Teatro comunitario Il Mistero Buffo dell’incontro Incontrarsi, guardarsi negli occhi, abbracciarsi, ridere insieme, raccontare una storia per raccontarsi delle storie. E’ quello che succede ogni giorno al laboratorio di teatro comunitario. Gli occhi e le mani hanno le sfumature diverse di 12 nazionalità europee, africane ed asiatiche. Ma non c’è barriera che le separi, almeno nello spazio protetto della nostra sala, dove allievi attori, operatori e migranti lavorano insieme. Siamo a Roma, in via Ostiense, nella scuola di italiano per stranieri dell’Associazione Asinitas. Qui ogni giorno gli operatori insegnano italiano a decine e decine di migranti, e per farlo non utilizzano libri. Cercano da sempre strumenti alternativi che rendano più facile ed immediato l’apprendimento, attraverso linguaggi artistici e gestualità del corpo che permettono di approdare, anche dopo lo sradicamento, ad una lingua viva ed espressiva del sé. La scuola segue da anni questa metodologia e proprio per questo ha costruito un progetto teatrale ambizioso: una messa in scena di “Mistero Buffo” di Vladimir Majakowskij, al Teatro India, sotto la regia di Alessio Bergamo. Majakowskij scrisse Mistero Buffo 100 anni fa per celebrare la Rivoluzione Russa, suggerendo ai posteri di farne uso ogni qualvolta la storia li ponesse di fronte a nuove sfide. Così abbiamo fatto, adattando l’opera ai grandi temi dei nostri tempi: crisi economica, migrazioni, sfruttamento dei lavoratori, crisi ambientale. Ne è uscito un ritratto comico di un mondo allo sbaraglio, che affonda sotto le acque prodotte dallo scioglimento dei Poli. Un gruppo di poveri ed uno di ricchi si ritrovano a cercare di sopravvivere insieme, viaggiando su un’arca e attraversando poi l’Inferno e il Paradiso, per arrivare infine in una sorta di “terra promessa”. Ma oltre alla messa in scena in sé, è importante l’intensità che si è creata durante il laboratorio. Il corpo a corpo e la progettualità comune hanno fatto nascere complicità tra i 50 partecipanti, eterogenei non solo per nazionalità, ma anche per età: dai 18 ai 60 anni. Si sono create amicizie, legami, e ciò che si condivide è per alcuni l’unico spiraglio umano della giornata. Per molti dei ragazzi migranti infatti, il sogno di una vita più facile, di un lavoro con guadagni assicurati, di un mondo accogliente e sicuro, si è già infranto e la vita quotidiana è piena di ostacoli, delusioni e difficoltà. C’è un ragazzo che abita in un dormitorio per senza fissa dimora dove vivono solo anziani clochard. Lì si entra la sera alle 8 e alle 8 di mattina si è di nuovo in strada. Quando alle 20.30 un giovane di 20 anni, nel pieno delle sue forze, si trova in un letto in mezzo a una camerata di anziani, pensa. Pensa al lungo viaggio che ha fatto per arrivare, pensa alla prigione in Libia, pensa agli amici lasciati nel suo paese, pensa a ciò che sarà di lui. Un altro ragazzo, sorridente e solare, in patria ha perso l’amore e il lavoro, così ha deciso di fuggire dai disordini del suo paese. Pensava che per lui, cresciuto in riva ad un grande fiume, la traversata in mare non sarebbe stata un problema. Ma il mare lo ha visto la prima volta la notte che si è imbarcato in Libia per attraversare il Mediterraneo e solo alle prime luci dell’alba, con il gommone alla deriva, ha capito quanto fosse grande e quanto stesse rischiando. Ora è qui, con gli occhi pieni di luce e un futuro incerto. Per i loro coetanei italiani la situazione non è poi tanto diversa, tra precariato, multitasking asfissiante, ritmi disumani, poche prospettive di esprimere i propri talenti e mettere a frutto gli studi. Giovani che per vivere fanno tre lavori diversi, magari con l’ambizione di diventare attore, la necessità di fare il cameriere e contemporaneamente lo studente. Ci sono operai a cui a volte calano un po’ le palpebre in prova, per la stanchezza della giornata, insegnanti pendolari che dividono il proprio tempo tra l’attività didattica e il volontariato e trentenni precari in cerca di un’occupazione stabile che stentano ad avere ancora fiducia in un progetto. Accomuna tutti un enorme bisogno poetico e di condivisione che dia senso alla loro realtà. C’è chi in questi giorni è diventato papà e condivide con gli altri la gioia dell’evento, chi all’interno del laboratorio crede di aver trovato l’amore, chi un gruppo di amici per andare a ballare, chi uno sguardo diverso sul mondo e sulla vita. Ma molto più semplicemente ciò che si è creato è un nuovo modo di stare, insieme. Ponti e relazioni trasversali alla quotidianità di ognuno, ai problemi e ai limiti delle complicate vite di ciascuno, e la consapevolezza della condivisione di un destino comune. Mentre proviamo i costumi, qualcuno prega nella stessa stanza in cui da un computer ci si occupa della promozione e si mandano i comunicati stampa. Nella stanza accanto, qualcuno sbuccia cipolle e prepara il sugo della pasta che mangeremo. Intanto lo scenografo avvolge lumini su un’aureola e incide forme nel legno mentre i musicisti affinano la colonna sonora. Le musiche, composte in scena e suonate dal vivo, seguono i ritmi e i colori di ogni passaggio, spaziando dai suoni dell’Africa tradizionale a quelli elettronici di un mondo globalizzato. In queste ore l’attesa- per tutti- è quella di sapere se il pubblico accoglierà quanto maturato tra noi, ovvero la consapevolezza non nuova, ma finalmente condivisa, liberata da questa esperienza e da questo testo, di appartenere tutti a un sistema che stritola in nome del profitto economico. Un sistema in cui accanto alle migliaia di precari, braccianti, rifugiati ambientali o di guerra, ci sono enormi ricchezze e profitti per pochi. Un sistema che non riconosce che precari, migranti e sfruttati sono portatori di immense energie e che il lavoro che prestano non è una grazia che viene loro concessa, ma al contrario una forza enorme, che possono usare nella lotta per la loro vita, i loro diritti e il futuro del mondo. Quanto di questa lucidità condivisa, del ritmo e dell’orizzonte comune, della comprensione e vicinanza reciproca può essere portato fuori dallo spazio protetto di un laboratorio? Vogliamo credere che, se il teatro ha ancora un potere oggi, sia proprio questo. Oggi un giovane maliano, sopravvissuto a un lungo viaggio estenuante, attraverso violenze che nessun essere umano dovrebbe mai vivere, diceva: “sono arrivato qui senza forze, pensavo - che sarà di me? Non sono più niente. Oggi ancora non lo so, ma mi sento un leone e soprattutto ho trovato una nuova famiglia” Ecco, la rivoluzione ora è qui, e sta a noi portarla avanti. Il Mistero Buffo, così, si rinnova davvero. Con il coraggio di guardare questo ridicolo mondo allo sbaraglio, prenderlo di petto e cercare di costruirne uno migliore, alzando appena gli occhi per incontrare gli sguardi intorno a noi, essere gli uni per gli altri l’unico investimento possibile per non affondare. Grazie di cuore per essere qui, Asinitas onlus