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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE E CONTEMPORANEE
TESI DI LAUREA TRIENNALE
LA BARRACA DI FEDERICO GARCÍA LORCA
Il teatro degli umili
Relatore:
Prof. Nicola Pasqualicchio
Laureando:
Massimo Foladori
ANNO ACCADEMICO 2009/2010
2
INDICE
Introduzione
p. 7
Capitolo Primo – I COLORI DI FEDERICO GARCÍA LORCA
p. 9
Musica e folklore nella notte del Cante Jondo
p. 10
La neve della poesia al sole del teatro
p. 13
L’evoluzione del teatro:
da El maleficio de la mariposa a La casa de Bernarda Alba
p. 15
Capitolo Secondo – LA BARRACA
p. 22
Cenni storici
p. 22
Il teatro degli umili
p. 25
Capitolo Terzo – IL REGISTA DELLA BARRACA
p. 30
La nascita della Barraca
p. 30
Il Secolo d’Oro del teatro spagnolo
p. 34
3
Fuenteovejuna
p. 37
La vida es sueño
p. 41
La regia di Federico García Lorca
p. 48
Bibliografia
p. 55
Ringraziamenti
p. 57
4
“Parola mia di cavaliere errante,
appena ho visto questo carro ho
pensato che mi si presentasse
qualche grande avventura. Andate
con Dio, brava gente, e fate pure
la vostra festa, e se potete
chiedermi cosa in cui possa
esservi utile, lo farò volentieri e di
buon grado, perché sin da ragazzo
ho avuta una passione per il
teatro, e nella mia giovinezza
quando vedevo una compagnia di
comici morivo d’invidia.”
Miguel de Cervantes
Don Chisciotte della Mancia
5
6
Introduzione
Nell’estate del 1936, nei pressi di Granada, Federico García Lorca, all’età di
trentotto anni, venne assassinato ad opera dei falangisti spagnoli. L’evento sconvolse
la coscienza del popolo iberico e rappresenta tuttora uno degli episodi più bui e
riprovevoli della storia della letteratura mondiale.
Ricordando un tale avvenimento, ciò che maggiormente turba ed impensierisce
è non solo la percezione della perdita di una delle più genuine figure di poeta,
drammaturgo ed artista, ma anche, e soprattutto, la consapevolezza dell’emblematico
significato che un tale omicidio viene ad assumere: esso diventa espressione della
sostanziale incompatibilità tra intellettuali e tiranni.
L’esigenza di libertà e solidarietà che si leva dalla poesia, dal teatro e
dall’attività di organizzatore culturale di Lorca non poteva certo riscuotere le simpatie
della destra spagnola guidata da Francisco Franco. La natura di regime reazionario,
tipica del fascismo di tutti i tempi, si è impegnata a soddisfare la necessità, insita in
ogni dittatura, di far tacere le voci libere. E libera, di certo, era la voce di Lorca.
La grande sensibilità di Federico ha dato vita ad un’arte popolare, attuale e
vivace, mai indifferente alle problematiche della propria epoca e della propria
nazione.
Tra le varie attività culturali al servizio del popolo di cui Lorca è ideatore e
promotore, la Barraca riveste un ruolo rilevante ed esemplare.
Questo moderno carro di Tespi, di cui Lorca fu direttore, è rappresentativo di
una forma di teatro alternativo e, in qualche maniera, rivoluzionario; un teatro che,
negli anni Trenta del Novecento, si libera dalle soffocanti convenzioni in cui registi
ed imprenditori l’avevano recluso per riscoprire metodi e modalità che ricordano
piuttosto il mondo dei comici dell’arte ( o, per rimanere in ambiente spagnolo, dei
7
comicos de la lengua). Lorca dà vita con la Barraca ad una forma di teatro popolare,
che al popolo si rivolge e che dal popolo è acclamato.
Il carattere di questa tesi è prevalentemente espositivo: lo scopo principale è
quello di presentare, descrivere ed analizzare lo spirito fondante della Barraca,
mettendo in evidenza l’intimo legame che esiste tra l’ideale etico e filantropico di
quest’ultima e la sensibilità del suo creatore.
Dopo aver introdotto in un primo momento la figura di Federico García Lorca
e aver esaminato i tratti essenziali della sua arte (in particolar modo di quella
drammaturgica), l’attenzione si concentra sulla natura della Barraca e sugli ideali che
ne sostengono l’attività. Infine, nel terzo ed ultimo capitolo, vengono descritte le
modalità registiche con cui Lorca firmava le rappresentazioni della Barraca.
La scarsa documentazione rintracciabile sull’argomento, almeno in ambiente
italiano, ha fatto sì che per la stesura di questa tesi ci si concentrasse particolarmente
sui testi e opere dello stesso Lorca, ma importanti sono stati anche i due saggi di
Ubaldo Bardi e di Ferruccio Masini (fondamentali sono le interviste che Lorca
rilasciò a varie riviste spagnole e che Masini riporta nel suo testo) assieme al saggio
francese di Estelle Trepanier (contenuto nella rivista “Revue d’histoire du théatre”)
ed al testo spagnolo di Luis Sáenz de la Calzada.
8
Capitolo Primo
I COLORI DI FEDERICO GARCÍA LORCA
E’ di cenere il cielo.
Gli alberi sono bianchi,
e le stoppie bruciate
sono carboni neri.
La ferita del Tramonto
ha sangue inaridito,
e la carta incolore
del monte è aggrinzita.
La polvere del sentiero
Si perde nei dirupi,
le fonti sono torbide
e stanno quiete le gore.
Il campanaccio del gregge
ha un suono grigio rossiccio
e la noria materna
ha chiuso il suo ciclo.
E’ di cenere il cielo.
Gli alberi sono bianchi.1
Quasi fosse un pennello mosso dall’abile mano del pittore, la poesia crea un
quadro campestre in cui le parole del poeta regalano agli occhi della nostra mente lo
scorcio di un paesaggio rurale. Si tratta certamente di un testo carico di suggestioni e
1
Federico García Lorca, Campagna, in Id., Libro de poemas, Roma, Newton, 1971, p. 201.
9
capace di risvegliare nell’animo del lettore svariate immagini e riferimenti. Noi, che
siamo nati in Italia, potremmo forse, quasi inconsciamente, pensare alla letteratura
verista ed immergere l’aspra bellezza del paesaggio qui descritto nella campagna
siciliana. Se il lettore invece non fosse nato in Italia, ma in terra spagnola, con buona
probabilità non collocherebbe istintivamente il testo all’interno del movimento verista
italiano, ma le sensazioni e le emozioni suggeritegli dalla lettura sarebbero assai
simili a quelle da noi provate. Egli non penserebbe alla Sicilia, ma evocherebbe la
campagna andalusa, immaginerebbe le voci dei contadini della Vega granadina,
avvertirebbe l’immobilità dell’abbagliante calura del mezzogiorno spagnolo.
Se egli poi volesse tentare di ricercare la paternità di questo brano tra gli autori
della sua letteratura, inizierebbe a passare mentalmente in rassegna nomi di poeti e
prosatori, alla ricerca di colui che si sia dimostrato capace di trasmettere sensazioni
legate alla terra, alla natura, alla semplicità, al folklore, all’uomo: penserebbe a
Federico García Lorca. E non sbaglierebbe.
Musica e folklore nella notte del Cante Jondo
García Lorca nasce a Fuente Vaqueros, paese nei pressi di Granada, il 5 giugno
1898. Figlio primogenito di un ricco proprietario terriero, Federico García Rodrìguez,
e di Vicenta Lorca Romero, maestra granadina, egli trascorre la sua infanzia sullo
sfondo della Vega di Granada, a stretto contatto con la natura e pacificamente
immerso nella vita di campagna. E’ in questi anni e all’interno di una simile
condizione che prendono forma la sua emotività e la sua sensibilità di poeta e di
uomo. L’odore che permea le opere della sua prima produzione è infatti l’odore della
terra. Nel 1934, due anni prima di cadere sotto i colpi dei fucili dei falangisti,
dichiarò: “Amo la terra. Mi sento legato ad essa in tutte le mie emozioni. I miei più
10
lontani ricordi di bambino sanno di terra”2. E di certo le radici da cui trae vita la
poesia lorchiana vanno ricercate nella campagna, che egli amò con un trasporto ed un
impeto estremamente vitali: basterebbe sfogliare le pagine della sua prima raccolta
poetica, Libro de poemas, per accorgersi di quale entusiasmo e di quale gioia di
vivere vibrino tra questi versi. Il modo con cui Lorca si accostava alle cose, agli
elementi naturali e agli abitanti del paesaggio granadino, è il modo con cui il bambino
(come il fanciullino di pascoliana memoria) muove i primi passi nel mondo e con
occhi curiosi ed entusiasti osserva ciò che lo circonda, spostando la sua attenzione
con frenetica energia ora su questo, ora su quello. La candida ed ingenua esperienza
che i bambini fanno del mondo costituisce anche una porta d’ingresso attraverso la
quale Federico giunge ai temi della sua più matura produzione letteraria: nei bambini
infatti “ […] risiede il canto della ninna nanna e il mito della favola, primi elementi
delle caratteristiche fondamentali della sua poesia che sono appunto la musica e la
tradizione popolare”3.
Nato in una famiglia dalla spiccata predisposizione artistica, i cui membri
sovente improvvisavano balli e canzoni popolari al suono di chitarre e pianoforti,
Federico, già ai tempi del liceo, si dimostra degno erede di una tanto intensa passione
musicale, avendo come quasi esclusivo interesse proprio quello per la musica. I
genitori, assecondando il desiderio del figlio, gli cercano un maestro. E così, sotto la
guida di Antonio Segura Mesa, vecchio compositore fallito, Lorca inizia a muovere i
suoi primi passi sui tasti di un pianoforte. La musica lo accompagnerà per tutto il
resto della vita, portandolo anche a comporre delle piccole opere, e permeerà, come
già accennato, tutta la sua produzione artistica, facendosi ora voce dei campi tra il
coro dei grilli, il gorgoglio del fiume, il fruscio delle foglie, e ora canto dei contadini
nelle sue opere drammatiche.
Dall’amore per la musica a quello per il folklore il passo è breve. Basti pensare
alle innumerevoli reinterpretazioni che Federico fece di centinaia di canzoni popolari.
Ma vi è una figura che più di qualunque altra nella vita di Lorca può essere
2
3
Ian Gibson, García Lorca. Breve vita di un genio, Torino, Einaudi, 2002, pp. 3- 4.
Claudio Rendina, Prefazione a: Federico García Lorca, Libro de poemas, cit., p. 8.
11
considerata l’anello di congiunzione tra i due mondi: il grande musicista Manuel de
Falla. Il primo incontro tra i due artisti avviene nel 1919, durante una visita del
compositore a Granada, dove poco dopo si trasferirà. La stima reciproca e le passioni
comuni (tra cui quella per il teatro dei burattini andaluso) fanno sì che presto si
instauri tra loro una profonda amicizia. E’ l’inizio di una intensa collaborazione i cui
frutti saranno preziosi per Federico in vista delle sue future rappresentazioni
drammatiche. L’incontro con de Falla stimola ulteriormente l’interesse di Lorca per
la musica popolare: nel periodo a cui risale il loro primo incontro, Manuel de Falla
stava indagando sulle remote origini del Cante Jondo, forma canora prettamente
andalusa, “rarissimo esempio di canto primitivo, il più vecchio di tutta l’Europa”,
dotato della “fremente emozione di tutte le razze orientali”4. Le discussioni di de
Falla, Lorca e amici al riguardo vertevano su come poter salvare e riportare in vita
questo straordinario patrimonio di cultura popolare. Fu così che de Falla ebbe l’idea
di organizzare una pubblica manifestazione in cui si sarebbero esibiti i cantaores,
ovvero contadini in grado di intonare vecchie storie e leggende tramandate da padre
in figlio. L’organizzazione dell’evento entusiasmò Lorca, che si impegnò nella
ricerca dei cantaores. Tale compito lo portò a visitare il cuore dei bianchi villaggi che
costellavano la Vega, permettendogli di penetrare nei recessi più intimi della lontana
arte popolare e di fare diretta esperienza dei luoghi in cui ancora palpitava forte lo
spirito della Spagna antica: “Uomini cotti dal sole, scavati dalla pena, chiusi ad ogni
confidenza, ad ogni accerchiamento, diventavano improvvisamente loquaci, quando
si scioglievano al fuoco del suo giovanile entusiasmo per quanto doveva accadere a
Granada”5. Sono questi uomini, umili contadini, lontani dalla vita culturale cittadina,
che costituiranno il principale pubblico a cui Federico si rivolgerà con le
rappresentazioni teatrali della sua Barraca.
Dire che la Fiesta del Cante Jondo fu un successo sarebbe non rendere
pienamente giustizia alla portata dell’evento: essa accese e diede energia agli animi di
4
Manuel de Falla, Escritos, p. 56, cit. in Ubaldo Bardi, Federico García Lorca musicista, scenografo e direttore della
Barraca, Firenze, Tipografia Nazionale di Firenze, 1978, p. 11.
5
Ubaldo Bardi, Federico García Lorca musicista, scenografo e direttore della Barraca, cit., p. 13.
12
Granada, unendoli nella voce viva di una Spagna da lungo assopita; fu un momento
in cui musica e tradizione popolare si svelarono come vigorosi elementi di
comunione per un’intera popolazione.
Sono dunque queste le vivande che costituirono il nutrimento principale della
sensibilità di Federico García Lorca: attaccamento alla terra, nostalgia per l’infanzia,
magia della musica, forza vitale del folklore andaluso. Da questo fertilissimo terreno
culturale crebbe la sua poetica, che investì con energica dolcezza la poesia ed il
teatro.
La neve della poesia al sole del teatro
Secondo l’opinione comune, corrente in molti paesi tra cui il nostro, l’attività e
gli interessi di Lorca avrebbero riguardato in primo luogo la poesia e solo
successivamente il teatro e la scrittura drammatica. Tale errore è forse dovuto alla
scarsa conoscenza che si è avuta fino a poco tempo fa dello sviluppo ordinato delle
sue opere teatrali, unita alla cattiva traduzione compiuta in alcuni paesi. Comunque
stiano le cose, la realtà è che il teatro fu l’attività a cui Lorca si dedicò più
intensamente, che più accese i suoi ardori e stimolò il suo ingegno, fino ad assorbire
totalmente gli anni della sua maturità. Il periodo che Federico dedicò alla poesia è
infatti tutto compreso fra il 1921 e il 1931. Per quanto infatti Lorca componesse
poesie già in giovane età, è comunque all’interno di questo intervallo di dieci anni
che si collocano tutte le sue raccolte e pubblicazioni poetiche, partendo da Libro de
poemas, passando per il Romancero gitano fino ad arrivare a Poeta en Nueva York e
a El Diván del Tamarit (unica poesia che si collochi al di fuori di tale decennio è il
Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, poiché la morte dell’amico torero, motivo che
diede l’ispirazione per questo componimento, avvenne nell’agosto del 1934). Questo
è dunque l’arco cronologico in cui prende vita e quindi muore la poesia di Lorca. Ben
13
più ampio è invece il periodo di tempo che abbraccia la sua produzione drammatica:
dal 1919, anno della prima rappresentazione de El maleficio de la mariposa (Il
maleficio della farfalla), fino alla data riportata in fondo all’ultima pagina del
manoscritto de La casa de Bernarda Alba (La casa di Bernarda Alba), e cioè il 29
giugno 1936, giorno così fatalmente vicino a quel 27 luglio in cui Federico troverà la
morte. Lorca dialoga con il teatro iniziando all’età di vent’anni e spingendosi fino
all’ultimo mese di vita. Non solo, ma spesso il linguaggio e il ritmo teatrale dilagano
e si diffondono fino a rompere le barriere della esclusiva scrittura drammatica e
arrivano a penetrare ed influenzare la poesia. E’ teatro quella azione in potenza che
sembra sempre sul punto di esplodere e che pervade i versi del Romancero gitano; è
teatro quell’attenzione alla descrizione che porta Lorca a comporre versi che paiono
didascalie:
Silenzio di calce e mirto.
Malve tra le gramigne.
La monaca ricama violacciocche
su una tela paglierina.
Volano nella lucerna grigia
sette uccelli del prisma6.
E, ancora, sono teatro quei veri e propri dialoghi che irrompono nel linguaggio
poetico del Cante Jondo:
TENENTE COLONNELLO: Sono il tenente colonnello della Guardia Civile.
SERGENTE: Sì.
TENENTE COLONNELLO: E non c’è chi mi smentisca.
SERGENTE: No7.
6
7
Federico García Lorca, Romancero gitano, in Id., Poesie, Roma, Newton, 2007, p. 189.
Federico García Lorca, Poema del Cante Jondo, in Id., Poesie, cit., p. 59.
14
Se poi volessimo intraprendere il percorso inverso, e quindi rinvenire tracce
poetiche all’interno delle sue opere teatrali, ci accorgeremmo come la preoccupazione
di Lorca fosse quella di liberare progressivamente il dramma dalla poesia: se l’animo
del giovane compositore de El maleficio de la mariposa è ancora un animo lirico
(l’opera è interamente scritta in versi e le tematiche proposte al suo interno sono
impregnate di romantica spiritualità), il Lorca di Bodas de sangre (Nozze di sangue),
di Yerma, di La casa de Bernarda Alba, è un Lorca immerso nella realtà quotidiana,
un Lorca che ritrova la terra dei suoi padri contadini, che riveste i suoi protagonisti di
una viva grandezza drammatica, che rivolge l’attenzione alla condizione vissuta dalla
donna nella Spagna patriarcale e che si fa portavoce delle parole degli umili.
García Lorca amò molto, amò le sue amicizie, amò la vita, il folklore, l’arte.
Ma l’idea che più accese i suoi ardori fu probabilmente quella di parlare alla gente, di
entrare in diretto contatto con le masse, di lavorare per aiutare chi lo meritasse, di
riscattare quei volti bruciati dal sole che popolavano la campagna della sua infanzia;
per questo provò un così intenso trasporto per l’arte drammatica: il teatro costituì il
miglior mezzo per far vibrare le corde più emotive e nascoste nell’animo umano e
divenne il miglior canale con cui raggiungere le orecchie di chi doveva sentire.
L’evoluzione del teatro: da “El maleficio de la mariposa” a “La casa de Bernarda
Alba”
Nel mese di giugno del 1919, Federico incontra a Granada Gregorio Martínez
Sierra, uno degli uomini di teatro più conosciuti nella Spagna dell’epoca. Durante una
delle loro conversazioni, Martínez Sierra sente Lorca recitare una poesia che parla di
una farfalla caduta ferita in un prato. Uno degli scarafaggi che accorrono per prestarle
soccorso ne rimane innamorato; egli è condannato a perdersi una volta che la bella
creatura, guarita, si allontana in volo. L’impresario ne rimane commosso e promette a
15
Lorca che, se fosse stato capace di farne una trasposizione teatrale, egli l’avrebbe
rappresentata nel suo teatro di Madrid, l’Eslava. E così nel marzo del 1920 Federico
incontra per la prima volta il pubblico portando sulla scena El maleficio de la
mariposa. La sera della prima segnò tuttavia un clamoroso insuccesso. Le grida e
risate degli spettatori permisero a stento agli attori di portare a termine la
rappresentazione, tanto che in seguito i critici si dichiararono incompetenti nel
giudicare l’opera per non essere riusciti a seguirla. Comunque si sia svolta la vicenda,
El maleficio de la mariposa rimane nei fatti, e per ammissione dello stesso autore,
una commedia immatura e ancora troppo “poetica”.
Il giovane scrittore non si dà per vinto e nel 1922 compone una farsa
“guignolesca”, riallacciandosi alla tradizione del teatro dei burattini: Tragicomedia de
don Cristóbal y la señà Rosita (Tragicommedia di don Cristóbal e donna Rosita). La
strada del guiñol verrà ripresa più avanti, nel 1931, con il Retablillo de don Cristóbal
(Teatrino di don Cristóbal). Il risultato migliore che Lorca consegue in questo
periodo, è però del 1928, ed è costituito dalla prima rappresentazione di Mariana
Pineda: questa tragedia, che prende spunto da un fatto storico, vede come
protagonista Mariana, una giovane vedova appartenente alla piccola nobiltà della
Granada del 1831, fatta giustiziare da Ferdinando VII per aver partecipato al
movimento liberale durante la rivolta di Torrijos. Il tema della bandiera della libertà
ricamata da Mariana costituisce il filo rosso dell’opera. Ciò che ci impedisce di
vedere in Mariana un’erede dell’omerica Penelope è il finale tragico: Mariana,
compromessasi per amore di Pedro, che nella mente della donna diviene il simbolo
stesso della libertà, fungendo da punto d’incontro tra amore e ideali, cade nelle mani
di Pedrosa, governatore del re, e viene quindi condannata a morte. L’ideale della
libertà conquista Mariana nel momento in cui la donna accetta di morire per non
tradire i compagni, anche quando è ormai evidente che Pedro non verrà a salvarla: “In
Mariana, questa oscura fede sentimentale, che ci ripropone l’antagonismo […] tra
16
l’intelletto e il cuore, diventerà tanto potente da trasformare questa appassionata
figura di donna in una martire della libertà”8.
Subito dopo Mariana Pineda, nel 1926 Lorca compone La zapatera prodigiosa
(La calzolaia ammirevole), opera che riveste un ruolo importante all’interno
dell’evoluzione della sua drammaturgia: si sviluppa qui una più forte coscienza
critica e sociale, tesa a proiettare la visione lirica all’interno di una forma drammatica
che sia strettamente legata alla realtà, e quindi specchio della sostanza umana. Per la
prima volta quindi Lorca ricorre al mito per farne punto d’incontro tra favola e realtà,
tra fantasia e vita: “La calzolaia è insieme un tipo e un archetipo, è una creatura
primitiva e un mito della nostra pura illusione insoddisfatta” 9. La vicenda della
calzolaia arriva così ad assumere la forma e l’aspetto della nostra quotidianità. La
storia è incentrata sulle difficoltà del rapporto tra la protagonista e suo marito,
complicato dalle malelingue del vicinato. La fantasia e le illusioni della calzolaia si
infrangono contro il muro di perenne insoddisfazione eretto dalla realtà quotidiana. Il
punto d’origine di tale stato viene rinvenuto dalla protagonista nel marito, contro cui
ella scaglia la propria violenza fino ad arrivare a cacciarlo di casa. La sua assenza è
fonte però di nostalgia e amore, amore che verrà infine riappagato con il ritorno del
marito e con l’accoglienza fattagli dalla moglie. La lotta che la calzolaia intraprende è
quindi una guerra mossa contro la realtà circostante in nome della fantasia, per cui la
prima verrà accettata soltanto quando conterrà almeno un briciolo della seconda. Nel
finale di questo dramma, che forse non a caso sembra richiamare il capolavoro di
Calderón de la Barca La vida es sueño, la protagonista riesce a far conciliare vita e
sogno, appunto, al termine di un percorso che passa attraverso la vita di tutti i giorni.
Al 1928 risale Amor de don Perlimplín con Belisa en su jardín (Amore di don
Perlimplino con Belisa nel suo giardino). Questa “aleluya erotica”, come la chiama lo
stesso autore, verso la quale i critici hanno assunto posizioni contrastanti, narra
l’amore che Perlimplino prova per la giovane moglie Belisa, la quale gli è però
infedele, tradendolo durante la prima notte di nozze con i “rappresentanti di tutt’e
8
9
Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, Rocca San Casciano, Cappelli, 1941, p. 33.
“La Naciòn”, Buenos Aires, 20 ottobre 1933, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 36.
17
cinque le razze umane”10. Una volta palesatosi l’adulterio, però, Perlimplino non
assume l’atteggiamento tipico del marito tradito, ma, entrato in confidenza con la
moglie, scopre che questa si è innamorata di un sesto uomo, con il quale non ha mai
avuto però un incontro. Perlimplino decide di offrirle il suo aiuto: viene così fissato
un appuntamento notturno tra Belisa e l’uomo misterioso. Tuttavia, prima che questi
arrivi, Perlimplino svela alla moglie di voler uccidere il suo nuovo amore: tramite la
morte il giovane amante potrà così appartenere interamente e per sempre a Belisa. Ma
lo sconosciuto che cadrà mortalmente ferito tra le braccia di Belisa, è lo stesso
Perlimplino: egli, fingendosi un altro e indossando la maschera del mistero, è riuscito
a far innamorare la moglie, ma una volta raggiunto questo obiettivo non ne raccoglie i
frutti, preferendo darsi la morte per annullare la distanza che lo separa dalla sua
amata. Belisa, divenuta un’altra donna, che veramente ama oltre che con la carne
anche con l’anima, è ora intrappolata nelle spire di un amore impossibile, non
potendo raggiungere l’oggetto dei suoi desideri: Perlimplino muore infatti non come
un marito tradito ma come un amante infinitamente desiderato, permettendo così la
metamorfosi di Belisa, che troppo tardi ha toccato con mano la potenza del vero
amore.
Nel giugno del 1929 Federico inizia un viaggio che lo porterà a raggiungere
New York. Questa esperienza si rivelerà determinante per l’evoluzione del pensiero
di Lorca. Egli entra infatti in contatto con una realtà che lo scuote e lo sconvolge
profondamente, un inferno civilizzato popolato da giganti meccanici, avvolto dal
frastuono, brulicante di frenetici volti anonimi, che vive trascinandosi giorno dopo
giorno nel nome di un progresso inumano. La sensibilità di Federico non può
rimanere impassibile davanti a un tale mostro; nel cuore della sua arte inizia a
maturare in modo dirompente una nuova coscienza politica e sociale. Il grido di
dolore e di protesta che scaturisce dallo scontro tra il poeta e questa terribile realtà
pervade la raccolta poetica che egli compone durante il soggiorno americano, Poeta
en Nueva York (Poeta a New York), in cui per la prima volta compare quel vincolo
10
Federico García Lorca, Amor de Don Perlimplín con Belisa en su jardín, in Id., Teatro, Torino, Einaudi, 1994, p. 203.
18
tra poesia e denuncia che, indissolubile, caratterizzerà il resto della produzione
lorchiana. E’ nel clima di questa nuova ossessione che Federico, nel 1931, porterà a
termine la stesura di Así que pasen cinco años (Aspettiamo cinque anni). Con questa
commedia si rompe definitivamente quell’equilibrio tra realtà e sogno che aveva
caratterizzato, seppur con esiti differenti, il mondo della Zapatera e del Don
Perlimplín. Opera dai caratteri simbolici ed allegorici, Así que pasen cinco años porta
sulla scena le tappe di un percorso esistenziale caratterizzato dalla vacuità,
dall’astrattezza, dallo svuotamento dell’azione, indice dello sgretolamento della
società. L’esistenza e le azioni dei personaggi, poco più che fantasmi privi di
personalità, sono guidate ed influenzate ora dalla speranza nell’avvenire, ora dalla
voglia di immergersi nel presente, ora dal rimpianto per il passato; essi sono di fatto
incapaci di prendere una decisione e, simili a larve in balìa degli eventi, hanno
inconsapevolmente rinunciato ad essere padroni della propria vita. Torna, dopo
Mariana Pineda, il tema dell’attesa che, manovrando i fili di colui che vive
nell’inazione, conduce la sua marionetta verso la sfida contro il tempo,
condannandola alla sconfitta e alla non esistenza. La figura del giocatore di rugby,
tipo di uomo a cui aspira la civiltà americana, bene incarna la critica che viene mossa
a questa società, una società che, intrisa di materialità, ha rinunciato al sogno e a
quanto è in grado di accendere l’animo umano. Privi di slanci emotivi e senza uno
scopo, gli uomini si sono tramutati in zombi.
L’ultima fase del percorso della drammaturgia di Lorca è anche la stagione più
matura del suo teatro. Appartengono a questo periodo, che va dal 1933 fino al 1936,
le sue più grandi opere drammatiche: Bodas de sangre (Nozze di sangue), Yerma
(Yerma), Doña Rosita la soltera (Donna Rosita nubile), La casa de Bernarda Alba
(La casa di Bernarda Alba). Come abbiamo visto, Lorca è ora portato a formulare un
giudizio critico sulla realtà sociale e sui pregiudizi morali della Spagna del suo
tempo. Nello specifico, con il suo ultimo teatro addita gli aspetti sociali, morali e
religiosi più deprecabili chiusi nel microcosmo provinciale e contadino andaluso. La
strada che ora Federico sceglie per poter meglio assecondare questa esigenza è quella
19
del teatro epico, in cui la realtà irrompe prepotente sul palcoscenico. In una intervista
del 1934, egli afferma: “Quel che è grave è che la gente che va a teatro non desidera
che la si faccia pensare sopra nessun tema morale”11. La risposta di Lorca a questa
problematica è proprio la rappresentazione epica, in cui lo spettatore, come avrebbe
detto Brecht, non viene immerso all’interno della situazione rappresentata, ma vi
viene posto di fronte, ed è così messo in condizione di svolgere una più limpida
riflessione. La via del teatro epico permette inoltre a Lorca di incrementare e dare
maggior peso al discorso che prima si è fatto riguardo al mito: la realtà portata sulla
scena ha una funzione catartica simile a quella del mito, ma mentre in quest’ ultimo è
a una favola che viene affidata la funzione di rappresentare una totalità, nella realtà
non vi è più una rappresentazione, ma una esemplificazione di ciò che al di fuori del
palcoscenico realmente potrebbe accadere o accade. “Nella realtà, narrata in termini
epico-drammatici, il mito si dissolve nello spazio da esso stesso creato […] Il mistero
invisibile del mito diventa, nel teatro, un mistero visibile, cioè la figura epica di una
storia umana”12.
La tematica costantemente presente nelle ultime opere teatrali lorchiane, che
probabilmente risentono del periodo storico in cui vengono composte, è
significativamente quella della morte. La tragedia nasce dalla consapevolezza che
prende piede nell’animo delle protagoniste dell’inconciliabilità tra il desiderio e
l’amore che le animano, e la vita che invece le imprigiona. Di fronte a questa terribile
evidenza esse cercano una liberazione tragica nella morte: il desiderio di maternità
della sterile Yerma diventa una inappagabile ossessione, simbolo del disumano
rapporto che ha col marito, dominato dall’egoismo sessuale dell’uomo, e la divorerà
fino a spingerla all’omicidio, contemporanea uccisione del marito e del proprio
sogno; Donna Rosita, vittima innocente dei pregiudizi di una provincia bigotta e
ottusa, si lascerà sfiorire nell’attesa del ritorno del suo fidanzato, preferendo
mantenere intatto l’onore piuttosto che vivere appieno la sua giovinezza. E’ però ne
La casa de Bernarda Alba, considerato non a torto il capolavoro di García Lorca, che
11
12
“El Sol”, Madrid, 15 novembre 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 87.
Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 89.
20
questa tematica acquista maggior forza e vigore. La fanatica e prepotente Bernarda
costringe in casa le cinque figlie perché possano meglio osservare il lutto per la morte
del padre. Sulle cinque protagoniste si consuma la tragedia di una clausura forzata,
dominata da una follia erotica mai appagata, su cui tiranneggia la non presente ma,
proprio per questo, ossessiva figura del maschio. Il loro desiderio di libertà si
infrange contro una tradizione dispotica e implacabile. Opera efficacemente
monocromatica, dai toni claustrofobici a vantaggio di una tensione interna sempre al
limite di rottura, La casa de Bernarda Alba è il più forte attacco di Lorca a una
Spagna matriarcale arroccata all’interno di convinzioni inumane, di spietate
consuetudini d’onore e di costumi ferini duri a morire.
Lorca è infine riuscito a fare del teatro un efficace strumento al servizio dei
propri nobili scopi, portando sulla scena, e quindi all’attenzione del pubblico, il
dolore e la verità di un popolo, denunciando la disumanità presente in alcune
convenzioni sociali e facendo risuonare libera e potente una voce che parlava di
libertà, di amore, di vita.
In questa breve presentazione delle opere drammatiche di García Lorca, non
abbiamo ancora però parlato dell’esperienza teatrale che forse più di tutte lo
appassionò e a cui maggiormente dedicò la sua attenzione e le sue energie: la
Barraca, teatro popolare, gratuito e ambulante.
21
Capitolo Secondo
LA BARRACA
Se immaginassimo l’animo umano come un terreno fertile pronto ad accogliere
il germe delle passioni e delle idee, idee che una volta attecchite avrebbero avuto le
potenzialità di dare frutto e quindi diventare azioni, potremmo dire che l’animo di
Lorca fosse pronto ad accogliere il seme della Barraca molto tempo prima che questa
vedesse effettivamente la luce. Sappiamo però che un seme, per schiudersi e
germogliare, ha bisogno, oltre che di un buon terreno, anche di un clima mite e
favorevole al suo sviluppo. Se la Barraca non nacque prima del 1931 è perché solo
allora si vennero a creare un clima e un contesto che permisero la realizzazione di un
tale sogno. Non è probabilmente un caso infatti che l’esistenza di questo moderno
carro di Tespi13 si collochi in un momento storico, culturale e sociale, situato a
cavallo tra due dittature.
Cenni storici
Nella seconda metà del XIX secolo si assiste ad un proliferare delle
rivendicazioni europee sui territori africani. Le cause di una tale spinta coloniale, che
passò alla storia col nome di “corsa all’Africa”, vanno ricercate nelle esigenze di
Tespi è stato un leggendario poeta e drammaturgo greco. La leggenda attribuisce a lui l’invenzione della tragedia
greca. Secondo alcune fonti egli si sarebbe spostato da una città all’altra dell’Attica a bordo di un carro su cui erigeva
un palco.
13
22
avere nuovi mercati a disposizione, per poter così efficacemente rispondere alla crisi
di sovrapproduzione che colpì l’Europa tra il 1873 e il 1895.
La partecipazione della Spagna alla “corsa all’Africa” non rivestì
un’importanza particolare, ma nel 1912 il trattato di Fez, stipulato tra Francia e
Spagna, le permise di ottenere il protettorato sulla parte settentrionale del Marocco.
L’occupazione spagnola scatenò però il malcontento delle popolazioni dei territori
interessati, causando così feroci scontri tra colonizzatori e colonizzati. Il 21-22 luglio
1921 le truppe spagnole vennero duramente sconfitte ad Anoual dai guerriglieri
capeggiati da Abd el-Krīm. Il disastro ebbe in patria conseguenze gravissime sulla
vita politica spagnola, scatenando un malcontento generale di cui approfittò il
generale Primo de Rivera.
Il 15 settembre 1923 egli salì al potere con un colpo di stato, appoggiato da
esercito, latifondisti e imprenditori, e venne subito riconosciuto dal re Alfonso XIII,
che lo nominò primo ministro. Il governo di Primo de Rivera manifestò ben presto il
suo carattere dittatoriale, sospendendo la costituzione, istituendo la legge marziale e
bandendo tutti i partiti politici. Primo de Rivera mantenne il potere fino al 1930,
quando l’inflazione causata dall’eccessivo investimento nelle opere pubbliche gli
procurò l’antipatia della popolazione. Egli, nel gennaio dello stesso anno, fu così
costretto a ritirarsi.
Il vento che avvolge la Spagna dopo la caduta di Primo de Rivera ha la forza di
spazzare via la nube tossica della dittatura e insieme di portare un’aria carica di
cambiamenti: la monarchia sta attraversando un periodo di forte discredito per
l’appoggio dato al dittatore e i repubblicani sono intenzionati a sfruttare il momento a
loro propizio; Berenguer e Aznar, successori di De Rivera, promettono di convocare
libere elezioni. Il 12 aprile 1931 il popolo spagnolo si reca così alle urne e sancisce
un risultato storico, optando per la Repubblica a danno della monarchia; ad Alfonso
XIII non rimane che sospendere la potestà reale ed abbandonare il paese. Due giorni
dopo viene ufficialmente proclamata la Repubblica tra i festeggiamenti e l’allegria
della popolazione.
23
Si formò un governo provvisorio a cui parteciparono i rappresentanti delle
varie fazioni politiche e vennero indette nuove elezioni della Corte Costituente per il
28 giugno. La sinistra spagnola ne uscì trionfante.
A dicembre, dopo tre mesi di intenso dibattito che vide i settori dei cattolici più
conservatori e la destra centralista dare battaglia allo schieramento della sinistra,
venne approvata la nuova costituzione, di carattere spiccatamente progressista e
democratico.
Priorità dei repubblicani fu quella di dare avvio ai cambiamenti di cui la
nazione, risorta dalle ceneri della dittatura, aveva bisogno, volti all’ammodernamento
dell’intero paese, quali la riforma agraria, dell’esercito, l’avvio delle trattative tra
baschi e catalani. Uno degli obiettivi fu anche quello di fornire cultura al popolo, al
cui interno serpeggiava ancora un forte analfabetismo. Per questo furono create
nuove scuole, fu aumentato il salario dei professori e fu dato il via a missioni
pedagogiche aventi come obiettivo l’accesso facilitato per la popolazione rurale a
teatro, cinema, arte e in generale alla vita culturale. Tra queste iniziative c’è quella
della Barraca; per ora basti notare marginalmente il contesto in cui essa è inserita,
torneremo in seguito ad analizzare questo aspetto.
La Repubblica in ogni caso non ebbe vita facile, dal momento che il clima di
scontro con le forze della destra caratterizzò più o meno intensamente tutti i cinque
anni in cui questa restò in vigore. Il periodo di più forte tensione si distende però
lungo gli ultimi tre anni, ed ha inizio il 17 luglio 1936, quando forze conservatrici e
nazionaliste si sollevarono contro il nuovo governo del Fronte Popolare. Le frange
rivoltose comprendevano la maggioranza dei cattolici praticanti, del clero, dei
latifondisti e dell’alta borghesia imprenditoriale e capitalista, più alcuni elementi
dell’esercito. Le file repubblicane erano invece composte dalle masse operaie, dalle
classi contadine e da parte del ceto medio.
Non passa molto tempo prima che il generale Francisco Franco si imponga
sugli altri leader della rivolta e ne imbrigli le redini: è l’inizio della guerra civile
spagnola, che terminerà nel 1939 con la soppressione della Repubblica.
24
Nei primi giorni della guerra, oltre 50.000 persone vengono giustiziate o
assassinate dai falangisti. Le vittime vengono scovate nei loro rifugi, portate fuori
dalla città e quindi fucilate. Questo è il destino che toccherà in sorte a Federico
García Lorca.
Il 20 luglio 1936 le fiamme della rivolta divampano a Granada. Nell’agosto
vengono uccise molte persone di sinistra: Lorca è evidentemente in pericolo. Il poeta
Luis Rosales, suo amico e appartenente a una famiglia di falangisti, decide di ospitare
Federico nella casa del padre, nel tentativo di proteggerlo. Ma le forze “nazionali”
rispondono denunciando i Rosales e il 16 agosto si presentano nella loro casa per
arrestare Lorca. Ancora oggi diversi fatti riguardanti l’arresto e l’assassinio di Lorca
rimangono oscuri: non si sa chi abbia fatto scattare la denuncia, né si conosce la data
esatta della fucilazione. E’ però quasi sicuro che sia stato il governatore José Valdés
Guzmán, appoggiato dal generale Quieto de Llano, a dare segretamente l’ordine di
procedere all’esecuzione, nonostante la promessa di liberazione fatta a Luis Rosales.
Nella notte del 18 o 19 agosto, Federico viene condotto a Víznar, a nove
chilometri da Granada, e all’alba viene fucilato. La sua morte provoca lo sdegno del
mondo intellettuale.
Il ricordo di Federico García Lorca rimane impresso nella mente di tutta la
popolazione e nel 1975, alla morte di Franco, la sua figura riesce ad occupare quel
posto che gli spettava nel panorama della cultura internazionale, a fianco dei grandi
protagonisti della letteratura mondiale.
Il teatro degli umili
Facciamo ora un passo indietro. Il panorama storico che si è qui
sommariamente delineato ci serve come punto di partenza per poter sviluppare una
considerazione a cui si è per altro già accennato: la natura della Barraca si è
25
dimostrata incompatibile con i regimi dittatoriali; lo abbiamo detto, lo abbiamo visto.
E, ripetiamolo, non è probabilmente un caso che un’iniziativa di questo tipo, carica di
spirito artistico e antropologico, prenda vita in un intervallo di tempo capace di
spaccare in due l’oscurantismo perpetrato dai tiranni, De Rivera prima, Francisco
Franco poi. Una boccata d’aria tra un’apnea e l’altra. D’altronde, se è vero, come è
vero, che la Barraca fu il mezzo con cui Lorca meglio riuscì a far risuonare per il
territorio andaluso la voce del suo animo, pregno di spirito fraterno e filantropico,
ricercatore delle radici dell’uomo che tutti ci accomunano, vicino e attento alla
condizione degli oppressi e bramoso per essi di riscatto sociale; se fu la Barraca il
giusto veicolo che riuscì a incanalare questa indole e a diffondere per le strade un così
“pericoloso” messaggio, non c’è poi troppo da sorprendersi se Federico dovette
attendere la Repubblica per dar vita al suo carro di Tespi.
Se è vero, come sostiene Arnold Hauser nella sua Storia sociale dell’arte14, che
nel corso della storia l’arte è stata uno strumento sostanzialmente elitario, spesso
appannaggio di una certa classe sociale e pertanto estranea al popolo e alle masse, la
Barraca costituisce un’eccezione e fa risaltare, per contrasto, il carattere
rivoluzionario dell’impresa di Lorca.
Il teatro a cui Federico darà vita tramite la Barraca è infatti un teatro pensato
non soltanto come fondamentale mezzo di istruzione popolare, ma anche, e
soprattutto, come elemento intimamente appartenente alla vita stessa del popolo, che
al popolo si rivolge e che ad esso deve essere riconsegnato. Dice Federico: “Si tratta
di restituire al popolo della nostra cara Repubblica quel teatro che è suo”15.
Egli non indugia a criticare il panorama teatrale contemporaneo, popolato da
“personaggi tronfi, totalmente vuoti, nei quali si può scorgere, attraverso i panciotti,
soltanto un orologio fermo, un osso posticcio o uno sterco di gatto, come se ne
trovano in soffitta”16; personaggi morti, incapaci di insegnare alcunché, creati (per
usare un’efficace metafora dello stesso Lorca) per la platea, non per il loggione.
Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Torino, Einaudi, 1976.
“La Voz”, Madrid, 7 aprile 1936, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 55.
16
Ibidem.
14
15
26
Ben diverso il teatro di cui parla Federico, un teatro vivo, specchio sincero
della realtà, da cui trarre insegnamenti volti alla crescita interiore e che, tramite la
Barraca, raggiunge il suo apice rivolgendosi al pubblico popolare, ad un pubblico
cioè vergine, non contaminato da stantii pregiudizi intellettuali, più sensibile alla
vera essenza della poesia e meritevole di riscatto culturale.
Il teatro è sempre stato la mia vocazione. Ho dato al teatro molte ore della mia vita. Ho del
teatro un concetto personale e convincente. Il teatro è la poesia che esce dal libro e si fa umana. E
mentre si fa, parla e grida, piange e si dispera. Il teatro esige che i personaggi che appaiono sulla
scena portino un abito di poesia e che, nello stesso tempo, si vedano loro le ossa, il sangue. Devono
essere così umani, così orrendamente tragici e legati alla vita e al quotidiano con una forza tale, da
mostrare i loro difetti, valutare i loro dolori, cosicché affluisca alle loro labbra tutta la forza delle
parole colme d’amore e d’odio. Quello che non può continuare è la sopravvivenza dei personaggi
drammatici che oggi sono portati sulla scena dalla mano dei loro autori […] Oggi, in Spagna, gran
parte degli autori e degli attori occupano una zona appena intermedia. Si scrive di teatro per la
platea e si lasciano insoddisfatte le gradinate e il loggione. Scrivere per la platea è la cosa più triste
del mondo. Il pubblico che va a vedere queste cose resta defraudato. E il pubblico vergine, il
pubblico ingenuo, che è il pubblico popolare, non capisce quando gli si parla di problemi da lui
disprezzati nei cortili del vicinato. In parte la colpa è degli autori. Non è che siano cattive persone,
ma: “Mi ascolti, Tizio- e giù un nome d’autore- vorrei che mi facesse una commedia nella quale io
sia…io. Sì, sì, voglio fare questo e quello. Voglio rinnovare un vestito primaverile. Mi piace avere
ventitrè anni. Non lo dimentichi”. E così non si può fare del teatro. Così quello che si fa è cercare di
far vivere una giovane donna attraverso il tempo e un ganimede a dispetto dell’arteriosclerosi 17.
La finalità principale di Lorca fu quindi la diffusione di un’educazione teatrale
tra i ceti contadini e operai, da sempre relegati, come ci conferma Hauser, ai margini
della cultura, in una condizione di subordinazione sociale e civile. Le masse
proletarie dunque, secondo Federico, si differenziano dal pubblico tradizionale della
borghesia colta, che frequenta il teatro soltanto per la forma e senza amarlo realmente
e che si dimostra pigro e svogliato quando si tratti di farlo riflettere su un qualche
argomento morale.
17
“La Voz”, Madrid, 7 aprile 1936, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., pp. 110-111.
27
Per Lorca la rinascita del teatro è strettamente legata al cambiamento del suo
destinatario, che deve ora essere quel pubblico popolare spontaneamente capace di
ritrovare lo spirito dionisiaco dell’arte (come avrebbe detto Nietzsche) piuttosto che
farne l’autopsia e analizzarla come una cosa morta, atteggiamento dell’annoiato
pubblico borghese:
Ho potuto vedere ad Alicante tutto un popolo levarsi in piedi assistendo ad una
rappresentazione del capolavoro del teatro cattolico spagnolo, La vita è sogno. Che non mi si venga
a dire che non lo sentivano. Per comprenderlo sono necessari tutti i lumi della teologia. Ma per
sentirlo, il teatro è la stessa cosa sia per la signora intellettuale che per la domestica18.
In questa affermazione è racchiusa tutta la poetica di Lorca: il teatro, la poesia,
l’arte prendono vita in quella zona dell’umano che sta fuori dalla razionalità e
dall’intelletto e appartiene tutta alla sfera emotiva, in cui risiede il sangue primigenio
che tutti ci accomuna e che ci fa uomini. Condividendo la stessa natura, nessun uomo
è più degno di un altro di attingere alla mensa di Apollo e di Dioniso.
E’ evidente come una tale individuazione di un proprio pubblico, visto come
originale custode della verità umana del teatro, non potesse passare inosservata
nemmeno nel contesto della seconda Repubblica (al cui interno d’altronde, come
abbiamo visto, furono sempre presenti scontri e attriti). Proprio questo elemento,
unito all’intento più strettamente politico riscontrabile nella Barraca, scatenò l’ostilità
di ambienti clericali e reazionari, dando vita a tentativi di sabotaggio delle
rappresentazioni: basti ricordare i disordini creati dall’Associazione degli studenti
cattolici durante la rappresentazione dell’opera di Calderón de la Barca, da loro
ritenuta sacrilega, nella chiesa di San Juan de Duero a Soria, o il divieto di accesso al
teatro imposto alla troupe dalle stesse autorità a Vinuesa.
La ragione di una tale ostilità è presto detta:
Agli occhi della borghesia ottusamente conservatrice e tradizionalista, simpatizzante con le
destre e avversa alla costituzione, gelosa […] del proprio isolamento di classe e del proprio
18
“El Sol”, Madrid, 15 dicembre 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 70.
28
monopolio culturale, l’opera della Barraca rappresentava una punta avanzata, in seno al popolo, di
quella pericolosa mobilitazione dei gruppi democratico-intellettuali ai quali non bastava la
professione innocua del letterato. Federico poi, il “gitano”, rappresentava, con i suoi ideali di libertà
e la sua istintiva simpatia per gli oppressi, con la sua ostentata indipendenza d’“irregolare”, il suo
paganesimo e il suo amoralismo, una troppo stridente antitesi all’immagine biecamente
“rassicurante” della Guardia Civil19.
E’ quindi senza dubbio notevole la dimensione politica che vitalizza l’impegno
di Lorca. Quando Federico critica la vacuità del panorama drammatico, a entrare nel
suo mirino è la stessa Spagna denunciata nelle sue opere teatrali, una Spagna
soffocante, chiusa e bigotta, indebolita dallo strapotere della Chiesa, schiavizzata
dalle catene di una borghesia ottusa ed individualista, capace di condannare la vita
culturale di un’intera nazione attraverso la propria ipocrisia. Non bisogna d’altronde
dimenticare che il periodo che vede Lorca impegnato con il suo carro di Tespi segue
di poco l’esperienza americana che egli fece nel 1929, esperienza che tanto lo segnò e
dalla quale nacque quell’urgenza di denuncia sociale che lo portò a protestare in
nome degli emarginati, attraverso la poesia, i drammi e, infine, tramite quel teatro
d’azione sociale che è la Barraca. Ecco spiegata l’esigenza di un teatro vivo, di un
teatro attuale che si interroghi sulle problematiche della propria epoca e, insieme, di
un teatro di massa, pensato per il popolo, capace di raggiungere il grande pubblico,
frutto di una disperazione interiore a cui corrisponde, all’esterno, una forza nuova,
positiva e costruttiva, indirizzata a colorare di realtà l’idea utopistica del sogno:
Due uomini camminano sulla riva di un fiume. Uno è ricco, l’altro povero. Uno ha la pancia
piena, l’altro riempie l’aria con i suoi sbadigli. Il ricco gli dice: “Che barca graziosa si vede
sull’acqua! Guardi, guardi il giglio che fiorisce sulla riva”. E il povero risponde: “Ho fame, non
vedo nulla. Ho fame, molta fame”. Naturalmente. Il giorno che la fame scomparirà, avverrà nel
mondo l’esplosione spirituale più grande che l’umanità conosca. Gli uomini non potranno mai
immaginare la gioia che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando
da socialista puro?20.
19
20
Ferruccio Masini, Federico García Lora e la Barraca, cit., pp. 70-71.
“La Voz”, Madrid, 7 aprile 1936, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit. pp. 111-112.
29
Capitolo terzo
IL REGISTA DELLA BARRACA
La nascita della Barraca
Nel 1927 Federico assiste a Barcellona ad una recita dei Compagnons de Nôtre
Dame. E’ a questo episodio che risale probabilmente la prima idea di creare anche in
Spagna un carro teatrale ambulante, che avesse come scopo quello di peregrinare per
campagne e città a presentare al proletariato analfabeta i capolavori del teatro classico
spagnolo. Lorca concepì un tale progetto come una missione da compiere negli
interessi del popolo. “Nobile avventura andare per le strade, immergersi nelle
province più lontane come gli antichi comicos de la lengua21, come gli attori del
tempo di Juan de Encina…”22.
Passano quattro anni, si arriva al 1931, nasce la Repubblica: la Barraca può
germogliare.
Dovrebbe essere una caratteristica intrinseca all’essenza di ogni repubblica
quella di voler incrementare l’attività culturale del proprio paese per permettere così
un’elevazione intellettuale della maggior parte possibile della popolazione. Questo
aspetto era ben presente ai protagonisti della vita politica della Seconda Repubblica
spagnola. Abbiamo infatti detto che uno dei principali obiettivi dei repubblicani fu
quello di fornire cultura al popolo, intesa come strumento in grado di condurre la
Spagna fuori da quella condizione di miseria e abbrutimento in cui la dittatura di
Primo de Rivera l’aveva costretta. Gli intellettuali di questo periodo (che non a caso
Si tratta di compagnie ambulanti del teatro spagnolo quattrocentesco, affiancabili ai nostri comici dell’arte.
“La Vanguardia”, Barcellona, 1 dicembre 1932, in Ubaldo Bardi, Federico García Lorca musicista, scenografo e
direttore della Barraca, cit., p. 17.
21
22
30
viene definito “secondo rinascimento” dalla critica successiva) guardano proprio al
teatro come a un mezzo fondamentale di diffusione della cultura a livello popolare.
Se ora, in aggiunta a questi presupposti, ci si ricorda di quale esigenza di libertà
si levi dalla poesia, dai drammi popolari, dall’attività culturale di Lorca, si può
facilmente immaginare quale ruolo da protagonista possa aver avuto Federico
all’interno di un tale programma politico, e come il progetto della Barraca fosse
concordante con gli obiettivi di politica culturale della Repubblica.
Per la verità, l’esigenza di un teatro universitario era sentita da molti studenti e
poeti (Vicente Aleijandre, Manuel Altolaguirre, Luis Cernuda e, ovviamente, lo
stesso Lorca) a cui si unirono due professori universitari (Pedro Salinas e Amèrico
Castro). Una volta data forma all’idea, studenti professori e poeti si riuniscono a
creare un “Comitato in favore del teatro della Barraca”, così battezzato da Lorca.
Nell’ottobre del 1931 vengono così presentati al congresso dell’ U.F.E.H. 23 (che
poteva fornire una sovvenzione statale) sedici articoli, per poter brevemente
descrivere quelle che sarebbero dovute essere le caratteristiche essenziali della
Barraca. Eccone, sintetizzati, alcuni:
- articolo 2: gli obiettivi della Barraca sono di carattere educativo e popolare;
- articolo 3: la Barraca si propone di essere un teatro rivoluzionario, intenzionato
a reagire contro quei registi attardatisi all’interno delle modalità nelle quali
verteva allora il teatro spagnolo;
- articolo 6: la Barraca si compone di un teatro fisso a Madrid e di uno
ambulante per poter accedere alle differenti regioni della Spagna;
- articolo 7: il teatro deve essere sostenuto da una “società degli amici della
Barraca”. E’ necessaria anche una rivista che divulghi le attività della Barraca e
l’istituzione di una biblioteca che tratti dei problemi generali del teatro e che
funga inoltre da archivio foto-cinematografico;
- articolo 14: nel repertorio della Barraca figureranno creazioni riservate agli
amici della Barraca, rappresentazioni a prezzo ridotto per gli studenti,
23
Unión Federal de Estudiantes Hispanos.
31
rappresentazioni gratuite per il popolo e, infine, rappresentazioni pubbliche a
prezzi ordinari;
- articolo 15: la Barraca si impegna a dare alla luce creazioni mensili;
- articolo 16: il cartellone comprenderà i classici spagnoli fino a quelli romantici
e le opere moderne spagnole e straniere rifiutate dalle imprese commerciali
teatrali.
Il progetto del Comitato fu accolto favorevolmente, dal momento che la
Barraca ben si allineava alle missioni pedagogiche istituite dall’allora ministro
dell’Educazione Nazionale Marcelino Domingo, le quali pure daranno vita ad un
altro gruppo teatrale, divergente negli intenti educativi-divulgativi dalla compagnia di
Lorca, nei confronti della quale mantenne sempre un atteggiamento di sdegnosa
indifferenza. Tuttavia i punti proposti dal Comitato subirono delle trasformazioni: gli
articoli da sedici divennero otto (indicati con le lettere dell’alfabeto dalla A alla H) e
vennero apportati dei cambiamenti. Ecco alcune modifiche:
E- si dovrà formare un teatro di marionette indirizzato ai bambini, specialmente a
quelli delle scuole pubbliche;
F- la Barraca ha intenzione di propagare la musica popolare spagnola;
H- al fine di estendere la comprensione delle varie rappresentazioni, queste
verranno precedute da letture, conferenze ecc…
Una volta stabilite e approvate le modalità in cui la Barraca avrebbe dato vita al
suo teatro, il Comitato decise di nominare García Lorca direttore ed organizzatore di
questo carro di Tespi. Egli rivestirà in realtà molteplici ruoli, non trascurando quello
di regista e di attore e sarà, inoltre, un presentatore incomparabile: prima di ogni
rappresentazione Federico sale sul palco e spiega quello a cui si assisterà; con tono
cordiale stabilisce tra attori e pubblico quella comunione che prepara all’illusione
drammatica. Egli, infine, tra uno spettacolo e l’altro, catalizza l’attenzione del
pubblico liberando il suo genio musicale, improvvisando al piano arrangiamenti di
arie popolari.
32
Ferdinando de los Rìos, successore di Domingo e grande amico e ammiratore
di Lorca, stabilì per la Barraca la cospicua sovvenzione di 300.000 pesetas, per poter
provvedere a vitto, alloggio e trasporto della compagnia. L’instabilità politica del
governo nel corso del biennio successivo fece però calare la somma, che dapprima
passò a 100.000 e infine a 50.000 pesetas.
L’importanza di un tale finanziamento risulta evidente se si pensa che le
rappresentazioni della Barraca dovevano essere per la maggior parte gratuite (aspetto
non trattabile questo per Lorca, dal momento che la Barraca si poneva come
incarnazione di un teatro libero il cui miglior interlocutore era rappresentato dal
popolo più umile); nemmeno gli attori, scelti tra gli studenti universitari, ricevevano
alcuna retribuzione economica. Gli studenti venivano informati del possibile ingaggio
da un avviso esposto nella Università Centrale di Madrid. Le prove di ammissione
comprendevano la lettura di un brano in prosa, la dizione a memoria di un testo
poetico e quindi un saggio di recitazione. Ognuno doveva infine interpretare tutti i
personaggi di una determinata pieza. Gli attori scelti venivano così catalogati, per
rispondere a un’esigenza di praticità, a seconda dei ruoli che meglio riuscivano ad
interpretare; venivano usate indicazioni come “galante”, “seduttore”, “donna
pericolosa”, “infelice”, “traditore” ecc. Le parti venivano inoltre assegnate cercando
di mantenere all’interno della compagnia un certo equilibrio e una sobria omogeneità,
in modo da evitare ogni forma di protagonismo. Dice Federico in merito:
Qui non esistono né primi né secondi attori; non si ammettono i divi. Formiamo una specie
di falanstero nel quale tutti siamo uguali e ciascuno lavora spalla a spalla, secondo le sue attitudini.
Se uno fa il protagonista, un altro si incarica di distribuire le scene, un altro si trasforma in tecnico
delle luci e quello che sembra non abbia nulla da fare sta senz’altro espletando egregiamente la sua
mansione di camionista24.
A conferma di questa impronta democratica ed ugualitaria, i “Barracos”, così
venivano chiamati i componenti della troupe, indossavano una divisa blu scura, da
24
“La Vanguardia”, Barcellona, 1 dicembre 1932, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 57.
33
operai, identica per tutti, con un distintivo su cui era raffigurata una maschera nera e
bianca sullo sfondo della ruota di un carro.
La compagnia attraversava i territori urbani e agresti spagnoli spostandosi a
bordo di un camion messo a disposizione del poeta dalla Direción General de
Seguridad,
sul quale veniva caricato il materiale scenico necessario: un palco
smontabile d’otto metri per cinque realizzato dagli studenti d’architettura, un sipario
nero ad arco che fungeva da fondale, alcuni sipari neri, due siparietti laterali per le
entrate e le uscite degli attori, costumi, riflettori, dischi e fonografo.
La scenografia della Barraca venne affidata a José Caballero, studente di
ingegneria, ma scenografi furono anche lo stesso Lorca e Manuel Angeles Ortíz.
Condirettore fu Eduardo Ugarte, uno dei più importanti collaboratori e consiglieri di
Federico: “Ugarte è il mio controllore. Io creo; lui osserva ogni cosa e mi dice se va
bene o male, e io seguo il suo consiglio perché so che è sempre giusto”25.
Il Secolo d’Oro del teatro spagnolo
Le rappresentazioni della Barraca costellarono il territorio spagnolo in modo
omogeneo, andando a toccare città e villaggi, grandi centri e borghi, da La Coruña a
Malaga, da Salamanca a Barcellona, passando per Madrid e Toledo. Intenzionato a
parlare il linguaggio della tradizione, capace di abbattere ogni barriera sociale in
nome dell’appartenenza ad un’unica nazione, Lorca indirizzò la propria scelta di
repertorio al grande e condiviso patrimonio teatrale del Siglo de Oro.
Oltre all’indiscusso valore artistico e morale, questo teatro possiede più
specifiche caratteristiche atte ad attirare l’interesse di Lorca. Innanzi tutto è da notare
come proprio nel corso del Cinquecento si faccia strada un nuovo tipo di
drammaturgia. Se fino agli inizi del XVI secolo, infatti, le rappresentazioni teatrali
25
“La Naciòn”, Buenos Aires, 28 gennaio 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 116.
34
erano rivolte a un pubblico determinato a priori e delimitato, fosse quello delle corti
nobiliari o di circoli intellettuali o di collegi gesuitici, a partire dai primi anni del
Cinquecento si assiste alla creazione di nuovi spazi teatrali atti ad accogliere un
pubblico non solo più numeroso, ma anche più socialmente variegato. Il teatro esce
dai palazzi nobiliari e si diffonde tra gli strati popolari, come spettacolo sia religioso
che profano. E proprio in campo religioso si hanno le più importanti rappresentazioni
popolari, ovvero gli autos sacramentales, celebrazioni teatrali messe in scena per le
strade delle città in occasione del Corpus Domini. La tradizione dell’auto raggiunge il
suo apice con Calderón de la Barca, a cui veniva affidato annualmente il compito di
organizzare questi spettacoli. Dall’analisi di tali opere si può intuire come l’allegoria
e il simbolo fossero i capisaldi del discorso calderoniano, e di come il drammaturgo
se ne servisse rimanendo comunque fedele all’intento didattico che egli aveva nei
confronti del popolo. Oltre ai testi teatrali ci sono pervenute le descrizioni delle
scenografie, dei carri allegorici e degli archi trionfali che venivano installati in queste
occasioni.
Anche in ambito laico, tuttavia, si verifica l’apertura dello spettacolo al grande
pubblico, si moltiplicano e si differenziano i luoghi teatrali, tra i quali un ruolo
rilevante assume il corral.
Per corral si intende un cortile di forma più o meno rettangolare delimitato da più edifici:
uno spazio a cielo aperto, quindi, con il palco situato a una estremità, di fronte al quale si affollava
il pubblico, in piedi; questa zona del teatro è conosciuta come patio, mentre sui due lati vi erano
altri spazi per il pubblico, separati dal patio, posti ad altezze diverse e dotati di gradinate […] Certi
cortili erano parzialmente coperti da una tenda, che fungeva da schermo ai raggi solari e permetteva
una migliore visibilità del palcoscenico e quanto su di esso accadeva; quest’ultimo era invece dotato
di un tetto. La facciata della casa che delimitava il fondale del palco aveva un lungo balcone che si
trovava sempre all’ombra, riparato dal tetto; anche sotto di esso c’era una zona più ombreggiata,
utile per le scene notturne. Ciò è molto importante, visto che le rappresentazioni erano
rigorosamente pomeridiane […] Sulla parete della casa che costituiva il fondale del palcoscenico si
35
aprivano varie finestre e balconi, a formare una facciata utilizzabile nelle commedie che
richiedessero una diversità di livelli26.
Sebbene all’interno dei corrales il prezzo delle rappresentazioni variasse a
seconda del posto scelto dal pubblico, dando quindi alle possibilità economiche
personali un ruolo rilevante, in queste strutture potevano tuttavia trovare posto
spettatori appartenenti a diverse classi sociali, a differenza di quanto avveniva
nell’ultimo decennio del XV secolo, quando gli spettacoli teatrali venivano effettuati
esclusivamente a corte, facendo di duchi e marchesi gli unici possibili destinatari.
I contesti sociali e culturali della Spagna del Siglo de Oro e di quelli degli anni
trenta del Novecento sono naturalmente tra loro diversissimi: resta il fatto che mai vi
è, storicamente, periodo teatrale più adatto del primo a rintracciare nella storia
spagnola una necessità ampiamente sociale del teatro e una sua diffusione anche tra
ceti meno abbienti e non culturalmente elevati.
Tuttavia al di là di questa considerazione generale, è importante esaminare le
effettive scelte di repertorio effettuate da Lorca in un così ricco giacimento
drammaturgico.
Vediamo dunque quali sono i drammaturghi presenti nel cartellone della
Barraca: il nome di Cervantes appare in tredici tournées, quello di Calderón de la
Barca in cinque, quello di Lope de Vega in otto; figurano poi in due tournées
Machado, Juan del Encina e Lope de Rueda, in tre Tirso de Molina e in una lo stesso
Lorca (è questa l’unica volta in cui viene rappresentata un’opera di Federico, e non si
tratta per di più una delle maggiori, ma di un guigñol: El retablillo de don Cristóbal).
I nomi che compaiono con maggior frequenza sono quelli dei tre poeti più grandi:
Cervantes, Calderón e Lope de Vega. Le opere di Cervantes rappresentate dai
Barracos sono degli intermezzi, ovvero dei brevi pezzi comici che “si soleva
intercalare tra il primo e il secondo atto di una commedia […] I personaggi
Daniela Capra, I Secoli d’Oro del teatro spagnolo, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto
Alonge e Guido Davico Bonino, Vol. I, Torino, Einaudi, 2000, pp. 703-704.
26
36
dell’entremés sono spesso ricavati dalla realtà vicina allo spettatore; il gergo
quotidiano o dialettale, l’invettiva, gli usi e costumi popolari”27.
Esclusi questi brevi intermezzi, i drammi veri e propri a cui la compagnia
dedica più attenzione sono Fuenteovejuna di Lope de Vega e La vida es sueño di
Calderón de la Barca. Oltre ad essere due tra le più importanti opere drammatiche del
teatro spagnolo, e non solo, sono anche incarnazione e portavoce di ideali e messaggi
consoni alla visione lorchiana.
Fuenteovejuna
Lope de Vega fu autore poliedrico, estremamente versatile ed incredibilmente
fecondo, la cui arte si impose sulla scena teatrale spagnola del XVII secolo, tanto da
dotarla di nuove caratteristiche e da differenziarla dalla commedia precedente. Tra i
numerosi elementi distintivi rintracciabili nell’opera di Lope è interessante
sottolineare, ai fini del rapporto con Lorca, la sua capacità di miscelare elementi colti
e popolari, ricercati e tradizionali; proprio questo aspetto contribuì in larga misura a
fare del suo teatro un vero fenomeno di massa, in grado di celebrare “alcuni semplici
valori collettivi condivisi da tutti e nei quali tutti si riconoscono, dai nobili fino agli
elementi più umili della società”28.
Ne è testimonianza uno dei suoi capolavori, la tragicommedia Fuenteovejuna.
Quest’opera prende spunto da un episodio storico avvenuto nel 1476, che rimanda
all’eterna lotta condotta dal popolo contro i soprusi e le angherie dei potenti:
Essendo le cose di quest’Ordine [di Calatrava] nello stato ora detto, don Fernán Gómez di
Guzmán, Commendatore Maggiore di Calatrava, che aveva la sua dimora a Fuenteovejuna, borgo
Daniela Capra, I Secoli d’Oro del teatro spagnolo, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto
Alonge e Guido Davico Bonino, cit., p. 700.
28
Daniela Capra, I Secoli d’Oro del teatro spagnolo, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto
Alonge e Guido Davico Bonino, cit., p. 717.
27
37
appartenente alla sua Commenda, commise tante e sì gravi angherie contro gli abitanti del paese che
costoro, non potendo più oltre sopportarle né dissimularle, decisero, tutti d’accordo e con un sol
volere, di sollevarsi contro di lui e d’ammazzarlo […] Si radunarono in una notte del mese d’aprile
dell’anno 1476 i Podestà, i Reggitori, i Magistrati e il Consiglio, insieme con tutti gli altri
borghigiani, e a mano armata penetrarono di viva forza nel palazzo della Commenda Maggiore,
dove dimorava il suddetto Commendatore […] E così, mossi da un maledetto e rabbioso furore, si
fecero addosso al Commendatore e lo percossero e gli assestarono tanti colpi da farlo cadere al
suolo privo di sensi […] Dalla corte venne inviato a Fuenteovejuna un Giudice Inquisitore con il
mandato da parte dei sovrani cattolici, di appurare la verità dei fatti e castigar poi i colpevoli. Ma
per quanto egli mettesse alla tortura molti di coloro che avevano partecipato all’uccisione del
Commendatore Maggiore, mai nessuno volle confessare chi fossero stati i caporioni o i sobillatori
del delitto, né pronunciarono mai i nomi di coloro che vi avevano preso parte. Il Giudice
domandava: “Chi ha ammazzato il Commendatore Maggiore?”; e quelli rispondevano:
“Fuenteovejuna!” Tornava a chiedere: “E chi è Fuenteovejuna?”; e quelli: “Tutti gli abitanti di
questo borgo” […] Così il Giudice Inquisitore dovette tornare presso i sovrani cattolici per riferire
sull’accaduto, per sentire che cosa volevano si facesse; e le loro Altezze, essendo intanto informate
della tirannia esercitata dal Commendatore Maggiore, che era stata la vera causa della sua morte,
ordinarono che non si facessero più altre indagini intorno al fatto29.
Il frammento appena citato costituisce probabilmente la fonte da cui Lope de
Vega trasse il suo dramma. Se Manzoni avesse letto Fuenteovejuna vi avrebbe
trovato un buon esempio di quella che egli chiamava “verità storica”: Lope de Vega
non aggiunge alla trama del suo capolavoro nessun elemento che non fosse già
narrato nei documenti storici, e i personaggi che egli inventa sono dotati di grande
veridicità e attendibilità, tanto che avrebbero benissimo potuto trovare un ruolo reale
all’interno dell’episodio storicamente avvenuto. La struttura del dramma riesce
inoltre da una parte a dare il giusto ritmo teatrale alla vicenda, dall’altra a rispettare
l’importanza storica dell’evento: il fatto riguarda l’azione rivoltosa compiuta da
un’intera popolazione oppressa dai capricci di un signorotto e, specularmente, nel
testo di Lope sarebbe difficile trovare un protagonista che non si identifichi con tutto
l’insieme dei borghigiani; centro dell’attenzione è la sofferenza di un’intera
29
Francisco de Rades y Andrada, Cronaca dei tre ordini cavallereschi di Santiago, Calatrava e Alcàntara, in Antonio
Gasparetti, Prefazione a: Lope de Vega Carpio, Fuenteovejuna, Milano, Rizzoli, 1965, pp. 5-7.
38
cittadinanza, di una comunità che, non sopportando più lo stato di sfruttamento nel
quale versa, si ritrova unita e compatta e si solleva sotto la spinta di una indignazione
unanime, mostrando un’alternativa all’onore e alla vendetta individuali. E’ da notare
inoltre che l’intento di Lope non fu certamente quello di voler instillare nel pubblico
un sentimento rivoltoso: l’azione degli abitanti di Fuenteovejuna non costituisce un
rivolgimento politico contro il potere costituito, contro la monarchia (essi
sostituiranno infatti il blasone del commendatore ucciso con lo stemma dei sovrani,
riconoscendo nella Corona una supremazia capace di agire per il bene comune), ma
rappresenta piuttosto un anelito teso alla conquista di una giustizia superiore, paritaria
e democratica.
Ce n’è abbastanza per fare di Fuenteovejuna una delle opere più rappresentate
dalla compagnia della Barraca. Raccontare alle orecchie dei miseri una storia in cui
si potessero riconoscere e che dimostrasse come anche nelle condizioni più disperate
fosse stato possibile trovare uno spirito collettivo e unitario in grado di dare voce alle
esigenze più nobili dell’uomo, deve aver rappresentato per Federico un momento di
grande importanza, bellezza, e speranza.
Tuttavia, oltre a queste motivazioni, ve n’è probabilmente anche un’altra che
può aver spinto i Barracos a mettere in scena questo dramma di Lope: il 3 febbraio
1933, durante un congresso a cui non parteciparono né Lorca né gli altri membri della
troupe, il comitato d’amministrazione della Barraca viene destituito. La motivazione
di un tale provvedimento va ricercata nell’esigenza dell’ U.F.E.H. di dare maggior
rilievo alla dimensione politica della Barraca, a scapito di quella meramente artistica
adottata fino a questo momento. E’ anche quindi per venire incontro a questa volontà
che si spiega la presenza di Fuenteovejuna all’interno del repertorio del teatro mobile
di Federico. Va però notato che la scelta di interpretare il dramma di Lope è
precedente al congresso tenutosi nel febbraio del ’33, che quindi deve aver
rappresentato per la compagnia diretta da Lorca poco più che un mero momento di
conferma.
39
Lorca fa di Fuenteovejuna uno spettacolo lirico. Le canzoni indicate dal testo
del Secolo d’oro sono armonizzate da Ernesto Halffter per chitarra, mandolino e
liuto. Nel corso dello spettacolo si danza e si canta. Le musiche indicate nel testo di
Lope vengono reinterpretate dal genio gitano e folklorico di Federico: la strofa di “Al
Val de Fuenteovejuna” impronta un’aria sivigliana in cui si riconosce il ritmo
sincopato della musica orientale, mentre la strofa di “Sal a bailar” addotta un ritmo
originario delle Asturie. Ne risulta uno spettacolo indiavolato di danza, di canto e di
musica strumentale. Ecco qual è la visione di teatro classico spagnolo che Lorca
propone al pubblico.
Lo spettacolo messo in scena dalla Barraca fu in realtà, secondo la definizione
dello stesso Lorca, “un’antologia di Fuenteovejuna”: furono infatti soppresse dieci
scene, in particolare la scena finale in cui sono i sovrani a fare giustizia assolvendo la
popolazione. Questa eliminazione permise a Federico di rafforzare e avvalorare il
diritto del popolo e la sua forza rivendicatrice.
Per la verità operazioni di questo tipo non furono del tutto infrequenti: vennero
tolti anche una ventina di versi de La dama boba (Lorca mantenne il titolo originale
di quest’altro dramma di Lope de Vega, che venne in seguito modificato dallo stesso
autore diventando La niña boba) e le tre scene finali del Caballero de Olmedo. In
ogni caso tali interventi vennero effettuati con estrema cautela, poiché “togliere
equivale a concatenare”30. Secondo Federico infatti un’operazione del genere poteva
risultare utile per meglio incastrare tra loro gli episodi delle varie opere e mantenere
alta l’attenzione del pubblico, a patto che in questo intervento si prestasse la massima
prudenza.
In gioventù Lorca si divertiva a leggere i classici ai suoi amici ed ogni tanto si
interrompeva per indicare un passaggio che gli sembrava troppo lungo. Al momento
di mettere in scena queste stesse opere trova quindi necessario alleggerirle. Dice
Lorca in merito alla rappresentazione di Fuenteovejuna:
30
“La Naciòn”, Buenos Aires, 28 gennaio 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 67.
40
Di quest’opera non ho fornito che sessanta scene. Ho tagliato tutto il dramma politico e mi
sono limitato a seguire il dramma sociale. Ma ho avvisato. Non ho detto “adesso andrete a vedere
ed ascoltare Fuenteovejuna”, ma ho annunciato: “vado a presentarvi un’antologia di
Fuenteovejuna”31.
Tornerò in seguito sugli aspetti riguardanti gli adattamenti e la regia compiuti
da Lorca nell’ambito delle rappresentazioni della Barraca. Prima di affrontare questo
argomento ci rimane infatti ancora da considerare la seconda delle due opere del
repertorio della Barraca che ho scelto di analizzare: La vida es sueño.
La vida es sueño
Con Calderón de la Barca il teatro del Secolo d’oro raggiunge il suo apice.
Assieme a Lope de Vega è l’autore che più di chiunque altro contribuì a dare
prestigio al dramma barocco spagnolo. Come tutti i grandi poeti non si limitò a
rimaneggiare le tendenze culturali a lui contemporanee e già sperimentate, ma fu
importante innovatore e promotore di un nuovo linguaggio teatrale. Gli elementi da
lui introdotti riguardano differenti aspetti della creazione drammatica, dalla
scenografia (le rappresentazioni di Calderón prevedevano un importante contributo
dell’apparato scenografico) al linguaggio, impregnato di allegoria e simbolo. E forse
è proprio nell’efficace fusione tra campo linguistico e tematico che risiede la
grandezza di Calderón. Tramite il sapiente uso delle figure retoriche egli riesce a far
rifrangere sulla superficie delle parole la profondità dei concetti espressi. Lo scontro
tra opposti stati esistenziali (uno dei temi più presenti nella produzione calderoniana)
viene per esempio espresso attraverso l’antitesi, l’ossimoro o il chiasmo, enfatizzando
così l’immagine ed allineando su uno stesso piano contenuto e parola.
“Mirador”, Barcellona, 19 settembre 1935, in Estelle Trepanier, García Lorca et La Barraca, in “Revue d’histoire du
théatre”, aprile-giugno, 1966. pp. 175-176.
31
41
Fondamentale è la metafora, la vera lingua parlata da Calderón. Le varie opere
sono concatenate tra loro da un vero e proprio sistema di immagini poetiche che,
ripresentandosi con sistematica frequenza, diventano portatrici di un messaggio
organico da ricostruire, come le tessere di un puzzle, tra i vari drammi. Per esempio
la luce simboleggia la vita o l’amore, mentre le immagini tratte dall’astronomia
rimandano spesso alla maestà reale (ne La vida es sueño il re Basilio è un abile
astrologo: “Quei circoli di diamanti, quelle sfere di cristalli, che decorano le stelle ed
illuminano gli astri, sono lo studio primario dei miei anni” 32).; il cavallo è emblema
dell’orgoglio, la caduta da esso rappresenta l’avventatezza e la sfrontatezza; l’animale
ibrido, il mostro chimerico sono portatori di caos e alla caoticità rimanda pure il
disequilibrio che talvolta si viene a creare nel sistema alla cui costruzione
concorrono, con vago sapore aristotelico, i quattro elementi naturali e attraverso il
quale si manifesta la volontà divina. E’ quindi dal regno della natura che Calderón
trae più frequentemente le sue immagini poetiche e metaforiche, quello stesso regno
che andò a toccare il cuore del giovane Lorca e che, nelle sue mani, divenne carta e
verso.
Le opere di Calderón de la Barca si possono approssimativamente suddividere
in due gruppi: ad una prima fase appartengono le commedie d’intreccio (La dama
duende, Casa con dos puertas mala es de guardar, Dar tiempo al tiempo…) nelle
quali Calderón si accosta, inevitabilmente, all’autorevole figura di Lope de Vega. E’
però al gruppo delle opere religioso-filosofiche che appartengono i drammi più
importanti di Calderón, dai quali spicca maggiormente la sua personalità. E’ da questi
lavori che emerge il pessimismo del poeta sulla vanità universale e sull’inquietudine
della condizione umana. Da tale scetticismo prendono forma i temi calderoniani: la
vita come apparenza ed illusione, il mondo come finzione e teatro, ipocrite maniere
comportamentali che si ripresentano sempre uguali in personaggi sempre diversi. La
volontà divina e la razionalità umana sono le uniche entità in grado di stemperare il
catastrofismo di Calderón e a cui egli affida le sue speranze. Di tale stampo sono
32
Calderón de la Barca, La vita è sogno, Milano, Garzanti, 2003, p. 47.
42
opere come La devoción de la Cruz, Los Macabeos, El Purgatorio de san Patricio, El
mágico prodigioso, fino ad arrivare al capolavoro assoluto La vida es sueño.
Opera di grande complessità, adattabile a diverse chiavi di lettura e dai
molteplici livelli semantici, La vida es sueño rappresenta uno dei vertici massimi
raggiunti dalla letteratura teatrale. Si tratta di un dramma denso di significati,
prestabile a diverse interpretazioni e sempre attuale, tanto che, nel corso dei secoli, le
diverse generazioni vi hanno letto e tratto insegnamenti di volta in volta frutto della
loro propria sensibilità. In particolare il romanticismo ha dato grande rilievo ad uno
dei temi principali, ovvero la visione dualistica dell’esistenza che si suddivide tra
realtà ed apparenza (altro tema primario riguarda la precarietà della vita umana a cui
si accompagna un malinconico cruccio esistenziale).
A causa di una profezia nefasta letta nelle stelle, Basilio, re di Polonia, decide
di rinchiudere il suo neonato figlio Sigismondo in una torre remota, per allontanarlo
dalla corte e impedire l’avverarsi della previsione, secondo la quale “Sigismondo
sarebbe stato l’uomo più arrogante, il principe più crudele e il monarca più perverso,
sì da ridurre il suo regno in fazioni contrapposte, in scuola di tradimenti, e in
accademia di vizi”33. Passati degli anni Basilio decide però di dare a Sigismondo una
possibilità, convinto che il libero arbitrio possa vincere la predestinazione. Così, con
l’aiuto di un narcotico, Sigismondo viene trasferito a corte per una prova decisiva: se
egli si dimostrerà un valente sovrano potrà a buon diritto insediarsi sul suo trono,
altrimenti verrà ricondotto nella torre e gli verrà fatto facilmente credere che
l’esperienza avuta a corte fosse stata in realtà un sogno. Sigismondo, divenuto
provvisoriamente re, si abbandona a violente intemperanze, tutte da attribuire alla sua
natura, regredita allo stato selvaggio dopo tanti anni di prigionia. Tornato ad essere
un recluso e credendo di essersi risvegliato da un sogno, egli è in preda al tormento
per aver gettato al vento l’occasione che in sogno gli si presentava; Sigismondo ha
33
Calderón de la Barca, La vita è sogno, cit., p. 51.
43
conosciuto la vita soltanto nella dimensione onirica e, terminata in un battere di ciglia
la realtà che egli riteneva a sé più congenita, arriva a convincersi della fugacità della
vita. Tuttavia una rivolta popolare riporterà sul trono Sigismondo, il quale, dopo la
vittoria sul re Basilio, si rimpadronisce del titolo e del regno. Ma l’esperienza fatta tra
le due realtà opposte, come opposta è la vita rispetto all’illusorietà del sogno, lo ha
reso saggio e maturo: egli perdona il padre e, divenuto un sapiente sovrano, restaura
pace e giustizia.
Quella che viene narrata è la storia di un principe che per vivere la dimensione
che gli è propria cerca di liberarsi dal sogno, ovvero da quella situazione di incertezza
e apparenza nel quale l’uomo è immerso e che gli impedisce di elevarsi e di giungere
alla completa consapevolezza del proprio essere.
“Sogno” sta a significare una condizione sfuggente e precaria certo, ma anche uno stato di
finzione e di menzogna, di paralisi parziale della volontà e un’angoscia dell’essere e dell’esistere
(«il delitto d’essere nato») che consiste nel non poter imporre agli altri il proprio essere ed
esistere.34
E’ questa, in sintesi, la principale tematica che attraversa le pagine de La vida
es sueño. Ci troviamo innanzi ad un’opera monumentale, polisemica e sempre
rinnovabile, dotata di differenti livelli di comprensione e profondità, in grado di
parlare ad ogni tipo di orecchie, ad ogni tipo di animo, custode di un messaggio che,
appellandosi alla condizione di tutti gli uomini, a tutti gli uomini è destinato. Si tratta
insomma di un’opera che Lorca, nel suo intento di riscattare culturalmente gli umili,
avrebbe potuto difficilmente trascurare.
Rappresentare questo dramma presso il popolo del XX secolo è un atto se non
rivoluzionario sicuramente innovativo. Bisogna infatti precisare che La vida es sueño
non nasce come auto sacramental, ma fa originariamente parte di quei drammi
religiosi etico-filosofici che Calderón non destina al corral, ma al pubblico
34
Dario Puccini, Prefazione a Calderón de la Barca, La vita è sogno, cit., p. XXIII.
44
ecclesiastico e di corte. Solo successivamente, nel 1673 (circa quarant’anni dopo la
sua composizione), esso viene riproposto nella nuova formula dell’auto. Soltanto ora
La vida es sueño entra in qualche modo in contatto con le masse, ma sempre (come
direbbe Hauser) sotto il controllo e l’egida della Chiesa e cioè di un potere
istituzionale.
A questo punto è necessario chiarire che Federico realizza il suo spettacolo non
utilizzando il testo del dramma originario di Calderón, ma quello pensato per l’ auto
sacramental: Lorca ripropone al popolo un’opera a lui destinata, sottraendola però al
controllo dell’autorità.
Le due differenti formule (dramma e auto) dell’opera di Calderón sono tra loro
del tutto diseguali. Nell’auto non è narrata la vicenda di Sigismondo e completamente
assenti sono i personaggi del dramma. Quella che viene rappresentata è una scena
allegorica, in cui l’uomo, guidato dalla grazia divina e dalla razionalità, riesce a
vincere l’apparenza, giungendo così alla completa consapevolezza del suo essere. Si
potrebbe quindi dire che Calderón esplori a fondo la stessa tematica affrontandola
attraverso due differenti modalità.
Federico, convinto della capacità da parte di contadini e operai di riuscire a
vivere fino in fondo uno dei massimi frutti artistici prodotti dall’uomo, anche se
oscurato dal linguaggio concettoso dell’allegoria, rimane fedele al testo dell’auto
calderoniano, se si esclude l’elisione di una decina di versi (dal 275 al 286) e la
divisione dello spettacolo, non prevista dall’autore, in tre atti.
La scenografia è affidata a Benjamin Palencia e si compone di un sipario
pitturato, sul quale compaiono alcune costellazioni e le quattro fasi del ciclo lunare,
assieme all’albero stilizzato del bene e del male.
Lo spettacolo messo in scena dalla Barraca si apre sulla lotta intrapresa dai
quattro Elementi per il possesso di una corona rappresentante il potere. I volti degli
attori venivano truccati di pittura argentata per l’acqua e l’aria, rosso per il fuoco,
marrone e verde per la terra.
45
Il conflitto degli Elementi viene interrotto dall’entrata in scena di Virtù,
Saggezza e Amore che ristabiliscono l’ordine tra i quattro contendenti, affidando ad
ognuno il proprio regno. I vari personaggi abbandonano così la scena, mentre un
fuoco azzurro annuncia l’arrivo dell’ Ombra (interpretata dallo stesso Lorca) e del
Principe delle tenebre, illuminato da un fuoco rosso. Le due figure iniziano ad ordire
un complotto per gettare l’Uomo negli abissi. Quest’ultimo è attanagliato da angosce
esistenziali, e sentendosi in una posizione di inferiorità nei confronti degli altri
elementi del creato, costituirà una facile preda dei due demoni. Il primo atto si chiude
così nello sconforto: l’Uomo,irretito, è sul punto di essere sconfitto dal sonno della
coscienza.
Nel secondo atto l’Intelletto e la Luce della Grazia tentano di convincere il
Libero Arbitrio ad allontanarsi dall’Ombra e dal Principe delle tenebre. Il loro giusto
proposito non va però a segno e così, poco dopo, l’Uomo, istigato dal Libero
Arbitrio, getta l’Intelletto da un precipizio. Si scatena così un potente terremoto e
sulla scena incombe una luce verde simboleggiante la gravità del peccato commesso.
Nel terzo atto Amore e Virtù decidono di perdonare l’Uomo, che si trova ora in
preda allo sconforto a causa dell’atto compiuto. Egli intende così fuggire dall’Ombra.
Intelletto si dirà disposto ad aiutarlo e a salvarlo dalla colpa se questi si mostrerà
grato e totalmente devoto a Dio. La vicenda si avvicina così positivamente alla sua
conclusione: dopo aver convinto il Libero Arbitrio a porsi al servizio dell’Uomo,
Saggezza, Amore, Intelletto e Virtù sconfiggono l’Ombra e il Principe delle tenebre,
consegnando così all’Uomo, debole ma valevole, la salvezza eterna.
Come abbiamo detto, e come è facile notare, Calderòn compone per l’auto un
testo estremamente differente da quello pensato per il dramma. Tuttavia, ad una
attenta analisi, ci si può accorgere di alcune analogie. Quello che è importante
osservare è come la struttura portante sia comune ad auto e dramma: quella che in
entrambi i casi viene narrata è una storia pedagogica, un percorso educativo ed
esistenziale che muovendo da una condizione di debolezza e di cieca bramosia, e
passando per il riconoscimento e pentimento dei propri errori, giunge ad uno stato di
46
serena accettazione ed illuminata saggezza. Alcuni episodi dell’auto sembrano poi
richiamare da lontano certi passi del dramma: basti ricordare il disprezzo per il creato
provato da Sigismondo e dall’Uomo all’inizio di entrambe le opere, o come i due si
pentano di aver gettato il primo un servo dalla finestra e il secondo l’Intelletto da un
burrone, prendendo coscienza della loro esistenza e dell’illusorietà del sogno.
“Garcìa Lorca scelse l’auto di Calderòn per il suo valore poetico propizio ad
una interpretazione scenica molto libera, più vicina alla pura suggestione plastica del
balletto che all’emozione drammatica diretta, nella quale lo studio deve fingere la
spontaneità”35. Lorca concepisce infatti questo spettacolo come un ballo in cui gli
Elementi della natura vengono introdotti in una danza forsennata che suggerisce la
loro lotta reciproca. E’ uno spettacolo essenzialmente visuale, in cui il preciso
utilizzo delle luci, che si alternano a seconda dei personaggi presenti in scena,
abbinando così a ciascun personaggio un preciso sentimento, contribuisce a creare
una magnetica atmosfera emotiva.
Lorca aggiunge anche delle impressioni auditive: gli Elementi della natura
formano un coro di voci armoniose che ricorda il coro delle lavandaie in Yerma. Il
momento in cui gli Elementi della natura si arrendono all’Uomo viene sottolineato da
un canto melodioso e dolce.
Federico realizza uno spettacolo emotivo e assolutamente coinvolgente,
ipnotizzando pubblico e collaboratori. Per avere un’idea di quale potere magnetico
emanasse questa realizzazione del direttore della Barraca basti pensare che:
Nella piazza di un paese, poco dopo l’inizio della rappresentazione all’aperto, si mette a
piovere implacabilmente, un’acquerugiola fine. Gli attori s’inzuppano sul palcoscenico, le donne
del paese si tirano lo scialle sul capo, gli uomini si stringono e si fanno compatti: l’acqua viene giù,
la rappresentazione continua: nessuno si è mosso36.
Rivas Cherif Cipriano “Apuntes para el Teatro Drammatico Nacional”, “El Sol”, 22 luglio 1932, in Estelle Trepanier,
García Lorca et La Barraca, in “Revue d’histoire du théatre”, aprile-giugno, 1966. p. 170.
36
J. Guillen, F.G.Lorca, Milano, 1960, p. 34, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., pp. 74-75.
35
47
La regia di Federico García Lorca
Dopo aver parlato delle due opere maggiormente rappresentate dalla Barraca,
rimangono ora da analizzare i caratteri generali della regia di Federico. L’aspetto più
rilevante nell’interpretazione lorchiana dei drammi del Siglo de Oro è la cura
dedicata ai vari elementi della messa in scena. Federico si dimostra estremamente
attento ed esigente per quanto riguarda musica, luci, colori, costumi, entrate in scena,
posizione degli attori. In campo musicale egli persegue l’incontro del teatro classico
con elementi folklorici, componendo e armonizzando svariate arie e armonie
popolari, mettendo a frutto la propria passione per il folklore, le proprie conoscenze
musicali e l’amicizia con de Falla. Questi studi, queste conoscenze, queste passioni
gli tornano ora utili per dare voce alla sua sensibilità artistica. Federico raccoglie e
armonizza più di trecento canti popolari, tutti destinati alle tournées della Barraca.
All’interno di questo canzoniere compaiono seguidillas seicentesche, sivillanas
cinquecentesche, varie coplas anonime e molte altre antiche arie popolari di diversa
provenienza. Ecco alcuni esempi: nel Retablo de las maravillas di Cervantes, Lorca
sostituisce una sevillana alla zarabanda prevista dall’autore; nel Burlador de Sevilla
introduce il canto popolare “La Jerigonza” ed altre arie popolari armonizzate da
Lorca compaiono ne La tierra de Jauja di Lope de Rueda; nella Egloga di Juan del
Encina viene eseguito un arrangiamento del romance “Estando cosendo”; in
Fuenteovejuna, infine, compaiono canti corali interamente composti da Federico,
come “Las Agachadas”, e il balletto “Sal a bailar”.
E’ soprattutto tramite la dimensione musicale, quindi, che Lorca colora di
folklore il teatro classico:
Per dieci anni ho indagato nel folklore, ma con animo di poeta e non solo di studioso. Per
questo mi vanto di sapere molto e di essere capace di fare quello che in Spagna non si è ancora
48
fatto: di mettere in scena e di far gustare questo canzoniere spagnolo così come ci sono riusciti i
Russi37.
Come abbiamo però detto non è solo sulla musica che si concentra l’occhio da
regista di Federico. Egli è attento ad ogni singolo aspetto della messa in scena. Se si
pensa che, come racconta Pablo Neruda, per la rappresentazione di Peribañez y El
commendador de Ocaña Lorca bussò alle porte delle case contadine nel tentativo di
ricercare vecchi indumenti secenteschi eventualmente custoditi, si può capire quale
peso venisse dato ai costumi. Per fare un altro esempio, sempre in Fuenteovejuna
Federico fece indossare al Commendatore un vestito di velluto a coste, a
simboleggiare la rigidezza del suo comando, mentre ai personaggi del suo seguito
toccò la divisa delle guardie giurate, forza armata controllata dall’autorità ma in realtà
pagata dai grandi proprietari terrieri per difendere i loro possedimenti. Ecco quindi
che il costume diventa un importante elemento comunicativo, in grado di fornire
maggiore impatto e spessore ai personaggi.
La scrupolosa accuratezza nella messa in scena da parte di Federico bada
insomma ad ogni cosa, non ultima, e anzi forse prima di tutto, la resa attoriale: il
poeta dà precise indicazioni sul tono di voce, cura le entrate in scena, i movimenti, i
gesti e l’espressività dei suoi attori. Lorca dunque dirige gli attori, ma senza renderli
una sorta di super-marionette: il suo intento è piuttosto quello di aiutarli a conferire al
personaggio profondità e spessore. Da questo punto di vista, egli, se confrontato con i
grandi rinnovatori della messa in scena del ventesimo secolo, sarebbe in qualche
modo da avvicinare a Stanislavskij.
La prima preoccupazione di Federico è la dizione, e non è infatti un caso che
proprio la voce rappresenti uno dei più importanti criteri di selezione degli attori.
Lorca cura inoltre particolarmente il gesto, estremamente controllato e pulito, e ha
una nozione precisa dei tempi che regolano lo spettacolo:
37
Federico García Lorca, Obras completas, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 68.
49
Bisogna provare molto e molto meticolosamente per ottenere il ritmo che deve sostenere la
rappresentazione di un’opera drammatica. Per me è questa la cosa più importante. Un attore non
può indugiare un secondo di più dietro una porta […] Che l’opera cominci, si sviluppi e si concluda
armonicamente secondo un ritmo appropriato è una delle cose più difficili da ottenere in teatro38.
Ecco dunque il principale obiettivo di un tanto minuzioso zelo da parte del
direttore della Barraca: il ritmo drammatico, quel delicato equilibrio statico-dinamico
che è indice della buona o cattiva fusione tra tutti gli elementi dello spettacolo.
D’altronde la precisa attenzione al fattore scenico di Lorca è riscontrabile
anche nelle didascalie dei suoi drammi, in cui vengono date indicazioni che, non
disdegnando a volte la sinestesia (compaiono persino descrizioni degli odori che
dovrebbero essere presenti in scena), tendono a creare davanti agli occhi dello
spettatore dei piccoli quadretti. Il poeta fornisce in realtà descrizioni tanto ricercate e
precise, da divenire talvolta difficilmente realizzabili sul palco: non è infrequente nel
teatro di Lorca trovare salotti dai “toni in grigio, bianco e avorio, come in una
litografia antica”39; biblioteche in cui d’improvviso “la luce diminuisce e una
luminosità azzurrina di temporale invade la scena”40; bianche stanze immaginate in
modo da riuscire a rendere “un’impressione monumentale di chiesa” 41; strade
popolate da maschere che “esprimono un puro sentimento di terra” 42; cipressi che al
suono di una tromba “cominciano a tingersi di una luce dorata” 43, fino ad arrivare a
scene in cui sono presenti “pause impercettibili e improvvisi silenzi pieni, durante i
quali lottano disperatamente le anime dei due personaggi”44.
Lorca estende questa scrupolosa attenzione e precisione ad ogni aspetto della
sua scrittura drammatica, non trascurando la dimensione fantastica. Egli è infatti
zelante nel presentare non solo quegli elementi che è necessario che imitino alla
perfezione la realtà (si pensi a La casa de Bernarda Alba), ma anche quegli
“El Sol”, Madrid, 15 dicembre 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 75.
Federico García Lorca, Mariana Pineda, in Id., Teatro, cit., p. 70.
40
Federico García Lorca, Así que pasen cinco años, in Id., Teatro, cit., p. 240.
41
Federico García Lorca, Bodas de sangre, in Id., Teatro, cit., p. 352.
42
Federico García Lorca, Yerma, in Id., Teatro, cit., p. 399.
43
Federico García Lorca, Mariana Pineda, in Id., Teatro, cit., p. 110.
44
Federico García Lorca, Mariana Pineda, in Id., Teatro, cit., p. 91.
38
39
50
ingredienti che concorrono a creare attorno allo spettatore atmosfere oniriche e
poetiche, la cui presenza è tanto forte nella produzione artistica di Federico.
L’oculatezza scenica di Lorca risponde quindi ora al richiamo della veridicità, ora a
quello del sogno, a seconda dell’esigenza del poeta.
Tale “doppio registro” (realistico/fantastico) è confermato dal Lorca regista.
Sotto la sua direzione nascevano rappresentazioni sì estremamente precise, ma non
necessariamente realistiche. Accanto a movenze attoriali molto controllate
comparivano scenografie spesso esagerate e quasi grottesche, in cui, per esempio, “un
piatto ed un coltello divenivano oggetti iperbolici dipinti e ritagliati, in modo da
potersi attaccare ad una tavola ugualmente dipinta in senso verticale o dal profilo
smisurato”45. Atmosfere da sogno venivano create anche grazie al sapiente uso delle
luci, si pensi all’utilizzo che ne viene fatto nella rappresentazione de La vida es sueño
o alla scena finale di Fuenteovejuna, in cui accanto al Commendatore moribondo
viene posta una luce rossa, simboleggiante il dramma della morte del personaggio,
sconfitto dalla giustizia e dall’integrità.
Gli spettacoli messi in scena dai Barracos sono un buon esempio di unione tra
realismo e stilizzazione, tra favola e autenticità; l’obiettivo è quello non di
compiacere la borghesia farisea e vogliosa di vedere a teatro la propria quotidianità
decantata ed elogiata, ma di donare al pubblico popolare una favola morale e
pedagogica, che non disdegni di ricorrere al sogno per andare meglio a toccare le
corde più intimamente umane dell’animo.
García Lorca mira a ricreare un’immagine viva del teatro del Secolo d’oro, non
per forza realistica, strettamente legata ai canoni della quotidiana veridicità, ma
esuberante ed essenziale; non generatrice di fredde considerazioni intellettualistiche,
ma di un’ esperienza viva e intensa, capace di far sussultare gli animi, rivolgendosi
non alla mente ma al cuore.
Nell’animo del poeta della Barraca si agita il duende.
45
Ubaldo Bardi, Federico García Lorca musicista, scenografo e direttore della Barraca, cit., p. 24.
51
Nella conferenza Gioco e teoria del duende, tenutasi a Buenos Aires il 20
ottobre 1933, Federico García Lorca suscitò l’entusiasmo del pubblico in sala
tenendo una breve lezione “sullo spirito nascosto della dolente Spagna” 46, su quel
demone dell’arte che fu chiamato da Lorca duende, da Nietzsche spirito dionisiaco e
da Socrate ί. Il duende è un potere misterioso, nascosto e dormiente
nell’animo umano, risvegliabile solo a patto di rinunciare ad ogni regola o forma,
lasciandosi totalmente trasportare dall’impeto e dalla frenesia che colgono l’artista
nel momento di più irrequieta estasi. Per usare le parole di Lorca:
Tutto quel che ha suoni neri ha duende […] Questi suoni neri sono il mistero, sono le radici
che sprofondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da cui ci giunge quanto è
sostanziale nell’arte […] Ebbene il duende è un lottare e non un pensare […] non è questione di
capacità, ma di autentico stile vivo; vale a dire di sangue; di antichissima cultura, e, al contempo, di
creazione in atto […] è, in definitiva, lo spirito della Terra […] Per cercare il duende non c’è mappa
né esercizio. Si sa solo che brucia il sangue come un tropico di vetri, che estenua, che respinge tutta
la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che si appoggia al dolore umano inconsolabile […]
Una volta la cantaora andalusa Pastora Pavón, la Niña de los Peines, cupo genio ispanico […]
cantava in una tavernetta di Cadice. Giocava con la sua voce d’ombra, con la sua voce di stagno
fuso, con la sua voce coperta di muschio […] Ma niente; era inutile. Gli ascoltatori rimanevano zitti
[…] Allora la Niña de los Peines si alzò come una pazza, affranta alla maniera di una prefica
medievale, e si bevve d’un sorso un gran bicchiere di cazalla infuocato, e si sedette a cantare, senza
voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa, ma… con duende. Era riuscita a liquidare
tutta l’impalcatura della canzone, per cedere il passo a un duende furioso e travolgente, amico dei
venti carichi di sabbia, che faceva sì che gli ascoltatori si strappassero i vestiti […] Dovette
depauperarsi di capacità e di certezze; cioè dovette scacciare la sua musa e rimanere inerme, perché
il suo duende venisse e si degnasse di lottare fino allo stremo delle forze. E come cantò! La sua
voce non giocava più, la sua voce era un fiotto di sangue47.
Duende: si tratta di un fluido inafferrabile, di un’entità dotata di natura
demoniaca e tellurica: demoniaca perché sfida l’intelletto e contempla l’impossibile,
scavalcando i limiti della ragione; tellurica poiché il suo regno è il regno della forza
46
47
Federico García Lorca, Gioco e teoria del duende, Milano, Adelphi, 2007, p. 11.
Federico García Lorca, Gioco e teoria del duende, cit., pp. 12-13, 16-19.
52
terrena della natura, del corporeo, dell’umano. Il duende è totalmente avviluppato alla
vita, e della vita si nutre a tal punto che, nella lotta che intraprende con l’uomo, esso
impugna lo spettro della morte:
Il duende non arriva se non vede una possibilità di morte, se non sa di dover girare intorno
alla sua casa, se non ha la certezza di dover cullare quei rami che tutti portiamo, che non hanno, che
non avranno consolazione […] Il duende ferisce, e nella cura di questa ferita che non si rimargina
mai risiede l’insolito […] Il duende si incarica di far soffrire, per mezzo del dramma delle forme
vive, e prepara le scale per una evasione dalla realtà che ci circonda48.
Ecco che cosa sconquassa l’animo di Yerma, di Adele, di Martirio e delle altre
protagoniste dei drammi di Federico, e che fa insorgere in loro il furore per
un’idealità disattesa, imprigionata e condannata. Ed è questo spirito che, a mio
parere, si può indovinare osservando tra le maglie degli spettacoli della Barraca.
Lorca, l’abbiamo detto, realizza rappresentazioni dal forte carattere emotivo, che si
appellano al sangue e al mito, portatrici di una potente funzione comunicativa in
grado di instaurare un’intensa empatia tra artefice artistico e comunità umana. La
Barraca costituisce un’esperienza a cui Federico si dedica totalmente ed
intensamente, con una fede ed un trasporto simili a quelli che colgono l’artista nel
momento d’ispirata lotta col duende:
La Barraca, per me, è tutta la mia opera, l’opera che mi interessa e mi esalta, ancor più della
mia produzione letteraria, e per essa ho molte volte tralasciato di scrivere un verso o di concludere
una commedia, come Yerma, che avrei già ultimato se non mi fossi interrotto per lanciarmi
attraverso le terre di Spagna in queste stupende escursioni del “mio teatro” […] La Barraca è
un’impresa ammirevole, quasi unica. E’ un teatro universitario, e quantunque ve ne siano altri nelle
università di Oxford e Cambridge, di Columbia e di Yale […] dico quasi unico, non solo per la
qualità degli spettacoli che offre, ma anche per il fervore, la disciplina, l’entusiasmo, la coesione, il
soffio d’arte che anima tutti i suoi componenti […] E’ curioso constatare l’intimo piacere,
l’attenzione rapita con le quali i contadini, capaci di battere colui che abbia fatto loro perdere una
battuta con il più piccolo rumore, seguono nei villaggi, apparentemente più arretrati di Spagna, le
48
Federico García Lorca, Gioco e teoria del duende, cit., pp. 25-27.
53
nostre rappresentazioni, che sono l’immagine reale, la versione più fedele del nostro teatro
classico49.
Non c’è poi troppo da stupirsi se la Barraca assume agli occhi di Lorca
un’importanza tale da poter persino “oscurare” la sua produzione letteraria: Federico
dedicò gli ultimi intensi anni di vita ad un’esperienza che fu più di un teatro girovago
e popolare. La Barraca rappresenta un modo di vivere l’arte, di intendere la poesia e
l’incontro tra uomini. Nel breve intervallo di tempo che intercorre tra l’apertura del
sipario e l’inchino degli artisti, pubblico e attori vivono la magia di un intenso
momento di comunione e di condivisione, concentrato e racchiuso nello spazio di un
attimo, di un istante carico dell’essenza del particolare che, aspirando al cuore di tutti
gli uomini, tende al mondo e all’universale.
“La Nación”, Buenos Aires, 28 gennaio 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., pp. 116117.
49
54
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- TREPANIER, Estelle, García Lorca et La Barraca, in «Revue d’histoire du
théatre», aprile-giugno, 1966.
56
Ringraziamenti
Dopo aver riempito i bicchieri dei convitati, Massimo si alzò in piedi e, levato
il calice, si rivolse ai presenti:
- Cari amici, questa cena non avrà forse la sfarzosità di quella indetta da
Trimalcione, ma vi ho comunque voluti riunire, con quel poco che ho da offrire,
per condividere con voi questo momento. So che non è necessario che io vi
esprima la mia gratitudine per avermi accompagnato fino alla fine del mio lavoro,
ma è per me importante farlo. Non consideratela una formalità, ma un gesto di
sincera riconoscenza.
Sulla tavolata risuonarono scherzose risate e qualche applauso incoraggiante,
che lasciarono presto il posto ad un silenzio vagamente solenne, ma al tempo
stesso sereno e gioioso. Lievemente imbarazzato Massimo iniziò a fare il giro
della tavola, fermandosi accanto ad ogni invitato. Dapprima si avvicinò al
professor Pasqualicchio, ringraziandolo dovutamente dell’attenzione e del tempo
dedicatogli:
- Il mio debito è da riconoscere in particolare nei confronti della sua
disponibilità, che mi ha permesso di ricorrere al suo consiglio anche durante il suo
tempo libero e al di fuori dei ristretti momenti previsti dal ricevimento
settimanale.
Passando oltre andò incontro ai suoi parenti. I genitori per primi lo accolsero
tra le braccia:
- Mamma, papà, avete seguito con viva partecipazione lo sviluppo del mio
lavoro. Il vostro apprezzamento ha significato per me la sicurezza nei momenti di
più dura difficoltà. Il sorriso che scorgevo di nascosto sui vostri volti mentre
leggevate le mie righe mi ha rincuorato e spinto ad andare avanti.
Voglio poi ringraziare te, caro zio, per avermi fatto conoscere l’opera di Hauser
e per avermi piacevolmente intrattenuto una sera discutendo di arte medievale e
57
della poesia di Lorca. E’ stata per me un’occasione di studio personale e
un’importante opportunità di riflessione.
Finito di salutare i familiari, Massimo passò dall’altro lato della tavolata, dove
lo aspettavano gli amici. Subito si avvicinò ad Andrea, visibilmente in imbarazzo,
e lo salutò col suo tipico inchino a schiena dritta e mani giunte:
- Jotti, sei stato davvero un ottimo traduttore. Ti sei fatto aiutare da cafè e
grappa, ma alla fine sei riuscito ad avere la meglio anche sul francese. Senza il tuo
aiuto molte pagine della mia tesi non avrebbero visto la luce.
I due si abbracciarono, ma furono presto interrotti e circondati da un folto
gruppo festante di persone, dai volti dipinti e dai costumi colorati: la compagnia
teatrale iniziò a saltare e danzare per la sala, facendola riecheggiare di risate. Una
tesi che parli di teatro non può sussistere senza l’amore per il teatro, e una tale
passione necessita di chi l’accenda e la alimenti. Massimo festeggiò con i suoi
compagni di teatro, presenti e passati: Elena, Milo, Vivi, David, Marcy, Giampi,
Riki, Andrea, Vale, Alice, Anna, Albi, Nica, Cami, Paola, Efrem.
Dopo aver ballato e realizzato brevi improvvisazioni, Massimo si staccò dal
gruppo ed arrivò infine al fondo della tavola:
- Giulia, l’idea della mia tesi è nata un pomeriggio, ai tavoli di un bar, mentre i
nostri due animi imparavano a conoscersi. E’ stato bello vivere con te la poesia di
Lorca ed è stato importante saperti al mio fianco mentre studiavo e scoprivo sogni
e modi di vita che, come io e te sappiamo, vanno ben oltre la semplice stesura di
una tesi, ma mettono in discussione ciò che siamo in nome di ciò che potremmo
diventare.
Grazie per avermi così dolcemente spinto fra le braccia di Federico.
Grazie per aver aperto i miei occhi e le mie mani.
Grazie per avermi insegnato a cercare la bellezza.
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