L'INIZIO DELLA "STORIA BIPOLARE" E LE SUE CAUSE 1.UNA TESI INTERPRETATIVA DELL'INIZIO DELLA GUERRA FREDDA Il discorso di Churchill a Fulton, alla presenza di Truman, viene ormai considerato dagli storici come la piattaforma programmatica ed ideologica di quella che sarà chiamata la GUERRA FREDDA e quindi data simbolica del suo inizio. " Con questo discorso -dice G.Boffa- Churchill chiudeva la fase delle coalizioni antifasciste e tracciava lo schema di un nuovo schieramento mondiale in cui l’URSS non è più alleato ma avversario da combattere”1. Ma piuttosto che ricercare un preciso momento storico al quale ricollegare l’entrata nella guerra fredda dell’alleanza antifascista e antinazista, è più utile individuare e comprendere le cause di questo lungo periodo della storia del Novecento. Considerata l’estrema debolezza economica e la grande miseria dell’URSS postbellica rispetto agli USA, che disponevano anche di una bomba atomica (l’URSS avrà la sua bomba atomica solo nel ’45), tanto che piuttosto “ ..di due superpotenze alla fine della guerra ve ne era una sola: gli Stati Uniti..” , cosa di cui i dirigenti americani erano consapevoli, come si evince dai dispacci dell’ambasciatore Harriman: la prevalente responsabilità della politica che porterà allo stato di tensione deve essere attribuita agli Stati Uniti perché “..una nazione che dispone di una grande supremazia …non può pretendere di essere costretta a seguire una determinata politica”. “Gli altri , compresi i sovietici, potevano solo condizionarne gli sviluppi”. Anche questi ultimi ebbero delle responsabilità, minori e subordinate, delle occasioni perdute soprattutto a causa dei passi falsi di Stalin come ad esempio nel caso delle - 1 “Storia dell’Unione Sovietica”, di G. Boffa; Mondadori Editore. rivendicazioni nei confronti dell’Iran e della Turchia, completamente infondate e quindi destinate a fallire. Gli USA si trovarono impreparati a fronteggiare i cambiamenti rivoluzionari che la guerra aveva provocato nel mondo e furono sordi alle richieste che si levavano dall’uno e dall’altro continente. “Non soltanto ci fu scarsa propensione a prestare orecchio alle rivendicazioni sovietiche..” ma vi fu anche il “..rifiuto di riconoscere quanto di autoctono vi fosse nelle trasformazioni che si andavano operando nell'Europa orientale, in Jugoslavia, in Grecia..” ed anche nella Cina postbellica dove i capi della rivoluzione cercarono un accordo con i dirigenti americani, non con Stalin, senza ottenere i risultati sperati. Quella che poi sarebbe stata chiamata “Guerra Fredda” faceva così i suoi primi passi. 2.IL SECONDO DOPOGUERRA: PROBLEMI E TENSIONI Alla fine della seconda guerra mondiale era opinione comune che la progressiva stabilizzazione politica ed economica delle maggiori potenze mondiali e di tutti i paesi coinvolti nel conflitto, avrebbe contribuito a frenare il diffondersi del fenomeno, di vasta portata, dell’emigrazione: ciò non è avvenuto anzi si sono registrati notevoli flussi migratori, simili a veri e propri “esodi” di popolazioni, al punto che il nostro secolo è stato anche ribattezzato come “ il secolo dei rifugiati”. Per analizzare il fenomeno su scala europea e mondiale, è necessario delineare un preciso quadro economico e politico-sociale, individuare avvenimenti di portata internazionale che ne possono avere influenzato gli sviluppi, oltre che mettere in rilievo il ruolo assunto dalle principali organizzazioni assistenziali internazionali a favore dei “rifugiati”. In Europa le devastazioni provocate dalla guerra in termini di vite umane, di risorse economiche e di ordine politico-giuridico e morale, furono incommensurabili. La ricostruzione delle strutture economiche e delle infrastrutture essenziali era un problema molto complesso che richiedeva un notevole impegno organizzativo e la necessità di stabilire e rispettare le esigenze prioritarie. Altrettanto delicata era la ricostruzione del sistema giuridico-amministrativo e politico-sociale dopo anni di illegalità e di travagliati regimi dittatoriali: cominciavano a ricostituirsi partiti e sindacati, a scatenarsi risentimenti e rivendicazioni politiche, mentre il problema della reintegrazione sociale di ex deportati ed ex combattenti assumeva proporzioni rilevanti. Non meno problematica era la ricostituzione dei fondamenti morali e culturali di ogni nazione: bisognava creare le condizioni politiche affinché gli uomini di ogni paese potessero essere veramente cittadini. La guerra aveva generato e fatto maturare una forte consapevolezza dei valori della libertà e della democrazia e l’impossibilità di un orgoglioso isolamento nazionalistico e autarchico era evidente: di qui il clima di viva solidarietà nel quale presero corpo le maggiori organizzazioni internazionali, in particolare l’organizzazione delle Nazioni Unite, a tutela dei diritti dell’uomo e della pace nei singoli paesi e nel mondo. Di qui l’accentuarsi dell’interessamento delle potenze mondiali emergenti verso l’Europa, il che, all’incrinarsi dei rapporti tra l’URSS e gli Stati Uniti d’America, avrebbe fatto esplodere forti tensioni interne ed esterne. 3.USA E URSS: LA FINE DI UNA GRANDE ALLEANZA La seconda guerra mondiale fu dunque un evento di proporzioni considerevoli che influì profondamente sull’assetto politico ed economico di ogni paese coinvolto, portando al fatale epilogo la crisi dell’ Europa delle grandi potenze, che si era aperta con il primo conflitto mondiale. La Germania era stata sconfitta; Francia ed Inghilterra uscivano dalla guerra gravemente indebolite e ormai incapaci di sostenere il ruolo di potenze mondiali; gli Stati Uniti, economicamente e militarmente superiori ad ogni altro paese e la Russia vincitrice, ma umanamente, e non solo, provata dalla guerra, assurgevano al ruolo di superpotenze mondiali. Dal dopoguerra in poi l’Europa avrebbe subito l’incombenza minacciosa di un precario equilibrio tra i due paesi che tendevano a contrapporsi radicalmente sul piano politico ed economico. Gli Stati Uniti differentemente dagli altri paesi belligeranti, alla fine del conflitto si trovarono costretti ad affrontare non un problema di ricostruzione quanto un problema di riconversione. Ben presto la forte spinta ideologica che aveva animato il paese durante la presidenza di Roosvelt si sarebbe lentamente esaurita, a causa del venir meno dei presupposti economici e politico-sociali del New Deal: in seguito Truman avrebbe tentato di portare avanti la politica riformista roosveltiana, senza raggiungere obiettivi concreti ma riuscendo a salvaguardare le conquiste fondamentali fino allora ottenute. Per l’Urss il dopoguerra fu segnato da un sensibile accentuarsi della connotazione autocratica e repressiva del regime staliniano in risposta alle impellenti necessità della ricostruzione e all’inevitabile confronto con l’Occidente: la ricostruzione economica sovietica fu molto rapida e rivolta essenzialmente al settore industriale più che a quello agricolo, per favorire un notevole potenziamento anche sul profilo militare. Senza dubbio la “gestione della pace” da parte degli USA fu in un certo senso più generosa e lungimirante rispetto a quanto era stato messo in atto dall’Intesa nel primo dopoguerra. La partecipazione americana alla seconda guerra mondiale aveva assunto proporzioni ben diverse rispetto all’intervento nella grande guerra: non si era trattato di un semplice contributo ma, politicamente e militarmente, di una partecipazione decisiva. Gli Stati Uniti d’America non avrebbero potuto rifiutare quel ruolo di grande potenza che avevano già acquisito in seguito al primo conflitto ma che non avevano voluto assumere pienamente durante il periodo interbellico. Nelle prime fasi della politica internazionale del secondo dopoguerra si avvertì immediatamente un’ inversione di tendenza da parte degli Stati Uniti: dall’isolazionismo del New Deal inaugurato da Roosvelt ad un’interventismo quasi esasperato in ogni questione internazionale. Forse ripercorrere le tappe della politica estera americana equivale in un certo senso a ricostruire la storia delle relazioni internazionali della seconda metà del nostro secolo. Alla Società delle Nazioni istituita in “occasione” della conferenza di Versailles, subentrò l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Il primo passo verso la costituzione dell'ONU fu la Carta Atlantica, firmata dal presidente statunitense Franklin D. Roosevelt e dal primo ministro britannico Winston Churchill nel 1941: la necessità di raggiungere un'intesa verso un sistema di sicurezza e cooperazione internazionale fu ribadita un anno dopo nella Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1942 siglata da 26 nazioni alleate in guerra contro le potenze dell'Asse. Tuttavia solo con la conferenza di Mosca del 1943, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Cina e Stati Uniti cominciarono ad impegnarsi concretamente per creare nel più breve tempo possibile, un'organizzazione internazionale in grado di “salvare le generazioni future dal flagello della guerra”. Con l'incontro di Dumbarton Oaks (Washington, DC, USA) nel 1944 prese forma una bozza della carta fondamentale delle future NU; rimaneva però un forte disaccordo sulla procedura di voto entro il Consiglio di sicurezza, organo direttamente responsabile del mantenimento della pace. Tale motivo di dissenso fu risolto con la conferenza di Yalta nel febbraio del 1945, quando i sovietici accettarono le limitazioni imposte alle superpotenze in materia procedurale, fermo restando il diritto di veto dei membri permanenti del Consiglio sulle decisioni più importanti. I delegati di 50 nazioni alla conferenza delle Nazioni Unite sull' Organizzazione internazionale si incontrarono a San Francisco nell'aprile del 1945 e, in base al progetto di Dumbarton Oaks, stesero in due mesi i 111 articoli che compongono il testo dello statuto delle NU, che fu approvato nel giugno del 1945 ed entrò in vigore nell'ottobre dello stesso anno. Obiettivo primario delle NU era dunque garantire la pace nel mondo promuovendo il progresso economico e politico-sociale di tutti i popoli del mondo. Senza nulla togliere al ruolo determinante che tale istituzione ha ricoperto durante questo secolo, in qualità di punto di riferimento della diplomazia internazionale, era evidente sin dai primi anni che tale istituzione rispecchiava, suo malgrado, lo stato di aperta conflittualità della comunità internazionale. Dal punto di vista economico gli Stati Uniti tentarono di riattivare il mercato mondiale favorendo ampi movimenti di capitali, in un regime di libera concorrenza: con gli accordi di Bretton-Woods del luglio 1944 fu costituito il Fondo Monetario internazionale e ad esso fu associata la Banca mondiale che avrebbe dovuto concedere prestiti a medio e lungo termine per finanziare la ricostruzione e lo sviluppo dei singoli paesi. Lo scopo di questo fondo monetario era, in primo luogo, offrire un adeguata riserva valutaria mondiale a disposizione di tutti gli Stati membri e in secondo luogo, assicurare la stabilità dei cambi valutari. I paesi nei quali vigeva ancora il regime comunista non si associarono al fondo monetario e chiaramente era interesse degli Stati Uniti stimolare profondamente la rinascita economica europea in modo da riuscire a monopolizzare buona parte dei mercati internazionali in funzione dei propri parametri politici ed economici. Tuttavia la “grande alleanza” tra le potenze vincitrici, che già aveva iniziato ad incrinarsi prima della fine della guerra, entrò definitivamente in crisi con la morte di Roosvelt: gli Stati Uniti miravano senza dubbio alla ricostruzione di uno stabile ordine mondiale, godendo del primato economico ed avendo subito in misura minore le devastanti conseguenze della guerra, l’Unione Sovietica invece, avendo subito perdite e devastazioni ingenti, esigeva il “prezzo” della vittoria in termini politici ed economici. Nonostante questi gravi contrasti di fondo Roosvelt era convinto che fosse possibile mantenere aperto il dialogo con i sovietici e stabilire un ordine europeo nell’ambito del quale l’Urss avrebbe avuto l’importante funzione di garantire la sicurezza nell’area dei paesi comunisti. L’avvento di Truman alla presidenza degli Stati Uniti accese il contrasto riguardo due nodi fondamentali della politica internazionale: il futuro della Germania e gli sviluppi della politica internazionale in Europa orientale dove cominciava a prender corpo il progetto di assoggettamento di Stalin. Alla conferenza di Parigi, che si tenne fra il luglio e l’aprile del 1946 il nodo fondamentale del conflitto restò irrisolto: tra Unione Sovietica e Stati Uniti si stava ormai per aprire quella fase della politica mondiale che venne definita come guerra fredda, una guerra mai combattuta, ma portata avanti quasi esclusivamente sul piano diplomatico, sintomo di uno stato di continua tensione tra gli stati che costituivano i blocchi contrapposti formatisi attorno a USA e URSS. Lo scontro che acquisì progressivamente la fisionomia di una dichiarata ostilità, affondava le sue radici nell'inconciliabilità delle ideologie alla base dei due sistemi politico-economici, capitalismo e comunismo, che ispiravano chiaramente interessi “geopolitici” completamente opposti. Il carattere bipolare di questo conflitto contribuì a semplificare il quadro internazionale, frenando il dinamismo politico che aveva caratterizzato il precedente sistema, dominato da più potenze, con l'esito paradossale di aver garantito il più lungo periodo di pace nella storia dell'Europa contemporanea. 4.LA “GUERRA FREDDA”: UN ’ EUROPA DIVISA E LA CRISI DEL SISTEMA COMUNISTA La conferenza di Parigi del 1946 era stato l’ultimo atto della cooperazione postbellica fra l’URSS e le potenze occidentali: proprio mentre era ancora in corso la conferenza si aprì un forte contrasto tra l’Unione sovietica e la Turchia relativamente alla questione dello stretto di Dardanelli. Ne sorse un caso internazionale che vide coinvolti in prima linea gli Stati Uniti: Truman non avrebbe mai potuto accettare che la Turchia e probabilmente la Grecia, successivamente, rientrassero nel disegno di assoggettamento staliniano dell’URSS. La flotta americana fu inviata nel Mar Egeo a sostegno della Turchia: era forse solo una prova di forza, ciò che contava era dare una dimostrazione tangibile del nuovo atteggiamento assunto dagli Stati Uniti nei confronti della politica internazionale europea. Con la Rivoluzione d’ottobre, esplosa durante gli anni della grande guerra, il successo del comunismo e la creazione dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche, fu accolta con diffidenza e forti timori dalle principali nazioni occidentali (Stati Uniti inclusi) e dal Giappone, che erano intervenuti direttamente nelle vicende successive alla rivoluzione, sostenendo le Armate bianche controrivoluzionarie in lotta contro i bolscevichi fino a tutto il 1922. In seguito l'Unione Sovietica venne a trovarsi in uno stato di completo isolamento politico e diplomatico sino alla seconda guerra mondiale, quando entrò a far parte del fronte costituitosi contro le potenze dell’Asse. La liberazione dell'Europa orientale dalle forze nazifasciste attuata dalle armate di Stalin determinò l'inclusione di vaste regioni nella sfera d'influenza del governo di Mosca, alterando profondamente il l’equilibrio politico internazionale del periodo prebellico. Harry Truman che, prima di essere eletto alla presidenza come candidato del Partito democratico, aveva ricoperto la carica di vicepresidente sotto il governo Roosevelt: durante i primi anni di governo dovette affrontare situazioni particolarmente difficili ed assumere decisioni di grande responsabilità. Dopo una fase iniziale di indecisione adottò una linea politica decisa nei confronti di Stalin, rivedendo molte delle posizioni concilianti assunte su diversi temi dal suo predecessore, Franklin Delano Roosevelt, al fine di prolungare, oltre la fine delle ostilità, l'alleanza con URSS e Gran Bretagna. Fu così che di fronte a nuovi motivi di tensione sorti in seguito ai tentativi sovietici di estendere la propria influenza in Turchia, e a un discorso tenuto da Stalin nel febbraio del 1946, che confermava la visione di una inconciliabilità tra i sistemi comunista e capitalista, Truman sciolse senza alcuna remora le ultime perplessità statunitensi circa le reali possibilità di cooperazione con gli ex alleati. Nel marzo del 1947 fu enunciata la dottrina Truman, la teoria del containment, il contenimento del "pericolo sovietico" in difesa dei diritti di libertà e autonomia dei popoli, sulla base della quale gli Stati Uniti si impegnarono concretamente inviando aiuti economici e militari a quelle nazioni (come la Grecia e la Turchia, le prime a beneficiare degli aiuti) che per la loro instabilità interna erano particolarmente esposte alla propaganda comunista e alle pericolose mire espansionistiche di Mosca. Seguendo questa linea politica nel giugno 1947 il governo degli Stati Uniti lanciò il Piano Marshall un programma di aiuti economici elaborato dal segretario di stato statunitense George Catlett Marshall e proposto con il nome di European Recovery Program (Programma di ricostruzione europea), per favorire la ricostruzione economico-finanziaria delle nazioni europee devastate dalla seconda guerra mondiale. Questo piano di aiuti economici fu a lungo osteggiato dall’Unione Sovietica che vedeva il progetto come un eventuale strumento di assoggettamento dell’Europa. Infatti alla base di quest’iniziativa vi erano ragioni molteplici: innanzitutto un'Europa non prospera e quindi economicamente inefficiente avrebbe gravemente danneggiato lo stesso sistema economico americano poiché avrebbe provocato la lenta perdita di un mercato d'importanza capitale; in secondo luogo, la crisi economico-sociale dei paesi europei offriva ampie opportunità alla propaganda comunista e agli interessi dell'Unione Sovietica; infine, si rendeva indispensabile, quale “tampone” contro l'espansione sovietica, la ricostruzione della Germania occidentale, il cui inserimento nel più ampio contesto di un'Europa integrata poteva inoltre contribuire a ridimensionare i timori degli altri paesi europei nei confronti del “vecchio nemico”. Marshall rese sollecitamente nota la disponibilità americana a finanziare un programma unitario di ricostruzione europea, ma un primo incontro a Parigi, per definire le linee essenziali del piano, tra i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna e URSS, si rivelò un fallimento. Di fronte alla prospettiva di dover interagire con i sistemi economici capitalisti più avanzati Stalin si convinse della necessità di mettere a punto un proprio programma di ricostruzione, che fosse indirizzato ai soli paesi dell'Europa orientale posti sotto la sua influenza: nel settembre del 1947 nacque così il Cominform, l'Ufficio d'informazione dei partiti comunisti, una sorta di riedizione, pur se in tono minore della Terza Internazionale: il dialogo tra le due superpotenze poteva ritenersi decisivamente concluso. In seguito, ad un'ulteriore conferenza a Parigi parteciparono i rappresentanti di sedici nazioni dell'Europa occidentale e il progetto fu ratificato il 22 settembre. I fondi erogati tra il 1948 e il 1952 dal Congresso statunitense ammontarono complessivamente a poco più di tredici miliardi di dollari, in buona parte utilizzati per acquistare negli Stati Uniti beni concessi poi agli alleati a titolo gratuito, oltre che per finanziare prestiti a fondo perduto, macchinari e derrate alimentari. Il programma fu gestito dall'agenzia federale (Amministrazione per la cooperazione europea) in collaborazione con l'Organizzazione per la cooperazione economica europea (OECE), creata dai sedici paesi che beneficiarono degli aiuti. Tuttavia nelle fasi successive della guerra fredda, una parte sempre maggiore dei fondi fu utilizzata per sostenere le spese militari più che il processo di ricostruzione industriale; ciononostante, al termine del programma, i livelli produttivi eurooccidentali superarono del 35% quelli prebellici. Nei paesi in cui l’influenza sovietica era dominante ( come Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Albania, Jugoslavia e Germania orientale) la struttura politicoeconomica venne gradualmente riorganizzata sul modello di quella sovietica. Nello stabilire il proprio dominio politico in queste aree, Stalin mirò anzitutto a cercare una forma di cooperazione nei governi di coalizione, in cui i comunisti rappresentavano una minoranza, controllando indirettamente i ministeri, dirigendo le forze dell’ordine, l’esercito e influenzando l’economia. A partire dal 1947, la nascita di regimi controllati dai comunisti fu un fenomeno molto diffuso che suscitò non poche perplessità sul fronte americano. Nel 1948 anche la Cecoslovacchia, paese non rientrante direttamente nell’orbita sovietica, passò sotto il dominio comunista; la Jugoslavia, guidata dal maresciallo Tito, resistette alle pressioni sovietiche, il paese venne espulso dal Cominform e continuò a promuovere una politica di non allineamento. Tuttavia fu sul terreno di scontro della “questione tedesca” che effettivamente si avvertì un’atteggiamento politico-diplomatico completamente mutato su entrambi i fronti. Alla fine della seconda guerra mondiale, con la resa incondizionata della Germania e con il tramonto definitivo del Terzo Reich, i leader delle potenze vincitrici, riunitisi alla conferenza di Potsdam del 1945, decisero di dividere temporaneamente la Germania e la capitale Berlino, in quattro zone d'occupazione: quella francese a sud-ovest, quella inglese a nord-ovest, quella americana a sud e infine quella sovietica a est. Il clima politico internazionale venutosi a creare con il sopraggiungere della Guerra Fredda rese evidente l’impossibilità di giungere ad un accordo sul futuro del paese, e quella che doveva essere una divisione preventiva e temporanea portò alla costituzione di un governo liberal-democratico nella parte occidentale (occupata dalle forze militari di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) e di un regime comunista in quella orientale (sotto l’occupazione sovietica). Infatti, essendo venuta a mancare ogni possibilità d’intesa, a partire dagli inizi del ’47 Stati Uniti e Gran Bretagna avevano contribuito in modo rilevante a favorire una piena ripresa economica della Germania occidentale realizzando una riforma monetaria, liberalizzando l’economia e promuovendone un notevole sviluppo grazie ai sostegni apportati dal piano Marshall. Di fronte a quella che si profilava ormai da tempo come la rinascita dello Stato tedesco di fronte ad una Russia che aveva versato il più alto contributo di sangue con i suoi venti milioni di morti, nel giugno 1948 Stalin reagì chiudendo gli accessi alla città, in modo da impedirne i rifornimenti, nella vana speranza di indurre le forze occidentali ad abbandonare la zona ovest della Germania. Il blocco di Berlino fu una prova di forza da parte dell’Urss che segnò la fase di massima tensione dell’intero periodo della guerra fredda e sembrò portare l’Europa nuovamente sull’orlo del conflitto. Fortunatamente nel giro di un anno la crisi si risolse: gli americani organizzarono un ponte aereo per rifornire la città e i sovietici nel maggio ’49 si ritirarono da Berlino. Nello stesso mese le tre zone occidentali della Germania vennero unificate e fu proclamata la Repubblica federale tedesca con capitale Bonn, basata su un ordinamento federalistico e su una costituzione democratico-parlamentare, mentre nella zona orientale venne creata la Repubblica democratica tedesca con capitale Pankov, un sobborgo di Berlino, retta da un regime di stampo comunista. Negli anni Cinquanta le relazioni tra le due Germanie rimasero estremamente tese, riflettendo il clima generale della Guerra Fredda, che aveva portato ad una divisione dell'Europa in due blocchi. La divisione di Berlino nei due settori separati di Berlino Est (sotto controllo comunista) ed Ovest (non comunista) pose ulteriori difficoltà. Per frenare il flusso inarrestabile di tedeschi che si trasferivano in Occidente semplicemente passando da un settore all'altro della città (calcolato in oltre due milioni di persone), nel 1961 fu ordinata la costruzione di una barriera di cemento fortificata che isolava completamente Berlino Est da Berlino Ovest, il cosiddetto Muro di Berlino. L’Europa, teatro di due devastanti guerre mondiali, si apprestava ora ad affrontare un momento determinante della sua storia politico-istituzionale: infatti, nell’aprile 1949, fra i paesi dell’Europa occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia, Grecia e Turchia nel 1952, e Germania Occidentale nel 1955), gli Stati Uniti e il Canada, fu firmato a Washington il Patto Atlantico un trattato di alleanza difensiva che prevedeva l’organizzazione di un complesso apparato militare integrato costituito dai diversi contingenti dei singoli paesi membri: la NATO (Organizzazione del trattato del Nord Atlantico). Il rifiuto del programma di ricostruzione europea da parte dei paesi dell’Est europeo e la creazione dell'organizzazione comunista europea del Cominform nel 1947, spinsero la maggior parte delle potenze europee occidentali a firmare il trattato di Bruxelles (1948) che prevedeva tra l'altro la costituzione di un sistema di sicurezza collettivo. Il progressivo deterioramento del clima internazionale e dei rapporti tra gli ex Alleati, indussero l'Europa occidentale, il Canada e gli Stati Uniti ad aprire i negoziati per il Trattato dell'Atlantico del Nord. Obiettivo principale della NATO era il rafforzamento della stabilità, la promozione del benessere, della libertà e dei valori comuni ai paesi membri e l’organizzazione di un efficiente sistema di sicurezza collettiva. A questo proposito è possibile riassumere brevemente il contenuto dei quattordici articoli sui quali si basa tale istituzione internazionale: il primo articolo auspica una soluzione pacifica di ogni controversia internazionale; l'articolo 2 invita le parti a promuovere un atteggiamento di reciproca collaborazione politica ed economica; il terzo sottolinea la necessità e definisce i limiti dello sviluppo del potenziale bellico a fini difensivi; il quarto impone l'impegno della consultazione reciproca nel caso in cui la sicurezza di un paese membro sia minacciata; in base all'articolo 5, le parti si impegnano a ricorrere all’impiego delle forze armate per l' "autodifesa collettiva", mentre il sesto definisce a livello territoriale l'area protetta dal trattato; nel settimo articolo si ribadisce il dovere di rispettare la preminenza degli impegni politico-diplomatici contratti dalle parti in base alla Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU); l'ottavo prevede l'impegno esplicito a non stipulare trattati in contrasto con l’organizzazione stessa. L'articolo nove istituisce un Consiglio di controllo che valuti opportunamente le procedure seguite nel mettere in pratica gli articoli stessi del trattato; il decimo chiarisce i criteri di ammissione di altri paesi; l'undicesimo sancisce la procedura di ratifica del trattato e il dodicesimo prevede invece un’eventuale procedura di revisione. I rimanenti due articoli sono dedicati alla procedura di rinuncia al trattato e al deposito delle copie ufficiali del testo negli archivi statunitensi. Tutt’oggi, la massima autorità della NATO è il Consiglio dell'Atlantico del Nord, composto dai delegati permanenti di tutti gli stati membri e guidato da un segretario generale; questo organismo è responsabile per gli indirizzi politici di fondo, le scelte di spesa e le azioni amministrative. Al Consiglio sono subordinati il Segretariato, diversi comitati temporanei e il Comitato militare. Il segretario generale è a capo del Segretariato, organo destinato ad assolvere tutti i compiti non militari dell'alleanza; i comitati temporanei si formano su specifici mandati del Consiglio. Il Comitato militare è composto dai capi di stato maggiore degli eserciti dei paesi membri e si riunisce in seduta plenaria due volte l'anno; per il resto esso raduna i delegati in seduta permanente e definisce la politica militare dell'Alleanza. Subordinati al Comitato militare si trovano i comandi regionali: il Comando alleato per l'Europa, il Comando alleato per l'Atlantico, il Comando alleato per la Manica e il Gruppo di pianificazione regionale per il Nord America, responsabili del dispiegamento delle forze militari nelle rispettive aree di competenza. Fino al 1950 l'azione della NATO poté concretizzarsi nell'aiuto agli altri paesi membri, soprattutto grazie al contributo statunitense, ma con lo scoppio della guerra di Corea nel giugno del 1950, si sarebbe presto diffusa la convinzione che l'Urss avrebbe potuto effettivamente imporsi sulla Germania Occidentale. Questa preoccupazione portò all'istituzione non solo di un sistema di comando militare, ma anche all'espansione dell'Organizzazione, con l'ingresso di Grecia e Turchia nel 1952 e della Germania Occidentale nel 1955, dopo un complesso negoziato in base al quale si stabilì che essa non poteva produrre armi nucleari, biologiche o chimiche, per cui durante il primo decennio della sua esistenza, la NATO fu un'organizzazione militare dominata dagli Stati Uniti e un utile baluardo di sicurezza per la ripresa postbellica europea. Indubbiamente la NATO ha consentito ai paesi membri di intensificare i legami reciproci e di approfondire gli interessi comuni, fornendo un importante modello per altri accordi di sicurezza collettiva. Risulta difficile stabilire fino a che punto la NATO abbia validamente contribuito a scoraggiare un attacco sovietico nei confronti dell'Europa occidentale, ma non si può negare che d’altra parte il riarmo della Germania Occidentale e la sua ammissione all'Alleanza contribuirono a favorire la nascita del Patto di Varsavia nel 1955: basti pensare a proposito che già nel 1949, l’Urss aveva costituito, insieme ad Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Romania e Germania orientale, il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), per coordinare efficientemente le attività economiche degli stati posti sotto il controllo sovietico. Il Patto di Varsavia era la risposta dell’Urss all’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico: formalmente definito come Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza; si trattava chiaramente di un'alleanza militare fra sette paesi dell'Europa comunista. Il trattato istitutivo venne siglato a Varsavia il 14 maggio 1955 da Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Ungheria, Polonia, Romania e dall’Urss. Organi principali dell'alleanza erano il Comitato consultivo politico (responsabile del coordinamento di tutte le attività non militari) e il Comando unificato delle forze armate, che aveva diretta autorità sui contingenti messi a disposizione dagli stati membri e secondo lo statuto il comandante supremo doveva essere un ufficiale sovietico. Già nello stesso 1949 l’estensione e la portata della guerra fredda crebbero in seguito all'esplosione della prima bomba atomica sovietica; il chè, ponendo fine al monopolio atomico statunitense, diede il via ad un’inarrestabile corsa al riarmo. Tuttavia a partire dal 1953, anno della morte di Stalin, seguì un periodo di allentamento della tensione, durante il quale il quadro politico internazionale sembrò stabilizzarsi; tra l’altro si andava costituendo un “terzo blocco”, quello delle nazioni non-allineate (per la maggior parte appartenenti al cosiddetto Terzo mondo), deciso a non accettare che lo scontro tra USA e URSS condizionasse la realtà politico-economica di tutto il pianeta. Se inizialmente lo scenario principale della guerra fredda fu l’Europa, tra il ’48 e il ’49 si verificò un evento che costituì un punto di svolta fondamentale per il confronto tra il “sistema socialista” e il “sistema capitalistico”: la vittoria da parte dei comunisti cinesi in una guerra civile che per più di vent’anni li aveva visti opporsi al Kuomintang del leader nazionalista Chang Kai-Shek. Fu un evento che alterò profondamente i rapporti di forza complessivi e conferì una dimensione di proporzioni mondiali alla guerra fredda. La politica sovietica non potè non esserne profondamente influenzata: Stalin era consapevole della notevole influenza degli Stati Uniti nei confronti della Cina, ed era fermamente convinto non solo che la guerra civile avrebbe portato ad una riunificazione del paese ma che si sarebbe risolta a favore di Chang, poichè nessun dirigente comunista sarebbe stato in grado di portare a termine un simile obiettivo. Gli americani infatti, pur garantendo il loro appoggio al leader nazionalista, auspicavano il riassorbimento dei comunisti in una coalizione con gli avversari, all’interno della quale avrebbero chiaramente dovuto accettare una posizione minoritaria; fondamentalmente la politica sovietica non si discostava molto da quella americana. Probabilmente, Stalin preferiva che fossero gli americani stessi a risolvere la questione politico-diplomatica della Cina: essendo molto scarsi i contatti con gli esponenti comunisti cinesi, i sovietici si sarebbero limitati a favorire la nascita di un governo di coalizione. Gli Stati Uniti, conclusasi la guerra, avevano tentato di aprire un dialogo tra i comunisti cinesi e il Kuomintang; Stalin era consapevole del profondo odio reciproco tra Chang Kai-shek e Mao Tse-tung, ma per quanto la lotta che essi conducevano da anni avesse un indirizzo “democratico” più che “sovietico”, non poté non consigliare ai comunisti cinesi di cercare un compromesso con i nazionalisti. Infatti, progressivamente, l’URSS strinse maggiori contatti con i comunisti cinesi arrivando a garantire loro un notevole sostegno. Mao non si oppose mai apertamente ai “consigli” di Stalin, ma rimase fedele alla propria linea politica: entrambe le parti non consideravano minimamente l’ipotesi di raggiungere un compromesso anzi, Chang era convinto di poter contare sull’appoggio degli Stati Uniti. Nel marzo ’47 Chang rilanciò la campagna militare anticomunista: i tentativi dei mediatori americani erano falliti sia per l’orientamento anticomunista della politica di Washington sia per l’incapacità di comprendere pienamente le motivazioni di una eventuale rivoluzione cinese. Le forze di Chang, pur avendo riscosso inizialmente importanti successi, non avevano alcun sostegno popolare mentre i comunisti potevano contare sull’appoggio dellle masse contadine: nel febbraio ’49 le truppe comuniste entrarono a Pechino e Chang fu costretto a ritirarsi insieme al Kuomintang nell’isola di Taiwan (Formosa). Il 1° ottobre del 1949 Mao Tse–tung proclamò a Pechino la nascità della Repubblica popolare cinese. Quale sarebbe stato il nuovo ruolo della Cina nell’ambito della guerra fredda? Fino a che punto Mao avrebbe potuto sostenere dichiaratamente una posizione di neutralità? Le circostanze politico-diplomatiche spinsero Mao a riavvicinarsi a Stalin, indipendentemente dai legami tradizionali tra i partiti comunisti dei due paesi: alla fine del giugno ’49 egli dichiarava che la Cina rientrava nel campo antimperialista sovietico e che “ il partito comunista dell’Unione Sovietica è il nostro migliore maestro e da esso dobbiamo imparare”. Anche se formalmente non si era giunti ancora ad un accordo preciso le linee dell’intesa erano ormai chiare: nel febbraio del 1950 la Cina stipulò con l’Unione Sovietica un trattato di amicizia e di mutua assistenza , che impegnava i due governi sul piano militare e su quello economico. Nello stesso anno si ebbe la prova più drammatica delle reali proporzioni della guerra fredda: la guerra di Corea, un conflitto che segnò il momento culminante del confronto. La Corea per quarant’anni era stata sotto il dominio del Giappone: nel ’45, durante la seconda guerra mondiale, Unione Sovietica e Stati Uniti, secondo gli accordi interalleati si attestarono rispettivamente a nord e a sud del 38° parallelo, apparentemente senza alcun intento politico: secondo gli accordi di Jalta e Potsdam la Corea sarebbe dovuta rimanere unita, anche se, inizialmente, gli americani avevano proposto che il paese fosse sottoposto ad un periodo di protezione internazionale, a differenza dei sovietici che erano favorevoli alla concessione immediata dell’indipendenza. Il contrasto accesosi tra le due potenze rese irrealizzabile il progetto tanto che nella Corea del Sud si insediò un un governo nazionalista sostenuto dagli americani (Repubblica di Corea), mentre nella Corea del Nord sorse in breve tempo un regime comunista guidato da Kim Il Sung (Repubblica Democratica Popolare di Corea). Dopo una serie di incidenti di frontiera, le forze armate nord-coreane violarono il confine del 38° parallelo e invasero la Corea del Sud: forse il regime nord-coreano aveva agito all'insaputa sia di Mosca sia di Pechino, ma senza dubbio erano state le crescenti tensioni e la forte instabilità interne, prodotte dalla crescente opposizione popolare al governo reazionario del presidente sudcoreano Syngman Rhee, a convincere il leader nordcoreano Kim II Sung dell'opportunità di riunificare il paese. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, riunitosi in assenza del delegato sovietico, condannò duramente la Corea del Nord e approvò le sanzioni militari proposte dagli USA. Tre giorni dopo il presidente degli Stati Uniti Truman inviò in Corea contingenti precedentemente dislocati nel Pacifico, cui si unirono truppe australiane, belghe, lussemburghesi, canadesi, colombiane, etiopi, francesi, britanniche, greche, olandesi, neozelandesi, filippine, sudafricane, thailandesi e turche, supportate da unità mediche danesi, indiane e svedesi, tutte poste sotto il comando del generale americano Douglas Mac Arthur. Per la prima forza di pace operativa creata sotto l'egida dell'ONU, il conflitto si rivelò molto più difficile del previsto. Ignorando gli avvertimenti dei cinesi, che avevano minacciato di entrare nel conflitto se il limite del 38° parallelo fosse stato raggiunto e attraversato dalle truppe del generale Mac Arthur, le forze dell'ONU penetrarono nella Corea del Nord, il 7 ottobre ne occuparono la capitale Pyongyang, quindi proseguirono fino al confine con la Cina. Il regime di Pechino a quel punto intervenne, sostenendo una nuova offensiva che portò alla liberazione di Pyongyang, all'occupazione di Seoul il 4 gennaio 1951 e, di nuovo, allo spostamento del fronte sul 38° parallelo. Il corso degli avvenimenti convinse Truman ad abbandonare l'obiettivo di riunificare la Corea, abbattendo il regime comunista del Nord, per aprire nuove trattative, limitandosi a garantire un’eventuale riconferma della situazione prebellica; su questo punto il presidente ebbe una violenta divergenza di opinioni con il generale MacArthur, che venne destituito al culmine della vittoriosa controffensiva che nella primavera del 1951 riportò il fronte sul confine originario tra le due Coree, dove si sarebbe stabilizzato definitivamente sino al termine della guerra. Nel giugno del 1951 l'Unione Sovietica tornò a partecipare alle riunioni del Consiglio di sicurezza per promuovere l'avvio di negoziati per il cessate il fuoco; le trattative, iniziate il 10 luglio 1951, proseguirono per due anni e portarono alla firma di un armistizio a Panmunjom nel luglio del 1953. Il bilancio del conflitto (nel quale giocò un ruolo rilevante l'aviazione) risultò pesantissimo: oltre agli immensi danni economici, Corea del Nord, Corea del Sud e Cina subirono gravi perdite umane. Una nuova fase di tensione sarebbe ripresa sul finire degli anni Cinquanta a causa della produzione, da parte di entrambi gli schieramenti, di missili balistici atomici intercontinentali: il muro di Berlino, eretto nel 1961, era ormai diventato il simbolo della guerra fredda e nel 1962, quando l'Urss schierò alcuni missili a Cuba, sua alleata, in grado di raggiungere il territorio statunitense sembrò essere imminente una guerra nucleare ma di fronte alla minaccia di una rappresaglia atomica degli Stati Uniti, Mosca smantellò i missili. L'esito della crisi cubana dimostrò chiaramente la possibilità di passare da uno scontro frontale, teso all'eliminazione dell'avversario, a una “coesistenza competitiva” tra le due superpotenze, le quali d'altra parte stavano assistendo a un progressivo ridimensionamento della rispettiva egemonia: Mosca dovette subire la rottura dell'alleanza con la Cina di Mao e affrontare la rivolta della Cecoslovacchia, chiaro segno del malessere presente oltrecortina; dal canto loro gli Stati Uniti avrebbero conosciuto con la guerra del Vietnam l'esperienza della sconfitta militare. Il prolungarsi del conflitto coreano aveva dimostrato l’inconsistenza della politica estera americana: nel ’52 dopo vent’anni di amministrazione da parte del partito democratico, le elezioni presidenziali furono vinte dal repubblicano Eisenhower. Il nuovo segretario di Stato, Forest Dulles, era uno dei più accesi fautori della guerra fredda e fu il promotore della teoria del roll back, ovvero non più della necessità di contenere il pericolo comunista ma di farlo “rotolare indietro”: l’anticomunismo americano divenne ideologia di massa e ciò contribuì ad accrescere il peso delle contraddizioni insite nella politica mondiale degli Stati Uniti, alleviando la posizione dell’URSS. L’ITALIA NEL TRAVAGLIO DEL DOPOGUERRA EUROPEO Alla fine della guerra in Europa la situazione economica e politico-istituzionale dell'Italia versava in condizioni disastrose: l’opinione pubblica non poteva non aver risentito delle diffidenze e delle divergenze sorte in seguito alle differenti esperienze affrontate dal Sud, che aveva conosciuto l’occupazione degli alleati sia in regime di armistizio che di cobelligeranza, e dal Nord, dove aveva preso corpo la Resistenza politica e militare contro i Tedeschi e la Repubblica di Salò grazie all’iniziativa dei partiti antifascisti organizzati nei Comitati di Liberazione Nazionale (CNL). Cresceva il fermento politico dovuto al processo di epurazione dalle cariche e di smantellamento delle strutture burocratico-amministrative dello Stato fascista: tuttavia i governi di emergenza istituiti tra il ’44 e il ’45, pur essendo espressione unitaria delle nuove forze politiche organizzate nei partiti e nei CNL, non furono in grado di dare una risposta adeguata alle reali esigenze del paese. A liberazione compiuta, Bonomi cedette il governo a Parri, esponente del Partito d’Azione e delle correnti politiche più innovatrici: nonostante il sostegno dei principali uomini politici del tempo come il socialista Nenni, il liberale Brosio, il democristiano De Gasperi, e il comunista Togliatti, Parri non riuscì a controllare le tensioni provenienti dai partiti esterni alla maggioranza di governo, né a stabilizzare il funzionamento degli apparati amministrativi, e a favorire la ripresa economica. Infatti, venuta meno la fiducia della maggioranza, il governo Parri cadde nel novembre ’45: fu nominato capo del governo il democristiano Alcide De Gasperi che inaugurò una svolta in senso moderato della politica italiana. Il 2 giugno 1946 i cittadini vennero chiamati alle urne, a suffragio universale maschile e femminile, per le elezioni dell’Assemblea costituente ma avrebbero anche dovuto decidere, mediante un referendum, se mantenere in vita la monarchia o trasformare l’Italia in una repubblica democratica. I risultati decretarono l’affermazione della repubblica e la crescente avanzata dei partiti di massa, come la DC il PCI e il partito socialista, a discapito dei vecchi gruppi liberal-democratici. Gli anni successivi furono decisivi per il futuro della neonata Repubblica: l’Assemblea Costituente nominò provvisoriamente capo dello Stato Enrico De Nicola, e il governo continuò a fondarsi su di una maggioranza di coalizione costituita da democristiani, socialisti e comunisti. Si avvertì ben presto tuttavia il contrasto insanabile apertosi tra la DC e i partiti di sinistra, specie in concomitanza con il profilarsi della guerra fredda. A farne le spese fu soprattutto il partito socialista con l’estromissione dal quarto governo De Gasperi nel luglio 1947. Alcide De Gasperi aveva inaugurato una nuova formula di governo detta comunemente centrismo oppure quadripartitismo, infatti, dal 1948 fino ai primi anni Sessanta, la DC associò al governo i partiti laici minori. Sotto i suoi governi l'Italia si incamminò verso una ripresa economica, favorita dagli aiuti concessi dagli Stati Uniti nell'ambito del Piano Marshall: l'afflusso di capitali e di merci dagli Stati Uniti creò le condizioni per la ricostruzione dell'economia nazionale, avvenuta nell'ambito di un inserimento dell'Italia, nel sistema delle relazioni internazionali, nello schieramento filoamericano. Con le elezioni del 18 aprile ’48 nasceva la nuova Repubblica Italiana. In seguito alla conferenza di Parigi per il trattato di pace, nel 1947, i confini nazionali furono ridimensionati per decisione delle quattro potenze vincitrici della guerra: Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. L'Italia perse l'Istria, Fiume, Zara, le isole della Dalmazia e alcuni territori alla frontiera con la Francia (Briga, Tenda e altre zone di piccola estensione), mentre la città di Trieste fu sottoposta a un'amministrazione internazionale. Chiaramente l’Italia era stata considerata a tutti gli effetti come una nazione sconfitta, nonostante la cobelligeranza con gli alleati tra il ’43 e il ’45 e il riconosciuto contributo apportato dalla guerra partigiana alla causa della liberazione: tuttavia il paese riuscì a mantenere intatta la sua integrità etnica e territoriale. Senza dubbio il problema centrale della politica estera italiana era quale atteggiamento assumere nei confronti delle due grandi potenze che si fronteggiavano sulla scena europea: già con l’estromissione delle sinistre dal governo e in seguito alle elezioni del 18 aprile 1948 l’indirizzo filo-occidentale della politica italiana era stato esplicitamente dichiarato. L’Italia aveva aderito al piano Marshall nel 1947, e nel ’48 era entrata a far parte dell’Organizzazione Europea di Cooperazione economica: De Gasperi grazie all’appoggio delle correnti più “illuminate” dell’opinione pubblica, aderì calorosamente alle iniziative europeistiche contribuendo attivamente alla creazione del “Consiglio d’Europa”. Nel 1949, affrontando l’ostruzionismo, la dura opposizione social-comunista, le perplessità di buona parte del mondo politico cattolico e centrista e contando sul sostegno della sua maggioranza, De Gasperi riuscì a far approvare la partecipazione italiana all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, la grande alleanza difensiva della NATO. L’alleanza era senza dubbio un utile strumento per garantire al paese una stretta integrazione con l’Occidente, ma d’altra parte per l’Italia, che si sentiva in debito verso i paesi vincitori della guerra, in particolare verso gli USA, fu una scelta obbligata partecipare a simili iniziative politiche a livello internazionale. Nel 1952 l'Italia aderì alla Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA), primo organismo della futura unione economica dell'Europa occidentale, nel 1954 venne ratificato l'accordo italo-iugoslavo che regolava la questione di Trieste, nel 1955 venne ammessa alle Nazioni Unite. Negli anni successivi l'equilibrio politico basato sui governi centristi si rivelò difficile da mantenere a causa soprattutto della debolezza dei partiti alleati. Lo si vide con il fallimento della legge elettorale del 1953, una legge maggioritaria definita dall'opposizione "legge truffa", che garantiva un premio di maggioranza alla coalizione che avesse superato il 50% dei voti. Alle elezioni di quell'anno la maggioranza di governo non varcò quella soglia, così che De Gasperi diede le dimissioni. Lo schieramento centrista entrò in una lenta crisi; con il passare del tempo anche all'interno della DC affiorarono posizioni che proponevano un'apertura verso sinistra, al fine di intraprendere una serie di riforme sociali ed economiche e garantire l'esistenza di esecutivi stabili e autorevoli. L'alleato della DC in questo nuovo assetto politico fu il Partito socialista, che da qualche tempo aveva accentuato la sua autonomia dal PCI, soprattutto dopo la Rivoluzione ungherese del 1956, e che aveva accettato l'ingresso nella NATO. Per queste scelte veniva ormai considerato una forza leale al sistema democratico. L'apertura a sinistra si realizzò a partire dai primi anni Sessanta, per iniziativa dei democristiani Amintore Fanfani e Aldo Moro: dapprima i socialisti entrarono nella maggioranza parlamentare, poi, a partire dal 1963, parteciparono direttamente al governo. Si aprì così la fase del centro-sinistra, termine con il quale si indica una coalizione di governo formata da quattro partiti, DC, PSI, PSDI, PRI, che, con fasi alterne e con qualche intervallo, sarebbe durata oltre un decennio. Essa rappresentò la risposta politica, in termini di riforme e di allargamento del consenso, alle grandi trasformazioni che l'Italia viveva in quegli anni sul piano politico-istituzionale e socio-economico. Massimiliano Lauriello Bibliografia - “STORIA UNIVERSALE”: “L’età contemporanea” (volume VI), di Mario Bendiscioli;“Le Americhe e il mondo africano” (volume VIII- parte prima), di Ferdinando Vegas; edizione dell’ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI NOVARA. - “L’età contemporanea”(volume secondo), di A.Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto; Editori Laterza. - “Storia dell’Unione Sovietica”, di G. Boffa; Mondadori Editore.