Il rapporto Astratto / Concreto nella filosofia idealistica La Verità ha una struttura dinamica, non si costituisce come pura realtà “oggettiva”, ma come autocoscienza dello Spirito: questa è una delle principali novità presenti nel pensiero di Fichte. Tuttavia, secondo Schelling e Hegel, l’autocoscienza non si attua (come accade in Fichte) tramite il recupero di un Altro–da–sé (il “non-Io”), bensì come riflessione su di sé. Per attuare tale riflessione, lo Spirito deve proiettarsi prima “fuori di sé”, come Altro, per poi riconoscere l’illusorietà di questo ente “esterno” a se stesso, e realizzare (anche nel senso di to realise – qui l’inglese si presterebbe meglio del tedesco ad esprimere il concetto) la propria identità (Dio = Dio). In altri termini – questa è la grande lezione di Spinoza – la Verità non è semplicemente assenza dell’errore, ma ne rappresenta il superamento, il toglimento (Aufhebung, secondo il significato che questo termine assume in Hegel). L’errore non va quindi inteso, banalmente, come il contrario (o l’avversario) della Verità, ma ne costituisce un momento interno: senza errore, non c’è neppure verità. L’errore si configura, nella struttura [dinamica – vedi sopra] della Verità, come momento astratto (= parziale), mentre la Verità è l’Intero, il Concreto. La struttura autoriflessiva, dialettica, della Verità è un’essenza eterna, che si sottrae all’incompiutezza di ciò che sta nel tempo. Il tempo rappresenta tuttavia l’espressione necessaria di tale struttura: la natura e la storia sono componenti essenziali dell’autocoscienza dello Spirito – e questa è la differenza principale tra l’idealismo moderno e la corrispondente dottrina platonica. Dal punto di vista dell’Assoluto il circolo della storia è già da sempre compiuto; dal punto di vista del finito (dell’uomo in quanto essere storico in cammino verso l’Assoluto) tale compiutezza appare ancora come un futuro (sia pure, nella visione hegeliana, imminente). Ma qual è il rapporto fra Concreto ed astratto, fra il Tutto e la parte? Schelling pensa che il Concreto (lo Spirito autocosciente) sia la sola effettiva realtà; e ciò sembra ridurre l’astratto (= l’insieme delle cose finite e storicamente determinate) a semplice apparenza, manifestazione provvisoria che nega l’infinità dello Spirito – e che quindi, in tale infinità resta a sua volta negata, come mera virtualità. Insomma, nell’ottica schellinghiana, il mondo materiale e la storia appaiono infine dissolti nella pura e indifferenziata autocoscienza dello Spirito – che così sembra trascendere il mondo delle determinazioni finite, secondo una prospettiva di tipo neoplatonico. Hegel intende, invece, salvare le differenze (gli enti determinati del mondo materiale e della storia), conservandole (come superate, ma insieme come eternizzate) nella Memoria (Erinnerung) dello Spirito, che quindi non trascende il finito, ma ne costituisce la concretezza, la piena realizzazione. Non solo, cioè, il mondo non esiste senza di Dio, ma anche Dio ha bisogno del mondo – così come l’Intero non esiste se non esiste ciascuna delle sue parti: questa è ciò che Hegel chiama “buona infinità”.