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L'INIZIO DELLA "STORIA BIPOLARE" E LE SUE CAUSE
1.UNA TESI INTERPRETATIVA DELL'INIZIO DELLA GUERRA FREDDA
Il discorso di Churchill a Fulton, alla presenza di Truman, viene ormai considerato
dagli storici come la piattaforma programmatica ed ideologica di quella che sarà
chiamata la GUERRA FREDDA e quindi data simbolica del suo inizio.
" Con questo discorso -dice G.Boffa- Churchill chiudeva la fase delle coalizioni
antifasciste e tracciava lo schema di un nuovo schieramento mondiale in cui l’URSS
non è più alleato ma avversario da combattere”1.
Ma piuttosto che ricercare un preciso momento storico al quale ricollegare l’entrata
nella guerra fredda dell’alleanza antifascista e antinazista, è più utile individuare e
comprendere le cause di questo lungo periodo della storia del Novecento.
Considerata l’estrema debolezza economica e la grande miseria dell’URSS
postbellica rispetto agli USA, che disponevano anche di una bomba atomica (l’URSS
avrà la sua bomba atomica solo nel ’45), tanto che piuttosto “ ..di due superpotenze
alla fine della guerra ve ne era una sola: gli Stati Uniti..” , cosa di cui i dirigenti
americani erano consapevoli, come si evince dai dispacci dell’ambasciatore
Harriman: la prevalente responsabilità della politica che porterà allo stato di tensione
deve essere attribuita agli Stati Uniti perché “..una nazione che dispone di una grande
supremazia …non può pretendere di essere costretta a seguire una determinata
politica”. “Gli altri , compresi i sovietici, potevano solo condizionarne gli sviluppi”.
Anche questi ultimi ebbero delle responsabilità, minori e subordinate, delle occasioni
perdute soprattutto a causa dei passi falsi di Stalin come ad esempio nel caso delle
-
1
“Storia dell’Unione Sovietica”, di G. Boffa; Mondadori Editore.
rivendicazioni nei confronti dell’Iran e della Turchia, completamente infondate e
quindi destinate a fallire.
Gli USA si trovarono impreparati a fronteggiare i cambiamenti rivoluzionari che la
guerra aveva provocato nel mondo e furono sordi alle richieste che si levavano
dall’uno e dall’altro continente.
“Non soltanto ci fu scarsa propensione a prestare orecchio alle rivendicazioni
sovietiche..” ma vi fu anche il “..rifiuto di riconoscere quanto di autoctono vi fosse
nelle trasformazioni che si andavano operando nell'Europa orientale, in Jugoslavia, in
Grecia..” ed anche nella Cina postbellica dove i capi della rivoluzione cercarono un
accordo con i dirigenti americani, non con Stalin, senza ottenere i risultati sperati.
Quella che poi sarebbe stata chiamata “Guerra Fredda” faceva così i suoi primi passi.
2.IL SECONDO DOPOGUERRA: PROBLEMI E TENSIONI
Alla fine della seconda guerra mondiale era opinione comune che la progressiva
stabilizzazione politica ed economica delle maggiori potenze mondiali e di tutti i
paesi coinvolti nel conflitto, avrebbe contribuito a frenare il diffondersi del
fenomeno, di vasta portata, dell’emigrazione: ciò non è avvenuto anzi si sono
registrati notevoli flussi migratori, simili a veri e propri “esodi” di popolazioni, al
punto che il nostro secolo è stato anche ribattezzato come “ il secolo dei rifugiati”.
Per analizzare il fenomeno su scala europea e mondiale, è necessario delineare un
preciso quadro economico e politico-sociale, individuare avvenimenti di portata
internazionale che ne possono avere influenzato gli sviluppi, oltre che mettere in
rilievo il ruolo assunto dalle principali organizzazioni assistenziali internazionali a
favore dei “rifugiati”.
In Europa le devastazioni provocate dalla guerra in termini di vite umane, di risorse
economiche e di ordine politico-giuridico e morale, furono incommensurabili. La
ricostruzione delle strutture economiche e delle infrastrutture essenziali era un
problema molto complesso che richiedeva un notevole impegno organizzativo e la
necessità di stabilire e rispettare le esigenze prioritarie. Altrettanto delicata era la
ricostruzione del sistema giuridico-amministrativo e politico-sociale dopo anni di
illegalità e di travagliati regimi dittatoriali: cominciavano a ricostituirsi partiti e
sindacati, a scatenarsi risentimenti e rivendicazioni politiche, mentre il problema
della reintegrazione sociale di ex deportati ed ex combattenti assumeva proporzioni
rilevanti. Non meno problematica era la ricostituzione dei fondamenti morali e
culturali di ogni nazione: bisognava creare le condizioni politiche affinché gli uomini
di ogni paese potessero essere veramente cittadini.
La guerra aveva generato e fatto maturare una forte consapevolezza dei valori della
libertà e della democrazia e l’impossibilità di un orgoglioso isolamento nazionalistico
e autarchico era evidente: di qui il clima di viva solidarietà nel quale presero corpo le
maggiori organizzazioni internazionali, in particolare l’organizzazione delle Nazioni
Unite, a tutela dei diritti dell’uomo e della pace nei singoli paesi e nel mondo. Di qui
l’accentuarsi dell’interessamento delle potenze mondiali emergenti verso l’Europa, il
che, all’incrinarsi dei rapporti tra l’URSS e gli Stati Uniti d’America, avrebbe fatto
esplodere forti tensioni interne ed esterne.
3.USA E URSS: LA FINE DI UNA GRANDE ALLEANZA
La seconda guerra mondiale fu dunque un evento di proporzioni considerevoli che
influì profondamente sull’assetto politico ed economico di ogni paese coinvolto,
portando al fatale epilogo la crisi dell’ Europa delle grandi potenze, che si era aperta
con il primo conflitto mondiale. La Germania era stata sconfitta; Francia ed
Inghilterra uscivano dalla guerra gravemente indebolite e ormai incapaci di sostenere
il ruolo di potenze mondiali; gli Stati Uniti, economicamente e militarmente superiori
ad ogni altro paese e la Russia vincitrice, ma umanamente, e non solo, provata dalla
guerra, assurgevano al ruolo di superpotenze mondiali. Dal dopoguerra in poi
l’Europa avrebbe subito l’incombenza minacciosa di un precario equilibrio tra i due
paesi che tendevano a contrapporsi radicalmente sul piano politico ed economico.
Gli Stati Uniti differentemente dagli altri paesi belligeranti, alla fine del conflitto si
trovarono costretti ad affrontare non un problema di ricostruzione quanto un
problema di riconversione. Ben presto la forte spinta ideologica che aveva animato il
paese durante la presidenza di Roosvelt si sarebbe lentamente esaurita, a causa del
venir meno dei presupposti economici e politico-sociali del New Deal: in seguito
Truman avrebbe tentato di portare avanti la politica riformista roosveltiana, senza
raggiungere obiettivi concreti ma riuscendo a salvaguardare le conquiste
fondamentali fino allora ottenute.
Per l’Urss il dopoguerra fu segnato da un sensibile accentuarsi della connotazione
autocratica e repressiva del regime staliniano in risposta alle impellenti necessità
della ricostruzione e all’inevitabile confronto con l’Occidente: la ricostruzione
economica sovietica fu molto rapida e rivolta essenzialmente al settore industriale più
che a quello agricolo, per favorire un notevole potenziamento anche sul profilo
militare.
Senza dubbio la “gestione della pace” da parte degli USA fu in un certo senso più
generosa e lungimirante rispetto a quanto era stato messo in atto dall’Intesa nel primo
dopoguerra. La partecipazione americana alla seconda guerra mondiale aveva assunto
proporzioni ben diverse rispetto all’intervento nella grande guerra: non si era trattato
di un semplice contributo ma, politicamente e militarmente, di una partecipazione
decisiva. Gli Stati Uniti d’America non avrebbero potuto rifiutare quel ruolo di
grande potenza che avevano già acquisito in seguito al primo conflitto ma che non
avevano voluto assumere pienamente durante il periodo interbellico. Nelle prime fasi
della politica internazionale del secondo dopoguerra si avvertì immediatamente un’
inversione di tendenza da parte degli Stati Uniti: dall’isolazionismo del New Deal
inaugurato da Roosvelt ad un’interventismo quasi esasperato in ogni questione
internazionale. Forse ripercorrere le tappe della politica estera americana equivale in
un certo senso a ricostruire la storia delle relazioni internazionali della seconda metà
del nostro secolo.
Alla Società delle Nazioni istituita in “occasione” della conferenza di Versailles,
subentrò l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Il primo passo verso la
costituzione dell'ONU fu la Carta Atlantica, firmata dal presidente statunitense
Franklin D. Roosevelt e dal primo ministro britannico Winston Churchill nel 1941:
la necessità di raggiungere un'intesa verso un sistema di sicurezza e cooperazione
internazionale fu ribadita un anno dopo nella Dichiarazione delle Nazioni Unite del
1942 siglata da 26 nazioni alleate in guerra contro le potenze dell'Asse. Tuttavia
solo con la conferenza di Mosca del 1943, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Cina e
Stati Uniti cominciarono ad impegnarsi concretamente per creare nel più breve
tempo possibile, un'organizzazione internazionale in grado di “salvare le
generazioni future dal flagello della guerra”. Con l'incontro di Dumbarton Oaks
(Washington, DC, USA) nel 1944 prese forma una bozza della carta fondamentale
delle future NU; rimaneva però un forte disaccordo sulla procedura di voto entro il
Consiglio di sicurezza, organo direttamente responsabile del mantenimento della
pace. Tale motivo di dissenso fu risolto con la conferenza di Yalta nel febbraio del
1945, quando i sovietici accettarono le limitazioni imposte alle superpotenze in
materia procedurale, fermo restando il diritto di veto dei membri permanenti del
Consiglio sulle decisioni più importanti. I delegati di 50 nazioni alla conferenza
delle Nazioni Unite sull' Organizzazione internazionale si incontrarono a San
Francisco nell'aprile del 1945 e, in base al progetto di Dumbarton Oaks, stesero in
due mesi i 111 articoli che compongono il testo dello statuto delle NU, che fu
approvato nel giugno del 1945 ed entrò in vigore nell'ottobre dello stesso anno.
Obiettivo primario delle NU era dunque garantire la pace nel mondo promuovendo
il progresso economico e politico-sociale di tutti i popoli del mondo.
Senza nulla togliere al ruolo determinante che tale istituzione ha ricoperto durante
questo secolo, in qualità di punto di riferimento della diplomazia internazionale, era
evidente sin dai primi anni che tale istituzione rispecchiava, suo malgrado, lo stato
di aperta conflittualità della comunità internazionale.
Dal punto di vista economico gli Stati Uniti tentarono di riattivare il mercato
mondiale favorendo ampi movimenti di capitali, in un regime di libera concorrenza:
con gli accordi di Bretton-Woods del luglio 1944 fu costituito il Fondo Monetario
internazionale e ad esso fu associata la Banca mondiale che avrebbe dovuto
concedere prestiti a medio e lungo termine per finanziare la ricostruzione e lo
sviluppo dei singoli paesi. Lo scopo di questo fondo monetario era, in primo luogo,
offrire un adeguata riserva valutaria mondiale a disposizione di tutti gli Stati membri
e in secondo luogo, assicurare la stabilità dei cambi valutari. I paesi nei quali vigeva
ancora il regime comunista non si associarono al fondo monetario e chiaramente era
interesse degli Stati Uniti stimolare profondamente la rinascita economica europea in
modo da riuscire a monopolizzare buona parte dei mercati internazionali in funzione
dei propri parametri politici ed economici.
Tuttavia la “grande alleanza” tra le potenze vincitrici, che già aveva iniziato ad
incrinarsi prima della fine della guerra, entrò definitivamente in crisi con la morte di
Roosvelt: gli Stati Uniti miravano senza dubbio alla ricostruzione di uno stabile
ordine mondiale, godendo del primato economico ed avendo subito in misura minore
le devastanti conseguenze della guerra, l’Unione Sovietica invece, avendo subito
perdite e devastazioni ingenti, esigeva il “prezzo” della vittoria in termini politici ed
economici. Nonostante questi gravi contrasti di fondo Roosvelt era convinto che
fosse possibile mantenere aperto il dialogo con i sovietici e stabilire un ordine
europeo nell’ambito del quale l’Urss avrebbe avuto l’importante funzione di garantire
la sicurezza nell’area dei paesi comunisti.
L’avvento di Truman alla presidenza degli Stati Uniti accese il contrasto riguardo
due nodi fondamentali della politica internazionale: il futuro della Germania e gli
sviluppi della politica internazionale in Europa orientale dove cominciava a prender
corpo il progetto di assoggettamento di Stalin. Alla conferenza di Parigi, che si tenne
fra il luglio e l’aprile del 1946 il nodo fondamentale del conflitto restò irrisolto: tra
Unione Sovietica e Stati Uniti si stava ormai per aprire quella fase della politica
mondiale che venne definita come guerra fredda, una guerra mai combattuta, ma
portata avanti quasi esclusivamente sul piano diplomatico, sintomo di uno stato di
continua tensione tra gli stati che costituivano i blocchi contrapposti formatisi attorno
a USA e URSS.
Lo scontro che acquisì progressivamente la fisionomia di una dichiarata ostilità,
affondava le sue radici nell'inconciliabilità delle ideologie alla base dei due sistemi
politico-economici, capitalismo e comunismo, che ispiravano chiaramente interessi
“geopolitici” completamente opposti.
Il carattere bipolare di questo conflitto contribuì a semplificare il quadro
internazionale, frenando il dinamismo politico che aveva caratterizzato il precedente
sistema, dominato da più potenze, con l'esito paradossale di aver garantito il più
lungo periodo di pace nella storia dell'Europa contemporanea.
4.LA “GUERRA FREDDA”: UN ’ EUROPA DIVISA E LA CRISI DEL SISTEMA
COMUNISTA
La conferenza di Parigi del 1946 era stato l’ultimo atto della cooperazione
postbellica fra l’URSS e le potenze occidentali: proprio mentre era ancora in corso la
conferenza si aprì un forte contrasto tra l’Unione sovietica e la Turchia relativamente
alla questione dello stretto di Dardanelli.
Ne sorse un caso internazionale che vide coinvolti in prima linea gli Stati Uniti:
Truman non avrebbe mai potuto accettare che la Turchia e probabilmente la Grecia,
successivamente, rientrassero nel disegno di assoggettamento staliniano dell’URSS.
La flotta americana fu inviata nel Mar Egeo a sostegno della Turchia: era forse solo
una prova di forza, ciò che contava era dare una dimostrazione tangibile del nuovo
atteggiamento assunto dagli Stati Uniti nei confronti della politica internazionale
europea.
Con la Rivoluzione d’ottobre, esplosa durante gli anni della grande guerra, il
successo del comunismo e la creazione dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche, fu
accolta con diffidenza e forti timori dalle principali nazioni occidentali (Stati Uniti
inclusi) e dal Giappone, che erano intervenuti direttamente nelle vicende successive
alla rivoluzione, sostenendo le Armate bianche controrivoluzionarie in lotta contro i
bolscevichi fino a tutto il 1922. In seguito l'Unione Sovietica venne a trovarsi in uno
stato di completo isolamento politico e diplomatico sino alla seconda guerra
mondiale, quando entrò a far parte del fronte costituitosi contro le potenze dell’Asse.
La liberazione dell'Europa orientale dalle forze nazifasciste attuata dalle armate di
Stalin determinò l'inclusione di vaste regioni nella sfera d'influenza del governo di
Mosca, alterando profondamente il l’equilibrio politico internazionale del periodo
prebellico.
Harry Truman che, prima di essere eletto alla presidenza come candidato del
Partito democratico, aveva ricoperto la carica di vicepresidente sotto il governo
Roosevelt: durante i primi anni di governo dovette affrontare situazioni
particolarmente difficili ed assumere decisioni di grande responsabilità. Dopo una
fase iniziale di indecisione adottò una linea politica decisa nei confronti di Stalin,
rivedendo molte delle posizioni concilianti assunte su diversi temi dal suo
predecessore, Franklin Delano Roosevelt, al fine di prolungare, oltre la fine delle
ostilità, l'alleanza con URSS e Gran Bretagna. Fu così che di fronte a nuovi motivi
di tensione sorti in seguito ai tentativi sovietici di estendere la propria influenza in
Turchia, e a un discorso tenuto da Stalin nel febbraio del 1946, che confermava la
visione di una inconciliabilità tra i sistemi comunista e capitalista, Truman sciolse
senza alcuna remora le ultime perplessità statunitensi circa le reali possibilità di
cooperazione con gli ex alleati. Nel marzo del 1947 fu enunciata la dottrina
Truman, la teoria del containment, il contenimento del "pericolo sovietico" in difesa
dei diritti di libertà e autonomia dei popoli, sulla base della quale gli Stati Uniti si
impegnarono concretamente inviando aiuti economici e militari a quelle nazioni
(come la Grecia e la Turchia, le prime a beneficiare degli aiuti) che per la loro
instabilità interna erano particolarmente esposte alla propaganda comunista e alle
pericolose mire espansionistiche di Mosca.
Seguendo questa linea politica nel giugno 1947 il governo degli Stati Uniti lanciò
il Piano Marshall un programma di aiuti economici elaborato dal segretario di stato
statunitense George Catlett Marshall e proposto con il nome di European Recovery
Program (Programma di ricostruzione europea), per favorire la ricostruzione
economico-finanziaria delle nazioni europee devastate dalla seconda guerra
mondiale. Questo piano di aiuti economici fu a lungo osteggiato dall’Unione
Sovietica che vedeva il progetto come un eventuale strumento di assoggettamento
dell’Europa. Infatti alla base di quest’iniziativa vi erano ragioni molteplici:
innanzitutto un'Europa non prospera e quindi economicamente inefficiente avrebbe
gravemente danneggiato lo stesso sistema economico americano poiché avrebbe
provocato la lenta perdita di un mercato d'importanza capitale; in secondo luogo, la
crisi economico-sociale dei paesi europei offriva ampie opportunità alla propaganda
comunista e agli interessi dell'Unione Sovietica; infine, si rendeva indispensabile,
quale “tampone” contro l'espansione sovietica, la ricostruzione della Germania
occidentale, il cui inserimento nel più ampio contesto di un'Europa integrata poteva
inoltre contribuire a ridimensionare i timori degli altri paesi europei nei confronti
del “vecchio nemico”. Marshall rese sollecitamente nota la disponibilità americana
a finanziare un programma unitario di ricostruzione europea, ma un primo incontro
a Parigi, per definire le linee essenziali del piano, tra i rappresentanti di Francia,
Gran Bretagna e URSS, si rivelò un fallimento. Di fronte alla prospettiva di dover
interagire con i sistemi economici capitalisti più avanzati Stalin si convinse della
necessità di mettere a punto un proprio programma di ricostruzione, che fosse
indirizzato ai soli paesi dell'Europa orientale posti sotto la sua influenza: nel
settembre del 1947 nacque così il Cominform, l'Ufficio d'informazione dei partiti
comunisti, una sorta di riedizione, pur se in tono minore della Terza Internazionale:
il dialogo tra le due superpotenze poteva ritenersi decisivamente concluso. In
seguito, ad un'ulteriore conferenza a Parigi parteciparono i rappresentanti di sedici
nazioni dell'Europa occidentale e il progetto fu ratificato il 22 settembre. I fondi
erogati tra il 1948 e il 1952 dal Congresso statunitense ammontarono
complessivamente a poco più di tredici miliardi di dollari, in buona parte utilizzati
per acquistare negli Stati Uniti beni concessi poi agli alleati a titolo gratuito, oltre
che per finanziare prestiti a fondo perduto, macchinari e derrate alimentari. Il
programma fu gestito dall'agenzia federale (Amministrazione per la cooperazione
europea) in collaborazione con l'Organizzazione per la cooperazione economica
europea (OECE), creata dai sedici paesi che beneficiarono degli aiuti. Tuttavia nelle
fasi successive della guerra fredda, una parte sempre maggiore dei fondi fu
utilizzata per sostenere le spese militari più che il processo di ricostruzione
industriale; ciononostante, al termine del programma, i livelli produttivi eurooccidentali superarono del 35% quelli prebellici.
Nei paesi in cui l’influenza sovietica era dominante ( come Polonia, Ungheria,
Romania, Bulgaria, Albania, Jugoslavia e Germania orientale) la struttura politicoeconomica venne gradualmente riorganizzata sul modello di quella sovietica. Nello
stabilire il proprio dominio politico in queste aree, Stalin mirò anzitutto a cercare
una forma di cooperazione nei governi di coalizione, in cui i comunisti
rappresentavano una minoranza, controllando indirettamente i ministeri, dirigendo
le forze dell’ordine, l’esercito e influenzando l’economia.
A partire dal 1947, la nascita di regimi controllati dai comunisti fu un fenomeno
molto diffuso che suscitò non poche perplessità sul fronte americano. Nel 1948
anche la Cecoslovacchia, paese non rientrante direttamente nell’orbita sovietica,
passò sotto il dominio comunista; la Jugoslavia, guidata dal maresciallo Tito,
resistette alle pressioni sovietiche, il paese venne espulso dal Cominform e continuò
a promuovere una politica di non allineamento.
Tuttavia fu sul terreno di scontro della “questione tedesca” che effettivamente si
avvertì un’atteggiamento politico-diplomatico completamente mutato su entrambi i
fronti. Alla fine della seconda guerra mondiale, con la resa incondizionata della
Germania e con il tramonto definitivo del Terzo Reich, i leader delle potenze
vincitrici, riunitisi alla conferenza di Potsdam del 1945, decisero di dividere
temporaneamente la Germania e la capitale Berlino, in quattro zone d'occupazione:
quella francese a sud-ovest, quella inglese a nord-ovest, quella americana a sud e
infine quella sovietica a est. Il clima politico internazionale venutosi a creare con il
sopraggiungere della Guerra Fredda rese evidente l’impossibilità di giungere ad un
accordo sul futuro del paese, e quella che doveva essere una divisione preventiva e
temporanea portò alla costituzione di un governo liberal-democratico nella parte
occidentale (occupata dalle forze militari di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) e
di un regime comunista in quella orientale (sotto l’occupazione sovietica).
Infatti, essendo venuta a mancare ogni possibilità d’intesa, a partire dagli inizi del
’47 Stati Uniti e Gran Bretagna avevano contribuito in modo rilevante a favorire
una piena ripresa economica della Germania occidentale realizzando una riforma
monetaria, liberalizzando l’economia e promuovendone un notevole sviluppo grazie
ai sostegni apportati dal piano Marshall.
Di fronte a quella che si profilava ormai da tempo come la rinascita dello Stato
tedesco di fronte ad una Russia che aveva versato il più alto contributo di sangue
con i suoi venti milioni di morti, nel giugno 1948 Stalin reagì chiudendo gli accessi
alla città, in modo da impedirne i rifornimenti, nella vana speranza di indurre le
forze occidentali ad abbandonare la zona ovest della Germania. Il blocco di Berlino
fu una prova di forza da parte dell’Urss che segnò la fase di massima tensione
dell’intero periodo della guerra fredda e sembrò portare l’Europa nuovamente
sull’orlo del conflitto. Fortunatamente nel giro di un anno la crisi si risolse: gli
americani organizzarono un ponte aereo per rifornire la città e i sovietici nel maggio
’49 si ritirarono da Berlino. Nello stesso mese le tre zone occidentali della
Germania vennero unificate e fu proclamata la Repubblica federale tedesca con
capitale Bonn, basata su un ordinamento federalistico e su una costituzione
democratico-parlamentare, mentre nella zona orientale venne creata la Repubblica
democratica tedesca con capitale Pankov, un sobborgo di Berlino, retta da un
regime di stampo comunista.
Negli anni Cinquanta le relazioni tra le due Germanie rimasero estremamente tese,
riflettendo il clima generale della Guerra Fredda, che aveva portato ad una divisione
dell'Europa in due blocchi. La divisione di Berlino nei due settori separati di
Berlino Est (sotto controllo comunista) ed Ovest (non comunista) pose ulteriori
difficoltà. Per frenare il flusso inarrestabile di tedeschi che si trasferivano in
Occidente semplicemente passando da un settore all'altro della città (calcolato in
oltre due milioni di persone), nel 1961 fu ordinata la costruzione di una barriera di
cemento fortificata che isolava completamente Berlino Est da Berlino Ovest, il
cosiddetto Muro di Berlino.
L’Europa, teatro di due devastanti guerre mondiali, si apprestava ora ad affrontare
un momento determinante della sua storia politico-istituzionale: infatti, nell’aprile
1949, fra i paesi dell’Europa occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda,
Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia, Grecia e Turchia
nel 1952, e Germania Occidentale nel 1955), gli Stati Uniti e il Canada, fu firmato a
Washington il Patto Atlantico un trattato di alleanza difensiva che prevedeva
l’organizzazione di un complesso apparato militare integrato costituito dai diversi
contingenti dei singoli paesi membri: la NATO (Organizzazione del trattato del
Nord Atlantico).
Il rifiuto del programma di ricostruzione europea da parte dei paesi dell’Est europeo
e la creazione dell'organizzazione comunista europea del Cominform nel 1947,
spinsero la maggior parte delle potenze europee occidentali a firmare il trattato di
Bruxelles (1948) che prevedeva tra l'altro la costituzione di un sistema di sicurezza
collettivo. Il progressivo deterioramento del clima internazionale e dei rapporti tra
gli ex Alleati, indussero l'Europa occidentale, il Canada e gli Stati Uniti ad aprire i
negoziati per il Trattato dell'Atlantico del Nord. Obiettivo principale della NATO
era il rafforzamento della stabilità, la promozione del benessere, della libertà e dei
valori comuni ai paesi membri e l’organizzazione di un efficiente sistema di
sicurezza collettiva. A questo proposito è possibile riassumere brevemente il
contenuto dei quattordici articoli sui quali si basa tale istituzione internazionale: il
primo articolo auspica una soluzione pacifica di ogni controversia internazionale;
l'articolo 2 invita le parti a promuovere un atteggiamento di reciproca
collaborazione politica ed economica; il terzo sottolinea la necessità e definisce i
limiti dello sviluppo del potenziale bellico a fini difensivi; il quarto impone
l'impegno della consultazione reciproca nel caso in cui la sicurezza di un paese
membro sia minacciata; in base all'articolo 5, le parti si impegnano a ricorrere
all’impiego delle forze armate per l' "autodifesa collettiva", mentre il sesto definisce
a livello territoriale l'area protetta dal trattato; nel settimo articolo si ribadisce il
dovere di rispettare la preminenza degli impegni politico-diplomatici contratti dalle
parti in base alla Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU); l'ottavo
prevede l'impegno esplicito a non stipulare trattati in contrasto con l’organizzazione
stessa. L'articolo nove istituisce un Consiglio di controllo che valuti
opportunamente le procedure seguite nel mettere in pratica gli articoli stessi del
trattato; il decimo chiarisce i criteri di ammissione di altri paesi; l'undicesimo
sancisce la procedura di ratifica del trattato e il dodicesimo prevede invece
un’eventuale procedura di revisione. I rimanenti due articoli sono dedicati alla
procedura di rinuncia al trattato e al deposito delle copie ufficiali del testo negli
archivi statunitensi. Tutt’oggi, la massima autorità della NATO è il Consiglio
dell'Atlantico del Nord, composto dai delegati permanenti di tutti gli stati membri e
guidato da un segretario generale; questo organismo è responsabile per gli indirizzi
politici di fondo, le scelte di spesa e le azioni amministrative. Al Consiglio sono
subordinati il Segretariato, diversi comitati temporanei e il Comitato militare. Il
segretario generale è a capo del Segretariato, organo destinato ad assolvere tutti i
compiti non militari dell'alleanza; i comitati temporanei si formano su specifici
mandati del Consiglio. Il Comitato militare è composto dai capi di stato maggiore
degli eserciti dei paesi membri e si riunisce in seduta plenaria due volte l'anno; per
il resto esso raduna i delegati in seduta permanente e definisce la politica militare
dell'Alleanza. Subordinati al Comitato militare si trovano i comandi regionali: il
Comando alleato per l'Europa, il Comando alleato per l'Atlantico, il Comando
alleato per la Manica e il Gruppo di pianificazione regionale per il Nord America,
responsabili del dispiegamento delle forze militari nelle rispettive aree di
competenza.
Fino al 1950 l'azione della NATO poté concretizzarsi nell'aiuto agli altri paesi
membri, soprattutto grazie al contributo statunitense, ma con lo scoppio della guerra
di Corea nel giugno del 1950, si sarebbe presto diffusa la convinzione che l'Urss
avrebbe potuto effettivamente imporsi sulla Germania Occidentale. Questa
preoccupazione portò all'istituzione non solo di un sistema di comando militare, ma
anche all'espansione dell'Organizzazione, con l'ingresso di Grecia e Turchia nel
1952 e della Germania Occidentale nel 1955, dopo un complesso negoziato in base
al quale si stabilì che essa non poteva produrre armi nucleari, biologiche o
chimiche, per cui durante il primo decennio della sua esistenza, la NATO fu
un'organizzazione militare dominata dagli Stati Uniti e un utile baluardo di
sicurezza per la ripresa postbellica europea. Indubbiamente la NATO ha consentito
ai paesi membri di intensificare i legami reciproci e di approfondire gli interessi
comuni, fornendo un importante modello per altri accordi di sicurezza collettiva.
Risulta difficile stabilire fino a che punto la NATO abbia validamente contribuito
a scoraggiare un attacco sovietico nei confronti dell'Europa occidentale, ma non si
può negare che d’altra parte il riarmo della Germania Occidentale e la sua
ammissione all'Alleanza contribuirono a favorire la nascita del Patto di Varsavia
nel 1955: basti pensare a proposito che già nel 1949, l’Urss aveva costituito,
insieme ad Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Romania e
Germania orientale, il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), per
coordinare efficientemente le attività economiche degli stati posti sotto il controllo
sovietico.
Il Patto di Varsavia era la risposta dell’Urss all’Organizzazione del trattato del
Nord Atlantico: formalmente definito come Trattato di amicizia, cooperazione e
mutua assistenza; si trattava chiaramente di un'alleanza militare fra sette paesi
dell'Europa comunista. Il trattato istitutivo venne siglato a Varsavia il 14 maggio
1955 da Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca,
Ungheria, Polonia, Romania e dall’Urss. Organi principali dell'alleanza erano il
Comitato consultivo politico (responsabile del coordinamento di tutte le attività non
militari) e il Comando unificato delle forze armate, che aveva diretta autorità sui
contingenti messi a disposizione dagli stati membri e secondo lo statuto il
comandante supremo doveva essere un ufficiale sovietico.
Già nello stesso 1949 l’estensione e la portata della guerra fredda crebbero in
seguito all'esplosione della prima bomba atomica sovietica; il chè, ponendo fine al
monopolio atomico statunitense, diede il via ad un’inarrestabile corsa al riarmo.
Tuttavia a partire dal 1953, anno della morte di Stalin, seguì un periodo di
allentamento della tensione, durante il quale il quadro politico internazionale
sembrò stabilizzarsi; tra l’altro si andava costituendo un “terzo blocco”, quello delle
nazioni non-allineate (per la maggior parte appartenenti al cosiddetto Terzo
mondo), deciso a non accettare che lo scontro tra USA e URSS condizionasse la
realtà politico-economica di tutto il pianeta.
Se inizialmente lo scenario principale della guerra fredda fu l’Europa, tra il ’48 e il
’49 si verificò un evento che costituì un punto di svolta fondamentale per il
confronto tra il “sistema socialista” e il “sistema capitalistico”: la vittoria da parte
dei comunisti cinesi in una guerra civile che per più di vent’anni li aveva visti
opporsi al Kuomintang del leader nazionalista Chang Kai-Shek. Fu un evento che
alterò profondamente i rapporti di forza complessivi e conferì una dimensione di
proporzioni mondiali alla guerra fredda.
La politica sovietica non potè non esserne profondamente influenzata: Stalin era
consapevole della notevole influenza degli Stati Uniti nei confronti della Cina, ed
era fermamente convinto non solo che la guerra civile avrebbe portato ad una
riunificazione del paese ma che si sarebbe risolta a favore di Chang, poichè nessun
dirigente comunista sarebbe stato in grado di portare a termine un simile obiettivo.
Gli americani infatti, pur garantendo il loro appoggio al leader nazionalista,
auspicavano il riassorbimento dei comunisti in una coalizione con gli avversari,
all’interno della quale avrebbero chiaramente dovuto accettare una posizione
minoritaria; fondamentalmente la politica sovietica non si discostava molto da
quella americana. Probabilmente, Stalin preferiva che fossero gli americani stessi a
risolvere la questione politico-diplomatica della Cina: essendo molto scarsi i
contatti con gli esponenti comunisti cinesi, i sovietici si sarebbero limitati a favorire
la nascita di un governo di coalizione.
Gli Stati Uniti, conclusasi la guerra, avevano tentato di aprire un dialogo tra i
comunisti cinesi e il Kuomintang; Stalin era consapevole del profondo odio
reciproco tra Chang Kai-shek e Mao Tse-tung, ma per quanto la lotta che essi
conducevano da anni avesse un indirizzo “democratico” più che “sovietico”, non
poté non consigliare ai comunisti cinesi di cercare un compromesso con i
nazionalisti. Infatti, progressivamente, l’URSS strinse maggiori contatti con i
comunisti cinesi arrivando a garantire loro un notevole sostegno.
Mao non si oppose mai apertamente ai “consigli” di Stalin, ma rimase fedele alla
propria linea politica: entrambe le parti non consideravano minimamente l’ipotesi di
raggiungere un compromesso anzi, Chang era convinto di poter contare
sull’appoggio degli Stati Uniti. Nel marzo ’47 Chang rilanciò la campagna militare
anticomunista: i tentativi dei mediatori americani erano falliti sia per l’orientamento
anticomunista della politica di Washington sia per l’incapacità di comprendere
pienamente le motivazioni di una eventuale rivoluzione cinese.
Le forze di Chang, pur avendo riscosso inizialmente importanti successi, non
avevano alcun sostegno popolare mentre i comunisti potevano contare
sull’appoggio dellle masse contadine: nel febbraio ’49 le truppe comuniste
entrarono a Pechino e Chang fu costretto a ritirarsi insieme al Kuomintang nell’isola
di Taiwan (Formosa).
Il 1° ottobre del 1949 Mao Tse–tung proclamò a Pechino la nascità della
Repubblica popolare cinese. Quale sarebbe stato il nuovo ruolo della Cina
nell’ambito della guerra fredda? Fino a che punto Mao avrebbe potuto sostenere
dichiaratamente una posizione di neutralità? Le circostanze politico-diplomatiche
spinsero Mao a riavvicinarsi a Stalin, indipendentemente dai legami tradizionali tra
i partiti comunisti dei due paesi: alla fine del giugno ’49 egli dichiarava che la Cina
rientrava nel campo antimperialista sovietico e che “ il partito comunista
dell’Unione Sovietica è il nostro migliore maestro e da esso dobbiamo imparare”.
Anche se formalmente non si era giunti ancora ad un accordo preciso le linee
dell’intesa erano ormai chiare: nel febbraio del 1950 la Cina stipulò con l’Unione
Sovietica un trattato di amicizia e di mutua assistenza , che impegnava i due
governi sul piano militare e su quello economico.
Nello stesso anno si ebbe la prova più drammatica delle reali proporzioni della
guerra fredda: la guerra di Corea, un conflitto che segnò il momento culminante del
confronto. La Corea per quarant’anni era stata sotto il dominio del Giappone: nel
’45, durante la seconda guerra mondiale, Unione Sovietica e Stati Uniti, secondo gli
accordi interalleati si attestarono rispettivamente a nord e a sud del 38° parallelo,
apparentemente senza alcun intento politico: secondo gli accordi di Jalta e Potsdam
la Corea sarebbe dovuta rimanere unita, anche se, inizialmente, gli americani
avevano proposto che il paese fosse sottoposto ad un periodo di protezione
internazionale, a differenza dei sovietici che erano favorevoli alla concessione
immediata dell’indipendenza. Il contrasto accesosi tra le due potenze rese
irrealizzabile il progetto tanto che nella Corea del Sud si insediò un un governo
nazionalista sostenuto dagli americani (Repubblica di Corea), mentre nella Corea
del Nord sorse in breve tempo un regime comunista guidato da Kim Il Sung
(Repubblica Democratica Popolare di Corea).
Dopo una serie di incidenti di frontiera, le forze armate nord-coreane violarono il
confine del 38° parallelo e invasero la Corea del Sud: forse il regime nord-coreano
aveva agito all'insaputa sia di Mosca sia di Pechino, ma senza dubbio erano state le
crescenti tensioni e la forte instabilità interne, prodotte dalla crescente opposizione
popolare al governo reazionario del presidente sudcoreano Syngman Rhee, a
convincere il leader nordcoreano Kim II Sung dell'opportunità di riunificare il
paese.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, riunitosi in assenza del delegato
sovietico, condannò duramente la Corea del Nord e approvò le sanzioni militari
proposte dagli USA. Tre giorni dopo il presidente degli Stati Uniti Truman inviò in
Corea contingenti precedentemente dislocati nel Pacifico, cui si unirono truppe
australiane, belghe, lussemburghesi, canadesi, colombiane, etiopi, francesi,
britanniche, greche, olandesi, neozelandesi, filippine, sudafricane, thailandesi e
turche, supportate da unità mediche danesi, indiane e svedesi, tutte poste sotto il
comando del generale americano Douglas Mac Arthur.
Per la prima forza di pace operativa creata sotto l'egida dell'ONU, il conflitto si
rivelò molto più difficile del previsto.
Ignorando gli avvertimenti dei cinesi, che avevano minacciato di entrare nel
conflitto se il limite del 38° parallelo fosse stato raggiunto e attraversato dalle
truppe del generale Mac Arthur, le forze dell'ONU penetrarono nella Corea del
Nord, il 7 ottobre ne occuparono la capitale Pyongyang, quindi proseguirono fino
al confine con la Cina. Il regime di Pechino a quel punto intervenne, sostenendo una
nuova offensiva che portò alla liberazione di Pyongyang, all'occupazione di Seoul il
4 gennaio 1951 e, di nuovo, allo spostamento del fronte sul 38° parallelo.
Il corso degli avvenimenti convinse Truman ad abbandonare l'obiettivo di
riunificare la Corea, abbattendo il regime comunista del Nord, per aprire nuove
trattative, limitandosi a garantire un’eventuale riconferma della situazione
prebellica; su questo punto il presidente ebbe una violenta divergenza di opinioni
con il generale MacArthur, che venne destituito al culmine della vittoriosa
controffensiva che nella primavera del 1951 riportò il fronte sul confine originario
tra le due Coree, dove si sarebbe stabilizzato definitivamente sino al termine della
guerra.
Nel giugno del 1951 l'Unione Sovietica tornò a partecipare alle riunioni del
Consiglio di sicurezza per promuovere l'avvio di negoziati per il cessate il fuoco; le
trattative, iniziate il 10 luglio 1951, proseguirono per due anni e portarono alla
firma di un armistizio a Panmunjom nel luglio del 1953. Il bilancio del conflitto (nel
quale giocò un ruolo rilevante l'aviazione) risultò pesantissimo: oltre agli immensi
danni economici, Corea del Nord, Corea del Sud e Cina subirono gravi perdite
umane.
Una nuova fase di tensione sarebbe ripresa sul finire degli anni Cinquanta a causa
della produzione, da parte di entrambi gli schieramenti, di missili balistici atomici
intercontinentali: il muro di Berlino, eretto nel 1961, era ormai diventato il simbolo
della guerra fredda e nel 1962, quando l'Urss schierò alcuni missili a Cuba, sua
alleata, in grado di raggiungere il territorio statunitense sembrò essere imminente
una guerra nucleare ma di fronte alla minaccia di una rappresaglia atomica degli
Stati Uniti, Mosca smantellò i missili.
L'esito della crisi cubana dimostrò chiaramente la possibilità di passare da uno
scontro frontale, teso all'eliminazione dell'avversario, a una “coesistenza
competitiva” tra le due superpotenze, le quali d'altra parte stavano assistendo a un
progressivo ridimensionamento della rispettiva egemonia: Mosca dovette subire la
rottura dell'alleanza con la Cina di Mao e affrontare la rivolta della Cecoslovacchia,
chiaro segno del malessere presente oltrecortina; dal canto loro gli Stati Uniti
avrebbero conosciuto con la guerra del Vietnam l'esperienza della sconfitta militare.
Il prolungarsi del conflitto coreano aveva dimostrato l’inconsistenza della politica
estera americana: nel ’52 dopo vent’anni di amministrazione da parte del partito
democratico, le elezioni presidenziali furono vinte dal repubblicano Eisenhower.
Il nuovo segretario di Stato, Forest Dulles, era uno dei più accesi fautori della
guerra fredda e fu il promotore della teoria del roll back, ovvero non più della
necessità di contenere il pericolo comunista ma di farlo “rotolare indietro”:
l’anticomunismo americano divenne ideologia di massa e ciò contribuì ad
accrescere il peso delle contraddizioni insite nella politica mondiale degli Stati
Uniti, alleviando la posizione dell’URSS.
L’ITALIA NEL TRAVAGLIO DEL DOPOGUERRA EUROPEO
Alla fine della guerra in Europa la situazione economica e politico-istituzionale
dell'Italia versava in condizioni disastrose: l’opinione pubblica non poteva non aver
risentito delle diffidenze e delle divergenze sorte in seguito alle differenti
esperienze affrontate dal Sud, che aveva conosciuto l’occupazione degli alleati sia
in regime di armistizio che di cobelligeranza, e dal Nord, dove aveva preso corpo la
Resistenza politica e militare contro i Tedeschi e la Repubblica di Salò grazie
all’iniziativa dei partiti antifascisti organizzati nei Comitati di Liberazione
Nazionale (CNL).
Cresceva il fermento politico dovuto al processo di epurazione dalle cariche e di
smantellamento delle strutture burocratico-amministrative dello Stato fascista:
tuttavia i governi di emergenza istituiti tra il ’44 e il ’45, pur essendo espressione
unitaria delle nuove forze politiche organizzate nei partiti e nei CNL, non furono in
grado di dare una risposta adeguata alle reali esigenze del paese.
A liberazione compiuta, Bonomi cedette il governo a Parri, esponente del Partito
d’Azione e delle correnti politiche più innovatrici: nonostante il sostegno dei
principali uomini politici del tempo come il socialista Nenni, il liberale Brosio, il
democristiano De Gasperi, e il comunista Togliatti, Parri non riuscì a controllare le
tensioni provenienti dai partiti esterni alla maggioranza di governo, né a
stabilizzare il funzionamento degli apparati amministrativi, e a favorire la ripresa
economica. Infatti, venuta meno la fiducia della maggioranza, il governo Parri
cadde nel novembre ’45: fu nominato capo del governo il democristiano Alcide De
Gasperi che inaugurò una svolta in senso moderato della politica italiana.
Il 2 giugno 1946 i cittadini vennero chiamati alle urne, a suffragio universale
maschile e femminile, per le elezioni dell’Assemblea costituente ma avrebbero
anche dovuto decidere, mediante un referendum, se mantenere in vita la monarchia
o trasformare l’Italia in una repubblica democratica. I risultati decretarono
l’affermazione della repubblica e la crescente avanzata dei partiti di massa, come la
DC il PCI e il partito socialista, a discapito dei vecchi gruppi liberal-democratici.
Gli anni successivi furono decisivi per il futuro della neonata Repubblica:
l’Assemblea Costituente nominò provvisoriamente capo dello Stato Enrico De
Nicola, e il governo continuò a fondarsi su di una maggioranza di coalizione
costituita da democristiani, socialisti e comunisti.
Si avvertì ben presto tuttavia il contrasto insanabile apertosi tra la DC e i partiti di
sinistra, specie in concomitanza con il profilarsi della guerra fredda. A farne le
spese fu soprattutto il partito socialista con l’estromissione dal quarto governo De
Gasperi nel luglio 1947.
Alcide De Gasperi aveva inaugurato una nuova formula di governo detta
comunemente centrismo oppure quadripartitismo, infatti, dal 1948 fino ai primi anni
Sessanta, la DC associò al governo i partiti laici minori. Sotto i suoi governi l'Italia si
incamminò verso una ripresa economica, favorita dagli aiuti concessi dagli Stati Uniti
nell'ambito del Piano Marshall: l'afflusso di capitali e di merci dagli Stati Uniti creò
le condizioni per la ricostruzione dell'economia nazionale, avvenuta nell'ambito di un
inserimento dell'Italia, nel sistema delle relazioni internazionali, nello schieramento
filoamericano.
Con le elezioni del 18 aprile ’48 nasceva la nuova Repubblica Italiana.
In seguito alla conferenza di Parigi per il trattato di pace, nel 1947, i confini nazionali
furono ridimensionati per decisione delle quattro potenze vincitrici della guerra:
Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. L'Italia perse l'Istria, Fiume,
Zara, le isole della Dalmazia e alcuni territori alla frontiera con la Francia (Briga,
Tenda e altre zone di piccola estensione), mentre la città di Trieste fu sottoposta a
un'amministrazione internazionale.
Chiaramente l’Italia era stata considerata a tutti gli effetti come una nazione
sconfitta, nonostante la cobelligeranza con gli alleati tra il ’43 e il ’45 e il
riconosciuto contributo apportato dalla guerra partigiana alla causa della liberazione:
tuttavia il paese riuscì a mantenere intatta la sua integrità etnica e territoriale.
Senza dubbio il problema centrale della politica estera italiana era quale
atteggiamento assumere nei confronti delle due grandi potenze che si fronteggiavano
sulla scena europea: già con l’estromissione delle sinistre dal governo e in seguito
alle elezioni del 18 aprile 1948 l’indirizzo filo-occidentale della politica italiana era
stato esplicitamente dichiarato.
L’Italia aveva aderito al piano Marshall nel 1947, e nel ’48 era entrata a far parte
dell’Organizzazione Europea di Cooperazione economica: De Gasperi grazie
all’appoggio delle correnti più “illuminate” dell’opinione pubblica, aderì
calorosamente alle iniziative europeistiche contribuendo attivamente alla creazione
del “Consiglio d’Europa”.
Nel 1949, affrontando l’ostruzionismo, la dura opposizione social-comunista, le
perplessità di buona parte del mondo politico cattolico e centrista e contando sul
sostegno della sua maggioranza, De Gasperi riuscì a far approvare la partecipazione
italiana all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, la grande alleanza
difensiva della NATO.
L’alleanza era senza dubbio un utile strumento per garantire al paese una stretta
integrazione con l’Occidente, ma d’altra parte per l’Italia, che si sentiva in debito
verso i paesi vincitori della guerra, in particolare verso gli USA, fu una scelta
obbligata partecipare a simili iniziative politiche a livello internazionale.
Nel 1952 l'Italia aderì alla Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA),
primo organismo della futura unione economica dell'Europa occidentale, nel 1954
venne ratificato l'accordo italo-iugoslavo che regolava la questione di Trieste, nel
1955 venne ammessa alle Nazioni Unite.
Negli anni successivi l'equilibrio politico basato sui governi centristi si rivelò
difficile da mantenere a causa soprattutto della debolezza dei partiti alleati. Lo si
vide con il fallimento della legge elettorale del 1953, una legge maggioritaria
definita dall'opposizione "legge truffa", che garantiva un premio di maggioranza
alla coalizione che avesse superato il 50% dei voti. Alle elezioni di quell'anno la
maggioranza di governo non varcò quella soglia, così che De Gasperi diede le
dimissioni. Lo schieramento centrista entrò in una lenta crisi; con il passare del
tempo anche all'interno della DC affiorarono posizioni che proponevano un'apertura
verso sinistra, al fine di intraprendere una serie di riforme sociali ed economiche e
garantire l'esistenza di esecutivi stabili e autorevoli.
L'alleato della DC in questo nuovo assetto politico fu il Partito socialista, che da
qualche tempo aveva accentuato la sua autonomia dal PCI, soprattutto dopo la
Rivoluzione ungherese del 1956, e che aveva accettato l'ingresso nella NATO.
Per queste scelte veniva ormai considerato una forza leale al sistema democratico.
L'apertura a sinistra si realizzò a partire dai primi anni Sessanta, per iniziativa dei
democristiani Amintore Fanfani e Aldo Moro: dapprima i socialisti entrarono nella
maggioranza parlamentare, poi, a partire dal 1963, parteciparono direttamente al
governo. Si aprì così la fase del centro-sinistra, termine con il quale si indica una
coalizione di governo formata da quattro partiti, DC, PSI, PSDI, PRI, che, con fasi
alterne e con qualche intervallo, sarebbe durata oltre un decennio. Essa rappresentò
la risposta politica, in termini di riforme e di allargamento del consenso, alle grandi
trasformazioni che l'Italia viveva in quegli anni sul piano politico-istituzionale e
socio-economico.
Massimiliano Lauriello
Bibliografia
- “STORIA UNIVERSALE”: “L’età contemporanea” (volume VI), di Mario
Bendiscioli;“Le Americhe e il mondo africano” (volume VIII- parte prima), di
Ferdinando Vegas; edizione dell’ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI
NOVARA.
- “L’età contemporanea”(volume secondo), di A.Giardina, G. Sabbatucci, V.
Vidotto; Editori Laterza.
- “Storia dell’Unione Sovietica”, di G. Boffa; Mondadori Editore.
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