donne, in termini precettivi. Con riferimento ad esse, bisognerebbe anche stabilire se il fatto di non potere scorgere il viso di una donna, rappresenti una lesione della dignità della persona umana in termini generali, o se specificamente leda la dignità delle donne. Se il bene giuridico da tutelare con una legge fosse la dignità della donna, sarebbe poi opportuno comprendere se in alcuni casi sarà più lesivo per la donna stessa imporle o non imporle di circolare a viso scoperto. Si rinvia a A. LEVADE, Le refus de la République », prologue d'un débat national ? . À propos du rapport de la mission d'information sur la pratique du port du voile intégral sur le territoire National, in La Semaine Juridique Edition Générale n° 6, 8 Février 2010, 142 ss. Legge n.228/2004, del 15 marzo 2004, art.1”E’ inserito nel Codice dell’educazione, dopo l’articolo L. 141-5, un articolo L. 141-5-1, così formulato: Art. L. 141-5-1- E’ vietato, nelle scuole, nei collegi e licei pubblici portare segni o abiti mediante i quali gli allievi manifestino in modo ostensibile un’appartenenza religiosa. Il regolamento interno ricorda che l’attuazione di una procedura disciplinare è preceduta da un dialogo con l’allievo”. Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 14 octobre 2009, audition de Mr. Denys de Bèchillon, (http://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910008.asp). Ad esempio l’accedere ad una banca o ad una stazione di servizio, o ancora la partecipazione ad una manifestazione di piazza, che imponga ai soggetti di non essere travisati. Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 18 novembre 2009, audition de Anne Levade (http://www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i1262.asp). Di interesse sul punto J. BOUGRAB, Discrimination, in La Semaine Juridique Edition Générale n° 17, 26 Avril 2010, 462 ss. Precipitato evidente di questa impostazione è la Carta della laicità nei servizi pubblici del 13 aprile 2007. Pur non avendo alcun valore giuridico tale carta, fortemente voluta dal primo ministro Dominique de Villepin, rappresenta una piccola guida per far convivere pacificamente chi crede in religioni diverse. Essa viene affissa negli ospedali, nelle prigioni, nelle caserme, ma anche in altri luoghi pubblici. La libertà di vestire è un elemento della libertà stessa, che consiste, secondo quanto enunciato dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, nel “fare tutto ciò che non nuoce ad altri”. La dichiarazione afferma inoltre che “ciò che non è vietato dalla legge non può essere vietato”. Ne consegue, come i consociati si possano vestire come vogliono, secondo i loro gusti ed in base alle loro convinzioni religiose. La questione del velo integrale che riguarda da tempo lo stato francese, già da quando questo era un impero coloniale, è sempre stata non solo tollerata, in virtù della Dichiarazione, ma addirittura protetta. Sui rapporti tra libertà di indossare il velo integrale e limiti dettati dall’ordine pubblico si guardi A. ROBERT, Décret n° 2009-724 du 19 juin 2009 relatif à l'incrimination de dissimulation illicite du visage à l'occasion de manifestations sur la voie publique, in Revue de science criminelle, 2009, 882. La Convenzione europea per la salvaguardia, come la Carta dei diritti fondamentali, prevedono restrizioni per rispettare la privacy e la libertà religiosa, le quali possono essere compresse per raggiungere gli obiettivi di interesse generale, quali la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico, la prevenzione della criminalità, la protezione della salute o per rispondere alla tutela dei diritti e delle libertà altrui. Peraltro tali restrizioni devono essere rigorosamente proporzionate all’obiettivo che si intende attuare. Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 9 dicembre 2009, audition de Betrand Louvel, (http://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910017.asp). Code du travail, L. n.2008/67, 21/01/2008, Art.1121: "Nul ne peut apporter aux droits des personnes et aux libertés individuelles et collectives de restrictions qui ne seraient pas justifiées par la nature de la tâche à accomplir ni proportionnées au but recherché”. Cour de cassation, Chambre sociale, arrêt n° 1507, du 28 mai 2003. In particolare dal giugno scorso, è fatto divieto di indossare cappucci in prossimità di eventi. Negli aeroporti, una persona deve sottoporsi ai controlli di sicurezza necessari, pertanto, deve consentire il controllo della sua identità. Ancora, le persone che appaiono davanti ad un'autorità pubblica per eseguire un atto che coinvolge la verifica della loro identità, devono essere a capo scoperto: ad esempio, cerimonie nuziali, operazioni elettorali o giuramenti. La Corte d'appello di Nancy si è rifiutata di far prestare il giuramento da avvocato ad una donna, che era comparsa davanti ad essa velata. Restrizioni inoltre possono essere previste in funzione della verifica di identità da parte della polizia in una indagine o di prevenzione della criminalità. Limitazioni alla libertà di vestire sono previste pure per chi si mette alla guida di un veicolo, sul punto cfr. F. GAUVIN, Un an de droit pénal de la circulation routière, in Droit pénal n° 7, Juillet 2010, 6 ss. Di rilievo sul punto, J.B. BOUET, La « Charte de la laïcité dans les services publics » et les établissements publics de santé : une occasion manquée, in Revue de droit sanitaire et social, 2007, 1023 ss. Conseil d’Etat, décision n° 94-343 e 94-344 DC. In particolare, in nome della protezione della dignità della persona umana, il Consiglio di Stato ha convalidato il divieto, posto dal sindaco di Morsang-sur-Orge, con riguardo ad uno spettacolo , che consisteva appunto nel lancio di un soggetto affetto da nanismo. Bisogna domandarsi inoltre, in un orizzonte di tutela della donna e delle sue libertà, se l’ordinamento francese ha gli strumenti giuridici per proteggere tutte quelle donne che intendono sottrarsi alla pratica culturale di indossare il burqa. Decisione, 19.2.1997, Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito. In particolare, un gruppo di sadomasochisti era stato scoperto dalla polizia scozzese, e i promotori degli incontri erano stati incarcerati e condannati, con altri partecipanti dai giudici britannici, a cinque anni di carcere. Decisione, Ka/ad c. Belgio, del 17 febbraio 2005, riguardante un secondo caso di sadomasochismo, aventi ad oggetto alcune scene videoregistrate, nelle quali un medico e un magistrato torturano la moglie di uno di questi. La donna aveva dichiarato di essere stata consensuale alle sevizie, alle quali si era sottoposta spontaneamente. Tuttavia proprio le scene videoregistrate avevano consentito alla Corte di valutare la realtà e la continuità di questo consenso. Ed è questo l’argomento che la Corte ha utilizzato questa volta. La ragione per cui la corte di strasburgo ha emesso una sentenza di condanna è solo il fatto che il consenso di quest'ultima non era certo, proprio perché la capacità volitiva della stessa si era interrotta a più riprese, dal momento che in più intervalli aveva perso conoscenza. La Corte ha concluso quindi che non vi era alcuna certezza obiettiva che il consenso della donna fosse stato continuativo. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che non vi erano elementi sufficienti, per parlare ragionevolmente di libertà sessuale. In qualche modo l'accordo demarca la linea di separazione tra libertà sessuale e tortura. La stessa giurisprudenza costituzionale (dec. 19 novembre 2009, 593 DC), ha tematizzato la dimensione della dignità come un valore costituzionale fondamentale, in un'ottica di protezione dell’integrità del corpo umano. A Lione, un giovane francese di venti anni, che aveva percosso la sorella di quattordici anni perché si rifiutava di indossare il velo islamico, è stato condannato a quattro mesi di carcere. La Corte d'appello ha riformato la sentenza di primo grado, portando la condanna ad una pena detentiva pari a nove mesi. Dec, 24 ottobre 2000, n. 98-14386, Président M. Lemontey, Rapporteur M. Ancel. Ord, 6 febbraio 2007, n. 05-86495, Président M. Cotte. Decisione, 19 aprile 1993 , n.260/A,. Kokkinakis c. Grecia. Con riferimento a tali profili si guardi anche: S. FERRARI, Integrazione europea e prospettive di evoluzione della disciplina giuridica del fenomeno religioso, pubblicato nel volume a cura di V.TOZZI, Integrazione europea e società multiculturale,Torino, 2000, 132 ss.; F. MARGIOTTA BROGLIO (cur.), Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione europea, in F. MARGIOTTABROGLIO - C. MIRABELLI – F. ONIDA, Religioni e sistemi giuridici. Introduzione al diritto ecclesiastico comparato, Bologna, 2000, 87 ss. Decisione, del 10 novembre 2005, n..4774/98, Leyla Sahin c. Turchia. Decisione, del 11 gennaio 2005, n. 35753/03, Phull v. France. Decisione, del 4 marzo 2008, n.15585/06, El Morsli c. France. Decisione del 4 dicembre 2008, n.27058/05,Dogru c. France. Decisione del 22 novembre 1995, C.R. e S.W. c. Regno Unito,. Decisione del 4 dicembre 2003 M.C. c. Bulgaria. Decisione del 9 giugno 2009, n.33401/02, Opuz c. Turchia. Decisione del 12 maggio 2007 Refah Partisi c. Turchia, che ha riguardato la messa al bando di un partito, i cui membri avevano dichiarato che, una volta al potere, avrebbero costituito la Sharia. Il partito è stato sciolto e taluni suoi membri si sono rivolti alla Corte, lamentando la violazione dell’articolo 11 della Convenzione. Assemblea nazionale, XIII Legislatura, Rapport d’information, documento n.2262, del 26 gennaio 2010. (http://www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i2262.asp). Tuttavia, a fronte di un giudizio così netto, si chiarisce anche l’esigenza di una sfumatura di pedagogia della comprensione, di tolleranza e di sensibilità, al fine di evitare la trappola dello stigma, cercando di comprendere il percorso di queste donne. A tal proposito si segnala quanto detto dal Presidente della Repubblica francese il 22 giugno 2009, sostenendo come il burqa non fosse il benvenuto sul territorio francese, in quanto rinchiude le donne in una sorta di recinto che non le fa dialogare con il mondo esterno. Tali valutazioni, unitamente a profili emersi durante i lavori della commissione parlamentare di studio sulla pratica di indossare il burqa, vengono rafforzate da richiami espressi all’art. 34, 1c. Cost., alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (art IV e X), al preambolo della costituzione francese del 1946, all’art.1 della Cost., alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo, al Patto internazionale sui diritti civili e politici, fino ad arrivare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Innegabile è l’emergere da queste carte di un urlo di libertà, di uguaglianza e di tutela dei diritti fondamentali degli individui anche se a parere dei proponenti il burqa in sé nega questa comunità di diritti, facendo calare il sipario sul volto delle donne, che non hanno più neppure la possibilità di manifestare il proprio viso. Per questo l’assemblea nazionale dovrebbe in linea con le novità apprestate dall’ultima riforma costituzionale, approvare una risoluzione forte, capace di riaffermare i valori posti a fondamento dello statocomunità francese, attraverso la tutela delle donne vittime di violenza e la promozione di una libertà di coscienza calibrata sulla laicità. Invero quanto appena descritto appare un poco contraddittorio, a partire dall’ossimoro contenuto al punto 7 della proposta di risoluzione “Ritiene che la libertà di coscienza può essere esercitato solo in conformità con il principio di laicità”. Infatti dal testo emerge una percezione della laicità piuttosto militante, basata sulla distinzione tra religioni buone e compatibili con la repubblica, e religioni cattive ed in sé pericolose per i valori della convivenza sociale. Sul punto c’è chi ravvisa nell’uso del burqà l’espressione di un’identità culturale incompatibile con l’ordinamento francese e quindi anche con il principio di laicità, in particolare PH. CHRESTIA, La burqua est incompatible avec la nationalité française, in AJDA, 2008, 2013. Insomma non si vuole esprimere apertamente un divieto, ma il senso che se ne può trarre va in questa direzione. Inoltre lo strumento della risoluzione, così come modificato dalla riforma costituzionale, perde l’occasione per essere un momento di affermazione della centralità e dell’indipendenza del parlamento, subendo una sorta di presidentalizzazione, riportando in sostanza sulla scena politica ed istituzionale il pensiero del presidente della Repubblica, circa la pratica del burqa. Conferma questa che la nuova riforma costituzionale, nelle parti già attuative, più che rimodulare la forma di governo, ridimensionando il ruolo del presidente, in realtà forse ne ha solo delimitato meglio i poteri e le modalità di esercizio, lasciandolo per altro, aldilà dell’investitura popolare, assolutamente irresponsabile, anche per gli atti che indirettamente, e questo grazie al rapporto diretto che ora può avere con il parlamento, riesce a sollecitare. La recente disposizione costituzionale afferma che “le assemblee possono votare risoluzioni alle condizioni stabilite dalla legge organica”, aggiungendo che “sono irricevibili e non possono essere iscritte all'ordine del giorno le proposte di risoluzione, di cui il Governo ritenga che la loro adozione o rigetto possa essere di natura tale da mettere in causa la sua responsabilità o che esse contengano ingiunzioni nei suoi confronti.” La scelta della risoluzione si dimostra, del resto, particolarmente agile, dal momento che le proposte non sono sottoposte alla commissione di cui al paragrafo 3 dell'articolo 136 del regolamento dell'Assemblea Nazionale ed il tempo minimo tra la presentazione di una proposta di risoluzione e la sua iscrizione all'ordine del giorno dell'Assemblea Nazionale è di soli sei giorni, ai sensi dell'articolo 5 della legge organica n. 2009 -403, 15 aprile 2009, e comma 5 dell'articolo 136 del regolamento dell'Assemblea (sul punto e più in generale sulla portata della revisione costituzionale del 2008, cfr. P. COSTANZO, La “nuova” Costituzione della Francia, Torino, 2009, 249). Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 25 novembre 2009, (http://www.assembleenationale.fr/13/cr miburqa/09-10/c0910014.asp). Avrebbe inoltre un ruolo di supporto per i funzionari pubblici davanti al fenomeno del velo integrale, che potrebbero “far riferimento a questa risoluzione per giustificare le decisioni quotidiane, che possono essere oggi fonti di contenziosi, in quanto talvolta vengono interpretate come segregazioniste”, come ha sottolineato Jean-Yves Le Bouillonnec, vicesindaco di Cachan. A tal fine, la risoluzione potrebbe essere diffusa nell’ambito dei servizi pubblici attraverso una circolare, dal momento che sarebbe utile al fine di farne valere i contenuti, porla all’attenzione di prefetti, sindaci, direttori e di tutti i soggetti potenzialmente interessati. Il testo della risoluzione potrebbe quindi essere diffuso formalmente nei servizi pubblici, fornendo così una maggiore legittimità alle decisioni dei funzionari pubblici. Il 29 aprile la Camera belga ha approvato un disegno di legge che prevede un'ammenda che va dai 15 ai 25 euro fino ad una settimana di reclusione per chi, in luoghi pubblici, indosserà abiti o copri capi che ne impediranno l'identificazione. L'unica eccezione prevista è per le feste di carnevale ed in generale per gli appuntamenti in maschera. E’ prevedibile che il senato la approverà entro l’estate. Così individuato, sarebbe per sua stessa natura un spazio condiviso, aperto a tutti i consociati, e quindi sarebbe, per vocazione, un orizzonte di libertà, sottoposto all'articolo 4 della Dichiarazione del 1789, secondo la quale questa libertà consiste nel “poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri”. Non ci sarebbero limiti in questo spazio, se non “l’assicurare agli altri membri della società il godimento degli stessi diritti”, e questi limiti potrebbero essere determinati solamente dalla legge, secondo i termini della Dichiarazione o più genericamente dell’ordinamento. Questo ragionamento peraltro permette di giustificare la distinzione fatta, nel diritto pubblico francese, tra spazio pubblico dedicato alla libertà di circolare, il cui inquadramento giuridico si limita alle esigenze di sicurezza, e lo spazio pubblico dedicato ad una servizio pubblico, che permette evidentemente l'esistenza di regole specifiche e ulteriori, finalizzate a garantire lo svolgimento del servizio stesso. Sul punto cfr. J.TRAVARD, Jean Rivero et les lois du service public, AJDA 2010, 987. Ancora si dovrà valutare se apprezzare il porto del velo in modo obiettivo, e quindi come condotta isolata e autonoma, o qualificarla come una forma di manifestazione di un'appartenenza religiosa. La domanda è di non poca importanza, perché un testo di legge che andasse a colpire solo la condotta di coprirsi il volto con determinati abbigliamenti e non con altri, creerebbe a livello applicativo una serie di problemi di carattere discriminatorio, dal momento che si assisterebbe ad una regola giuridica che verrebbe applicata al solo velo integrale. È tuttavia noto come sia nel frattempo decollato nel Parlamento francese il procedimento legislativo tendente all’Interdiction de la dissimulation du visage dans l'espace public (Assemblée nationale - PJ n° 2520 - 19 mai) Resolution, n. 1743/ 2010, Islam, Islamism and Islamophobia in Europe, (il testo integrale della risoluzione si può reperire http://assembly.coe.int/Mainf.asp?link=/Documents/AdoptedText/ta10/ERES1743.htm). su Di particolare rilievo appare il fatto che, mentre in Belgio, Francia, Spagna e Italia si cerca di mettere al bando il velo integrale nei luoghi pubblici, l’Assemblea abbia dichiarato che l’atto di indossare il velo da parte delle donne è spesso percepito come “un simbolo di sottomissione delle donne agli uomini”. Tuttavia, un divieto generalizzato negherebbe alle donne “che lo desiderano per libera scelta” il diritto di coprire il proprio viso.