CAPITOLO SETTIMO Dall`ingiustizia al benessere. La

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CAPITOLO SETTIMO
Dall’ingiustizia al benessere. La partecipazione tra opposizione e collaborazione. (Fedi,
Mannarini)
Nei suoi capitoli il volume “Non è giusto” affronta, secondo diverse ottiche, il tema dell’ingiustizia.
Il capitolo sette, in particolare, si occupa di questo problema in relazione alle dinamiche
partecipative presenti all’interno delle società locali.
I processi partecipativi sono fondamentali per lo sviluppo di comunità competenti, in quanto
consentono, tramite valori quali partecipazione, autodeterminazione e condivisione del potere, ma
soprattutto con la possibilità di aprirsi al dialogo e alla discussione, sia la risoluzione dei problemi
che la presa di decisione e la negoziazione delle relazioni. La partecipazione può manifestarsi
attraverso varie modalità: la denuncia, che tende alla difesa o all’affermazione dell’identità tramite
la contrapposizione con l’esterno; l’esplicitazione della domanda, che è un momento di definizione,
ma non per forza di soluzione, dei problemi; e infine la collaborazione, che prevede la condivisione
di responsabilità nel fronteggiamento dei problemi. All’interno di questo contributo sono distinte
due forme di partecipazione: una si basa sulla denuncia mentre l’altra unisce esplicitazione della
domanda e collaborazione.
La prima forma di partecipazione riguarda i movimenti sociali, definiti come reti di relazioni
informali, spontanee, basate su credenze condivise e identità, strutturate debolmente e orientate alla
protesta,all’interno delle quali circolano le risorse determinanti per l’azione condivisa ed è possibile
creare interpretazioni condivise della realtà. La caratteristica principale dei movimenti sociali,
infatti, è proprio quella di elaborare visioni del mondo che siano opposte a quella prevalente,
tramite sistemi di valori alternativi, creazione di legami e soprattutto di un’identità condivisa
all’interno della collettività, che permettano di interpretare la realtà e i problemi presenti al suo
interno, garantendo allo stesso tempo varie opportunità di azione. Non è possibile, però, parlare di
identità tralasciando la tematica dell’ideologia, che riguarda l’insieme di credenze, valori e
atteggiamenti condivisi: i due piani sono intrecciati tra loro, in quanto l’identità consente agli
individui di sentirsi parte di una collettività, ma solo tramite l’ideologia è possibile usare degli
schemi simbolici per rappresentare le proprie azioni, contribuendo alla creazione dell’immagine che
un gruppo può avere di sé. Proprio perché i movimenti sociali sono delle forme di partecipazione
con un’identità e ideologia diverse da quelle dominanti, la loro presenza all’interno di un contesto
implica la nascita di un conflitto, che può essere diretto contro le autorità politiche, ma anche più
semplicemente con altri gruppi: ciò che è importante è poter individuare un avversario al quale
contrapporsi, contro cui muovere una protesta.
La seconda forma di partecipazione, che unisce la collaborazione e l’esplicitazione della domanda,
riguarda i processi decisionali inclusivi, che prevedono il coinvolgimento dei cittadini all’interno
delle politiche pubbliche. Tale coinvolgimento ha vari livelli, a seconda del potere che viene
attribuito ai cittadini: si parte da forme di partecipazione passiva, che riguardano solo la diffusione o
la raccolta dell’informazione, per passare a un coinvolgimento maggiormente attivo che, con i
processi di negoziazione e consultazione, consente lo scambio di informazioni tra decisori e
cittadini, permettendo di giungere a risultati finali che tengano maggiormente conto dell’opinione di
questi ultimi. Questi ultimi processi si ispirano ai due principi che sono alla base della filosofia di
Habermas: innanzitutto l’agire comunicativo, che si riferisce al fatto che, all’interno di una
situazione, gli attori sociali cercano di giungere un accordo, partendo dalla negoziazione di
interpretazioni comuni per poi arrivare alla costruzione di strategie d’azione, e poi la democrazia
deliberativa, che invece riguarda un processo di decisione basato sull’argomentazione razionale che
coinvolga, almeno potenzialmente, tutti coloro a cui interessa la decisione da prendere. Quando tali
principi vengono attualizzati all’interno di setting istituzionali, questi vengono definiti arene
deliberative, ossia spazi al cui interno i cittadini interagiscono proprio per arrivare ad un obiettivo
condiviso. Tutte le arene presentano caratteristiche comuni, ossia: l’orientamento pratico, cioè la
loro focalizzazione su questioni concrete e specifiche; la partecipazione di non esperti, che riguarda
la presenza e la partecipazione di tutti i cittadini al loro interno, che possono far valere le loro
opinioni; e la produzione di soluzioni basate sull’argomentazione, che permette il raggiungimento
di una decisione consensuale attraverso il dialogo e lo scambio di punti di vista differenti.
Nonostante queste caratteristiche comuni, le arene deliberative sono classificabili in base alla
maggiore o minore strutturazione del processo (forme ad istituzionalizzazione forte o debole, a
seconda che le regole presenti siano più o meno costrittive), all’orientamento (deliberativo,
consultivo o risolutivo) e all’aggregazione dei cittadini (spontanea, casuale o in base ai propri
interessi).
Entrambe le forme di partecipazione descritte, quindi, influenzano la presa di decisioni di carattere
pubblico e influenzano i cittadini in un territorio, seppur in maniera molto diversa.
TABELLA 1: DIFFERENZE PRINCIPALI TRA I MOVIMENTI SOCIALI E LE ARENE
DELIBERATIVE.
CARATTERISTICHE
MOVIMENTI SOCIALI
ARENE DELIBERATIVE
ORIGINE (partecipazione)
Spontanea (bottom-up)
Regolata (top-down)
ORIENTAMENTO
Denunciare l’ingiustizia
Collaborare per il cambiamento
RAPPORTO CON L’AUTORITA’
Conflittuale
Dialettico e collaborativo
FINALITA’ (partecipazione)
Esprimere l’identità
Strumentale
CENTRATURA
Collettività
Soggettività
IDENTITA’ SOCIALE
Attivista
Cittadino
Abbiamo quindi notato come i movimenti sociali, che si propongono, attraverso la protesta, di
“rimediare” ai torti subiti, siano la forma di partecipazione che maggiormente viene attivata nei casi
in cui si assiste alla presenza di un’ingiustizia sociale. Affidarsi al binomio giustizia/ingiustizia
serve alle persone per poter tutelare i propri interessi e diritti, ma anche per comprendere la
collocazione soggettiva all’interno del gruppo di appartenenza; inoltre queste categorie
inevitabilmente influenzano la vita quotidiana nelle interazioni e nelle articolazioni dei giudizi
riguardo i contesti di appartenenza. Quando più soggetti si identificano con un’entità collettiva, cioè
condividono una stessa appartenenza, si viene a creare un’identità sociale, che può essere vista,
dagli appartenenti ad altri gruppi (e aventi differenti identità), come più o meno desiderabile. Nel
caso in cui quest’identità non sia desiderabile è possibile cambiarla attraverso vari processi, ma uno
di questi, il cambiamento sociale, permette proprio di agire all’esterno, sulle condizioni di potere e
status, che determinano ingiustizia, per migliorare la condizione del proprio gruppo. Ci sono però
momenti diversi di partecipazione al cambiamento: il consensus mobilization, attraverso il quale i
partecipanti danno il proprio consenso agli obiettivi e alla missione del movimento e aderiscono alla
sua ideologia (devono, per fare questo, identificarsi con il gruppo, avere percezione dell’ingiustizia
e una forte percezione di efficacia collettiva, attuabile nel miglioramento della condizione), e
l’action mobilization, che è il vero e proprio passaggio all’atto.
Il nesso, dunque, tra la percezione di ingiustizia e la partecipazione sotto forma di denuncia risulta
chiarito, maggiormente rispetto a quello che lega il vissuto di ingiustizia alla partecipazione dei
soggetti alle suddette arene liberative.
Le autrici, infatti, sottolineano come, per l’attivazione degli individui su temi di interesse collettivo
attraverso processi inclusivi deliberativi, sia necessaria non solo la percezione di ingiustizia, ma
anche la presenza di tre condizioni, quali:
- la membership , ovvero il sentimento di appartenenza ad un’entità collettiva;
- la percezione critica di una situazione, riconoscendola quindi come problematica;
- un senso di autoefficacia sufficientemente forte da portare i soggetti a credere di poter raggiungere
l’obiettivo desiderato.
Date tali premesse, nello spazio discorsivo offerto dalle arene deliberative, è possibile affrontare
vere e proprie dispute per la giustizia, discussioni riguardanti, cioè, dilemmi sociali, diritti, interessi
dei cittadini, socializzando, così, l’ingiustizia percepita dalla comunità e promuovendo soluzioni
costruttive e trasformative rispetto allo status quo.
E’ necessario, inoltre, considerare due dimensioni specifiche dell’ingiustizia, quella procedurale e
quella relazionale, che influenzano costantemente l’esito dei processi deliberativi e la loro qualità.
Thibaut e Walker (1975), a tal proposito, individuano il cosiddetto “effetto giusto processo”,
fenomeno per il quale, in un dibattito, l’esistenza di procedure giuste, che permettono cioè a tutti di
argomentare le proprie opinioni, consente di percepire il risultato della controversia come più
favorevole, anche quando oggettivamente non lo è. Per quanto riguarda la dimensione
dell’ingiustizia relazionale, allo stesso modo, risulta fondamentale la percezione, da parte dei
cittadini, di essere trattati in modo giusto, quindi di essere considerati e riconosciuti dalle istituzioni,
dalle autorità, per evitare che la partecipazione a processi deliberativi comporti un indesiderato
intensificarsi del vissuto personale e collettivo di torto subito, di ingiustizia.
Tale circostanza, tuttavia, nonostante possa apparire paradossale, è da riconoscere come una delle
possibili conseguenze della partecipazione alle arene deliberative. Queste ultime, infatti, da un lato
permettono l’espressione e l’esplicitazione dei sentimenti di ingiustizia, nonché una riflessione su di
essi, ma dall’altro sono suscettibili di creare ulteriori ingiustizie, rispetto alla relazione verticale
(con l’autorità) o a quella orizzontale (tra i partecipanti).
Per evitare ciò, dunque, e favorire la piena partecipazione, è necessario garantire una condizione di
uguaglianza che ponga gli individui in uno stato definito da Rawls (1971) posizione originaria. Si
tratta di ricorrere ad una finzione strategica, cioè, portando tutti i soggetti interessati ad una
discussione a stendere un velo di ignoranza sulla propria identità particolare, la propria collocazione
sociale ed i propri valori, per avere la convinzione di deliberare in una condizione paritaria e libera,
nonostante ciò non sia realmente possibile. Disuguaglianze sociali, nonché individuali, non
risultano, infatti, oggettivamente eludibili.
Avendo appurato, dunque, l’esistenza di un rapporto alquanto lineare tra vissuto di ingiustizia e
movimenti sociali di denuncia e più complesso, invece, tra ingiustizia e partecipazione sotto forma
di collaborazione, Fedi e Mannarini proseguono, interrogandosi sul passaggio successivo,
riguardante la presenza o meno di un rapporto tra vissuto di ingiustizia, partecipazione (movimenti
sociali o arene deliberative) e benessere sociale.
Sulla scorta di ricerche e studi condotti a riguardo, la risposta a tale interrogativo risulta essere
positiva. Come abbiamo visto finora, infatti, nel momento in cui la percezione di ingiustizia diventa
un elemento di coesione sociale, producendo sostegno, solidarietà reciproci, determina anche
l’attivazione di emozioni positive condivise tra i soggetti, e decisive per la costruzione di efficacia
collettiva e di entusiasmo rispetto agli obiettivi comuni a tutti i membri del gruppo. In questo modo,
come ben sintetizza Klandermans (1977 pag 13) “i partecipanti condividono speranza, non
disperazione e condividono l’idea che la loro azione farà la differenza”.
La ricerca condotta da Fedi e Mannarini tra il 2006 e il 2007 su campioni rappresentativi della
popolazione valsusina, piemontese e italiana, e volta perlopiù a rintracciare le opinioni e gli
atteggiamenti circa la realizzazione della linea ferroviaria Tav ed il movimento No Tav, ha trovato
anche conferma della presenza di un aumentato benessere sociale tra i protagonisti della
mobilitazione No Tav, facendo riferimento al modello teorico di Keyes (1998) . Sono cinque,
infatti, le dimensioni individuate dall’autore come elementi generatori di sostegno e di benessere
sociale nel momento in cui un soggetto si identifica con una collettività e sono le stesse cinque
dimensioni attivatesi nei partecipanti al movimento valsusino:
- integrazione sociale, che fa riferimento al sentimento di appartenenza alla propria comunità;
- accettazione sociale, che fa riferimento al riporre fiducia negli altri;
- contributo sociale, quindi la percezione di poter offrire un contributo valido alla società;
- attualizzazione sociale, che riguarda la valutazione dell’andamento complessivo della società;
- coerenza sociale, cioè la percezione circa il grado di intelligibilità della società e delle sue
dinamiche.
Possiamo, dunque, affermare che, nonostante le differenze tra movimenti sociali ed arene
deliberative, entrambe risultano essere strategie di coping utili a trasformare le condizioni
psicologiche di sofferenza, causate dalla percezione di ingiustizia, in motore per l’azione collettiva
e la trasformazione, quindi, dello status quo ritenuto iniquo, in un maggiore benessere sociale
condivisibile e condiviso.
Christiana Nuzzo e Valeria Baldi
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