CINEMA E FILOSOFIA 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO regia di Stanley Kubrick soggetto e sceneggiatura:Stanley Kubrick e Arthur Clarke; fotografia (SuperPanavision-Cinerama Metrocolor): Geoffrey Unsworth; musiche: Richard Strauss, Johann Strauss, Aram Katchaturian, Gyorgy Ligeti; scenografia: Tony Masters, Harry Lange, Ernie Archer; costumi: Hardy Amies; montaggio: Ray Lovejoy; effetti speciali: Stanley Kubrick (ideazione e direzione), Wally Veevers, Douglas Trumbull, Con Pederson, Tom Howard; interpreti principali: Keir Dullea (David Bowman), Gary Lockwood (Frank Poole), William Sylvester (Heywood Floyd), Daniel Richter (la scimmia “Guarda la luna”), Douglas Rain (la voce di HAL 9000), Leonard Rossiter (lo scienziato russo Smyslov), Margaret Tyzack (la scienziata russa Elena), Robert Beatty (Halvorsen), Sean Sullivan (Michaels), Vivian Kubrick (la figlia del dottor Floyd). produzione: Stanley Kubrick (produttore associato Victor Lyndon) per la MGM ; origine: Gran Bretagna anno: 1968 distribuzione: MGM; durata: 141 minuti. La ragione può diventare ragionevole solo riflettendo sul male del mondo così com’è prodotto e riprodotto dall’uomo: in questa autocritica, la ragione rimarrà nello stesso tempo fedele a se stessa, riaffermando e applicando senza nessun secondo fine questo principio di verità che dobbiamo alla ragione soltanto. La schiavitù della natura si tradurrà in schiavitù dell’uomo e viceversa fino a quando l’uomo non saprà capire la sua stessa ragione e il processo con cui ha creato e mantiene tuttora in vita l’antagonismo che minaccia di distruggerlo. La ragione può essere più che natura solo rendendosi conto della sua “naturalità” – che consiste nella sua tendenza al dominio – quella tendenza che paradossalmente aliena dalla natura. (M. Horkeimer, L’eclisse della ragione, Torino, Einaudi, 1969) Ciascuna autocoscienza è certa di se stessa, ma non dell’altra. Questo significa allora che la propria certezza di sé non ha ancora alcuna verità. La verità di questa certezza, infatti, ci sarebbe solo se l’essere-per-sé dell’autocoscienza le si fosse presentato come oggetto autonomo, qualora cioè l’oggetto si fosse presentato come questa autocertezza pura. Ora, sulla base del concetto del riconoscimento, ciò è possibile solo quando ciascuno degli oggetti, per l’altro, compie in se stesso l’astrazione pura dell’essere-per-sé mediante il proprio fare e, di nuovo, mediante il fare dell’altro. […] Il rapporto tra le due autocoscienze, dunque, si determina come un dar prova di sé, a se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte. La necessità di questa lotta risiede nel fatto che ciascuna autocoscienza deve elevare a verità, nell’altra e in se stessa, la propria certezza di essere per sé. Ed è soltanto rischiando la vita che si mette alla prova la libertà; […]. Mediante la morte, tuttavia, questa prova rimuove tanto la verità che doveva scaturirne, quanto l’autocertezza in generale. Infatti, come la vita è la posizione naturale della coscienza, è l’autonomia senza la negatività assoluta, così la morte è la negazione naturale della coscienza, la negazione senza l’autonomia: tale negazione, dunque, non ha quel significato del riconoscimento di cui siamo alla ricerca. […] La loro attività è la negazione astratta, non la negazione della coscienza, la quale invece rimuove in modo tale da conservare e mantenere il rimosso, e con ciò quest’ultimo sopravvive al proprio venir rimosso. (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Milano, Rusconi, 1995) Il vero è l’intiero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso. (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Firenze , La Nuova Italia, 1960) La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimer così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito. (G. W. F. Hegel, La scienza della logica, Torino, Utet, 1981) Se volessimo parlare di una malattia della ragione, questa malattia dovrebbe essere intesa non come un male che ha colpito la ragione in un dato momento storico, ma come qualcosa di inseparabile dalla natura della ragione nella civiltà, così come l’abbiamo conosciuta fin qui. La malattia della ragione sta nel fatto che essa è nata dal bisogno umano di dominare la natura. (M. Horkeimer, L’eclisse della ragione, Torino, Einaudi, 1969) Finora l’autocoscienza ha avuto a che fare soltanto con la propria autonomia e libertà, e il suo fine è stato unicamente quello di salvarsi e di mantenersi per se stessa a spese del mondo oppure della propria realtà, proprio mentre l’uno e l’altra le apparivano come il negativo della propria essenza. In quanto ragione, invece, diventa quindi sicura di se stessa, l’autocoscienza li affronta entrambi con serenità ed è in grado di sopportarli, perché adesso è certa di se stessa come della realtà, ha cioè la certezza del fatto che ogni realtà non è niente di diverso da essa. Il pensiero dell’autocoscienza è, immediatamente, esso stesso la realtà, e nei confronti di questa si comporta dunque come Idealismo. […] Il concetto della ragione espresso dall’Idealismo è il seguente: la ragione è la certezza, da parte della coscienza, di essere ogni realtà. […] Adesso, pertanto, la ragione nutre un interesse universale verso il mondo, in quanto è la certezza di avere nel mondo la propria presenza, essa è certa, cioè, della razionalità della presenza. La ragione cerca il proprio Altro sapendo di possedere in esso nient’altro che se stessa: cerca soltanto la sua propria infinità. (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Milano, Rusconi, 1995) Come altri sistemi chiusi di pensiero, [la filosofia hegeliana] conosce il dubbio vantaggio di non dover ammettere alcuna sorta di critica. Ogni critica di dettaglio resterebbe parziale, smarrirebbe l’intero; il solo che sia atto a rendere completamente conto anche di questa critica. (T. W. Adorno, Tre studi su Hegel, Bologna, Il Mulino, 1976) […] l’illuminismo è totalitario più di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo. Quando, nell’operare matematico, l’ignoto diventa l’incognita di una equazione, è già bollato come arcinoto prima ancora che ne venga determinato il valore. (M. Horkeimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1988)