D. Ferrari, La pratica di portare il burqa davanti al parlamento francese

La pratica di portare il burqa davanti al parlamento francese: atto
primo (una cronaca)
di D. Ferrari
1. Il principio di laicità in Francia: dalla Dichiarazione del 1789 alla legge sul velo islamico. Nell’esperienza francese, il principio di laicità ha vissuto varie fasi di sviluppo, espressioni di alcuni
dei passaggi fondamentali della storia d’Oltralpe. A tal proposito, sono state individuate tre
principali momenti di caratterizzazione di tale nozione. Il suo primo fondamento ideologico
compare nell’ordinamento francese, con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789, che, all’articolo 3, afferma in modo totale la sovranità della Nazione, di cui sarebbe diretta
emanazione quella dello Stato. Già in questa enunciazione, troviamo il segno di quel conflitto fra
Stato e Chiesa che avrebbe attraversato la società francese per tutto l’ottocento. A fronte, infatti, di
una religione tradizionale, per i più compromessa irrimediabilmente con l’ancien regime, si faceva
spazio un credo civile, nato dall’incontro fra gli ideali rivoluzionari di libertà e uguaglianza, che, in
questa fase, andavano disegnando una nuova idea di laicità, intesa anche come ostilità aperta verso
la religione in genere, e il Cattolicesimo, in particolare.
L’affermazione della laicità in senso giuridico sarebbe avvenuta poco più tardi, tentando una
mediazione fra posizioni opposte. Conferma di questo tentativo furono alcune leggi, come quelle
“Ferry”, tra cui particolare rilievo ebbe la legge che, nel 1882, soppresse l’insegnamento religioso
dalle pubbliche scuole, sostituendovi l’istruzione morale e civica. Quindi, assistiamo ad una prima
affermazione del rilievo che assume la libertà di coscienza degli alunni, attraverso l’affermazione di
una scuola laica. Con la legge del 1905, si introdusse il principio della separazione tra Stato e
confessioni religiose, che, ancora oggi, costituisce il fondamento del regime giuridico della laicità
francese. Tale legge tradusse quello spirito interventista e attivista dello Stato, che si ritrovava già
nella Dichiarazione del 1789, in un’ottica di limitazione e delimitazione del fenomeno
confessionale a tutela dell’identità dello Stato laico (siffatta tendenza riemergerà, molto tempo
dopo, nella legge che vieta l’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici).
Con la Costituzione del 1946, l’espressione Stato laico faceva, per la prima volta, il suo ingresso
formale nell’ordinamento francese, proclamandosi, all’articolo 1, che la Repubblica francese era
una Repubblica laica. Anche il Preambolo instaurava un significativo nesso con tale principio, là
dove si affermava la gratuità e la laicità della scuola pubblica. Questi riferimenti espressi
confermavano, peraltro, un processo di profondo cambiamento della nozione di laicità, non più
arma dello Stato per comprimere il fenomeno religioso, ma impegno da parte del medesimo a
garantire la libertà di coscienza di tutti i consociati, pur rimanendosi in un’ottica di separazione fra
sfera pubblica e sfera confessionale.
La Costituzione del 4 ottobre 1958, richiama, anch’essa, direttamente tale categoria all’articolo
2, nel quale si esprime un’ulteriore configurazione di tale principio, che non appare più soltanto un
postulato ideologico, teso a segnare le distanze fra Stato e Chiesa, ma si riempie di un più “mite”
contenuto di neutralità, di rispetto e di non discriminazione nei confronti dei rivolgimenti interiori
di tutti i consociati. Tuttavia, il grande limite di tale separazione garantista fra Stato e Chiesa
sarebbe quello di costituire un freno alla libertà religiosa, almeno nella misura in cui pretenderebbe
di dare riconoscimento alle istanze dei cittadini e di gruppi sociali, in materia confessionale, in
termini di stretta uniformità ed omogeneità, rispetto alle altre manifestazioni della libertà di
pensiero, circoscrivendo la rilevanza di tale fattore in nome di parametri estranei alla stessa
esperienza spirituale e rispondenti, piuttosto, a criteri sociologici.
Comunque sia, col trascorrere degli anni, lo Stato-comunità francese è pervenuto ad esprimere
nuove identità, frutto di quei fenomeni globali che vedono l’arrivo di popoli portatori di nuovi
contenuti culturali, ponendo ulteriori interrogativi e la conseguente ricerca di moduli di convivenza
differenziati. Proprio alla luce di tali vicende, per cui, tra l’altro, l’Islam è divenuta la seconda
religione francese per numero di fedeli, si può interpretare la legge n. 228/2004, maggiormente
nota, come “legge sul velo islamico”, ma che, in realtà, vieta indiscriminatamente l’esposizione o la
manifestazione di simboli religiosi o di tenute manifestanti un’appartenenza religiosa nelle scuole,
collegi e licei pubblici. Uno dei processi che ha determinato l’esigenza di approdare ad un testo
legislativo “forte”, si manifesta, infatti, quando l’Islam inizia ad esprimere, in una società
frammentata e problematica come quella francese, un valore aggiunto di difficile elaborazione. In
particolare, ormai immemore dei conflitti fra Stato e religione, la Francia si trova davanti ad un
paradigma antropologico e culturale indenne dai contraccolpi della modernità, ancora portatore di
quei caratteri, ai quali le religioni occidentali, sottoposte alle sfide dei tempi, avevano dovuto in
tutto o in parte rinunciare. Lontano, infatti, dagli orizzonti democratici e di libertà individuale
dell’esperienza occidentale, l’Islam sembra avere tutte le carte in regola per essere il nuovo
destabilizzatore dell’equilibrio maturato fra Stato francese e Cristianesimo. Le due conseguenze più
importanti dell’inculturazione dell’Islam in Europa sono, del resto, rappresentate dalla centralità
dell’individuo fedele, e dalla progressiva trasformazione in “discorso razionalmente comprensibile”
del contenuto etico e politico del suo messaggio.
Espressione, però, della difficoltà, per una certa classe politica e intellettuale, di comprendere
ragionevolmente il messaggio islamico è tutto il dibattito scatenato dal foulard islamico. Si pensi
alle numerose decisioni con le quali le autorità scolastiche hanno allontanato dalle scuole pubbliche
studentesse musulmane, perché indossavano il velo. Tutto questo, forse, accade dal momento che lo
Stato francese, avendo un ordinamento ispirato al costituzionalismo liberaldemocratico, ha costruito
un modello repubblicano basato sul mito dell’integrazione dell’individuo cittadino nella nazione, e,
di conseguenza, si sente minacciato da un’idea alternativa di comunità, come è quella espressa
dall’Islam.
Davanti a questa sensazione di minaccia, occorre chiedersi se, tenendo conto che ci troviamo
nella culla dei diritti inviolabili dell’uomo di rivoluzionaria memoria, una risposta repressiva
rischierebbe di apparire irragionevole e lesiva dei valori fondanti dell’ordinamento francese. Infatti,
com’è convinzione abbastanza diffusa, la percezione della violazione dei diritti supererebbe di gran
lunga
la
soddisfazione
per
le
violazioni
effettivamente
accertate
e
punite,
mentre,
corrispondentemente, eventuali sanzioni infrangerebbero in maniera fatale il principio di
uguaglianza, sancendo il privilegio dei soli “autoctoni” con riguardo al potere di incidere sulla
cultura e sugli spazi pubblici, attraverso la manifestazione del loro convincimento religioso.
La repressione, per altro verso, potrebbe attuarsi attraverso la determinazione di reati associativi.
Tuttavia tali fattispecie delittuose non si adattano facilmente all’obiettivo di sciogliere i gruppi,
ritenuti genericamente pericolosi: mentre i così detti reati di opinione risulterebbero troppo
infaustamente evocativi perché si possa pensare di farvi sistematico ricorso per impedire la libera
circolazione di idee e proclami. La linea meramente repressiva, dunque, perdendosi lungo tanti
sentieri quanti sono i casi affrontati, non riuscirebbe a costruire uno schermo capace di contenere le
proiezioni del pericolo comunitarista.
Si potrebbe individuare, per così dire, una via più morbida, nella quale si sottolinea il processo di
secolarizzazione, individuandosi, nell’affrancamento dei giovani dalla loro comunità confessionale
un necessario passaggio evolutivo. La scuola, in questo senso, è venuta ad assumere un significato
peculiare come simbolo della Repubblica, capace di emancipare ogni singolo individuo. Qui si pone
un aspetto specifico della scuola pubblica francese, dal momento che gli studenti vengono definiti
liberi di autodeterminarsi in uno spazio che deve essere neutrale, come neutrali devono essere i suoi
operatori. Quindi, nel sistema francese, la laicità della scuola pubblica consiste essenzialmente nella
neutralità dell’insegnamento, che risulta garantita da una serie di disposizioni che formulano il
divieto dell’insegnamento religioso al suo interno.
In questo senso, appare importante il Code de l’education, che, all'art. L 2, riconosce la libertà di
informazione e di espressione agli studenti dei collegi e dei licei, subordinandola, però, al rispetto
del pluralismo, del principio di neutralità e delle attività di insegnamento. Proprio questa
disposizione ha manifestato una valenza profondamente ambigua nei confronti di un fenomeno che,
come quello del velo islamico, si è molto diffuso nelle scuole pubbliche. Qui lo Stato, infatti,
anziché essere coerente con le indicazioni espresse nel Code de l’education, ha ristretto le maglie
della laicità, stigmatizzando la manifestazione di simboli identitari, e, conseguentemente,
compromettendo la possibilità di sviluppo di un desiderio informato di preferenza critiche.
2. Il legislatore francese di fronte ad un fenomeno nuovo: il burqa. - La scelta di disciplinare il
manifestarsi delle diverse libertà religiose e la loro convivenza ha un’ulteriore conferma
nell’ordinamento francese, dopo la legge n. 228/2004, nella proposta di legge n.1121, presentata
all’Assemblea Nazionale il 23 settembre 2008, dal deputato del gruppo dell'Unione per un
movimento popolare, Jacques Myard, rubricata “Invito a lottare contro gli attacchi alla dignità
della donna, determinati da certe pratiche religiose”. Già nella presentazione del disegno di legge,
viene delineata una definizione del principio di laicità, come garanzia per vivere in pace nel rispetto
delle religioni, con un ampio riferimento alla legge n. 228/2004, identificata come un presidio di
garanzia per il mantenimento e il rispetto dei valori repubblicani, in un’ottica di serena convivenza
tra tutti i consociati, liberati dall’oppressione dei simboli religiosi, e in particolare, per le donne, dal
chador, dal quale bisogna distinguere pratiche più estreme, come quella del burqa, che diventa una
sorta di barriera che avvolge il corpo della donna, rendendolo invisibile agli occhi degli altri
soggetti, e negandone di fatto l’identità A livello di tecnica normativa, il testo presenta una struttura
di chiaro stampo penalistico, e , segnatamente, ricorda il reato di mascheramento, così com’è recato,
nell’ordinamento italiano, dall’art. 85 del T.U.L.P.S., dal momento che, anche in quest’ultimo caso,
il divieto di mascherarsi trae la propria ragion d’essere dall’esigenza di un sicuro ed immediato
riconoscimento del soggetto al fine di tutelare l’ordine pubblico.
Per vero, la proposta appare, almeno per quanto attiene ai suoi profili sanzionatori, di dubbia
legittimità costituzionale, dal momento che, se l’art. 2 della Costituzione dichiara come la Francia
sia una Repubblica laica, nel medesimo articolo è contenuta anche la garanzia dell’uguaglianza di
tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di origine, razza o religione, nel rispetto di tutte
le credenze. Ma, leggere una manifestazione religiosa, com’è la pratica di indossare il burqa,
unicamente con riferimento ad un’astratta esigenza di tutela dell’ordine pubblico, senza distinguere
e qualificare la natura del simbolo religioso, nonché la sua portata oggettiva e soggettiva, rischia di
costituire anche una grave discriminazione nei confronti di quegli stessi soggetti che si vorrebbe
tutelare, i quali vengono spogliati dallo Stato della loro identità in modo autoritativo, sulla base di
una non meglio definita valutazione di pericolosità sociale. A ben vedere, se l’obiettivo del divieto è
quello di tutelare la dignità della donna, non parrebbe efficace la soluzione prospettata, dal
momento che, pur non essendoci dubbi sul fatto che una donna debba lasciarsi identificare per
ragioni di sicurezza, imporle di togliersi il velo integrale nei luoghi pubblici, di fatto verrà percepito
come una condanna senza processo dalle donne stesse, con esiti controproducenti, in quanto
impedirà a molte di queste di uscire dall’ambiente domestico.
Nonostante tutti questi profili problematici, la proposta di legge in questione non è rimasta
isolata, trovando conferma in una seconda proposta tesa ad interdire gli abbigliamenti e gli
accessori, che permettono di mascherare l’identità di una persona. Il proponente, il deputato
Christian Vanneste, del gruppo dell'Unione per un Movimento Popolare, individua le ragioni del
divieto di indossare abbigliamenti che impediscano l’identificazione di un soggetto, nell’esigenza di
tutelare e garantire la sicurezza pubblica, qualificata come la prima delle libertà pubbliche. A tal
proposito, viene richiamato anche il disposto dell’articolo 9 della C.E.D.U., che prevede la
possibilità di limitare le libertà di manifestazione religiosa, quando si rendano necessarie misure
preordinate, in una società democratica, alla tutela dell’ordine, della sanità, della morale pubblica, o
alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Il 9 giugno 2009 è stata, poi, presentata all’Assemblea Nazionale una proposta di risoluzione
“bipartisan”, tendente a creare una commissione d’inchiesta sulla pratica di portare il burqa o il
niqab sul territorio nazionale. Il testo della risoluzione ripercorre la storia del principio di laicità
nell’ordinamento francese, dalla Dichiarazione del 1789 fino alla Costituzione del 1958,
individuando in tale principio la piattaforma di valori condivisi, che accomunano tutti i membri
dello Stato-comunità, a prescindere dalle loro coloriture confessionali, nella dimensione della
cittadinanza. Il 23 giugno 2009, attraverso la Conferenza dei Presidenti, si è proceduto, quindi, alla
nomina di una Missione d’informazione, avente come obiettivo quello di individuare lo stato dei
luoghi in Francia, in cui v’è la pratica di portare il velo integrale, con particolare attenzione alla
comprensione delle origini di questo fenomeno, della sua ampiezza e della sua evoluzione. Inoltre,
la missione avrebbe dovuto rivolgere la sua attenzione anche alle conseguenze concrete di questa
pratica nella vita sociale, così come alla sua compatibilità con i principi della Repubblica francese e,
in particolare, con la garanzia della libertà e della dignità delle donne. Con tali propositi, la
Commissione avrebbe dato inizio ad un ciclo di audizioni, concluse il 15 dicembre 2009, con la
presentazione di proposte conclusive all’Assemblea:
3. L’obiettivo di una legge anti-burqa: tra sofferenze di legittimità e problemi precettivi. - I
lavori della Commissione sono spesso tornati, al di là della necessità di inquadrare la pratica oggetto
di inchiesta in un’ottica giuridico-sociologica, sulla possibilità di formulare una legge di divieto di
indossare il burqa nei luoghi pubblici.
Orbene, non pochi interrogativi hanno posto le possibili tecniche redazionali di una legge
siffatta, sia con riferimento alla scelta degli strumenti sanzionatori eventualmente apprestati
dall’ordinamento, sia in comparazione con leggi simili già esistenti in Francia. Il primo problema da
risolvere ha riguardato, dunque, la stessa possibilità per il legislatore di dettare una disciplina con
riferimento ai luoghi pubblici, giacché v’è una differenza radicale con le regole che possono essere
decretate per disciplinare lo svolgimento dei pubblici servizi come, appunto, la scuola. È evidente,
infatti, come il funzionamento dei servizi pubblici possa comportare delle costrizioni, che
legittimano l’adozione di regole specifiche, mentre non ritroviamo tali costrizioni nello spazio
pubblico, dove le libertà fondamentali sono il principio e la restrizione è l’eccezione.
In quest’ottica, il divieto del burqa è parso, infatti, determinare gravi interferenze con l’esercizio
di almeno tre diritti fondamentali:
- la libertà di religione, dal momento che essa include in sé il diritto di manifestare la propria
religione e, quindi, di esprimere anche attraverso l’abbigliamento la propria identità confessionale;
- la libertà di opinione e, pertanto, ancora una volta, la libertà di esprimere i propri
convincimenti, anche riguardo al comportamento che i consociati vogliono adottare in pubblico;
- la libertà di circolazione, dal momento che una legge che impedisca alle donne di camminare
con il burqa per la strada potrebbe essere considerata una limitazione alla loro mobilità.
Da questo punto di vista, poiché le leggi francesi vivono sotto lo stretto controllo dei giudici,
questi ultimi, in applicazione dell’art. 55 della Costituzione della Quinta Repubblica, potrebbero
disapplicare una legge anti-burqa, ritenendola contrastante con la superiore norma internazionale:
quale, ad esempio, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove questo non dovesse avvenire,
la Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbe anche essere chiamata a pronunciarsi direttamente),
mentre non può escludersi che, in base alla riforma sul sindacato di costituzionalità, il Consiglio
costituzionale, possa essere chiamato - anche prima - a pronunciarsi sui contenuti di una legge antiburqa dalla via a posteriori .
Per essere, invece, considerata valido dai giudici, a sommesso parere di chi scrive, il divieto del
burqa dovrebbe probabilmente venire incontro a due esigenze. Esso dovrebbe essere giustificato da
un obbligo giuridico di pari valore delle norme da cui discendono i diritti che ne sarebbero limitati,
vale a dire derivare da una prescrizione costituzionale o europea. Inoltre, la limitazione,
nell’economia del giudizio di ragionevolezza in senso stretto, non dovrebbe apparire
sproporzionata, chiedendosi, in ultima analisi, se, stante il fatto che la democraticità di un
ordinamento è espressa dalla capacità di difesa delle minoranze, sia veramente necessaria una
restrizione di tale libertà, o se essa non appaia invece sbilanciata rispetto all’esercizio delle altre
libertà.
Gli strumenti giuridici, individuati durante i lavori della Missione, utili per esaminare la validità
di un eventuale divieto del burqa sono principalmente tre:
1) il principio di laicità,
2) la protezione dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica e
3) la dignità della persona umana e di genere, specificamente delle donne
3.1. La laicità. - Preliminarmente, l’esigenza di laicità, potrebbe giustificare il divieto in
questione? Questa strada costituisce, senza dubbio, una tentazione per l’ordinamento, tanto più alla
luce delle risposte date in argomento dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, soprattutto nel
famoso caso Leyla Şahin v. Turkey. I giudici di Strasburgo, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità
del divieto del velo imposto dalla legislazione turca, lo hanno ritenuto accettabile nelle Università,
in nome della tutela e dell’affermazione della laicità dello Stato. Tuttavia, tale pronuncia non
sembrerebbe tanto utilizzabile in Francia, in quanto, nella sua decisione, la Corte ha insistito molto
sulla situazione abbastanza peculiare della Turchia, descrivendola come un paese assediato ed
indebolito dalla minaccia islamica, la cui esistenza si affida alle politiche di identità, basate sulla
forza della premessa di laicità. E se, nella causa del 2009, Aktas contro Francia, la stessa Corte
europea non ha condannato la Francia per il divieto del velo islamico, ma, al contrario, ha ritenuto
legittima l’esclusione dalla scuola di una ragazza che aveva rifiutato di togliere il velo durante le ore
di ginnastica, ancora una volta la decisione rischia di essere “un falso amico” per i nemici del burqa
in strada, proprio perché riguarda il caso di una scuola, nonché soggetti giuridici ritenuti sensibili,
rispetto ai quali vi è un dovere specifico di protezione.
Conclusivamente, anche alla luce della giurisprudenza sopra nominata, l’esigenza di laicità
rappresenta una fondamentale connotazione dello Stato e del suo divenire istituzionale, ma deve
essere illuminata dalla libertà di coscienza e, quindi, dal rispetto di tutte le confessioni. Di
conseguenza i privati non possono essere soggetti ad un obbligo di laicità, se non quando svolgono
funzioni pubbliche, in quanto in quella sede incarnano lo Stato ed hanno un obbligo di neutralità,
mentre non si giustificherebbe, a parere di chi scrive, l’imposizione di obblighi a carico di cittadini
che non svolgono alcuna funzione pubblica.
3.2. L’ordine pubblico. - Un altro possibile presupposto su cui fondare il divieto in questione
potrebbe essere costituito dall’esigenza di tutelare l’ordine pubblico, anche perché l’esibizione della
carta d’identità, ai fini di una compiuta identificazione, non sarebbe sufficiente, essendo necessario
mostrare anche il viso.
Con riferimento a tale profilo. si potrebbe, dunque, evidenziare come abbigliamenti che coprono
tutto il corpo possano essere ritenuti pericolosi, non solo perché impediscono l’identificazione della
persona, ma anche perché vi è un rischio di occultamento di armi ed esplosivi, come accade in India
o in Pakistan ad esempio, dove il burqa è visto con preoccupazione per il rischio di attentati.
Un’altra possibile declinazione dell’esigenza di garanzia dell’ordine pubblico, su cui si potrebbe
incardinare il divieto del burqa, potrebbe discendere da un obbligo di identificazione aprioristico e
continuativo posto a carico di tutti i consociati, tenuti a circolare a viso scoperto. Ma, se non v’è
dubbio che un ufficiale di polizia abbia il diritto di chiedere ad una donna in burqa di rivelare la
propria identità (e quindi il suo viso) sul campo, diversa è la questione se una immediata
identificazione possa essere imposta in generale, al di fuori di qualsiasi applicazione di sicurezza o
ordine pubblico. Anche in questo secondo caso non mancano, infatti, i dubbi circa la fondatezza di
un tale obbligo, mentre la giurisprudenza attuale del Consiglio costituzionale non individua affatto
un obbligo per cittadini a mostrare il loro volto in ogni momento, ad essere riconosciuti ovunque e
in tutte le circostanze, fuori, appunto, dai casi in cui un ufficiale di polizia effettua un controllo
d'identità. Inoltre ancora una volta ciò potrebbe sembrare discriminatorio, anche se fondato su
un’esigenza d’identificazione, dal momento che non dovrebbe riguardare solo il burqa, ma, ad
esempio, anche chi indossa un casco integrale o qualsiasi abbigliamento idoneo a travisare.
Peraltro, su una simile pretesa a controllare in modo ampio e generale la vita dei consociati, la
Corte europea dei diritti dell'uomo potrebbe non essere affatto favorevole, dato che il grado di sfida
alla vita privata sarebbe troppo alto, mentre, per quanto riguarda i meccanismi di sorveglianza posti
in essere dai privati, non sussisterebbero sufficienti garanzie circa la gestione dei dati sensibili.
Anche se va, comunque, rimarcato che, pur essendo lo spazio pubblico il luogo delle libertà
costituzionalmente protette, esistono dei limiti, rappresentati, per esempio, da alcuni principi
costituzionali, come la dignità della persona umana e l’uguaglianza tra i sessi; tali limiti devono
essere comunque valutati in un più ampio arco, di diritti e libertà costituzionalmente sanciti, tra i
quali vi è anche, tra l’altro, la libertà di coscienza. Proprio da qui, mi pare consegua il diritto alla
differenza per ogni consociato, non ragionevolmente emendabile sulla base di un principio assoluto
di uguaglianza e sicurezza, declinato in termini di divieto. Infatti la libertà alla differenza, comporta
necessariamente anche la differenza nei diritti e conseguentemente nei limiti che caso per caso
l’ordinamento può formulare.
Comunque sia, la strada costituzionale per dimostrare la legittimità del divieto appare molto
insidiosa, dal momento che libertà e diritti devono andare di pari passo
3.3. La tutela della dignità della donna. - Sembra, infine, opportuno riflettere anche sulla
possibilità che provvedimenti che vadano ad interdire l’uso del velo integrale in pubblico possano,
anziché tutelare le donne, rinforzarne l’esclusione dal circuito sociale, dal momento che, a parere
dei rappresentanti della Ligue des droits de l’Homme, già la legge n. 228/2004, anche se
limitatamente agli ambienti scolastici, sembra aver accentuato tale esclusione. Tra l’altro, in un
paese come la Francia, dove “in luogo di una religione di Stato, si pone la libertà di coscienza, che
può essere esercitata, nel rispetto e nei limiti dei diritti e dei valori dell’ordinamento, sia in
pubblico che in privato, difficilmente può apparire ragionevole una censura mirata a colpire una
specifica identità confessionale nella sua proiezione pubblica”. Inoltre, è anche vero come alcune
donne non siano costrette ad indossare il velo integrale, ma lo rivendichino come simbolo
identitario forte, capace di distinguerle dal resto dei consociati. In tale quadro, se l’obiettivo è quello
di difendere le vittime di violenze o costrizioni, non sembrerebbe necessaria una legge, come quella
anti-burqa, dal momento che già esiste un complesso arsenale legislativo, per promuovere
l’uguaglianza tra uomo e donna (la difficoltà è, se mai, nell’applicazione di queste normative, per
cui il Parlamento dovrebbe aprire una riflessione per individuare tali difficoltà e superarle).
Quindi una buona risposta al velo integrale, non sarebbe un divieto o una prescrizione, ma la
promozione dei valori repubblicani. Tuttavia, e la domanda viene quasi spontanea, se, nel sistema
valoriale della Quinta Repubblica, trovano posto anche la parità dei sessi e la dignità della persona,
proprio alla luce di questi principi si potrebbe costruire e legittimare il divieto?
Il principio della dignità della persona umana non è scritto nella Costituzione del 1958, ma il
Consiglio costituzionale lo ha senza difficoltà dedotto dal Preambolo della Costituzione del 1946,
richiamato da quello della Costituzione del 1958. Il Preambolo del 1946, nell’enunciare dignità e
libertà, attribuisce il ruolo di maggiore pregnanza al libero arbitrio: ognuno ha la stessa volontà
libera, lo stesso diritto come il suo vicino di governare il proprio corpo ed il suo comportamento in
città. Se ci atteniamo a queste ipotesi forti, non dovrebbe esserci nulla che possa giustificare un
governo al di fuori dei corpi e delle menti. Al contrario, c'è tutto il bagaglio giuridico necessario per
tutelare la libertà di tutti di autodeterminarsi liberamente, nel rispetto della libertà di pari valore
degli altri.
Sulla scorta di tale valutazione, il giudice costituzionale potrebbe allora non condividere la
validità del divieto riguardante il burqa. Infatti, se il cuore della dignità delle donne si realizza
esercitando il libero arbitrio, e quindi la libertà, esso potrebbe esprimersi anche attraverso l’uso del
burqa. A questo proposito, spesso si afferma però, come le donne che indossano il burqa non siano
libere in tale pratica, ma indotte e coartate da meccanismi culturali e sociali. Tale riflessione non
cambierebbe tuttavia i termini del problema, in quanto il destino delle democrazie è
necessariamente quello di vivere nella finzione del libero arbitrio (si pensi, ad esempio, alle
influenze a cui è sottoposto il corpo elettorale quando esercita il diritto di voto, ma questo non
incide sulla portata dei loro diritti). La libertà sarebbe quindi una finzione, ma le democrazie
raramente intervengono per irreggimentarla, e solo con procedure molto rigorose e garantiste, come
nel caso dell’ospedalizzazione involontaria. Quindi, a prescindere dal fatto che le donne in burqa
siano o non siano libere, lo Stato non potrebbe decidere per loro, privandole della libertà, e negando
in buona misura i principi più importanti di organizzazione della società moderna.
L’interrogativo fondamentale sembra, dunque, riferirsi ai limiti che si possono porre alle libertà
individuali, in modo tale da giustificare delle misure restrittive, che siano, tra l’altro, anche
compatibili con i diritti fondamentali della persona.. Sarà il legislatore in buona sostanza che dovrà
scegliere se il divieto avrà carattere generale, cioè colpire qualsiasi ideologia che affermi la
disuguaglianza tra gli uomini e le donne, o riguardare solo le ideologie talebane o salafite.
4 Divieti parziali già esistenti: possibili modelli per il divieto di indossare il burqa? L’elemento centrale da valutare rimane, quindi, la fattibilità giuridica di un divieto totale, come
sarebbe quello di indossare il burqa in strada, e alla soluzione di tale questione può anche
contribuire la messa a fuoco delle caratteristiche giuridiche dei divieti parziali che l’ordinamento
francese ha già espresso, per quanto riguarda l’abbigliamento e i simboli religiosi. Così, ad esempio,
i funzionari e dipendenti pubblici non possono, nell'esercizio delle loro funzioni, indossare simboli
religiosi. Analogamente in base alle decisioni di diversi tribunali, anche i dipendenti delle aziende
private possono essere soggetti a vincoli molto forti su questo tema, per motivi di igiene e sicurezza
o per la qualità del rapporto con i clienti. Come già ricordato, inoltre, gli studenti nelle scuole sono
già soggetti a un divieto, ai sensi della legge 228/2004, che si rivolge direttamente ai minori, in un
contesto in cui lo Stato svolge un funzione pubblica di primaria importanza, per la formazione dei
futuri cittadini, che devono essere protetti dal rischio di proselitismo. Lo spirito di quest’ultima
legge è che lo Stato ha una responsabilità unica nei loro confronti, e appare quindi ragionevole che
non si preveda, invece, alcun divieto per gli studenti universitari. Tuttavia, una legge anti-burqa non
potrebbe essere giustificata alla luce di tale esigenza, in quanto riguarderebbe anche persone adulte,
con una propria capacità di autodeterminarsi, rispetto alle quali lo Stato non ha alcun dovere di
protezione educativa.
4.1. Soggetti qualificati, obblighi specifici e burqa: le risposte dell’ordinamento. - La
situazione di soggetti sottoposti a particolari obblighi che impongono una immediata e compiuta
identificazione non sembra porre particolari problemi; ad esempio, in giurisprudenza, non vi è
dubbio che la realizzazione di documenti di identità, in particolare per quanto riguarda le fotografie,
sia incompatibile con un indumento che, come il burqa, copra il viso, così come nel caso di un
soggetto che indossi un turbante sikh, non vi è dubbio che abbia l'obbligo di farsi fotografare a capo
scoperto. Tutti gli obblighi attuali posti a carico dei consociati di rendersi identificabili si fondano
però su circostanze di luogo e di tempo qualificate e specifiche. Da questo punto di vista quindi
nella normativa vigente, vi è la gestione privata della identificazione delle persone nei posti sotto
sorveglianza video. Del resto l’ordinamento francese ha già preso in considerazione, seppure non in
termini generali, il fenomeno del burqa, manifestando però sempre una certa difficoltà riguardo la
possibilità di inquadrare giuridicamente tale pratica. Comunque, stante la complessità e
l’eterogeneità delle normative e della giurisprudenza sul tema dei simboli religiosi, si possono
individuare tre differenti qualificazioni ordinamentali con riferimento alla pratica del burqa.
In primo luogo, vi è la sentenza già menzionata, che ha negato il riconoscimento della
cittadinanza francese ad una marocchina che indossava il velo integrale, anche se non è tanto il velo
integrale in sé che ha determinato la decisione, quanto lo stile di vita adottato dall’interessata.
Ancora nel settembre 2008, l’Alta autorità di lotta contro le discriminazioni e per l’uguaglianza
(HALDE) ha espresso un chiaro giudizio di valore sul velo integrale, affermando come l’uso del
burqa porti un significato di sottomissione della donna che supera la sua portata religiosa,
integrando potenzialmente un attentato ai valori repubblicani. Una tale formulazione ricorda quella
adottata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, in una sentenza del 2001 QUALE??. Con riguardo
ad un'insegnante che portava il foulard, la Corte aveva infatti giudicato che il porto del foulard
fosse un “segno esterno forte”, “ imposto alle donne per un precetto religioso e difficilmente
conciliabile col principio di uguaglianza dei sessi.” In questo senso, si possono rievocare anche
talune risposte ministeriali espresse in Parlamento: il Ministro della giustizia, M. Dominique
Perben, aveva chiarito nel 2003 che, affinché sia certo il consenso degli sposi durante il matrimonio,
il viso deve essere scoperto imperativamente. Al di là di questi casi, si può ritenere, per allargare
eventualmente il campo delle soluzioni giuridiche pertinenti, che il velo integrale si inquadri nei
“segni o nelle tenute che manifestano un'appartenenza religiosa", come recita il testo della legge del
2004, o in un atto motivato o ispirato da una religione o da una convinzione religiosa. Se si
considera integrato il disposto delle legge 228/2004, le conseguenze sono chiare: si pensi in primo
luogo, alla sfera specifica dei servizi pubblici, o alla giurisprudenza relative agli ospedali pubblici,
così come all'interdizione generale fatta ai funzionari ed agenti pubblici di manifestare le loro
convinzioni religiose nell'esercizio delle loro funzioni.
4.2. Libertà di vestire: gli obblighi imposti tra settore pubblico e settore privato.
Di particolare rilievo appaiono pure tutte quelle situazioni soggettive in cui le donne affermano il
loro diritto a non indossare il velo integrale, esprimendo a livello soggettivo la speculare libertà
negativa.
La dichiarazione del 1789 fornisce una protezione molto forte al diritto di vestirsi liberamente in
Francia. Ne è conferma la recente cancellazione, da parte del giudice amministrativo francese, di
un’ordinanza comunale che vietava alle persone di circolare in costume, per le vie di una cittadina,
in quanto tale condotta era da considerarsi contraria al buon costume. Il tribunale amministrativo ha
invece stabilito che non v’era un motivo sufficiente, per imporre tale divieto.
È vero anche, però, che la legge francese ha subito un processo di internazionalizzazione, con la
conseguenza che oramai l’ordinamento giuridico interno è sottoposto alla supervisione della
legislazione sovranazionale europea, dovendosi confrontare in particolare con la Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e con la Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea, che forniscono ulteriori elementi in materia di diritti fondamentali della
persona ed eventuali restrizioni. In tal senso, la libertà di vestire può riferirsi a due diritti garantiti
dagli strumenti internazionali: il diritto al rispetto della vita privata - non menzionato nella
Dichiarazione interna - e la libertà di espressione religiosa, definita molto accuratamente in sede
internazionale come la libertà di manifestare la propria religione, individualmente o collettivamente,
in pubblico o in privato, mediante il culto, le pratiche e l'osservanza dei riti..
Tale forma di libertà è quindi molto forte e non sembra poter essere derogata da norme
eccessivamente restrittive. Le persone che indossano indumenti, possono trovarsi in due diversi
ambiti, afferenti rispettivamente la sfera della vita privata o la dimensione pubblica. La privacy è
proprio lo spazio in cui il soggetto non entra in rapporti giuridici con terzi, e in ragione dell’assenza
di collegamento con gli altri, eventuali restrizioni imposte alla libertà di vestire non possono
rispondere ad uno degli obiettivi di interesse generale sollevato dalle convenzioni.
L’area degli imperativi di sicurezza pubblica si realizza, dunque, quando una persona lascia la
sua vita privata ed instaura dei rapporti giuridici con terzi o con l'autorità pubblica o con soggetti
privati, in particolare, nei rapporti contrattuali.
Esempi di restrizioni giustificate da esigenze di abbigliamento del genere non mancano. Si
consideri, in primo luogo, il caso di un contratto il cui scopo impone delle limitazioni
nell’abbigliamento, tese a tutelare i diritti di terzi. Ad esempio, il diritto del lavoro contiene una
disposizione che è direttamente ispirata alle norme di necessità e proporzionalità del diritto
comunitario: l'articolo L 1121-1 del Codice del lavoro stabilisce che "nessuno può fare restrizioni
che non siano giustificate dalla natura del compito, né proporzionata all'obiettivo perseguito”. Sulla
base di questo testo, la Camera sociale della Corte di Cassazione, controlla le restrizioni alla libertà
di vestiario che un datore di lavoro può imporre ai suoi dipendenti così che la restrizione deve
essere giustificata dalla natura dei compiti e proporzionata al raggiungimento dell'obiettivo, in
particolare in termini di sicurezza.
Inoltre, la limitazione nel vestire nel rapporto di lavoro deve essere connessa all'esecuzione del
compito, escludendosi quindi qualsiasi considerazione in merito alla natura simbolica dell’
abbigliamento. In una decisione del 28 maggio 2003, la Cassazione ha sottolineato che la libertà di
vestirsi come si vuole, non rientra nella categoria delle libertà fondamentali. La sicurezza pubblica è
un'altra ipotesi di deroga alla libertà di vestirsi, sicché, essenzialmente a causa di vincoli collegati
alla sicurezza o all'igiene, le imprese private possono imporre ai loro impiegati delle regole nella
scelta del vestiario da indossare durante l’attività lavorativa.
Tuttavia, la Suprema Corte francese non è mai stata, fino ad oggi, chiamata a decidere sulla
questione di indossare un velo religioso nell'esecuzione di prestazioni di lavoro, e questo dimostra
l'esiguità del contenzioso su questo punto.
5 .Burqa e corti: la giurisprudenza tra Francia ed Europa. - Le soluzioni apprestate sono state,
peraltro, solo eccezionalmente legislative e invece in larga misura giurisprudenziali, talvolta con il
ricorso anche a strumenti di natura molto varia e giuridicamente non costrittivi, come
raccomandazioni, codici di buona condotta o carte. Il fatto che si tratti principalmente di un diritto
giurisprudenziale non è sorprendente, ma ha la sua importanza perché il giudice, fatta eccezione per
quello costituzionale, statuisce prendendo in considerazione la situazione specifica che gli viene
sottoposta, ed è questo il motivo per cui certe giurisprudenze possono sembrare contraddittorie. Del
resto il fatto che il diritto sia concretamente parcellare e formalmente eterogeneo non ne impedisce
la sua sostanziale coerenza.
5.1. Le risposte dei giudici francesi alle problematiche poste dal burqa. - Tentando una breve
rassegna, non di poco momento appare anzi tutto la sentenza del Consiglio di Stato, Morsang-surOrge, il famoso caso noto come "nano-lancio". In questa sentenza la Corte ha delineato una
concezione della dignità della comunità umana, secondo cui è lo Stato a dire come la gente
dovrebbe comportarsi con il proprio corpo. Se si sviluppa tale concezione, non sarebbe
assolutamente inconcepibile affermare che una donna nascosta in un burqa degradi la propria
dignità, autodeterminandosi in modo del tutto contrario al patrimonio di diritti e libertà che
l’ordinamento le mette a disposizione. Tuttavia questa impostazione "paternalistica" , in cui lo Stato
si riconosce il diritto di sostituirsi ai consociati, al fine di declinare per loro la dignità, indicando ciò
che è bene e ciò che è male, non appare né desiderabile né coerente con i principi dell’ordinamento
francese, ma anzi riecheggia quasi una visione di quello Stato etico, propria delle esperienze
totalitarie del Novecento. Conferma di tali perplessità è anche il fatto che solo il Consiglio di Stato
francese ha realmente sostenuto questo orientamento. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha,
infatti, assunto una nuova posizione, dopo una sentenza nella quale si era mossa nella stessa
direzione. Nel caso Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito, la Corte aveva avvallato la legittimità
del riconoscimento della penale responsabilità degli imputati , dal momento che gli stessi avevano
posto in essere un attacco alla loro dignità. Tuttavia, dopo questa pronuncia, l’orientamento è
radicalmente mutato, come dimostra la sentenza KA e AD c. Belgio. Il ragionamento fatto in questo
caso è l'opposto del precedente. Infatti ciò che rileva e merita la protezione della legge, nello spirito
attuale della Corte, è l'autonomia della donna, la sua volontà e, quindi, anche, ad esempio, la sua
libertà di accettare percosse. In questa prospettiva ricostruttiva, la dignità non è messa in campo,
quello che conta è il libero arbitrio. Ne consegue, che alla luce di tale interpretazione, non abbiamo
più gli stessi strumenti legali per impedire a una donna di indossare il burqa se vuole. Anzi è
piuttosto il contrario: se è la volontà della persona che conta, e in quanto tale la dimensione
dell’autodeterminazione merita tutela, diventa molto difficile impedire la scelta di determinati
abbigliamenti, se tale è la volontà del soggetto. Pertanto sembrerebbe azzardato, o per lo meno
imprudente concludere che il principio della dignità della persona umana possa fondare
unilateralmente un divieto di indossare il burqa.
Se mai, la costrizione di indossare un abito potrebbe integrare di per sè una violenza psichica
punita dalla legge in modo del tutto autonomo da eventuali violenze fisiche o minacce. Tra l’altro,
la legge penale francese prevede anche una specifica aggravante, se tali condotte sono poste in
essere dal marito. Un esame della giurisprudenza mostra che i giudici sono molto sensibili a questo
tipo di azione penale: analogamente, sul versante civile, l'esame della giurisprudenza francese
permette di individuare molte pronunce nelle quali i giudici hanno dovuto affrontare difficili
situazioni familiari, in cui si contrapponevano mariti o padri, che volevano imporre il velo alle
proprie mogli e figlie. Questo, tra l’altro, integra un motivo di divorzio o il divieto di affidamento o
di visita.
Ad esempio, la Prima sezione civile della Suprema Corte ha affermato, in una sentenza del 24
ottobre 2000, che non viola la libertà di religione, sancita dall'articolo 9 della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo, la sentenza della Corte d'Appello che, in nome dell’interesse del minore, aveva
sospeso il diritto di visita e di coabitazione di un padre verso le sue figlie, basandosi sulle pressioni
morali e psicologiche che il padre esercitava sulle giovani figlie, tra cui l’obbligo di indossare il
velo islamico ed il divieto di nuoto nelle piscine pubbliche. Vi è un'altra decisione, che non
afferisce all'uso del velo integrale, ma è indicativa della difficoltà di valutazione in materia penale,
dei simboli religiosi: una rivista aveva pubblicato un articolo che riportava l'intervista fatta ad un
imam, in cui si affermava che il Corano permette all’ uomo di colpire la moglie adultera. Ebbene,
con ordinanza del 6 febbraio 2007, la Sezione penale della Corte di cassazione ha ritenuto che essa
aveva provocato intenzionalmente i reati di violenza su base volontaria.
5.2. Simboli religiosi e Corti europee. - Un altro orizzonte che deve essere assolutamente
esplorato riguarda i rapporti tra una eventuale legge di divieto di indossare il burqa, e le già
ricordate Carte dei diritti europee: pensiamo specialmente all’art. 9 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo. Da questo punto di vista, anche la giurisprudenza europea può fornire, ancora
qualche indicazione su potenziali scenari giurisdizionali futuri.
In un caso molto eloquente, Cons Kokkinakis Grecia, 25 Maggio 1993, la Corte di Strasburgo ha
statuito che la dimensione religiosa della libertà, garantita dall'articolo 9 CEDU, è tra gli elementi
essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso,
risorsa per atei, agnostici e scettici. Vi è quindi l’affermazione di un pluralismo ottenuto con fatica
nel corso dei secoli. La libertà religiosa è quindi estremamente forte. Ma a tale libertà si
contrappone il principio della laicità, non sancito formalmente dalla Convenzione, ma ricavabile da
una serie di sentenze.
In Francia, in Svizzera ed in Turchia, la laicità è un principio costituzionale, fondativo dei
rispettivi ordinamenti: pratiche religiose, che si dovessero porre in contrasto con questo principio
non sarebbero necessariamente considerate parte della manifestazione della libertà di coscienza e
potrebbero non beneficiare della protezione del predetto art. 9. Inoltre, quando vi sono questioni che
riguardano il rapporto tra Stato e religione, particolare importanza assumono le soluzioni apprestate
a livello nazionale, capaci di registrare le peculiarità dei diversi sistemi sociali, e questo soprattutto
quando si tratta di regolamentare l'uso di simboli religiosi nelle scuole.
Anche se non vi è giurisprudenza copiosa sulle istituzioni educative, vi sono state alcune
importanti decisioni, in particolare la già citata decisione Leyla Şahin, che ha enunciato i principi
fondamentali, poi ripresi in diverse sentenze o decisioni che riguardano la Francia.
Di grande interesse appare anche la decisione Phull. In essa, la Corte europea dei diritti
dell'uomo ha dichiarato che, anche se la religione Sikh costringe i suoi seguaci a portare tutto il
tempo il turbante, essi potrebbero essere costretti a rimuoverlo ai fini di un controllo d'identità.
Questo viene riaffermato anche nella decisione El Morsli, per controllare l'ingresso in un consolato.
Così si può, senza violare il diritto alla libertà di religione, costringere un credente per identificarlo
a togliersi il velo o il turbante temporaneamente . E ancora nella decisione Cons c. Regno Unito 12
luglio 1978, la Corte ha stimato che in nome della sicurezza, si potrebbe benissimo chiedere ad un
seguace della religione Sikh di togliere il turbante per indossare un casco da motociclista.
Inoltre, nel caso Dogru c. Francia, è stato stabilito che il divieto posto a carico di una
studentessa del collegio di Flers, di indossare il velo durante le ore di educazione fisica, non
integrava una violazione dell’art. 9 della Convenzione, in quanto la studentessa, rifiutando di
indossare tenute idonee, era venuta meno ai suoi doveri scolastici, primo fra tutti quello di
frequentare i corsi. La Corte ha motivato tale decisione nel merito senza rinvio alcuno alla legge n.
228/2004, ma richiamando quella del 9 dicembre 1905 sulla separazione tra lo Stato e la Chiesa, il
preambolo della costituzione del 1946, l’articolo 10 della legge n. 89-486 del 1989, di orientamento
sull’educazione, nonché il parere del Consiglio di Stato n. 346.893 del 1989, sulla compatibilità tra
spazio scolastico e simboli religiosi.
La valutazione giuridica riguardante il velo, inoltre, si può basare anche su un pericolo di
discriminazione tra uomini e donne, con conseguente passaggio dalla dimensione della laicità a
quella della dignità.
Sebbene la Convenzione europea dei diritti dell'uomo non utilizzi la parola “dignità”, è stata la
giurisprudenza della Corte a sviluppare tale categoria a livello interpretativo giurisprudenziale.
Così, per affermare e rafforzare i diritti delle donne, nelle sentenze C.R. e S. W. c. Regno Unito,22
novembre 1995, ha ammesso che l'art. 7 CEDU non impedisce l'accusa di violenza sessuale tra
coniugi, evidenziando il carattere essenzialmente degradante dello stupro, e, nella medesima
occasione, ha affermato che la libertà e la dignità sono i fondamenti della Convenzione. Nella causa
Sig. C. contro Bulgaria, sostenendo che ci può essere violenza sessuale, anche in assenza di
resistenza fisica, la Corte ha auspicato una nuova definizione del delitto di stupro. Ancora la
sentenza Cons Opuz Turchia impone agli Stati di criminalizzare e punire la violenza domestica sulle
donne. La tutela delle donne è, dunque, al centro della giurisprudenza della Corte, in particolare il
concetto di dignità.
Un importante collegamento viene posto in essere dalla Corte tra secolarismo e tutela delle
donne, nel famoso caso Refah Partisi contro Turchia, che ha riguardato la messa al bando di un
partito. La Corte ha ritenuto che lo scioglimento sia conforme alla Convenzione, essendo
quest’ultima assolutamente incompatibile con la Sharia, la quale riserva una posizione inferiore alle
donne.
Non può, però, infine, nemmeno trascurarsi la circostanza che molte donne, che indossano il velo
integrale, dicono di farlo volontariamente. Nella causa Leyla Şahin/Türken la ricorrente aveva
spiegato piuttosto chiaramente come il divieto di indossare il velo all’università integrasse una
lesione della propria autonomia personale.
6. Il rapporto conclusivo della missione: la proposta di una risoluzione parlamentare. - Il 26
gennaio 2010, la Missione parlamentare d’informazione, nella persona del suo Presidente M. Andre
Gerin, ha rassegnato le proprie conclusioni alla Conferenza dei presidenti dell’Assemblea
nazionale, evidenziando la procedura seguita dalla Missione nelle audizioni, al fine di valorizzare
l’impostazione di partecipazione diretta dei diversi rappresentanti dello Stato comunità ai lavori. La
commissione ha condotto un dibattito pubblico, al cui termine è stato licenziato un esteso rapporto,
in cui si conclude affermandosi la contrarietà del burqa ai valori della Repubblica francese, in
quanto forma di riduzione in schiavitù per le donne. Questa conclusione è però accompagnata anche
dalla consapevolezza della scarsa efficacia e della dubbia legittimità costituzionale di un divieto
generale, corazzato dallo strumento penale e immesso nell’ordinamento attraverso una legge,
apparendo sia giuridicamente sia politicamente più opportuna una risoluzione che, promanando solo
dall’organo parlamentare, darà ragione di quel complesso lavoro di partecipazione popolare che ha
caratterizzato i lavori della missione, rinunciando peraltro ad un’ipotesi di divieto nell’ambizioso
terreno del luogo pubblico, e questo per rientrare nel più rassicurante paradigma del servizio
pubblico.
È per tale ragione che, nel rapporto conclusivo, si propone come strumento capace di dare una
risposta tempestiva, l’adozione di una risoluzione, ex art. 34-1 Cost., così come riformato dalla
legge organica n. 2009/403 del 15 aprile 2009. La materia sembra, poi, prestarsi particolarmente ad
essere fatta oggetto di una risoluzione: ed “il fatto che la prima risoluzione del Parlamento affronti
tale questione appare simbolico”, come ha affermato Bertrand Mathieu durante la sua audizione.
Sarebbe infatti l'occasione per riaffermare l'impegno del Parlamento in difesa dei principi
repubblicani di libertà, uguaglianza e fraternità. Inoltre, una risoluzione che condanni la pratica di
indossare il velo integrale e riaffermi i principi fondanti della Repubblica potrebbe probabilmente
essere approvata all'unanimità dai membri dell'Assemblea, e di conseguenza avrebbe una certa
risonanza.
Occorre, tuttavia, dare conto del fatto che forti pressioni si stanno esercitando sul Parlamento
francese, perché, ad imitazione del caso belga, provveda a dar vita ad una vera e propria legge per
arginare il fenomeno del burqa. L’elemento, quindi, che lascia disorientato l’osservatore esterno è
che per il raggiungimento di tale obiettivo, si sia disposti a rinunciare al patrimonio cromosomico di
diritti e garanzie fondamentali dell’ordinamento, emendandolo alla luce di una non meglio definita
paura per la donna velata. Insomma, vero è che il multiculturalismo reca con sè una innata
problematicità, e questo è particolarmente evidente sul piano giuridico, ma sembra abbastanza
singolare che in un paese come la Francia, ormai ampiamente secolarizzato, si torni a parlare di
laicità, scoprendo un’improvvisa emergenza nella garanzia dei diritti e delle libertà dei consociati,
che sarebbero minacciati da pratiche potenzialmente eversive dei valori fondamentali
dell’ordinamento.
Paradossale sarebbe infatti negare i principi fondamentali al fine di garantirli, dal momento che
in tal modo il legislatore negherebbe sè stesso, abbandonando la pregevole abitudine a
bilanciamenti specifici, in nome di una limitazione tanto generica quanto lesiva dei diritti e delle
libertà delle donne. Da qui la perplessità sull’opportunità di legiferare su una pratica come il porto
del velo integrale, anche alla luce dei numerosi dubbi, che si è cercato in precedenza di evidenziare,
sulla possibilità di inquadrare giuridicamente tale pratica.
Questo rilievo, mi pare, imponga ai membri della Missione di porsi tre domande concernenti
rispettivamente la nozione di spazio pubblico, la pratica oggetto di normazione ed i principi in
causa. Innanzitutto bisognerà individuare la nozione di spazio pubblico, a partire da una
ricognizione delle indicazioni normative presenti nell’ordinamento. Da un punto di vista giuridico si
distingue lo spazio pubblico, individuandolo a contraris rispetto a quello privato. La vita privata si
riferisce al domicilio, allo spazio chiuso, è distinta, separata, dalla vita pubblica, qualunque sia il
suo contesto. Si può immaginare di opporre lo spazio pubblico allo spazio privato, come un
orizzonte che, non appartiene in particolare a nessuno. In base a tale paradigma ricostruttivo lo
spazio pubblico non sfugge al diritto, ma il diritto ha per oggetto di permettere a ciascuno di godere
anche delle stesse libertà, tra cui anche quella di indossare il burqa. Il secondo elemento da valutare
è la pratica di portare il velo. Qui ci si trova in una situazione più delicata, dal momento che una
pratica siffatta non ha alcuna vocazione ad avere una definizione giuridica, anche se costituita da
elementi obiettivi. Comunque il ruolo del diritto, anche in un’ottica definitoria, non è di valutare, in
termini positivi o negativi, una religione od un uso religioso, né interpretare le ragioni per cui una
religione impone certi obblighi, o certi vestiti. Tutt’al più, essendo il porto del velo integrale, o di
altri segni o tenute, un modo di esercitare la libertà di religione, il diritto potrà determinare le
condizioni di esercizio di questa libertà. L’auspicio è che il Parlamento riesca a liberare sé stesso
dalle pressioni esterne che lo stanno attualmente compulsando, e, riuscendo ad operare un
bilanciamento ragionevole e non gerarchico dei principi in gioco, cerchi di dimostrarsi poco
emotivo e più etico. Una legge recante un divieto generale infatti, oltre a violare in modo
irragionevole il patrimonio cromosomico di diritti e libertà dell’ordinamento francese, non
riconoscerebbe alcun ruolo alle donne velate, costrette a spogliarsi del velo integrale, senza poter
scegliere. In questo senso si pone la risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio
d’Europa: approvata quasi all’unanimità, il 23 giugno 2010, il cui testo chiarisce come negare il
velo, più che favorire il processo di parificazione tra uomo e donna nella cultura islamica,
rischierebbe di favorire derive islamofobe e incontrollate.
Sul tema, cfr. CAVANA, Interpretazione della laicità, Roma, 1998, 82 ss.
A tal proposito, cfr. S. CECCANTI, Una libertà comparata. Libertà religiosa, fondamentalismi e
società multietniche, Bologna, 2001, 85 ss.
Su tale questione, cfr. F. MEJAN, La laicité de l’Etat en droit positif et en fait, Paris, 1960, 201
ss.
In proposito, cfr. specialmente O. RAY, Global muslim. Le radici occidentali del nuovo islam,
Milano, 2003.
Com’è noto, il “fenomeno” musulmano reca con sé un messaggio totalizzante, che non scinde la
sfera privata da quella pubblica, ma, anzi, coglie l’individuo in un’unica cornice confessionale e
antropologica, dalla quale tutto, anche lo Stato, quindi, promana. Per dirla in altri termini, la
categoria della laicità appare ontologicamente incompatibile con il messaggio di Maometto, in
quanto tutto ciò che è nel mondo è voluto da Allah (in merito, cfr. A. PREDIERI, Sharì’a e
Costituzione, Bari, 2006, 100.
Tutte queste potenziali problematiche sono rimaste sullo sfondo fino a quando le comunità
islamiche non hanno iniziato ad assumere una consistenza numerica importante. In particolare, fra i
giovani musulmani nati in Francia, si è venuta a determinare una netta separazione fra coloro che
abbracciano il pensiero occidentale, ritenendosi individui liberi e negando il ruolo della religione
come momento unificante di tutte le dimensioni dell’esistenza, ed altri che invece si sono attaccati
con forza al loro paradigma identitario. Questa difficile transizione da un’identità tradizionale e
confessionale ad una democratica e libera, o comunque diversa, genera numerose disfunzioni e
pone l’Islam davanti alle religioni europee, le quali hanno trovato un posto significativo nelle
pieghe dello Stato, diventando religioni civili, cioè portatrici di valori e contenuti, che hanno peso e
rilevanza anche nella vita pubblica.
Al proposito, cfr. L. PARISOLI, L’affaire del velo islamico. Il cittadino e i limiti della libertà, in
Materiali per una storia della cultura giuridica, I, 1996, 189 s.
Cfr. S. BELOUCIF, L’islam entre l’individu et le citoyen, in Th. FERENCZI, Religion et
politique. Une liaison dangereuse?, Bruxelles, 2003, 151.
Sul rapporto tra Islam e occidente, nonché sui mutamenti che tale rapporto ha determinato in
senso alle comunità islamiche, si rinvia a B. KHADER, Islam, freno o motore della modernità?, in
Pol. Intern., vol. 2, 1994, n.22, 119 ss.
In particolare I. BERLIN, Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano, 2000, 26 ss., descrive la
possibile deriva della libertà positiva.
Con la già citata legge Ferry del 1882, all’insegnamento religioso nella scuola primaria, venne
sostituito l’insegnamento di istruzione morale e civile. La stessa legge, comunque, introdusse la
possibilità di fruire di un’astensione facoltativa per un giorno di lezione alla settimana, al fine di
consentire ai genitori di far impartire l’istruzione religiosa ai propri figli al di fuori degli edifici
scolastici. Si è dovuto, però, aspettare un’ordinanza del ministro dell’Educazione nazionale del 12
maggio 1972 per individuare la fissazione del giorno nel quale tale astensione è permessa. Tale
ordinanza che, fissava il mercoledì, come giorno per poter seguire gli insegnamenti di carattere
confessionale è stata, poi, modificata da un decreto del 1985, che, nell’ambito dell’organizzazione
delle attività educative delle scuole materne ed elementari, ha previsto la possibilità, su domanda
della maggioranza dei membri del consiglio della scuola, di modificare la ripartizione abituale degli
orari, spostando eventualmente l’istruzione religiosa dal mercoledì al sabato. Tale modifica non
deve essere ritenuta di scarso rilievo: anzi, per buona parte della dottrina e della società francese,
essa esprime una conferma dell’orientamento che il legislatore assume per quanto riguarda gli
ambiti pubblici di carattere educativo e formativo, i quali, come detto nel testo, devono essere
all’insegna della neutralità.
Per quanto riguarda la convivenza tra spazio pubblico e simboli religiosi, cfr. CAVANA,
Interpretazione della laicità, cit., 117 ss.
Sul tema della laicità in Francia e sulla legge n. 228/2004, cfr., tra gli altri, E . POULAT, Libertè
et Laicitè. La guerre des deux France et le principe de la modernitè, Parigi 1987; J.M.
COLOMBANI, Francia, i rischi della legge sulla laicità, in Le Monde, 13 dicembre 2003; D.
TEGA, Il parlamento francese approva la legge anti-velo, in Quad. Cost., 2, 2004, 389 s.; S.
FERRARI, Francia-laicità. Le ragioni del velo, in Il Regno att., 4, 2004, 89; J. HINKE- R.
MINERATH- R. SCHMALE- W.ZARYN, L'emergence des Droits de l'Homme en EuropeAnthologie de textes, Conseil de l'Europe, 2000 ( http://www.aede-france.org/DossierDocumentaire-Europe.html).
Di grande rilievo sul punto R. DEBRAY, L’enseignement du fait religieux dans l’École laïque,
Rapport
au
ministère
de
l’Education
nationale,
2002,(http://media.education.gouv.fr/file/91/4/5914.pdf).
Assemblea nazionale, XIII legislatura, doc. n.1121, Proposition de loi visant à lutter contre les
atteintes
à
la
dignité
de
la
femme
résultant
de
certaines
pratiques
religieuses
(http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion1121.asp).
Con riferimento a tale pratica, si esprimono gravi preoccupazioni, identificandola come una
negazione della personalità della donna, ridotta ad un oggetto davanti a sé e agli occhi degli altri
consociati. In tal modo le viene impedito qualsiasi rapporto umano, al di fuori del contesto
familiare, disumanizzandola, e integrando in tal modo una grave violazione della dignità umana e
dei principi essenziali, su cui si fonda l’ordinamento francese, primo fra tutti la parità tra i sessi.
L’articolato disciplina in termini di divieto tutte quelle pratiche religiose e culturali, che prevedono
la copertura del viso o del corpo. In particolare l’art. 1 recita testualmente: “Nessuna prescrizione
culturale o religiosa può imporre a qualcuno di velarsi il viso sulla pubblica via; tutte le persone che
vanno e vengono sul territorio nazionale devono avere il viso scoperto, per permetterne facilmente
il riconoscimento o l’identificazione. Il principio menzionato al comma precedente non si applica né
ai servizi pubblici in missioni speciali, né a certe attività culturali come il carnevale o le riprese
cinematografiche”.
Il fatto che sia stato scelto lo strumento penale trova conferma nel regime sanzionatorio, definito
all’art. 2. della L. 228/2004 in riferimento alla punizione di tutte quella condotte che violano il
dettato dell’art.1, ed in particolare viene previsto l’arresto fino a due mesi e l’ammenda fino a
15,000 euro, con un aggravamento in caso di recidiva, ad un anno di detenzione e 30,000 euro di
ammenda. Tale cornice edittale è ampliata dall’articolo 3, che, individuando una condotta di
incitamento alla violazione del divieto di cui all’art. 1, prevede la sanzione amministrativa
dell’allontanamento dal territorio nazionale, su decisione del Ministro dell’interno o del Prefetto,
competente a livello territoriale.
Di interesse sul punto, R. HANICOTTE, La dissimulation du visage au regard de l'ordre
public,in AJDA, 2010, 417 ss; V. AVENA ROBARDET, Polygamie et allocations familiales, in AJ
Famille 2010, 247.
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, doc. n. 1942, registrato il 29 settembre 2009, Proposition
de loi à interdire l’ensemble des vêtements ou accessoires permettant de masquer l’identité d’une
personne. (http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion1942.asp).
In linea con tale previsione, continua il proponente, la giurisprudenza amministrativa francese, in
molti casi, ha vietato l’esibizione dei simboli religiosi, là dove questi integravano una violazione dei
beni giuridici sopra menzionati (ad esempio, un motociclista sikh si era visto vietare la possibilità di
indossare il turbante mentre guidava la moto, oppure alcune studentesse erano state espulse dagli
istituti scolastici, perché si erano rifiutate di togliersi il velo, durante le lezioni di ginnastica).
Quindi la stessa valutazione in termini di divieto potrebbe essere formulata in modo generale da una
legge che, contemperando le esigenze di ordine pubblico con il diritto alla sicurezza di tutti i
cittadini, vada ad espungere dall’orizzonte sociale tutti quegli abbigliamenti che, di fatto
impediscono l’identificazione delle persone. Nell’articolato, inoltre, sono individuate le medesime
condotte delittuose e sanzioni di cui alla proposta n. 1121. A tal proposito si segnala anche:
Assemblea nazionale, XIII legislatura, doc. n.2272, registrato il 28 gennaio 2010 Proposta di
risoluzione Gerin-Raoult: nei suoi profili introduttivi la proposta in oggetto richiama quelle
sopranominate, (http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion2272.asp).
Per hijab si intende il foulard che le donne musulmane appoggiano sul capo e sulle spalle, ma
che non copre il resto del corpo e comunque non il volto, come accade invece nel caso del burqa.
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, doc. n. 1725, registrato il 9 giugno 2009, Proposition de
résolution, tendant à la création d’une commission d’enquête sur la pratique du port de la burqa ou
du niqab sur la territoire National.
Operativamente i lavori della missione si sono tradotti in un articolato ciclo di audizioni, nelle
quali sono stati sentiti operatori del diritto, sociologi, esponenti del governo, magistrati e
rappresentanti del mondo islamico, al fine di indagare profondamente la pratica in oggetto, e capire
la possibilità o meno di vietarla attraverso una legge. In riferimento a tale profilo W. TAMZALI e
C. BER, Burqa?, Montpellier, 2010,13 e ss.
Audition de M. Rémi Schwartz, Conseiller d’État, rapporteur (http://www.assembleenationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp).
Peraltro tale controllo, che non può prescindere dai presupposti indicati dalla Costituzione,
ovvero la presenza di un atto internazionale idoneo, ratificato o approvato, e la relativa
pubblicazione, ha avuto un’elaborazione giurisprudenziale piuttosto allargata, tanto che nella
categoria di atto, vengono fatti rientrare non solo i trattati classici, ma anche le carte dei diritti, e in
generale tutto quello che deriva da accordi di natura internazionale (Consiglio Costituzionale, dec.
n.77-90 DC).
La l. organica n. 2009/403 del 15 aprile 2009, che ha introdotto tale controllo incidentale da parte
del Consiglio, enfatizza in modo particolare la garanzia dei diritti, prevedendo che l’eccezione di
illegittimità costituzionale possa essere sollevata solo ad istanza di parte, e confermando anche una
espansione del sindacato di costituzionalità, in linea con il modello kelseniano. a tal proposito si
rinvia a: B. FRANÇOIS, La Constitution Sarkoz, Paris, 2009; O. DUTHEILLET DE LAMOTHE,
Contrôle de conventionnalité et contrôle de constitutionnalité en France, rapport presentè à Madrid,
2-4
avril
2009,
(http://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-
constitutionnel/root/bank_mm/pdf/Conseil/madrid_odutheillet_avril_2009.pdfhttp://www.conseilconstitutionnel.fr/conseilconstitutionnel/root/bank_mm/pdf/Conseil/madrid_odutheillet_avril_2009.pdf).
Sull’avvio
della
nuova procedura di controllo incidentale, cfr. P. COSTANZO; Decolla in Francia la questione
prioritaria di costituzionalità: la Cassazione tenta di sparigliare le carte, ma il Consiglio
costituzionale
tiene
la
partita
in
mano
(una
cronaca)
in
Consulta
OnLine
(http://www.giurcost.org/studi/CostanzoConseil.htm)
Decisione del 29 giugno 2004, n. 4774/98, Leyla Sahin c.Turchia.
Decisione del 30 giugno 2009 , n. 43563/08, Aktas c. Francia.
Sul punto di interesse, D. BOUZAR- L. BOUZAR, La Rèpublique ou la burqa, Paris, 2010, 25
ss.
In merito al rapporto tra ordine pubblico e eterogeneità del sistema sociale francese, v. W.
TAMZALI e C. BER, Burqa?, cit., 69 e ss.
Anche se invocare il rischio terroristico in Francia non convince tanto, così che un divieto
imposto a tal fine verrebbe valutato con ogni probabilità sproporzionato e discriminatorio. Del
resto, se si volesse evitare qualunque rischio di nascondere armi o esplosivi, dovrebbero essere
sottoposti al divieto zaini e valigie e tutto ciò che in generale è idoneo a occultare. Su tale aspetto si
rinvia a J. M. PASTOR, Voile intégral : le refus de la République , in Ajda, 2010, p.124.
Decisione
del
19
gennaio
2006,
n.
2005-532
DC;
http://www.conseil-
constitutionnel.fr/decision/2006/2005-532-dc/decision-n-2005-532-dc-du-19-janvier2006.979.html?version=dossier_complet.
Anche il Consiglio di Stato, nell’Étude relative aux possibilités juridiques d’interdiction du port
du voile intégral, presentato al Primo ministro il 30 marzo 2010, ricostruisce in termini di estrema
problematicità la possibilità giuridica di fondare un divieto generale di indossare il burqa, il cui
porto può essere limitato solo in situazioni qualificate da una particolare esigenza di sicurezza e
garanzia dell’ordine pubblico; per il testo integrale del rapporto http://www.conseiletat.fr/cde/node.php?articleid=2001.
Significativa in questo senso l’alinea 3 del Preambolo del 1946, che ha riaffermato il principio di
uguaglianza nella sua proiezione relazionale tra uomini e donne, chiarendo come l’eguaglianza porti
con sé una necessaria uguaglianza nei diritti da parte di entrambi i sessi.
Sulle sofferenze di legittimità che un interdizione generale di indossare il velo integrale
incontrerebbe nell’ordinamento francese, di interesse risultano le osservazioni di R. HANICOTTE,
Belphégor ou le fantôme du Palais-Royal .L'avis du Conseil d'État sur le voile integra, in La
Semaine Juridique Administrations et Collectivités territoriales n° 16, 19 Avril 2010, 2142 ss.
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, audition PierreDubois, presidente della Ligue des droits
de
l’Homme,
Mme Françoise
Dumont
vice-presidente
e
M. Alain
Bondeelle
(http://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp).
Chiaramente tale ricostruzione ha fondamento, nella misura in cui qualifichiamo in termini
religiosi, o comunque culturali, tutti quegli abbigliamenti che, oscurando il viso, sarebbero colpiti
dal divieto di un’eventuale legge. In quest’ottica sarebbe forse più costruttivo dar corpo ad una
laicità positiva, non antireligiosa, capace di favorire il pluralismo, senza la pressione delle religioni.
Quindi i contenuti e gli obiettivi di un eventuale disegno di legge dovrebbero riguardare più che
il divieto di indossare il burqa in pubblico, un tessuto normativo teso a combattere la violenza sulle
donne, sanzionando in tal modo, non le donne come avverrebbe nel primo caso, ma gli autori delle
violenze. Tuttavia il Presidente della Lega francese ha espresso la propria perplessità sulla
possibilità di favorire un processo di emancipazione delle donne musulmane, attraverso un sistema
di divieti imposti autoritativamente dallo Stato. A tal proposito decisivo, non sarebbe l’indossare un
abbigliamento determinato o comunque diverso dal burqa, ma l’uguaglianza assoluta di uomini e
donne, in quanto il velo integrale cadrà non il giorno che verrà strappato, ma quando tutti i
consociati avranno fatto propri quei valori di uguaglianza e tolleranza, tanto cari all’ordinamento
francese.
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, audition de M. Rémi Schwartz, Conseiller d’État,
rapporteur (http://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910007.asp ).
Che recita testualmente “dopo la vittoria riportata da popoli liberi sui regimi che hanno tentato
di ridurre in schiavitù e degradare la persona umana”. La filosofia umanista, che si pone alla base
di tale dichiarazione è inequivocabile, nell’affermare la dignità di tutti gli uomini di essere liberi, e
di non essere dominati e resi schiavi da parte di chiunque, rifiutando qualsiasi provvedimento
coercitivo da parte di un altro uomo, in uno scenario di libertà e parità delle volontà e dei consensi.
Preambolo, Costituzione, del 4 ottobre 1958, con particolare riferimento al richiamo al
preambolo della Costituzione del 1946, come fonte di rango parametrico.
Cfr. W. TAMZALI e C. BER, Burqa?, cit., 85 e ss.
Da questo punto di vista allo stato attuale del diritto positivo, il divieto generale di indossare il
burqa sarebbe estremamente fragile e potrebbe causare più problemi di quanti ne risolva. Tale
divieto affermerebbe un preoccupante paternalismo, profondamente contraddittorio, perché sarebbe
incapace, sia di difendere la libertà delle donne che desiderano indossare il burqa privandole della
libertà di farlo, sia priverebbe gli altri consociati della libertà di scegliere se aderire o meno
all’eventuale proselitismo espresso da questi soggetti. Su tali problematiche e sul probabile
intervento per la via incidentale del Conseil constitutionell, qualora la legge venisse approvata, di
rilievo R. NOGUELLOU, L'interdiction du port du voile integra, in Droit Administratif , 2010, 35
ss.
In particolare anche il Consiglio di stato, con la sentenza 286-798/08, negando il riconoscimento
della cittadinanza francese ad una donna marocchina, per difetto di assimilazione, ha affermato il
principio della parità tra uomini e donne, in termini precettivi.
Con riferimento ad esse, bisognerebbe anche stabilire se il fatto di non potere scorgere il viso di
una donna, rappresenti una lesione della dignità della persona umana in termini generali, o se
specificamente leda la dignità delle donne. Se il bene giuridico da tutelare con una legge fosse la
dignità della donna, sarebbe poi opportuno comprendere se in alcuni casi sarà più lesivo per la
donna stessa imporle o non imporle di circolare a viso scoperto. Si rinvia a A. LEVADE, Le refus
de la République », prologue d'un débat national ? . À propos du rapport de la mission
d'information sur la pratique du port du voile intégral sur le territoire National, in La Semaine
Juridique Edition Générale n° 6, 8 Février 2010, 142 ss.
Legge n.228/2004, del 15 marzo 2004, art.1”E’ inserito nel Codice dell’educazione, dopo
l’articolo L. 141-5, un articolo L. 141-5-1, così formulato: Art. L. 141-5-1- E’ vietato, nelle scuole,
nei collegi e licei pubblici portare segni o abiti mediante i quali gli allievi manifestino in modo
ostensibile un’appartenenza religiosa. Il regolamento interno ricorda che l’attuazione di una
procedura disciplinare è preceduta da un dialogo con l’allievo”.
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 14 octobre 2009, audition de Mr. Denys de
Bèchillon, (http://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910008.asp).
Ad esempio l’accedere ad una banca o ad una stazione di servizio, o ancora la partecipazione ad
una manifestazione di piazza, che imponga ai soggetti di non essere travisati.
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 18 novembre 2009, audition de Anne Levade
(http://www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i1262.asp).
Di interesse sul punto J. BOUGRAB, Discrimination, in La Semaine Juridique Edition Générale n°
17, 26 Avril 2010, 462 ss.
Precipitato evidente di questa impostazione è la Carta della laicità nei servizi pubblici del 13
aprile 2007. Pur non avendo alcun valore giuridico tale carta, fortemente voluta dal primo ministro
Dominique de Villepin, rappresenta una piccola guida per far convivere pacificamente chi crede in
religioni diverse. Essa viene affissa negli ospedali, nelle prigioni, nelle caserme, ma anche in altri
luoghi pubblici.
La libertà di vestire è un elemento della libertà stessa, che consiste, secondo quanto enunciato
dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, nel “fare tutto ciò che non nuoce
ad altri”. La dichiarazione afferma inoltre che “ciò che non è vietato dalla legge non può essere
vietato”. Ne consegue, come i consociati si possano vestire come vogliono, secondo i loro gusti ed
in base alle loro convinzioni religiose. La questione del velo integrale che riguarda da tempo lo
stato francese, già da quando questo era un impero coloniale, è sempre stata non solo tollerata, in
virtù della Dichiarazione, ma addirittura protetta. Sui rapporti tra libertà di indossare il velo
integrale e limiti dettati dall’ordine pubblico si guardi A. ROBERT, Décret n° 2009-724 du 19 juin
2009 relatif à l'incrimination de dissimulation illicite du visage à l'occasion de manifestations sur
la voie publique, in Revue de science criminelle, 2009, 882.
La Convenzione europea per la salvaguardia, come la Carta dei diritti fondamentali, prevedono
restrizioni per rispettare la privacy e la libertà religiosa, le quali possono essere compresse per
raggiungere gli obiettivi di interesse generale, quali la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico, la
prevenzione della criminalità, la protezione della salute o per rispondere alla tutela dei diritti e delle
libertà altrui. Peraltro tali restrizioni devono essere rigorosamente proporzionate all’obiettivo che si
intende attuare.
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 9 dicembre 2009, audition de Betrand Louvel,
(http://www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/09-10/c0910017.asp).
Code du travail, L. n.2008/67, 21/01/2008, Art.1121: "Nul ne peut apporter aux droits des
personnes et aux libertés individuelles et collectives de restrictions qui ne seraient pas justifiées par
la nature de la tâche à accomplir ni proportionnées au but recherché”.
Cour de cassation, Chambre sociale, arrêt n° 1507, du 28 mai 2003.
In particolare dal giugno scorso, è fatto divieto di indossare cappucci in prossimità di eventi.
Negli aeroporti, una persona deve sottoporsi ai controlli di sicurezza necessari, pertanto, deve
consentire il controllo della sua identità. Ancora, le persone che appaiono davanti ad un'autorità
pubblica per eseguire un atto che coinvolge la verifica della loro identità, devono essere a capo
scoperto: ad esempio, cerimonie nuziali, operazioni elettorali o giuramenti. La Corte d'appello di
Nancy si è rifiutata di far prestare il giuramento da avvocato ad una donna, che era comparsa
davanti ad essa velata. Restrizioni inoltre possono essere previste in funzione della verifica di
identità da parte della polizia in una indagine o di prevenzione della criminalità. Limitazioni alla
libertà di vestire sono previste pure per chi si mette alla guida di un veicolo, sul punto cfr. F.
GAUVIN, Un an de droit pénal de la circulation routière, in Droit pénal n° 7, Juillet 2010, 6 ss.
Di rilievo sul punto, J.B. BOUET, La « Charte de la laïcité dans les services publics » et les
établissements publics de santé : une occasion manquée, in Revue de droit sanitaire et social, 2007,
1023 ss.
Conseil d’Etat, décision n° 94-343 e 94-344 DC. In particolare, in nome della protezione della
dignità della persona umana, il Consiglio di Stato ha convalidato il divieto, posto dal sindaco di
Morsang-sur-Orge, con riguardo ad uno spettacolo , che consisteva appunto nel lancio di un
soggetto affetto da nanismo.
Bisogna domandarsi inoltre, in un orizzonte di tutela della donna e delle sue libertà, se
l’ordinamento francese ha gli strumenti giuridici per proteggere tutte quelle donne che intendono
sottrarsi alla pratica culturale di indossare il burqa.
Decisione, 19.2.1997, Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito. In particolare, un gruppo di
sadomasochisti era stato scoperto dalla polizia scozzese, e i promotori degli incontri erano stati
incarcerati e condannati, con altri partecipanti dai giudici britannici, a cinque anni di carcere.
Decisione, Ka/ad c. Belgio, del 17 febbraio 2005, riguardante un secondo caso di
sadomasochismo, aventi ad oggetto alcune scene videoregistrate, nelle quali un medico e un
magistrato torturano la moglie di uno di questi. La donna aveva dichiarato di essere stata
consensuale alle sevizie, alle quali si era sottoposta spontaneamente. Tuttavia proprio le scene
videoregistrate avevano consentito alla Corte di valutare la realtà e la continuità di questo consenso.
Ed è questo l’argomento che la Corte ha utilizzato questa volta. La ragione per cui la corte di
strasburgo ha emesso una sentenza di condanna è solo il fatto che il consenso di quest'ultima non
era certo, proprio perché la capacità volitiva della stessa si era interrotta a più riprese, dal momento
che in più intervalli aveva perso conoscenza. La Corte ha concluso quindi che non vi era alcuna
certezza obiettiva che il consenso della donna fosse stato continuativo. Di conseguenza, la Corte ha
ritenuto che non vi erano elementi sufficienti, per parlare ragionevolmente di libertà sessuale. In
qualche modo l'accordo demarca la linea di separazione tra libertà sessuale e tortura.
La stessa giurisprudenza costituzionale (dec. 19 novembre 2009, 593 DC), ha tematizzato la
dimensione della dignità come un valore costituzionale fondamentale, in un'ottica di protezione
dell’integrità del corpo umano.
A Lione, un giovane francese di venti anni, che aveva percosso la sorella di quattordici anni
perché si rifiutava di indossare il velo islamico, è stato condannato a quattro mesi di carcere. La
Corte d'appello ha riformato la sentenza di primo grado, portando la condanna ad una pena
detentiva pari a nove mesi.
Dec, 24 ottobre 2000, n. 98-14386, Président M. Lemontey, Rapporteur M. Ancel.
Ord, 6 febbraio 2007, n. 05-86495, Président M. Cotte.
Decisione, 19 aprile 1993 , n.260/A,. Kokkinakis c. Grecia.
Con riferimento a tali profili si guardi anche: S. FERRARI, Integrazione europea e prospettive
di evoluzione della disciplina giuridica del fenomeno religioso, pubblicato nel volume a cura di
V.TOZZI, Integrazione europea e società multiculturale,Torino, 2000, 132 ss.; F. MARGIOTTA
BROGLIO (cur.), Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione europea, in F.
MARGIOTTABROGLIO - C. MIRABELLI – F. ONIDA, Religioni e sistemi giuridici.
Introduzione al diritto ecclesiastico comparato, Bologna, 2000, 87 ss.
Decisione, del 10 novembre 2005, n..4774/98, Leyla Sahin c. Turchia.
Decisione, del 11 gennaio 2005, n. 35753/03, Phull v. France.
Decisione, del 4 marzo 2008, n.15585/06, El Morsli c. France.
Decisione del 4 dicembre 2008, n.27058/05,Dogru c. France.
Decisione del 22 novembre 1995, C.R. e S.W. c. Regno Unito,.
Decisione del 4 dicembre 2003 M.C. c. Bulgaria.
Decisione del 9 giugno 2009, n.33401/02, Opuz c. Turchia.
Decisione del 12 maggio 2007 Refah Partisi c. Turchia, che ha riguardato la messa al bando di
un partito, i cui membri avevano dichiarato che, una volta al potere, avrebbero costituito la Sharia.
Il partito è stato sciolto e taluni suoi membri si sono rivolti alla Corte, lamentando la violazione
dell’articolo 11 della Convenzione.
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, Rapport d’information, documento n.2262, del 26
gennaio 2010. (http://www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i2262.asp).
Tuttavia, a fronte di un giudizio così netto, si chiarisce anche l’esigenza di una sfumatura di
pedagogia della comprensione, di tolleranza e di sensibilità, al fine di evitare la trappola dello
stigma, cercando di comprendere il percorso di queste donne.
A tal proposito si segnala quanto detto dal Presidente della Repubblica francese il 22 giugno
2009, sostenendo come il burqa non fosse il benvenuto sul territorio francese, in quanto rinchiude le
donne in una sorta di recinto che non le fa dialogare con il mondo esterno. Tali valutazioni,
unitamente a profili emersi durante i lavori della commissione parlamentare di studio sulla pratica
di indossare il burqa, vengono rafforzate da richiami espressi all’art. 34, 1c. Cost., alla
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (art IV e X), al preambolo della costituzione
francese del 1946, all’art.1 della Cost., alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla
Convenzione europea sui diritti dell’uomo, al Patto internazionale sui diritti civili e politici, fino ad
arrivare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Innegabile è l’emergere da queste
carte di un urlo di libertà, di uguaglianza e di tutela dei diritti fondamentali degli individui anche se
a parere dei proponenti il burqa in sé nega questa comunità di diritti, facendo calare il sipario sul
volto delle donne, che non hanno più neppure la possibilità di manifestare il proprio viso. Per questo
l’assemblea nazionale dovrebbe in linea con le novità apprestate dall’ultima riforma costituzionale,
approvare una risoluzione forte, capace di riaffermare i valori posti a fondamento dello statocomunità francese, attraverso la tutela delle donne vittime di violenza e la promozione di una libertà
di coscienza calibrata sulla laicità. Invero quanto appena descritto appare un poco contraddittorio, a
partire dall’ossimoro contenuto al punto 7 della proposta di risoluzione “Ritiene che la libertà di
coscienza può essere esercitato solo in conformità con il principio di laicità”. Infatti dal testo
emerge una percezione della laicità piuttosto militante, basata sulla distinzione tra religioni buone e
compatibili con la repubblica, e religioni cattive ed in sé pericolose per i valori della convivenza
sociale. Sul punto c’è chi ravvisa nell’uso del burqà l’espressione di un’identità culturale
incompatibile con l’ordinamento francese e quindi anche con il principio di laicità, in particolare
PH. CHRESTIA, La burqua est incompatible avec la nationalité française, in AJDA, 2008, 2013.
Insomma non si vuole esprimere apertamente un divieto, ma il senso che se ne può trarre va in
questa direzione. Inoltre lo strumento della risoluzione, così come modificato dalla riforma
costituzionale, perde l’occasione per essere un momento di affermazione della centralità e
dell’indipendenza del parlamento, subendo una sorta di presidentalizzazione, riportando in sostanza
sulla scena politica ed istituzionale il pensiero del presidente della Repubblica, circa la pratica del
burqa. Conferma questa che la nuova riforma costituzionale, nelle parti già attuative, più che
rimodulare la forma di governo, ridimensionando il ruolo del presidente, in realtà forse ne ha solo
delimitato meglio i poteri e le modalità di esercizio, lasciandolo per altro, aldilà dell’investitura
popolare, assolutamente irresponsabile, anche per gli atti che indirettamente, e questo grazie al
rapporto diretto che ora può avere con il parlamento, riesce a sollecitare.
La recente disposizione costituzionale afferma che “le assemblee possono votare risoluzioni alle
condizioni stabilite dalla legge organica”, aggiungendo che “sono irricevibili e non possono essere
iscritte all'ordine del giorno le proposte di risoluzione, di cui il Governo ritenga che la loro adozione
o rigetto possa essere di natura tale da mettere in causa la sua responsabilità o che esse contengano
ingiunzioni nei suoi confronti.” La scelta della risoluzione si dimostra, del resto, particolarmente
agile, dal momento che le proposte non sono sottoposte alla commissione di cui al paragrafo 3
dell'articolo 136 del regolamento dell'Assemblea Nazionale ed il tempo minimo tra la presentazione
di una proposta di risoluzione e la sua iscrizione all'ordine del giorno dell'Assemblea Nazionale è di
soli sei giorni, ai sensi dell'articolo 5 della legge organica n. 2009 -403, 15 aprile 2009, e comma 5
dell'articolo 136 del regolamento dell'Assemblea (sul punto e più in generale sulla portata della
revisione costituzionale del 2008, cfr. P. COSTANZO, La “nuova” Costituzione della Francia,
Torino, 2009, 249).
Assemblea nazionale, XIII Legislatura, séance du 25 novembre 2009, (http://www.assembleenationale.fr/13/cr miburqa/09-10/c0910014.asp).
Avrebbe inoltre un ruolo di supporto per i funzionari pubblici davanti al fenomeno del velo
integrale, che potrebbero “far riferimento a questa risoluzione per giustificare le decisioni
quotidiane, che possono essere oggi fonti di contenziosi, in quanto talvolta vengono interpretate
come segregazioniste”, come ha sottolineato Jean-Yves Le Bouillonnec, vicesindaco di Cachan. A
tal fine, la risoluzione potrebbe essere diffusa nell’ambito dei servizi pubblici attraverso una
circolare, dal momento che sarebbe utile al fine di farne valere i contenuti, porla all’attenzione di
prefetti, sindaci, direttori e di tutti i soggetti potenzialmente interessati. Il testo della risoluzione
potrebbe quindi essere diffuso formalmente nei servizi pubblici, fornendo così una maggiore
legittimità alle decisioni dei funzionari pubblici.
Il 29 aprile la Camera belga ha approvato un disegno di legge che prevede un'ammenda che va
dai 15 ai 25 euro fino ad una settimana di reclusione per chi, in luoghi pubblici, indosserà abiti o
copri capi che ne impediranno l'identificazione. L'unica eccezione prevista è per le feste di
carnevale ed in generale per gli appuntamenti in maschera. E’ prevedibile che il senato la approverà
entro l’estate.
Così individuato, sarebbe per sua stessa natura un spazio condiviso, aperto a tutti i consociati, e
quindi sarebbe, per vocazione, un orizzonte di libertà, sottoposto all'articolo 4 della Dichiarazione
del 1789, secondo la quale questa libertà consiste nel “poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri”.
Non ci sarebbero limiti in questo spazio, se non “l’assicurare agli altri membri della società il
godimento degli stessi diritti”, e questi limiti potrebbero essere determinati solamente dalla legge,
secondo i termini della Dichiarazione o più genericamente dell’ordinamento.
Questo ragionamento peraltro permette di giustificare la distinzione fatta, nel diritto pubblico
francese, tra spazio pubblico dedicato alla libertà di circolare, il cui inquadramento giuridico si
limita alle esigenze di sicurezza, e lo spazio pubblico dedicato ad una servizio pubblico, che
permette evidentemente l'esistenza di regole specifiche e ulteriori, finalizzate a garantire lo
svolgimento del servizio stesso. Sul punto cfr. J.TRAVARD, Jean Rivero et les lois du service
public, AJDA 2010, 987.
Ancora si dovrà valutare se apprezzare il porto del velo in modo obiettivo, e quindi come
condotta isolata e autonoma, o qualificarla come una forma di manifestazione di un'appartenenza
religiosa. La domanda è di non poca importanza, perché un testo di legge che andasse a colpire solo
la condotta di coprirsi il volto con determinati abbigliamenti e non con altri, creerebbe a livello
applicativo una serie di problemi di carattere discriminatorio, dal momento che si assisterebbe ad
una regola giuridica che verrebbe applicata al solo velo integrale.
È tuttavia noto come sia nel frattempo decollato nel Parlamento francese il procedimento
legislativo tendente all’Interdiction de la dissimulation du visage dans l'espace public (Assemblée
nationale - PJ n° 2520 - 19 mai)
Resolution, n. 1743/ 2010, Islam, Islamism and Islamophobia in Europe, (il testo integrale della
risoluzione
si
può
reperire
http://assembly.coe.int/Mainf.asp?link=/Documents/AdoptedText/ta10/ERES1743.htm).
su
Di
particolare rilievo appare il fatto che, mentre in Belgio, Francia, Spagna e Italia si cerca di mettere
al bando il velo integrale nei luoghi pubblici, l’Assemblea abbia dichiarato che l’atto di indossare il
velo da parte delle donne è spesso percepito come “un simbolo di sottomissione delle donne agli
uomini”. Tuttavia, un divieto generalizzato negherebbe alle donne “che lo desiderano per libera
scelta” il diritto di coprire il proprio viso.