Jean-Jacques ROUSSEAU (1712-1778)
1. i lumi funesti dell’uomo civile
2. lo stato di natura non esiste, ma…
3. il contratto sociale
4. educare al sociale
5. la democrazia irraggiungibile
Riferimento privilegiato a:
Rousseau Jean-Jacques 1750 Discorso sulle scienze e sulle arti
Rousseau Jean Jacques 1755 Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini
Rousseau Jean-Jacques 1762 Il contratto sociale
Rousseau Jean-Jacques 1762 Emilio
1. i lumi funesti dell’uomo civile (Rousseau 1755, 139)
All’età di trentotto anni, nel 1750, Rousseau partecipa al bando di concorso dell’Accademia di
Digione che aveva posto in gara il seguente tema: «Se la rinascita delle arti e delle scienze ha
contribuito a corrompere o a migliorare i costumi». È ovvio che li migliora, sembra si attenda chi ha
bandito il concorso su di un tema prettamente illuministico, si tratta solo di dimostrare perché e
come. Rousseau risponde: no, non li migliora, li corrompe. Il testo che invia vince il premio del
concorso e diventa presto la sua prima opera filosofica di rilievo e di grande successo: Discorso
sulle scienze e sulle arti.
1.1. Le scienze e le arti non sono fonti di progresso ma di degenerazione e corruzione. La
complicazione dei costumi produce il lusso, che genera corruzione e riduce l’uomo in schiavitù,
perché il lusso vive di se stesso, acquista le caratteristiche di un apparire e modo di essere che è
dotato di una propria logica morale, sociale ed economica capace di asservire l’uomo a sé.
1.2. Ma, come in un crescendo, vi è di peggio e di subdolamente più efficace: le scienze e le arti,
in una parola la civiltà nello stile contemporaneo, presentano se stesse come progresso rivestendo
con “ghirlande di fiori” (progresso, agio, lusso) le ferree catene che consegnano l’uomo alla propria
schiavitù.
È questa capacità di ricoprire abilmente le catene della schiavitù con “ghirlande di fiori” a decretare
il successo delle scienze e delle arti; trionfano perché nascondono all’uomo il proprio stato di
schiavitù e l’uomo le insegue e le cerca come se inseguisse la propria libertà. L’uomo, così, pone la
massima cura nel cercare di rendersene sempre più schiavo e per questo obiettivo costruisce una
continua gara sociale, in cui ognuno esibisce come successo e proclama con vanto lo stato di
dipendenza e di schiavitù raggiunto nei confronti di quanto scienze ed arti producono, ricevendone
un grande plauso sociale.
«Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini associati, le
scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle
catene di ferro ond’essi son carichi, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria per la
quale sembravano nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne fanno i così detti «popoli civili ». Il
bisogno innalzò i troni: le scienze e le arti li hanno rafforzati. Potenti della terra, amate gl'ingegni e
proteggete chi li coltiva. Popoli civili, coltivateli: schiavi felici, voi dovete loro quel gusto delicato e
fine di cui vi vantate; quella dolcezza di carattere e quella urbanità di costumi che rendono così
avvincenti e facili tra voi le relazioni; in una parola, le apparenze di tutte le virtù, pur senza il
possesso di alcuna.» (Rousseau Jean-Jacques 1750 Discorso sulle scienze e sulle arti, in J.-J.
Rousseau 1990 Il pensiero politico, il Tripode, Napoli, 37-38)
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1.3. i concetti, i momenti e gli ambiti della dimostrazione e critica di Rousseau:
1.3.1. la distinzione tra lo stato di natura e lo stato civile. Lo stato di natura, lo stato originario in cui
si trovava l’umanità era indubbiamente incolto, ma libero. Ora, nello stato civile, l’uomo è colto, ma
schiavo, raffinato ma corrotto.
1.3.2. è in atto la dissociazione tra essere e apparire. Ghirlande di fiori nascondono catene di ferro e
si fanno passare per ornamento, lusso e libertà; l’apparenza non è più l’apparire dell’essere, della
realtà; l’apparenza si stacca dall’essere e costruisce una propria fittizia realtà. Nell’apparire allora
non incontriamo più l’essere, la realtà, l’altro, la persona ma una forma precostituita, programmata,
artificiale. Apparenza e vuote forme, ipocrisia e inganno dominano le relazioni sociali in cui
l’apparire conta molto di più dell’essere e detta la trama del un sistema sociale. Le arti e le scienze
non hanno migliorato i costumi ma li hanno corrotti e complicati ingenerando la schiavitù sociale al
gioco delle forme, l’ipocrisia e la solitudine proprio nelle relazioni sociali; «regna nei nostri costumi
una vile e ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano esser stati fusi in uno stesso stampo»
osserva Rousseau. Quando le relazioni sociali sono consegnate a riti ingannevoli e uniformi, attuano
la negazione di un autentico rapporto personale in modo efficace in quanto subdolo: non negano la
relazione con l’isolare ed escludere le persone ma coinvolgendole nelle forme sociali di incontri
che, nei loro formalismi codificati, negano l’incontro. L’unico mezzo che l’uomo (come del resto la
realtà) ha per la relazione, cioè l’apparire, il manifestarsi, è diventato luogo e gioco di inganni:
«Non si usa più apparire ciò che si è». La natura umana ne risulta progressivamente occultata e
negata.
1.3.2.1. Il punto di arrivo del distacco dell’apparire dall’essere è quella situazione in cui l’apparire
rivendica per sé l’essere, in una società in cui si è in quanto si appare, se non si appare non si esiste,
si è invisibili, non si è nessuno. L’autonomia dell’apparire giunge alla funzione ontologica
dell’apparire stesso fino a costituire la “società dello spettacolo” (come illustrato nell’opera di
Debord Guy Ernest 1992 La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2004)
1.3.2.2. Ritornano, nelle parole di Rousseau, il monito e l’indicazione della prima filosofia: la
conoscenza e la verità iniziano quando si distingue tra essere e apparire, tra realtà e illusione e
quando prioritariamente si segue la strada dell’essere a cui riservare l’apparire (Parmenide, Eraclito,
Platone…).
1.3.3. il ruolo critico e di risveglio (liberazione) della filosofia. Come nello stile di molti generi
letterari propri della produzione illuministica (i Racconti di Diderot e di Voltaire, Le lettere
persiane di Montesquieu), parlando di un mondo lontano o esotico e descrivendone i tratti si pone
sotto impietoso esame e sotto accusa, con pungente ironia, la società del tempo nella sua struttura e
nelle sue abitudini. L’efficacia del testo è anche nel genere: un discorso che conserva i tratti di un
libello di denuncia ironica e accorata; la prosa mantiene lo sdegno nella vivacità di quella
concitazione compositiva che si è impossessata di Rousseau appena ha letto sul Mercure de France
il titolo del bando. «Nell’anno 1749, l’estate fu di una calura eccessiva. Si stimano due leghe tra
Parigi e Vincennes. Non in grado di pagare una diligenza, alle due del pomeriggio camminavo solo,
cercando di affrettare il passo. Gli alberi della strada, potati in stile agricolo, non davano quasi
alcun’ombra e spesso, spossato dal caldo e dalla fatica, mi sdraiavo esausto sul terreno. Avevo con
me alcuni libri, presi per moderare talvolta il passo e un giorno comprai il Mercure de France;
sempre camminando e scorrendolo, gli occhi mi caddero sul quesito posto dall’Accademia di
Digione, che ha dato poi origine al mio primo scritto. Se mai qualcosa rassomigliò di più a
un’ispirazione improvvisa tale fu il tumulto che si fece in me a quella lettura. Sento il mio spirito
improvvisamente come abbagliato da mille luci; folle di idee mi si presentano con vivacità, con una
forza e insieme con una confusione tali che mi gettarono in un turbamento indicibile; sento la mia
testa presa da uno stordimento simile all'ebbrezza, una violenta palpitazione che mi opprime e mi
solleva il petto; non potendo più respirare, mentre cammino […] Oh Signore, se avessi potuto
scrivere la quarta parte di ciò che avevo visto e sentito sotto quell'albero, con quale violenza avrei
fatto vedere tutte le contraddizioni del sistema sociale, con quale forma avrei esposto tutti gli abusi
delle nostre istituzioni, con quale semplicità avrei dimostrato che l’uomo è naturalmente buono e
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che solo per effetto di tali istituzioni diventa cattivo. Tutto ciò che ho potuto ritenere di quella
moltitudine di grandi verità, che in un quarto d'ora mi illuminarono sotto quell'albero, è stato assai
debolmente distribuito nel miei tre scritti principali, cioè quel primo discorso, l'altro
sull'ineguaglianza e il trattato e sull’educazione tre opere inseparabili che formano un tutto ».
(Rousseau 1990, 35-36, con integrazioni iniziali)
Così lo stesso Rousseau, in una lettera al signor de Malesherbes, riconduce la propria produzione
filosofica a quella ispirazione e la riunisce in un proposito di denuncia delle schiavitù sociali e della
raffinata e colta abilità (indicata anzi con un efficace ossimoro “artificiosa semplicità”) che la civiltà
ha acquisito nel soffocare le naturali libertà dell’uomo. In queste poche righe il progetto di un’intera
vita dedicata alla filosofia, alla filosofia pratica.
«Prima che l’arte avesse ingentilite le nostre maniere e appreso alle nostre passioni a esprimersi in
un linguaggio affettato, i nostri costumi eran rozzi, ma naturali e le differenze di condotta
manifestavano a colpo d'occhio le differenze di carattere. La natura umana, in fondo, non era
migliore; ma gli uomini trovavano la loro sicurezza nella facilità di penetrarsi vicendevolmente; e
questo vantaggio, di cui noi non sentiamo più il pregio, risparmiava loro gran somma di vizi. Oggi,
che le ricerche più sottili e un gusto più fine hanno ridotto a principi l’arte di piacere, regna nei
nostri costumi una vile e ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano esser stati fusi in uno
stesso stampo: senza posa la civiltà esige, la convenienza ordina; senza posa si seguono gli usi e mai
il proprio genio. Non si usa più apparire ciò che si è; e, in questa costrizione continua, gli uomini,
che formano quel gregge che si chiama società, posti nelle stesse circostanze faran tutti le stesse
cose, se motivi più potenti non ne li distolgono. Non si saprà, quindi, mai bene con chi si abbia a
fare: bisognerà dunque, per conoscere il proprio amico, attendere le grandi occasioni, cioè aspettare
che il momento buono sia passato; perché proprio per tali occasioni sarebbe stato essenziale
conoscerlo.
Qual corteo di vizi accompagnerà quest’incertezza! Non più amicizie sincere, non più vera stima,
non più fondata fiducia. I sospetti, le ombre, la freddezza, la circospezione, l'odio, il tradimento, si
nasconderanno continuamente sotto questo velo uniforme e perfido di cortesia, sotto questa urbanità
tanto decantata, che dobbiamo ai lumi del nostro secolo. Non si profanerà più con giuramenti il
nome del Signore dell’universo: ma lo s'insulterà con bestemmie, senza che le nostre orecchie
scrupolose ne siano offese. Non si vanterà il proprio merito, ma si avvilirà quello altrui. Non si
oltraggerà rozzamente il proprio nemico, ma lo si calunnierà abilmente. Gli odi nazionali si
spegneranno, ma con essi anche l’amore di Patria. All’ignoranza disprezzata si sostituirà un
pericoloso pirronismo [scetticismo ostentato come mezzo per nascondere, celebrare e far apprezzare
la propria ignoranza]. Vi saranno eccessi banditi, vizi disonorati, ma altri saranno decorati del nome
di virtù; bisognerà o averli o fingerli. Vanti chi vuole la sobrietà dei saggi di questo tempo; per me
non ci vedo che una intemperanza più raffinata, indegna del mio elogio quanto la loro artificiosa
semplicità.» (Rousseau 1990, 39)
2. lo stato di natura non esiste, ma… l’origine della disuguaglianza sociale
Uno dei più diffusi elementi o luoghi comuni di cui si serve la teoria politica moderna per costruire
teoricamente e giuridicamente, secondo razionalità dimostrativa, la sovranità (assoluta o limitata)
dello Stato (monarchia o repubblica) è lo stato di natura. Si presenta come serbatoio originario
complesso e indistinto di pulsioni, istinti e tensioni, per alcuni area di conflitto assolutamente privo
di leggi (Hobbes), per altri dotato di vincoli agli istinti ma solo di tipo fisico (Spinoza), per altri
caratterizzato da leggi naturali non formalizzate (non positive, naturali appunto) ma di fatto operanti
e sede di diritti naturali ancora segnati dalla difficile e precaria delimitazione e poco garantiti
(Locke)… Si tratta di una situazione magmatica che, proprio per la sua indistinzione oltre che
impossibile verifica, si presta a fornire il fondamento - postulato utile per la costruzione di modelli
di Stato tra loro molto disomogenei.
È un secondo progetto della Accademia di Digione che spinge Rousseau (anche visto l’esito
fortunato della prima partecipazione al concorso) a formulare le proprie teorie sul tema dello stato
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di natura e delle società civili che vi subentrano. Anche alla radice di questo “secondo discorso” c’è
una passeggiata, questa volta decisamente meno tormentata: nella foresta, in un clima meno afoso e
con una compagnia gradevole.
«Ebbi subito occasione di sviluppare quei principi in un’opera più vasta perché, nel 1753, comparve
la proposta dell’Accademia di Digione sul tema: Origine della disuguaglianza tra gli uomini. (Qual
è l’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini e se essa sia autorizzata dalla legge naturale) Colpito
da questa grande questione, fui sorpreso che questa Accademia avesse osato proporla; ma se aveva
avuto un simile coraggio io potevo a mia volta ben osare di occuparmene e iniziai. Per meditare a
mio agio un sì grande tema, feci un viaggio di sette o otto giorni a Saint-Germain, con Teresa, una
nostra ospite, che era signora gentile, e una delle sue amiche. Ricordo questo viaggio come uno dei
più gradevoli della mia vita. Il tempo era bello, queste care donne sbrigavano le varie faccende,
Teresa si divertiva con loro e io, senza incombenze, mi rilassavo senza problemi in ore di riposo.
Per il resto del giorno, inoltrato nella foresta, vi cercavo e trovavo l’immagine dei tempi primitivi di
cui ricostruivo con fierezza la storia; facevo man bassa delle piccole menzogne degli uomini; osavo
mettere a nudo la loro natura, seguire il progresso del tempo e delle cose che l’hanno sfigurato, e
comparando l’uomo dell’uomo con l’uomo natura mostrare nel suo preteso progresso la vera radice
delle sue miserie.» (Rousseau J.-J, Discours, Bordas, Paris 1985)
Nel suo “secondo discorso” : Sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755),
Rousseau riprende e sviluppa le tesi comparse nel discorso del 1750 intorno alla ricerca del perché
gli uomini si consegnino così facilmente alla propria schiavitù e quale siano le forme e l’origine
delle diseguaglianze tra gli uomini e se siano naturali o sociali.
Si tratta ancora di una teoria critica e di un progetto di liberazione: «Scontento della tua condizione
attuale per delle ragioni che preannunciano alla tua infelice posterità cause di malcontento ancora
più grandi, forse tu vorresti poter tonare indietro; e questo sentimento sarà l’elogio dei tuoi primi
antenati, la critica dei tuoi contemporanei, e il terrore di coloro che avranno la sventura di vivere
dopo di te.» (Rousseau 1755, 100)
2.1. due specie di disuguaglianza.
«Nella specie umana concepisco due specie di disuguaglianza: l’una, che chiamo naturale o fisica,
perché è stabilita della natura, e consiste nella differenza di età, di salute, di forze del corpo e di
qualità o spirituali o dell’anima; l’altra, che può dirsi morale o politica, perché dipende da una
specie di convenzione, ed è stabilita o almeno permessa dal consenso degli uomini. Questa consiste
nei vari privilegi di cui alcuni godono a danno degli altri, come d’esser più ricchi, più onorati, più
potenti di loro, o anche di farsene obbedire. […]
Di che dunque si tratta precisamente in questo discorso? Di segnare nel corso delle cose il momento
in cui, succedendo il diritto alla violenza, la natura fu sottomessa alla legge; per spiegare per qual
concatenazione di prodigi il forte abbia potuto risolversi a servir il debole, e il popolo a comperare
una quiete immaginaria a prezzo d’una felicità reale.» (Rousseau Jean Jacques 1755 Discorso
sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, Editori Riuniti, Roma 1971, 97,98)
2.2. lo stato di natura non esiste ma…ne abbiamo bisogno
«I miei lettori non debbono quindi immaginare che io mi illuda di aver visto ciò che mi è sembrato
tanto difficile da vedere. Ho iniziato qualche ragionamento, ho azzardato qualche congettura, non
tanto nella speranza di risolvere il problema quanto con l’intenzione di chiarirlo e di riportarlo ai
suoi veri termini. Altri potranno con facilità andare più lontano sulla stessa strada, pur non essendo
agevole per nessuno arrivare alla conclusione. Infatti non è compito lieve distinguere gli elementi
originari dagli artificiali nell’attuale natura dell’uomo, e conoscere bene uno stato che non esiste
più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, ma di cui pure è necessario
avere nozioni esatte, per ben capire il nostro stato presente. Occorre più filosofia di quanto si pensi,
anche solo ad affrontare il compito di determinare esattamente le precauzioni da prendere per fare
valide osservazioni su questo argomento…» (Rousseau 1755, 88)
Rousseau si occupa dello stato di natura per esigenze di metodo. Consapevole della impossibilità di
affermarne l’esistenza e tanto meno descriverne la natura, procede con cautela (in una “descrizione
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ipotetica” – Rousseau 1755, 128) fissando così paletti di metodo, segnalando la necessità di ipotesi
e di concetti per il tema del Discorso, mettendo in dubbio la disinvoltura descrittiva dello stato di
natura ricorrente nelle moderne teorie politiche in quanto «vi trasportano idee ricavate dalla
società». (Rousseau 1755, 114) Il concetto di natura è astrazione utile allo scopo di afferrare e far
emergere ciò che può essere definito e presentato come sociale.
Una consapevolezza generale: «Non bisogna considerare le ricerche nelle quali potremo addentrarci
a proposito di questo argomento come verità storiche, ma solamente come ragionamenti ipotetici e
condizionali, più adatti a chiarire la natura delle cose che a mostrarne l’effettiva origine, e simili a
quelli che fanno quotidianamente i nostri fisici sulla formazione del mondo.» (Rousseau 1755, 9899)
2.2.1. una cautela di metodo e un dubbio produttivo (lo stato di natura non esiste) che deriva oltre
che dalla natura del concetto, dalle difformità di precedenti descrizioni e usi politici dello stato di
natura (del concetto di stato di natura) e dalla difficoltà a darne un fondamento credibile.
«I filosofi che hanno esaminato i fondamenti della società, han sentito tutti la necessità di rimontare
fino allo stato di natura, ma nessuno di loro vi è arrivato. Gli uni non hanno esitato ad attribuire
all’uomo in questo stato la nozione del giusto e dell’ingiusto, senza preoccuparsi di mostrare che
esso dovesse avere tale nozione, e neppure che questa gli fosse utile. Altri han parlato del diritto
naturale, che ognuno ha di conservare ciò che gli appartiene, senza spiegare che cosa intendano per
appartenere. Altri, dando inizialmente al più forte l’autorità sul più debole, han fatto nascere
senz’altro il governo, senza pensare al tempo che dovette trascorrere, prima che il senso delle parole
d’autorità e di governo potesse esistere fra gli uomini. Infine tutti parlando continuamente di
bisogno, di avidità, di oppressione, di desiderio e d’orgoglio, han trasportato nello stato di natura
idee prese nella società: parlavano dell’uomo selvaggio e dipingevano l’uomo civile. Non è neppur
venuto in mente alla maggior parte dei nostri filosofi di dubitare dell’esistenza dello stato di
natura…» (Rousseau 1755, 98)
2.2.1.1. La pura ipoteticità dello stato di natura impedisce che da esso possano venir ricavati vincoli,
condizionamenti o fondamenti validi per la società, come diritti naturali o come colpe originarie
presociali. Con questa posizione Rousseau toglie validità sia alle teorie giusnaturalistiche sia alle
visioni cristiane collocate in un mitico Eden. Diritti e colpe sono elementi storici; tutto è sociale e la
società è il logo unico di nascita e di gestione degli elementi su cui si fonda e dei problemi che deve
gestire. Se lo stato di natura serviva alla società per non assumere la responsabilità di fronte alle
proprie tragedie, come l’istinto alla appropriazione senza limiti e la guerra di tutti contro tutti,
negata la sua esistenza, tutto diventa sociale e la società se ne deve far carico attraverso la politica.
Dichiarare lo stato di natura una mera ipotesi non impedisce che si possano affermare i diritti
naturali; questi se non hanno sede in un primitivo stato di natura si collocano (con maggior
concretezza e valore) nella permanente natura dell’uomo che ogni società è chiamata a riconoscere
e difendere.
2.2.2. lo stato di natura è tuttavia un luogo (tòpos, concetto) necessario per definire ciò che
naturalmente compete all’umano ed escludere da esso (escludere dalla natura, non necessariamente
escludere in assoluto) tutto ciò che la società ha artificialmente costruito e imposto all’uomo
creando complesse situazioni di condizioni umane: «distinguere ciò che gli deriva dalla sua essenza
da ciò che le circostanze e i suoi progressi hanno aggiunto o mutato nel suo stato primitivo…»
(Rousseau 1755, 87) Se le differenze tra gli uomini non sono soltanto storiche ma anche naturali e
biologiche allora occorre distinguere tra natura e società (e cultura), e vederne la relazione, per una
corretta azione politica. «Quali esperimenti saranno necessari per arrivare a conoscere l’uomo
naturale; e quali sono i mezzi per fare questi esperimenti nella nostra società?» (Rousseau 1755, 89)
«Spogliando quest’essere così costituito di tutti i doni soprannaturali che abbia potuto ricevere, e di
tutte le facoltà artificiali, che non ha saputo acquistare che per via di lunghi progressi;
considerandolo, in una parola, tal quale ha dovuto uscire dalle mani della natura, veggo …»
(Rousseau 1755, 101-102). E Rousseau tuttavia non si rifiuta di descrivere, anche con tratti molto
realistici, la vita dell’uomo nello stato di natura (ipotetico, forse mai esistito) «Grida inarticolate,
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molti gesti, e qualche suono imitativo dovettero costituire per molto tempo la lingua
universale…smettendo di dormire sotto il primo albero che capitava o di cercare riparo nelle
caverne, inventarono certe specie di asce e di pietre dure e acuminate, che servirono a tagliare la
legna…fino a quel momento vagavano nei boschi… i maschi e le femmine si univano
fortuitamente…» (Rousseau 1755, 136,138, 117).
2.2.2.1. Le diseguaglianze naturali. Procedendo per rimozione delle condizioni attuali dell’uomo,
cioè delle caratteristiche sociali, si può tentare di definire ciò che è naturale per l’uomo, ciò che gli
appartiene per essenza o per natura. L’esito è duplice: 1. si può così proporre una definizione ideale
dello stato di natura e definire, in natura, il concetto di disuguaglianza; 2. si può avviare il processo
di critica (e di liberazione) nei confronti delle inutili e oppressive catane della civiltà.
2.2.2.2. Le condizioni naturali di armonia. «Appunto questo è il grado di sviluppo a cui era giunta la
maggior parte dei popoli selvaggi a noi noti; e, per non aver sufficientemente chiarito le idee e
notato quanto questi popoli fossero già lontani dal primitivo stato di natura, molti si sono affrettati a
concludere che l’uomo è crudele per natura e ha bisogno di un’autorità che lo addolcisca; al
contrario, niente è paragonabile alla sua mitezza nello stato primitivo, quando, posto dalla natura ad
egual distanza tra la stupidità dei bruti e i lumi funesti dell’uomo civile, limitandosi sia per istinto
che per ragione a difendersi dal male che lo minaccia, è trattenuto dalla pietà naturale dal fare egli
stesso del male a qualcuno, perché niente ve lo spinge, neanche il fatto di averlo subito. Infatti,
secondo l’assioma del saggio Locke, non potrebbe esserci offesa dove non c’è proprietà.»
(Rousseau 1755, 139)
Idealmente (ipoteticamente e come definizione di postulato) lo stato di natura si caratterizza per un
equilibrio tra bisogni e risorse; è il luogo dei “bisogni soddisfatti” («lo vedo riposarsi sotto una
quercia, dissetarsi al ruscello più vicino, trovare il proprio letto sotto lo stesso albero che gli ha
procurato il pasto: ed ecco i suoi bisogni soddisfatti» Rousseau 1755, 102; «L’uomo selvaggio,
quando è sazio, è in pace con tutta la natura e amico di tutti i suoi simili» Rousseau 1755,182);
l’assenza di bisogni complessi rende le risorse abbondanti e inutile l’appropriazione e
l’accaparramento; dunque è uno stato di sobria felicità, non ci sono in esso le ragioni per conflitti
permanenti o non rapidamente componibili e vi regna una situazione di mitezza e armonia nelle
relazioni tra gli uomini (a metà tra bruti e civili). Tratti che rendono non verosimile l’idea di uno
stato di natura dominato da guerra e violenza; questa tesi trasferisce alla natura un prodotto
dell’uomo sociale. «… la maggior parte dei nostri mali è opera nostra … li avremmo evitati quasi
tutti, conservando il modo di vivere semplice, uniforme e solitario che era stato stabilito per noi
dalla natura.» (Rousseau 1755,106) «… l’uomo non ha altri mali se non quelli che egli stesso si è
procurati…l’uomo è naturalmente buono» (Rousseau 1755, 180)
2.3. le diseguaglianze sociali e la loro origine: quando “il diritto prende il posto della violenza”
(o quando il diritto rende legittima la violenza).
«Di che cosa tratta dunque precisamente questo discorso? Di stabilire nel progresso delle cose il
momento in cui, avendo il diritto preso il posto della violenza, la natura fu sottoposta alla legge; di
spiegare per quale concatenarsi di prodigi il forte poté accettare di servire il debole, e il popolo di
acquistarsi una tranquillità ipotetica al prezzo di una felicità reale.» (Rousseau 1755, 98)
2.3.1. la società nasce da un atto di appropriazione.
«Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue
da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie
ed orrori avrebbe risparmiato il genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato,
avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore; siete perduti, se dimenticate
che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno. Ma con ogni probabilità allora le cose erano già
arrivate al punto di non poter continuare come prima; infatti questa idea di proprietà… non si formò
all’improvviso nello spirito umano…» (Rousseau 1755,133)
Con questa affermazione Rousseau formula la propria tesi sull’origine delle diseguaglianze sociali.
Ricostruendo i passaggi: la proprietà è effettiva e reale se è riconosciuta, riconoscimento che
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implica l’esistenza della società; la proprietà nasce con la società e la società con la proprietà; ma
poiché la proprietà esclude gli altri dal possesso essa genera con la società anche le diseguaglianze
sociali (l’appropriazione è una stregua di peccato originale della società civile), conservate in
quanto sancite e rese giuridiche come diritto dalla legislazione.
«Questa fu, o dovette essere, l’origine della società e delle leggi, che procurarono nuovi intralci al
debole e nuove forze al ricco, distrussero una volta per tutte la libertà naturale, fissarono per sempre
la legge della proprietà e delle ineguaglianza, di un’abile usurpazione fecero un diritto irrevocabile
e da allora, a vantaggio di pochi ambiziosi, assoggettarono tuto il genere umano al lavoro, alla
servitù e alla miseria.» (Rousseau 1755,147)
2.3.1.1. La proprietà che si afferma con un atto di forza non si conserva senza il diritto, solo questo
offre la sicurezza del possesso. La trasformazione dell’atto di possesso nel diritto al possesso si
attua presentando il diritto come garanzia universale. Abile stratagemma, per Rousseau.
«… il ricco, spinto dalla necessità, concepì il progetto più ponderato che sia mai stato ideato da
intelletto umano: utilizzare a suo vantaggio proprio le forze di coloro che lo attaccavano … egli
inventò facilmente ragioni speciose per attirarli al suo intento. «Uniamoci – disse loro – per
garantire i deboli dall’oppressione, moderare gli ambiziosi ed assicurare a ciascuno il possesso di
ciò che gli appartiene; istituiamo regolamenti di giustizia e di pace ai quali tutti siano obbligati ad
uniformarsi, che non facciano eccezione per nessuno, e che riparino in qualche modo i capricci
della fortuna, sottomettendo sia il forte che il debole ai doveri reciproci…» Ci voleva molto meno
di un discorso del genere per trascinare gli uomini grossolani, facili da convincere…» (Rousseau
1755,146) Un discorso di fondazione giuridica della società che passa attraverso il contratto
sociale, cioè attraverso il consenso universale, ma si tratta di un “cattivo contratto”. Orchestrato, dai
proprietari («egli inventò facilmente ragioni speciose per attirarli al suo intento»), a diseguaglianza
attuata e allo scopo di generare l’accettazione delle diseguaglianze come possibilità per tutti, un
profitto e un interesse privato come possibilità di cui tutti avrebbero potuto usufruire e quindi
presentato come un vantaggio per tutti. Stratagemma che ha avuto l’effetto di rendere giuridiche le
diseguaglianze a favore di pochi attraverso la proclamazione dell’eguaglianza di tutti di fronte alla
legge. È qui in azione, nel discorso attribuito da Rousseau ai proprietari una procedura
argomentativa (una fallacia argomentativa) che porta ad equiparare un bene concreto ed acquisito
con un bene astratto, dichiarato possibile: difendere l’appropriazione privata, senza regole e senza
limiti, con una legge che ne proclama il diritto, si afferma è nell’interesse di tutti, in quanto tutti
potranno realizzarla per sé; la fallacia sta nell’affermare il diritto di una proprietà già concreta
partendo dal diritto di una proprietà universalmente possibile, sapendo che l’appropriazione privata
senza limiti è un processo concreto che esclude proprio la possibilità di una appropriazione
universale e che esclude quindi quella proprietà come diritto; si proclama diritto un privilegio che
come tale non può essere un diritto, un diritto universale. In sintesi e in generale: le diseguaglianze
reali sono rese diritto e legge attraverso un concetto di uguaglianza universale astratto, uguale per
tutti ma di fatto impossibile a realizzarsi proprio ad opera del diritto concreto. «Sotto i cattivi
governi questa uguaglianza è solo apparente e illusoria, essa non serve che a mantenere il povero
nella sua miseria e il ricco nella sua usurpazione. Nella realtà le leggi sono sempre favorevoli a
coloro che posseggono, e nocive per chi non ha niente: dal che deriva che lo stato sociale è
vantaggioso agli uomini solo se esse hanno tutti qualcosa e se nessuno possiede troppo.» (Rousseau
1762 Contratto, 72, nota p. 200) E così, convinti dall’argomento dei proprietari, conclude
Rousseau: «Tutti corsero verso le loro catene, credendo di assicurarsi la libertà.» (Rousseau
1755,147). Del resto, paradossalmente, come osserva Rousseau : «i politici costruiscono sull’amore
per la libertà gli stessi sofismi che i filosofi hanno costruito sullo stato di natura» (Rousseau
1755,150); costruiscono cioè, sull’amore per la libertà, il proprio potere e, di conseguenza, l’altrui
servitù.
2.3.2. Rousseau cerca le radici ulteriori dell’atto di appropriazione, per spiegarne
contemporaneamente la logica e la forza e quindi il suo persistere e ripetersi; sostiene che, a sua
volta, l’appropriazione nasce da una deformazione dell’amore: dall’amor di sé all’amor proprio. La
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proprietà privata è determinata dal passaggio dall’amor di sé, cioè l’istinto di autoconservazione,
capace di portare gli uomini ad unirsi in vista di un interesse comune, all’amor proprio, istinto del
possesso, tendenza ad appropriarsi senza bisogno di fissare limiti, per l’esigenza, di lusso, fasto,
potenza e conseguente avarizia e egoismo. Una specie di psicologia dell’istinto all’appropriazione
come sindrome irresistibile: «… si vede un pugno di potenti e di ricchi all’apice della grandezza e
della fortuna, mentre la massa striscia nell’oscurità e nella miseria, e ciò avviene perché i primi
stimano le cose di cui godono solo in quanto gli altri ne sono privi, e, senza cambiare condizione,
cesserebbero di essere felici se il popolo non fosse più misero.» (Rousseau 1755, 159)
2.3.3. la società nasce da un atto di appropriazione che è all’origine delle diseguaglianze e con esse
la varietà dei mali sociali; o meglio, e per completezza, la varietà delle virtù e dei vizi sociali. «È
chiaro che bisogna mettere in conto all’istituzione della proprietà, e per conseguenza alla società, gli
assassini, gli avvelenamenti, i furti sulle strade maestre, e le stesse punizioni di questi delitti,
punizioni per prevenire mali maggiori…» (Rousseau 1755,183)
2.3.4. la logica che si dispiega nelle catene della civiltà: trasformare gli agi in bisogni. « … questi
agi avendo perduto con l’abitudine quasi tutta la loro attrattiva ed essendo nello stesso tempo
degenerati in veri e propri bisogni, la loro mancanza divenne molto più dura di quanto me fosse
piacevole il possesso; e si era infelici quando li si perdeva, senza essere felici se li si possedeva.»
(Rousseau 1755,137)
2.4. il ruolo del sociale e il motivo della sua irrinunciabilità.
Solo nella società prendono forma linguaggio e ragione, relazioni e morale, desideri e passioni…
virtù e vizi del vivere insieme: «Ecco dunque tutte le nostre le nostre facoltà sviluppate» (Rousseau
1755,143).
2.4.1. “lo stimolo della necessità”, il ruolo propositivo del bisogno nel far emergere le facoltà
dell’uomo, a differenza dello stato di natura. L’equilibrio risorse bisogni e l’incontro immediato tra
i due, proprio dello stato di natura, genera soddisfazione ma rende anche inutile ogni forma di
previdenza, curiosità e…conoscenza. È il disagio ad essere alla radice del pensiero.
2.4.1.1. nel mondo naturale delle origini (quando, in assenza di bisogno, non accade il pensiero, né
previdenza, né curiosità): « I suoi modesti bisogni sono cosi facilmente a portata di mano, ed egli è
così lontano da quel grado di conoscenze necessario per desiderare di averne di più grandi che non
può avere né previdenza né curiosità. Lo spettacolo della natura gli diviene indifferente per quanto
gli è familiare […] La sua anima, che non è turbata da nulla, si abbandona al solo sentimento della
sua esistenza attuale senza nessun’idea dell’avvenire, per quanto prossimo possa essere, e i suoi
progetti, limitati come le sue vedute, giungono appena alla fine della giornata. Tale è ancora oggi il
grado di previdenza dell’abitante dei Caraibi…» (Rousseau 1755,112)
2.4.1.2. negli squilibri attuali [qui l’interessante ipotesi ante-litteram (“sia detto di sfuggita”) di uno
sviluppo in termini di decrescita]: «Ma supponiamo che gli uomini si fossero tanto moltiplicati che i
prodotti naturali non bastavano più a nutrirli, – supposizione che, sia detto di sfuggita,
dimostrerebbe che questo modo di vivere presenta grandi vantaggi per la specie umana…»: fucine,
fabbriche, strumenti di lavoro e lavoro continuativo, prevedere a lunga scadenza, e garanzia
dell’usufrutto di quanto viene lavorato … in uscita dalle condizioni dello stato di natura.
2.4.2. nel sociale il linguaggio colma la distanza tra le sensazioni e la conoscenza, unisce sensazione
e mente.
«Più si riflette su questo argomento, più s’ingrandisce ai nostri occhi la distanza tra le pure
sensazioni e le conoscenze più semplici; ed è impossibile immaginare come un uomo avrebbe
potuto con le sue sole forze, senza l’aiuto della comunicazione e lo stimolo della necessità, superare
una distanza così grande. Quanti secoli saranno passati prima che gli uomini siano stati in grado di
vedere un altro fuoco oltre quello del cielo? Quante combinazioni diverse sono state loro necessarie
per capire gli usi più comuni di questo elemento?» (Rousseau 1755, 112)
2.4.3. nel sociale il linguaggio sorregge la conoscenza, la moralità civile e le passioni; in generale
proprio il linguaggio esprime e costruisce il vincolo sociale.
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«Si pensi di quante idee noi siamo debitori all’uso della parola; e quanto la grammatica eserciti e
faciliti le attività dello spirito; e si rifletta poi all’inconcepibile fatica e all’infinità di tempo che è
dovuta costare la prima invenzione delle lingue: si colleghino queste riflessioni alle precedenti e si
comprenderà quante migliaia di secoli ci siano voluti per sviluppare successivamente nello spirito
umano le attività di cui era capace. […] Quando le idee degli uomini cominciarono ad estendersi e a
moltiplicarsi, e si stabilì tra loro un rapporto più stretto, essi cercarono un maggior numero di segni
e un linguaggio più ricco… […] anche l’amore, come tutte le altre passioni, ha acquistato solo nella
società quell’ardore impetuoso che lo rende così spesso funesto agli uomini» (Rousseau 1755, 114,
116,126) «Ecco dunque tutte le nostre facoltà sviluppate: la memoria e l’immaginazione all’opera,
l’amor proprio interessato, la ragione resa attiva e lo spirito giunto quasi al massimo della
perfezione di cui è suscettibile.»
2.4.4. Ma subito Rousseau segnala l’altra faccia di un simile progresso sociale: «… ed essendo
queste qualità le sole che potevano procurare stima, ben presto fu necessario averle o simularle.
Bisognò, per il proprio vantaggio, mostrarsi diversi da come effettivamente si era. Essere e parere
[être et paraître] divennero due cose completamente differenti; e da questa distinzione scaturirono il
fasto imponente, l’astuzia ingannevole e tutti i vizi che ne sono il codazzo.» (Rousseau 1755, 143)
Persiste dunque l’ambivalenza già intravista nella denuncia dei “lumi funesti della civiltà”. Anzi,
essa prende forma esplicita grazie al linguaggio, alle relazioni sociali e, tra queste, fin dall’inizio,
alla proprietà privata, fonte ad un tempo, inscindibilmente, di socialità e di ineguaglianza.
2.5. Il sociale e l’essenza dell’uomo: la perfettibilità ( o elogio del sociale).
Rousseau è noto per la sua denuncia del “lumi funesti della civiltà” e per il suo richiamo alla
semplicità naturale primitiva, selvaggia, non corrotta; una vulgata (ormai al tramonto ma in infinita
agonia) lo tramanda come un nostalgico dello stato di natura, pervaso dal rimpianto della felicità
perduta e animato dal desiderio di farvi ritorno («forse tu vorresti poter tornare indietro…»
Rousseau 1755,100); molti passi confermano una simile interpretazione («…la cosa ancora più
crudele è che tutti i progressi della specie umana la allontanano sempre più dal suo stato
primitivo…» Rousseau 1755, 88). Rousseau, in realtà, sa bene che questo guardo all’indietro,
questa nostalgia delle origini, e non il suo abbandono, violento o progressivo ma inarrestabile, è il
vero “peccato originale” dell’uomo e della società. Conduce a situazioni etiche e politiche dai
tragici effetti.
2.5.1. Ha l’effetto deleterio di distogliere lo sguardo e l’azione dell’uomo da quel sociale in cui si
gioca realmente e unicamente l’intera sua esistenza. Non a caso Rousseau sottolinea la non
esistenza e il carattere puramente ipotetico dello stato di natura; gli autori precedenti che avevano
fatto ricorso allo stato di natura ne avevano ammesso l’esistenza sulla forza di un luogo comune e
spinti dalla necessità di un postulato storico (malleabile) per le proprie teorie politiche.
Quell’appello e quell’ansia di ritorno sono serviti ad allontanare l’uomo dall’assunzione delle
proprie responsabilità nei confronti dell’unico spazio dato: il sociale e il sociale presente. Se lì è
guerra e violenza, abbiamo trovato a chi addossare la colpa dei nostri mali sociali: la natura,
inesorabile e implacabile, o il destino cinico e baro. Se lì è armonia e serena semplicità, abbiamo
trovato argomenti per guardare con astio al sociale e prendere sdegnati le distanze dagli uomini,
dalle loro finzioni, dai giochi delle loro società, dalla stessa umanità.
2.5.2. Ha l’effetto di negare l’uomo nella sua specifica essenza conoscitiva, pratica, morale…
Proprio in quel luogo naturale e originario, quasi nostalgicamente rimpianto nella sua versione
armonica, infatti non può trovare realizzazione e venire all’evidenza ciò che definisce l’uomo per
essenza: la perfettibilità. L’armonia dello stato di natura fondata sul legame immediato tra bisogni e
soddisfazione induce al sonno ristoratore del selvaggio ottentotto e provoca l’inutilità della
conoscenza, della curiosità (il passo citato: «lo vedo riposarsi sotto una quercia, dissetarsi al
ruscello più vicino, trovare il proprio letto sotto lo stesso albero che gli ha procurato il pasto: ed
ecco i suoi bisogni soddisfatti» Rousseau 1755, 102). Se ciò sia bene o male, Rousseau lascia la
questione aperta allo scopo di richiamare l’attenzione sull’ambivalenza delle nostra umane capacità.
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«Ma qualora le difficoltà che insidiano tali problemi lasciassero ancora in discussione qualche
aspetto di questa differenza tra l’uomo e l’animale, esiste un’altra qualità molto specifica che li
distingue, e sulla quale non ci possono essere contestazioni, ed è la facoltà di perfezionarsi; essa,
con l’aiuto delle circostanze, sviluppa successivamente tutte le altre facoltà, ed è insita in noi, sia
nella specie che nell’individuo, mentre l’animale, passato qualche mese, è quale sarà tutta la vita, e
la sua specie, dopo mille anni, è ciò che era il primo di questi mille anni. […] Sarebbe triste per noi
dover ammettere che questa facoltà distintiva, e quasi illimitata, è l’origine di tutte le sventure
dell’uomo; che è essa a farlo uscire, con il passar del tempo, da quella condizione originaria nella
quale potrebbe trascorrere giorni tranquilli e innocenti; che è essa a far apparire col trascorrere dei
secoli i suoi progressi e i suoi errori, i suoi vizi e le sue virtù, e a farne alla fine il tiranno di se
stesso e della natura. » (Rousseau 1755, 110)
2.5.3. La società si presenta come l’unico ambito concreto in cui la libertà e la felicità possono
venire alla luce, acquistare consapevolezza, venire realizzate e fruite dai singoli e dalla loro unione
sociale. Libertà e felicità erano tratti di un ipotetico stato di natura dominato dalla sicura
soddisfazione dei bisogni naturali, ma comparivano in modo istintivo, non riflesso (e questo per
Rousseau non è necessariamente un male se, come afferma, «la mente corrompe i sensi» Rousseau
1755, 109), o solo come ideali e immaginari (visto il carattere solo ipotetico dello stato di natura); la
società è il luogo, unico, della loro realizzazione concreta. Occorre però definire, delineare, quasi
costruire, e mostrare quale società è in grado di sostenere un simile percorso di perfettibilità
dell’uomo.
2.6. La visione critica del sociale: l’“insocievole socievolezza”. «Tutti corsero verso le loro
catene, credendo di assicurarsi la libertà.» (Rousseau 1755, 147)
La società che nasce con l’atto di appropriazione di alcune ed esclusione di altri, determinando
ineguaglianze che peraltro la legge finisce per codificare, dà sì vita al regime di società, ma anche di
oppressione e schiavitù; una situazione che Kant indica poi con l’efficace (e nota) espressione di
“insocievole socievolezza”.
2.6.01. L’ossimoro, qui e in generale, segnala la presenza di un’ambivalenza: quella società che
unisce gli uomini crea diseguaglianze e separazioni sociali; così come le arti e le tecniche sono
fonte di progresso e di schiavitù, la ragione e il linguaggi permettono all’uomo di orientarsi e
prevedere ma “la mente corrompe i sensi”, i «diversi casi che hanno potuto perfezionare la ragione
umana guastando la specie» (Rousseau 1755, 130), «in apparenza altrettanti passi verso la
perfezione dell’individuo, e in effetti verso la decrepitezza della specie» (Rousseau 1755,140), «il
ferro e il grano che hanno civilizzato gli uomini e perduto il genere umano» (Rousseau 1755,141)
… L’ambivalenza richiede un intervento critico di controllo e una conseguente assunzione di
responsabilità.
2.6.1. Se la società nasce con il possesso privato e la sua legittimazione e dunque genera la
diseguaglianza, nascosta sotto la parvenza della libertà. Se le stesse facoltà dell’uomo che la società,
la diseguaglianza e il bisogno mettono in risalto e stimolano con effetti di creazione degli agi e a un
tempo delle schiavitù, allora quell’unione degli uomini nella società è turbamento di equilibri
naturali creazione di gerarchie, esclusioni e schiavitù; si tratta di una socievolezza insocievole.
2.6.2. Lanciare l’allarme nei confronti dei tradimenti dell’umanità che si annidano nei processi di
formazione sociale non significa proporre un ritorno alla natura; la nozione di natura e la
descrizione ipotetica di uno stato primitivo hanno lo scopo di individuare ciò che società e
convenzione producono, e hanno lo scopo di impedire che scelte sociali si presentino come naturali,
rivendicando per sé il carattere della necessità. Dunque non c’è alcuna alternativa al sociale e ai
processi che lo hanno generato. Perciò Rousseau non intende abolire la proprietà privata: con essa
verrebbe ad essere abolita la stessa società. Occorre collocare il tema della proprietà all’interno di
un nuovo contratto sociale. Nessuna intenzione di “eliminare” il bourgeois, ma di renderlo citoyen.
2.6.3. La deriva dell’appropriazione del forte è il dispotismo politico che costituisce «l’ultimo
termine dell’ineguaglianza»: la massima uguaglianza nella diseguaglianza, l’uguaglianza degli
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esclusi nella servitù imposta dal potere. E qui il “cerchio si chiude” in una circolarità politica
viziosa che rappresenta una specie di ritorno allo stato di natura, all’eguaglianza di allora ma nel
massimo della perdita, alla precarietà di allora ma nel massimo della violenza e dei rapporti di
forza; è rimasta l’uguaglianza dell’essere oppressi ed esclusi e la violenza di chi opprime e di chi
abbatte, con altrettanta legittima (“un atto giuridico”) violenza, l’oppressore. «È qui l’ultimo
termine dell’ineguaglianza, è il punto estremo che chiude il cerchio e torna al punto da cui siamo
partiti: ora tutti gli individui ridivengono eguali, perché non sono niente, e non avendo i sudditi altra
legge che la volontà del padrone, e il padrone altra regola che le sue passioni, la nozione di bene e i
principi della giustizia svaniscono di nuovo. Ora tutto si riconduce alla sola legge del più forte e di
conseguenza un nuovo stato di natura differente da quello da cui siamo partiti, in quanto il primo
era lo stato di natura nella sua purezza e quest’ultimo è il frutto di un eccesso di corruzione. Del
resto vi è ben poca differenza tra questi due stati perché il contratto di governo è talmente dissolto
dal dispotismo che il despota è il padrone solo finché è il più forte e appena lo si può cacciare non
può reclamare contro la violenza. La sommossa che finisce con lo strangolare o detronizzare un
sultano è un atto altrettanto giuridico quanto quelli con cui egli alla vigilia poteva disporre della vita
e dei beni dei suoi sudditi. Solo la forza lo sorreggeva, solo la forza lo abbatte; tutto avviene in tal
modo secondo l’ordine naturale, e, qualunque sia l’esito di queste brevi e frequenti rivoluzioni,
nessuno può lamentarsi dell’ingiustizia altrui, ma solo della propria imprudenza o della propria
sventura.» (Rousseau 1755, 160-161)
2.6.4. La totalità del sociale, come unica situazione del vivere umano, l’assenza di possibili uscite e
di alibi, la specifica essenza della perfettibilità per l’uomo spingono all’urgenza di un contratto
sociale esplicito e condiviso e non una “insocievole socievolezza” creata dalla appropriazione senza
limiti e da un potere tirannico; nel contratto si verifica una partecipazione e una assunzione di
responsabilità etica e politica da parte di liberi cittadini.
La prefazione (e dedica) al Discorso del 1755 esprime già il desiderio e l’urgenza di un nuovo
contratto sociale.
«Avrei voluto nascere in un paese in cui sovrano e popolo avessero un unico e identico scopo, in
modo che tutti i movimenti del meccanismo tendessero soltanto alla felicità comune; e poiché ciò è
possibile solo quando popolo e sovrano si identificano, ne deriva che avrei voluto nascere sotto un
governo democratico saggiamente temperato. Avrei voluto vivere e morire libero, cioè sottomesso
alle leggi in modo tale che né io né alcun altro potessimo liberarci dal loro onorevole giogo, quel
giogo salutare e dolce che gli uomini più fieri sopportano tanto più docilmente in quanto non sono
nati per portarne altri. Avrei voluto dunque che nello Stato nessuno potesse considerarsi al di sopra
della legge, e che dall’esterno nessuno avesse potuto imporre qualcosa che lo Stato fosse obbligato
ad accettare; poiché, qualunque sia la costituzione di un governo, se c’è un solo uomo che non sia
sottoposto alla legge, tutti gli altri si trovano di necessità sottoposti al suo arbitrio… Quando i
popoli si abituano ai padroni non sono più in grado di farne a meno» (Rousseau 1755, 76, 77)
«… ma la cosa peggiore è che le disgrazie pubbliche sono attese e sperate da una quantità di
privati.» (Rousseau 1755,181)
2.7. nelle tesi di Rousseau, riprese in sintesi, riemerge una lunga eredità storica politica e
giuridica.
«Vi è così uno ius gentium primaevum — il diritto di natura e delle genti — che corrisponde ad uno
stato originario caratterizzato dall’esistenza della comunità delle origini, la cui condizione
fondamentale è l’assenza della proprietà. Le cose erano a disposizione di tutti non perché ce se ne
impadronisse con l’occupazione, ma perché se ne potesse fare uso. La nascita della proprietà segna
la fine della comunità delle origini e determina il passaggio alla realtà dello Stato.
La nascita dello Stato implica l’esistenza di leggi, tribunali, proprietà e soprattutto l’esistenza di
rapporti di dipendenza tra gli uomini. La realtà giuridica dello Stato è determinata dallo ius gentium
secundarium: «Il diritto di natura e delle genti secondario è quello che non è sorto con l’umanità,
ma nel corso del tempo nella maggior parte dei popoli». Si tratta dunque di rapporti di diritto
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positivo che valgono tuttavia solo nelle relazioni interne dei singoli Stati. Al contrario nel rapporto
tra i sovrani o tra i popoli liberi si impone solo il diritto di natura o dei popoli primario, non il diritto
positivo.
Il predominio dello ius gentium primaevum domina anche nelle relazioni tra sovrano e popolo.
Infatti questa relazione concettuale precede il diritto positivo e ne è indipendente. Si tratta d una
prospettiva di derivazione stoica secondo la quale il potere dell’uomo sull’uomo è legittimo solo
quando si basi sulla libera volontà del suddito, ossia su di un contratto. È una concezione che fonda
altresì il principio della sovranità del popolo.
La libertà dei singoli e dei popoli è imprescrittibile e irrinunciabile. Se essa fosse negata o violata
darebbe origine ad un diritto di resistenza. L’irrinunciabilità di questi diritti determina anche il fine
dello Stato, che è istituito solo per la garanzia dei diritti dei governati. » (Gozzi Gustavo 2010
Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, il Mulino, Bologna, 42-43)
I temi della proprietà, del diritto naturale (primevo o primario), del diritto positivo (secondario), dei
tempi storici e sedi di validità, espressi ed elaborati da Fernando Vasquez de Menchaca (15121569) Controversiae illustres, sono oggetto di piena ripresa e ricostruzione in Rousseau.
3. il contratto sociale
«L’uomo è nato libero, ma in ogni luogo egli è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri, non
cessa tuttavia d’essere più schiavo di loro. Come mai è avvenuto questo cambiamento? Lo ignoro.
Che cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere questo problema.» (Rousseau JeanJacques 1762, Il contratto sociale o principi di diritto politico, Rizzoli-Fabbri, Milano 2004, 52)
Parole di avvio che indicano, descrivendolo al negativo, lo scopo dell’opera di Rousseau e la
direzione del suo pensiero politico che lo vede impegnato da anni intorno al tema. («Questo piccolo
trattato deriva da un più ampio studio che iniziai una volta senza aver prima misurato le mia forze e
che da tempo ho abbandonato. Tra i diversi frammenti che si potevano ricavare da ciò che avevo
scritto, questo è il più notevole, e mi parve il meno indegno di essere offerto al pubblico. Il resto
dell’opera non esiste più.») Si tratta di costruire, ricostruire, un progetto organico di convivenza
civile in cui ognuno trovi nella legge le condizioni e le garanzie certe della propria libertà.
Nell’esergo dell’opera compaiono le parole di Virgilio: foederis aequas dicamus leges (Eneide, XI,
321)
Il progetto e le componenti
Il Contratto sociale si apre con una decisa dichiarazione di intenti: «Voglio cercare se nell’ordine
civile può esservi qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come
sono e le leggi come possono essere» (Rousseau 1762 Contratto, 51, con varianti). L’orizzonte nel
quale Rousseau si muove è dunque delimitato da un lato dalla conoscenza dell’uomo quale egli è,
con le sue potenzialità (eredità dell’uomo naturale) e con i suoi limiti (frutto della corruzione
civile), dall’altro dal progetto di un sistema di norme utili al rinnovamento della società civile; è
infatti «nell’ordine civile» e non nella prospettiva dell’ordine naturale che egli intende muoversi:
Rousseau non propone nessun ritorno alle libertà naturali, ma un progresso verso la libertà civile.
3.1. Il contratto sociale. Il momento centrale di tale trasformazione e progresso è costituito dal
contratto sociale. Questa nozione, ripresa dalla tradizione giusnaturalistica, è ridefinita nel progetto
politico di Rousseau in modo originale: se infatti il patto sociale descritto dai giusnaturalisti
prevedeva un momento associativo (il pactum unionis) e un momento subordinativo (il pactum
subiectionis), il contratto proposto da Rousseau è solo un patto di unione mediante il quale i
cittadini trasferiscono i propri diritti alla comunità di cui divengono parte integrante; quindi
trasferiscono alla comunità e conservano nella comunità di cui fanno parte; non vi è alcun atto di
sottomissione a un’autorità sovrana, poiché sono i cittadini stessi, divenuti un’unità organica, un «io
comune», a essere sovrani e a godere collettivamente, di quei diritti di cui si sono spogliati
individualmente: solo così essi restano liberi e «non obbediscono che a se stessi». Il passaggio dalla
libertà individuale, privata, alla libertà comune non è perdita ma guadagno: è fine di contrasti
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incomponibili, potenziamento delle libertà nell’unione. Con il contratto ciascun individuo aliena
dunque ogni diritto, in modo totale e senza riserve, ponendolo nelle mani della comunità.
«Questa somma di forze non può nascere che dal concorso di molti uomini; ma, poiché la forza e la
libertà di ciascuno sono i primi strumenti della sua conservazione, come potrà un uomo
impegnarvisi senza arrecar danno a se stesso e senza trascurare le cure che a se stesso deve? Questa
difficoltà, portata sul piano della mia ricerca, può enunciarsi nel seguenti termini: “Trovare una
forma di associazione che difenda e protegga le persone e i beni degli associati sfruttando al
massimo la forza comune, associazione nella quale ogni uomo, pur unendosi a tutti gli altri, non
obbedisca che a se stesso e resti libero come prima.” Questo è il problema fondamentale di cui il
contratto sociale offre la soluzione. […] Se dunque si leva al patto sociale ciò che non gli è
essenziale, si troverà che lo si può ridurre ai seguenti termini: “Ciascuno di noi mette in comune la
propria persona e ogni potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi riceviamo
ogni membro come parte indivisibile del tutto".» (Rousseau 1762 Contratto, 63,64)
3.2. Volontà individuale, volontà di tutti, volontà generale. La cessione contenuta nella formula
del contratto sociale non è cedere ma mettere in comune; è una rigenerazione che trasforma
l’individuo particolare (homme) in cittadino (citoyen), un gruppo di soggetti in un popolo; con il
contratto infatti ciascun contraente si impegna ad abbandonare gli impulsi passionali e
individualistici per seguire la ragione e la volontà generale.
3.2.1. La volontà generale «è sempre retta e tende sempre all’utilità generale»; «volontà dell’io
comune», la volontà generale si distingue sia dalla volontà individuale, soggettiva, sia dalla volontà
di tutti, semplice somma di quelle individuali; queste sono segnate dall’individualismo e non sanno
orientarsi, come accade alla volontà generale, verso il bene comune, verso l’accordo degli interessi
particolari. La volontà generale è l’espressione unitaria dell’unico corpo sociale: «Fino a quando
parecchi uomini riuniti tra loro si considerano come un sol corpo, essi non hanno che un'unica
volontà, diretta alla comune conservazione e al benessere generale. Allora tutte le energie dello
stato sono vigorose e semplici, le sue massime sono chiare e luminose; non vi sono interessi
imbrogliati, contradditori; il bene comune si presenta dovunque con evidenza e non richiede che del
buon senso per essere visto.» (Rousseau 1762 Contratto, 155) Per questa sua capacità di esprimere
e garantire la coesione della comunità, l’uguaglianza dei cittadini (nei diritti e nei doveri), e la
libertà (intesa come impegno a seguire l’ordine necessario alla realizzazione di sé), la volontà
generale si impone a tutti come fondamento delle leggi, come criterio ispiratore delle norme
giuridiche.
«Vi è di sovente molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale: questa riguarda solo
l’interesse comune, l’altra l’interesse privato e non è che una somma di particolari volontà; ma se si
toglie da queste volontà stesse quelle che con le loro richieste in più o in meno si eliminano tra loro,
resterà come risultato della somma delle differenze la volontà generale.» (Rousseau 1762 Contratto,
73,77) [Uno stratagemma per individuare la volontà generale, o avvicinarsi ad essa, è eliminare le
richiesta tra di loro divergenti, che dunque si annullano, e cogliere ciò che resta.]
3.2.2.1. Per le “migliori regole di società” Rousseau afferma «sarebbe necessaria un’intelligenza
superiore che vedesse tutte le passioni senza provarne alcuna, che non avesse alcun rapporto con la
nostra natura pur conoscendola a fondo…» (Rousseau 1762 Contratto,88); si può pensare a un ente
divino, ma, in termini politici, la volontà generale è definita da questi tratti di trascendenza
immanente: è separata dagli interessi privati e conosce il bene comune.
3.2.2. Funzione irrinunciabile della “volontà generale”. È difficile definire contenutisticamente la
volontà generale senza il ricorso alla volontà di tutti o alla volontà della maggioranza, ma è chiara
tuttavia la nozione di volontà generale e lo è altrettanto, per Rousseau, la sua utilità. Se in
democrazia l’unico criterio adottato per rispettare i principi che la definiscono è dato dal ricorso alla
volontà di tutti o dal rispetto del principio di maggioranza (con quanto accompagna il rispetto e la
difesa dei diritti delle minoranze), tuttavia è bene essere avvertiti che la volontà di tutti non
necessariamente esprime la volontà generale; cioè non esprime necessariamente il bene comune.
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Può accadere che un popolo intero (la volontà di tutti) o la sua evidente maggioranza si esprima per
la perdita dei propri diritti e per la propria distruzione, come accade nei sistemi totalitari di massa
della storia del ‘900; può esistere il plagio o la schiavitù dell’intelligenza e della volontà, affascinate
dall’inganno e dall’apparenza (Rousseau ha affrontato il tema nei suoi Discorsi, sopra richiamati).
3.2.3. Funzione irrinunciabile della “volontà di tutti”. La critica ricorrente al criterio di maggioranza
consiste nel ritenere inaccettabile risolvere con criteri di maggioranza (criteri quantitativi), questioni
che richiedono competenze e quindi impongono il ricorso a esperti qualificati (criteri qualitativi).
L’attacco alla democrazia come sistema che affida la sorte dello Stato a una massa di inesperti
facile preda di astuti demagoghi che sanno come fare appello e sfruttare gli istinti del popolo riunito
in massa è chiaramente e drammaticamente rappresentato nelle opere di Platone (Protagora,
Gorgia, Repubblica). Ma l’argomentare di Platone presenta, almeno parzialmente, una fallacia di
tipo logico: se la decisione riguarda temi che richiedono livelli di competenza (come la fattibilità di
un’opera pubblica, la decisione su chi debba svolgere un compito professionale – come il ruolo
medico, nell’esempio di Protagora) difficile credere che la questione sia ben risolta solo attraverso
un voto di maggioranza di una folla riunita (di incompetenti); se la decisione riguarda temi di
giustizia e di equità, di libertà di scelta e di espressione…è difficile, su tali questioni, dichiarare
l’incompetenza di qualcuno a decidere e non ricorrere al criterio quantitativo.
3.2.3.1. A favore del criterio della volontà di tutti (e della maggioranza) potrebbe valere la
situazione sociale e storica della stupidità descritta (con ironia tragica) da Cipolla Carlo M. 1988 Le
leggi fondamentali della stupidità umana, il Mulino Bologna. «Credo fermamente che la stupidità
sia una prerogativa indiscriminata di ogni e qualsiasi gruppo umano e che tale prerogativa sia
uniformemente distribuita secondo una proporzione costante. […] Il fatto straordinario circa la
frequenza della stupidità è che la Natura riesca a fare in modo che tale frequenza sia sempre e
dovunque uguale alla probabilità σ indipendentemente dalla dimensione del gruppo, tanto che si
ritrova la stessa percentuale di persone stupide sia che si prendano in considerazione gruppi molto
ampi o gruppi molto ristretti. […] Tra burocrati, generali, politici e capi di stato, si ritrova l’aurea
percentuale σ di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo fu (o
è) pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occuparono (od occupano). Al
proposito anche i prelati non vanno trascurati.» (Cipolla 1988, 48,49, 65)
3.3. Libertà naturale, libertà sociale. Quando la volontà individuale abdica per la volontà generale
(della comunità intera) è la libertà naturale che si realizza come libertà sociale; non si tratta di una
rinuncia, di un limite e di una sudditanza ma di una realizzazione concreta. La libertà naturale è per
definizione inesistente, come lo è lo stato di natura, e giuridicamente senza limiti, per assenza di
legge e di criteri di giustizia, ma come tale è impossibilitata a diventare per se stessa reale. Solo la
libertà civile, sociale è di fatto reale: il mondo delle relazioni e i limiti condivisi, le leggi
espressione della volontà generale, sono condizioni di libertà reale.
La libertà naturale conserva nella sua naturalità il carattere e la funzione dell’ideale ed ha in sé i
tratti della perfezione; sono proprio questi aspetti a privarla di realtà come accade ad una società
perfetta: «a forza di essere perfetta mancherebbe di ogni legame, il suo vizio distruttore sarebbe
nella sua stessa perfezione.» (Rousseau 1762 Contratto, 190)
3.4. Libertà e legge. La definizione della libertà passa attraverso la legge; «nello stato civile tutti i
diritti sono determinati dalla legge» (Rousseau 1762 Contratto,85) [positivismo giuridico]. Il luogo
comune dell’antitesi legge e libertà non ha ragion d’essere. L’incontro tra legge e libertà si basa su
due condizioni tra loro in relazione di causalità reciproca o di circolarità virtuosa, autoalimentantesi.
3.4.1. Che vi sia la legge. L’assenza di legge porta gli uomini a vivere in condizioni di continuo
timore, ricorrenti minacce, assenza di stabilità, inaffidabilità di relazioni sociali o mancanza di
socialità. L’assenza di società è assenza di linguaggio, di ragione, di libertà e di giustizia e quindi di
libertà. Quindi un ordinamento sociale definito da leggi è condizione indispensabile per il
riconoscimento dei diritti e la realizzazione della libertà.
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3.4.2. Che la legge sia prodotta dal portatore della libertà, sia l’espressione di autonomia. La libertà
nella volontà generale è fonte di leggi e l’obbedienza alle leggi che la libertà si è data (autonomia)
diventa l’espressione concreta e costruttiva della libertà. È possibile ricorrere a definizioni che
mettono in enunciato sintetico la nuova consapevolezza: la libertà è la capacità di dare a se stessi
delle leggi (autonomia, autoregolamentazione); la libertà è l’obbedienza alle leggi che ci siamo
date. «Essi rinunciano naturalmente alla libertà dello stato di natura, all’“indépendence naturelle”,
ma la cambiano con la vera libertà che consiste nell’unione di tutti nella legge.» Cassirer Ernst, Il
problema J.-J. Rousseau, p.33 Rousseau, educato dal padre alla lettura dei classici latini conosce la
nota affermazione di Cicerone «legum omnes servi sumus ut liberi esse possumus» [parole che
spiccano sul frontespizio del tribunale di Bergamo]
“un popolo libero obbedisce ma non serve; ha dei capi ma non dei padroni; obbedisce alle leggi ma
solo alle leggi ed è in virtù delle leggi che non diventa servo degli uomini.” Jean-Jacques Rousseau,
Lettres écrites de la montagne, in Opere complete, Utet, Torino 1979, p. 1017 […] In estrema
sintesi: se siamo sottoposti al potere arbitrario o enorme di un uomo possiamo essere liberi di fare
più o meno quello che vogliamo, ma siamo servi. […] La libertà dei cittadini invece non è una
libertà dalle leggi, ma una libertà grazie a o in virtù delle leggi. Perché vi sia vera libertà è
necessario che tutti siano sottoposti alle leggi, o, come recita il classico precetto, che le leggi siano
più potenti degli uomini. Se invece in uno Stato c’è un uomo che è più forte delle leggi non esiste
libertà dei cittadini. (Viroli Maurizio 2010 La libertà dei servi, Laterza, Roma Bari, 12, 13) “La
libertà […] non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto” (Marco Tullio
Cicerone, De republica, II.23) (Viroli 2010, 10).
3.4.3. Il legame essenziale tra libertà e legge si traduce, a livello istituzionale, nella affermazione
che il potere legislativo appartiene al popolo e su di essa esercita il controllo; il governo ha compiti
esecutivi – amministrativi; la sovranità appartiene al popolo ed è inalienabile.
3.5. La sovranità è inalienabile. «La prima e più importante conseguenza derivante dai principi
qui sopra stabiliti è che la volontà generale può dirigere le forze dello stato solo secondo i fini che le
sono propri e che si identificano col bene comune: infatti se l’urto degli interessi particolari ha reso
necessario il formarsi delle società, è l’accordo di questi stessi interessi che lo ha reso possibile. Il
vincolo sociale è formato da ciò che vi è di comune in questi doverosi interessi e se non vi fosse
qualche punto in cui gli interessi concordano, non sarebbe possibile l’esistenza di nessuna società.
Orbene, è unicamente in base a questo interesse comune che la società deve essere governata. Io
dico dunque che la sovranità, altro non essendo che l’esercizio della volontà generale, non può mai
essere alienata e che il corpo sovrano, il quale è solo un corpo collettivo, non può essere
rappresentato che da se stesso: il potere si può trasmettere, ma non di certo la volontà.» (Rousseau
1762 Contratto, 73) Il soggetto della sovranità assoluta e inalienabile è il popolo, ma non come
moltitudine o plebe amorfa ma come corpo politico creato dal contratto civile.
«Vi sarà sempre una grande differenza tra il sottomettere una moltitudine e reggere una società. Nel
caso in cui degli uomini sparsi vengano successivamente asserviti a uno solo, qualunque possa
essere il loro numero, io non vedo che un padrone e degli schiavi, non vedo per nulla un popolo e
un capo: si tratta, se volete, di un’aggregazione, non di una associazione: non vi è né bene pubblico,
né corpo politico. Se un tal uomo avesse sottomesso anche la metà del mondo, egli resterebbe
sempre un privato; il suo interesse, separato da quello degli altri, è soltanto un interesse privato.»
(Rousseau 1762 Contratto, 61). Il tema della sovranità inalienabile indica come non si intenda
permettere che la sovranità si collochi come sua sede (e si fisicizzi) all’esterno del sociale, magari
persista politicamente e nelle istituzioni come un residuo dello stato di natura, dotata di un potere
senza limiti e sottratta ad ogni controllo.
3.6. La democrazia diretta: la sovranità non può essere rappresentata per la stessa ragione per cui
non può essere alienata: «il corpo sovrano, il quale è solo un corpo collettivo, non può essere
rappresentato che da se stesso». Votare per eleggere nostri rappresentanti è delegare la sovranità e,
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di conseguenza, a voto avvenuto, perderla. Il voto, presentato come la massima realizzazione della
democrazia ne attua, in realtà, la fine: diventa lo strumento, raffinato e astuto (da parte di chi mira
alla conquista riservata della politica come potere), di un consenso alla propria schiavitù, alla
propria esclusione dalle decisioni politiche.
3.6.1. Le istituzioni pubbliche. Il concetto di democrazia diretta pone a tema prima del problema
della sua attuazione (difficile o impraticabile per questioni di numero e di competenze), il tema
delle conseguenze istituzionali. È evidente che ogni società (per quanto piccola sia) ha bisogno di
istituzioni funzionali all’amministrazione del bene comune e del vivere insieme, quindi di un
apparato burocratico di pubblici funzionari, ma nessuna di queste istituzione detiene il potere
politico: esercita un mandato.
La sovranità appartiene al popolo e gli appartiene in quanto e fino a quando è inalienabile; allo
stesso modo e per lo stesso principio la volontà generale che sorregge quella sovranità, è unica e
indivisibile, quindi il popolo resta unico sovrano e sede di ogni potere. Dal principio della sovranità
popolare originaria e inalienabile deriva una rilettura della politica: non esercita un potere (non è
sede del potere) ma una funzione. La politica è pubblica amministrazione svolge una funzione, un
servizio, un dovere. Lo stesso re è un cittadino funzionario, un amministratore.
3.6.2. Si impone la distinzione e la separazione tra sovranità e governo. Il governo (come istituzione
e come funzione; nella forma della monarchia o della repubblica) non è sovrano ma esecutore,
amministratore del bene comune per incarico e mandato.
3.6.3. A garanzia della sovranità popolare Rousseau assegna al popolo in assemblea la ratifica delle
leggi; il potere esecutivo è invece attribuito a un corpo di magistrati che non sono delegati o
rappresentanti del popolo, ma semplicemente funzionari con competenze circoscritte e revocabili,
ricevute per legge e non per contratto: «I depositari della potestà esecutiva non sono i padroni del
popolo, ma i suoi esecutori; esso può istituirli o destituirli quando gli piaccia». «Assemblee fisse e
periodiche» che consentano al popolo di esercitare tutte le prerogative della sovranità possono
costituire la garanzia per un esercizio adeguato della sovranità popolare: poiché infatti le più diverse
situazioni ambientali (si pensi agli stati di grandi dimensioni), climatiche, economiche possono
legittimare l’adozione di diversi regimi (monarchico, aristocratico, democratico), è indispensabile
che, sia pure periodicamente, si consenta al popolo, riunito in assemblea sovrana, di intervenire per
garantire la conservazione della sicurezza e della libertà dei cittadini ed eventualmente sospendere
quei funzionari che travalichino dalle loro funzioni.
«Nel momento in cui il popolo è legittimamente riunito in corpo sovrano, cessa ogni giurisdizione
del governo, il potere esecutivo è sospeso, e la persona dell’ultimo cittadino è tanto sacra e
inviolabile quanto quella del primo magistrato, perché dove si trova il rappresentato non vi sono più
rappresentanti.» (Rousseau 1762 Contratto, ed. Einaudi, 125)
3.7. Gli esiti, le trasformazioni: il contratto sociale, la società civile e il regime democratico che ne
deriva hanno l’effetto di produrre trasformazioni radicali che dando inizio al vivere politico
modificano radicalmente la situazione dell’uomo in natura. Stipulare un contratto di società
significa trasformare l’uomo in cittadino, la volontà individuale in volontà generale, la libertà
privata isolata ispirata alla forza, in libertà civile ispirata alla giustizia, la vita consegnata a istinti
ripetitivo in vita segnata dalla perfettibilità, una moltitudine indistinta in corpo sociale.
La trasformazione di base e generale è quella che deriva dalla non alienabilità della sovranità
popolare. Essa trasforma il potere politico in funzione governativa a carattere amministrativo.
Due altre trasformazioni possono essere richiamate, in particolare, a segnare il nuovo corso: la
proprietà e la religione.
3.7.1. Alla proprietà Rousseau attribuisce l’origine della società e delle diseguaglianze. Se il
contratto sociale tratteggia una situazione politica sottratta al controllo e all’uso dei proprietari che
si servono delle stesse leggi per ridurre l’uomo in servitù, anche la situazione della proprietà deve
essere rivista.
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3.7.1.1. Per natura il prendere possesso di un bene si lega al soddisfacimento dei bisogni, è
commisurato ad essi e all’autoconservazione, e quindi nasce come fatto e diritto di natura universale
(così come aveva spiegato Locke) e come diritto naturale primo. Questo atto, tuttavia, è un fatto
naturale di sopravvivenza e non un evento giuridico di proprietà; bisogna cioè distinguere tra il
prendere possesso (possession), come atto naturale di sopravvivenza, e affermazione del diritto di
proprietà (propriété). Quel naturale prendere possesso non prelude ad una appropriazione che, priva
di limiti giuridici (ancora inesistenti) è legata alla sola forza, e che si proclami diritto privato di
proprietà avviando il cammino delle diseguaglianze, al contrario, esclude un simile passaggio.
«Ogni uomo ha per natura diritto a tutto ciò di cui ha bisogno, ma l’atto positivo che lo rende
proprietario di qualche bene lo esclude da tutto il resto. Avendo ottenuto la sua parte, egli vi si deve
limitare, e non ha più alcun diritto sui restanti beni comuni.» (Rousseau 1762 Contratto,69)
3.7.1.2. Il contratto sociale comporta una certa alienazione dei beni; non nel senso che diventino
proprietà dello Stato, del “corpo sovrano”, ma nel senso che: a. viene riconosciuto loro lo stato di
beni comuni, b. viene perciò riconosciuto l’atto di possesso primo che permette la sopravvivenza
(«il diritto del primo occupante»), c. vengono anche poste le condizioni e le garanzie di un legittimo
diritto alla proprietà privata; l’atto di possesso (in natura) diventa diritto di proprietà (nella società è
il contratto sociale infatti che «nello stato serve da base per tutti i diritti […] Il diritto del primo
occupante, per quanto più reale che quello del più forte, non diventa un vero diritto se non dopo il
sorgere di quello di proprietà.» Rousseau 1762 Contratto, 69).
«Ciò che vi è di singolare in questa cessione (aliénation) è che la comunità, accettando i beni dei
singoli, lungi dal toglierli loro, assicura ad essi il legittimo possesso, cambiando l’usurpazione in un
vero diritto e il godimento in proprietà.» (Rousseau 1762 Contratto, 71)
Torna in azione qui la logica politica di un contratto che è di consegna e di ripresa: consegnare ciò
che sembra individuale all’area comune (alienare) significa vederselo restituito in forma garantita e
rafforzata.
3.7.2. Il ruolo civile della religione. L’ingresso nel contratto sociale, la nascita del corpo politico
nell’unità della volontà generale, la partecipazione al bene comune si configurano anche in termini
di religione civile poiché nel patto sociale si verifica una vera e propria trasformazione
antropologica, un passaggio dall’uomo naturale alla persona civile, che assume (o deve assumere
grazie all’educazione) la forma di una adesione piena, convinta e partecipata, al bene comune.
3.7.2.1. Rousseau è lontano dalle posizioni metafisiche sensistiche e materialistiche espresse da
alcuni illuministi (Condillac, Diderot), ed esprime più volte la necessità logica di affermare che una
volontà intelligente e provvida presieda le vicende dell’universo e della natura, conservando
all’uomo il dono della libertà. Convinzione che invece di essere relegata a comunità chiuse come
quelle che si sono formate nelle confessioni religiose costituitesi in chiese, deve diventare un sentire
comune e civico. Qui sono in atto due radicali metamorfosi: [1] le religioni “private”, degli Stati
ognuno dei quali fa appello ai propri dei (in un politeismo che rimarca i confini nazionali: «le
competenze territoriali degli dei erano, per così dire, fissate dai confini delle nazioni» Rousseau
1762 Contratto,184), delle chiese separate da proprie inconciliabili confessioni, tutte di divina
rivelazione, ritornano ad una religione naturale, dell’uomo che scopre e ammira nella natura un
disegno divino; [2] il sentimento della religione naturale, nel patto sociale, diventa la religione
civile del cittadino che, nell’unità del corpo sociale, opera nel bene comune. Non dunque una
religione positiva che, per riti e dogmi, si batte per restare un corpo separato nel sociale, ma una
religione richiamata ai propri fondamenti razionali e di sentimento in grado di svolgere pienamente
la propria funzione morale e civile. Occorre restituire la religione alla società, in termini di
sentimento di “sociabilità” e di appartenenza al bene comune; a tale scopo è necessaria una
profonda riflessione e revisione della religione.
3.7.2.2. Esistono due forme di religione, espresse in più modi: quella dell’uomo e quella del
cittadino, quella naturale e quella positiva, quella universale e quella storica. «La religione,
considerata in rapporto alla società, che è o generale o particolare, può essere divisa in due specie,
cioè la religione dell’uomo e quella del cittadino. La prima senza templi, senza altari, senza riti,
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limitata al puro culto interiore del Dio supremo e ai doveri eterni della morale è la pura e semplice
religione del Vangelo, il vero teismo è ciò che si può chiamare il diritto divino naturale. L’altra,
limitata a un solo paese, gli fornisce i suoi dei, i suoi patroni particolari e tutelari; questa religione
ha i suoi dogmi, i suoi riti, il suo culto esteriore prescritto da leggi: tolta la sola nazione che la
segue, tutte le altre sono per lei infedeli, straniere, barbare; essa non estende i doveri e i diritti
dell’uomo più lontano dei suoi altari. Tali furono tutte le religioni dei popoli primitivi alle quali si
può dare il nome di diritto divino civile o positivo.» (Rousseau 1762 Contratto, 187-188)
Storicamente si danno anche altre situazioni: quella in cui religione e politica si oppongono
contendendosi il potere, quella in cui la religione assorbe in sé il potere politico: forme ingannevoli
e superstizione della religione. Rousseau lavoro all’incontro tra religione dell’uomo e religione del
cittadino. I termini di gestione del problema sono ancora consegnato alla dialettica homme e
citoyen.
3.7.2.3. Il progetto è quello di rendere civile la religione naturale (trasformarla in un programma di
pedagogia sociale, con aspetti di rigido sistema penale). Restituire la religione al popolo significa
consegnarla alla gestione della volontà generale e regolamentarne amministrativamente le forme in
vista di un sentire civile. Nel Contratto come nell’Emilio compaiono i tratti di una nuova
professione di fede capace di esprimere forme e fini della religione civile; su questa proposta si
chiude il Contratto sociale quasi a rimandare al progetto di educazione dell’uomo a cittadino che
viene presentato nell’Emilio.
«Vi è dunque una professione di fede puramente civile, di cui spetta al corpo sovrano il fissare gli
articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti dl sociabilità, senza dei
quali è impossibile essere né buon cittadino né suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a
credere in essi, si può bandire dallo stato chiunque non vi creda; si può bandirlo, non come empio,
ma come essere non sociale, come incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e di
sacrificare, in caso di bisogno, la sua vita al suo dovere. Che se poi qualcuno, dopo aver
pubblicamente riconosciuto questi dogmi, si condurrà come se non vi credesse, sia condannato a
morte: ha commesso il più grande dei reati, ha mentito davanti alle leggi.
I dogmi della religione civile debbono essere semplici, in piccolo numero, enunciati con precisione,
senza spiegazioni né commenti. L’esistenza della divinità possente, intelligente, benefica,
previdente e provvidente, la vita futura, la felicità dei giusti, la punizione dei cattivi, la santità del
contratto sociale e delle leggi, ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi, io li limito a uno
solo ed è l’intolleranza: questa rientra nel culti che noi abbiamo escluso.» (Rousseau 1762
Contratto, 193)
3.7.2.3.1. Il progetto di una religione civile, permette di porre in evidenza la vera essenza del
cristianesimo «il cristianesimo, non quello di oggi, ma quello del Vangelo che ne è del tutto
differente.» (Rousseau 1762 Contratto, 189) Come tre tappe: il politeismo attribuisce agli dei una
giurisdizione territoriale; gli ebrei conservano questa concezione (Jahweh è dio di Israele) ma la
staccano anche dalla dimensione territoriale quando, nell’esilio babilonese, restano fedeli al loro
dio; il cristianesimo, che «venne a stabilire sulla terra un regno spirituale: il che, separando il
sistema teologico da quello politico» (Rousseau 1762 Contratto, 185) rende la religione universale
(cattolica in senso letterale). Il cristianesimo dà certo vita a due cattive realizzazione storiche:
l’opposizione tra società e religione nell’opposizione tra Stato e Chiesa, la pretesa della Chiesa di
disporre dello Stato. Un cristianesimo del Vangelo permette di portare alla luce un altro sentire
religioso che si avvicina ai termini con cui Rousseau parla della religione dell’uomo (che «è la pura
e semplice religione del Vangelo») presentata nei termini e nella funzione della religione civile.
4. educare al sociale, educare alla libertà: alla «libertà morale»
«Questo passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un cambiamento di
grande rilievo, inserendo nella sua condotta il concetto di giustizia in luogo dell’istinto e dando alle
azioni umane quel valore morale di cui esse erano prive in precedenza. […] Dato quanto precede si
potrebbe aggiungere all’acquisto dello stato civile, quello della libertà morale, la sola che rende
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l’uomo padrone di se stesso, in quanto il sottostare all’impulso dei soli appetiti è schiavitù, mentre
l’obbedienza a una legge che l’uomo si è prescritta è libertà.» (Rousseau 1762, Contratto, 67,68)
Nessuno contratto conduce a una società di liberi se non si prende a cura la formazione del cittadino
libero: del cittadino, non solo dell’uomo (privato), libero e non suddito; uomo che l’ingresso nel
sociale attraverso un consenso contrattuale si trasforma profondamente nei confronti del suo stato
naturale. Si tratteggiano le linee di una antropologia politica in termini di educazione alla libertà
morale.
«Colui che osa affrontare l’impresa di dare un ordinamento a un popolo deve sentirsi in grado, per
così dire, di cambiare la natura umana, di trasformare ogni individuo (che per se stesso è un tutto
perfetto e chiuso) in una parte di un tutto più grande, da cui questo individuo riceva, in qualche
modo, la sua vita e la sua stessa essenza, di alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla, di
sostituire un’esistenza limitata dell’ordinamento e morale, a quella fisica e indipendente che
ciascuno di noi ha ricevuto della natura. Bisogna, in breve, che egli riesca a togliere all’uomo le sue
forze, per dargliene altre che gli sono estranee e di cui quest’uomo non possa far uso senza il
soccorso degli altri. Più le forze naturali sono morte e annichilite, più quelle acquisite sono grandi e
durevoli, più l’ordinamento è solido e perfetto. In questo modo, se èe la forza acquistata del tutto è
uguale o superiore alla somma delle forze naturali di tutti i singoli individui, allora si può dire che la
legislazione è arrivata al punto più alto di perfezione che potesse raggiungere.» (Rousseau 1762
Contratto, 89-90). La perfezione del patto sociale non sta dunque nell’aver dato origine alla stato
ma nell’avere, in esso, creato le condizioni per una unità sociale capace di dare maggior forza e
natura morale ai singoli uomini fatti cittadini, educati alla cittadinanza.
4.1. Natura e società nell’educazione: un caso di “convergenze parallele”.
Il concetto di stato di natura ha permesso a Rousseau di separare l’uomo dai lumi funesti a cui il
progresso e la civiltà l’hanno consegnato destinandolo ad una schiavitù ammantata di libertà e gli ha
permesso di conoscerlo e descriverlo nel suo aspetto e nella sua essenza naturale. Qui Rousseau ha
ripreso e messo in azione la potenza critica della tradizione filosofica cinica e scettica e ha, con
essa, anche clamorosamente interrotto la dimostrazione “biologica” della socialità, quella affermata
da Aristotele quando presenta l’uomo come animale politico. Costruire la società e rendere l’uomo
socievole è un compito che ricade interamente sulle responsabilità dell’uomo stesso; rientra nel
campo dell’etica, della volontà. Non legato al sociale da un legame di natura, l’uomo può decidersi
con libera volontà a un patto sociale in cui può trovare una volontà condivisa, una volontà generale
che lo garantisce nei confronti della sua stessa libertà naturale: fa sì che essa si muova ed operi in
vista di un bene comune, di un progresso e non nei termini di una libertà servile. Viceversa, poiché
nasce da un atto di volontà e da un patto e ha sede nel corpo sociale nella forma di sovranità
inalienabile, la politica (il fare politica) è sotto il controllo del sociale, del cittadino e può trovare le
condizioni per essere salvata dal destino di corruzione che la coglie quando tende a pensarsi,
definirsi e operare in termini di dominio.
4.1.1. L’educazione in generale, e l’educazione civile o l’educazione alla società, si gioca
all’interno di queste due imprescindibili componenti: natura e società. Il suo compito è porre in
sintesi formativa, in una storia di formazione sempre particolare e sempre nuova, quelle due
componenti conservandole nella loro separata funzione e nella loro necessaria convergenza; dunque
“convergenze parallele” di solitudine e di socialità; della felicità della solitudine («un essere
veramente felice è un essere solitario», come Dio) con la perfettibilità possibile solo nel sociale; il
risultato è una “fragile felicità”, ma è l’unica concretamente possibile.
4.1.2. Nel stesso anno, 1762, Rousseau pubblica due opere cui ha lavorato contemporaneamente
negli anni precedenti: Contratto sociale ed Emilio. Questi due scritti, l’uno di teoria politica, l’altro
di pedagogia, costituiscono il contributo che Rousseau, abbandonati i toni prevalentemente critici
dei due Discorsi, intende dare al rinnovamento della società. L’affiancamento delle due opere porta
a sottolineare come la nascita della società civile e la formazione del cittadino si leghino
inscindibilmente. La formazione del cittadino è un progetto civile se investe sull’essenza dell’uomo
individuata e valorizzata nelle sue relazioni sociali: la perfettibilità. Solo con riferimento all’uomo
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civile definito da una intrinseca perfettibilità può emergere il carattere progressivo della
democrazia: una “democrazia progressiva” in quanto non diventa sede di manovre demagogiche per
condannare gli uomini alla libertà dei servi.
4.1.3. Rousseau, nell’Emilio, indica la strada per costruire l’incontro di natura e società nella libertà
delineando gli elementi di un progetto educativo. Ancora una volta si tratta di un progetto ideale che
individua gli elementi di cui si compone attraverso una sorta di “esperimento mentale”.
4.2. educazione sulla base dell’inadeguatezza naturale e della perfettibilità naturale e sociale.
Osserva Nussbaum C. Martha 2010 Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della
cultura umanistica, il Mulino, Bologna 2011: «Rousseau fece della coscienza dello stato di
debolezza dell’uomo il fulcro di tutto il suo programma educativo, affermando che solo la
consapevolezza di tale stato ci rende socievoli e inclini all’umanità, per cui proprio la nostra
inadeguatezza diventa la base della speranza in una comunità degna di questo nome. (Nussbaum
2o1o, 51) «In Europa, la pietra di paragone di tutti questi esperimenti è l’Emilio (1762), l’opera di
Jean-Jacques Rousseau che descrive un’educazione finalizzata a rendere il giovane autonomo,
capace di giudizio indipendente e di risolvere da solo i problemi pratici, senza fare affidamento
sull’autorità. Rousseau reputava che insegnare a un bambino a muoversi nel mondo con le proprie
forze fosse la chiave per farne un buon cittadino, in grado di vivere su un piano di parità con gli
altri, anziché vederli come suoi servitori. Gran parte dell’educazione di Emilio è dunque pratica:
egli apprende facendo, e questo è un punto di riferimento di tutti i successivi esperimenti pedagogici
progressisti. L’elemento socratico è assolutamente presente: il maestro non si pone come fonte di
verità, ma si limita a domandare e verificare, mentre il bambino impara ad analizzare da sé le cose.
Rousseau non fondò una scuola, e l’Emilio non ci dice nulla su come dovrebbe essere organizzata
una valida istituzione scolastica, poiché ci presenta un unico bambino con il suo precettore. Dal
punto di vista pratico, è un lavoro del tutto inutilizzabile, ancorché filosoficamente profondo. Perciò
non indagherò nei particolari l’opera filosofica di Rousseau, preferendo soffermarmi sugli
esperimenti pedagogici concreti che si sono ispirati a questo autore. Le idee di Rousseau
influenzarono moltissimo due pensatori europei le cui esistenze si sovrappongono e che fondarono
entrambi una scuola, mettendo così in pratica le proprie idee. … Il pedagogista svizzero Johann
Heinrich Pestalozzi (1746- 1827) …il pedagogista tedesco Friedrich Fröbel (1782-1852).»
(Nussbaum 2010, 74-76)
4.2.1. partire dall’inadeguatezza. Il processo di autoformazione dell’umano, dell’uomo, del
soggetto uomo, a differenza dell’animale (che procede e opera da subito su basi istintuali in qualche
modo ereditate/innate), è posto da subito, e sempre, di fronte alla propria inadeguatezza. Ne fa testo
l’evidente neotenia degli esseri umani nei confronti degli altri animali; neotenia ossia, in senso lato
(e come mettono in luce gli attuali studi di psicologia evolutiva presenti nei vari settori della ricerca
scientifica medico-antropologica), la caratteristica di generare una prole dotata di un cervello
grande, ma che non è in grado di prendersi cura di sé prima dei dieci anni (oggi nemmeno a questa
età). La neotenia costituisce un enorme vantaggio nell’evoluzione, ma ha un costo biologico alto.
Rousseau sembra intravedere le opportunità di questa situazione quando traccia le linee di un
modello educativo che fa leva fondamentalmente su una sorta di inadeguatezza naturale di fronte al
fatto e al patto sociale; una specie di neotenia (detta in termini ricorrenti oggi) a partire dalla quale
attua un processo di educazione che è un guidare non per inculcare, introdurre, ma per far emergere
e portare ad espressione la natura (e-ducere), in un lungo percorso di confronto nel mondo civile
delle relazioni sociali, ma in vista di una piena autonomia (sempre in senso etimologico) morale. Si
configura qui, come notava Nussbaum, una piena ripresa del modello etico di Socrate il cui
dialogare, chiedere e cercare dialogando, prendeva le mosse dalla consapevolezza di una
inadeguatezza di fondo (“so di non sapere”) dell’uomo, ma contemporaneamente dalla
consapevolezza che quel “so di non sapere” aveva permesso all’oracolo di Delfi di proclamare
Socrate il più sapiente degli uomini (per la consapevolezza della propria ignoranza e il proposito di
una continua ricerca nel confronto).
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4. 2.2. Osserva De Monticelli Roberta 2010 La questione morale, Raffaello Cortina editore, Milano
[un pamphlet gridato e indignato nei confronti della dilagante ostentata osannata impunita
immoralità … come cifra costante o ritornello della tradizione “all’italiana”]: «Che la nostra sia per
eccellenza la specie neotenica, cioè quella che ha bisogno di più tempo perché i suoi piccoli
raggiungano l’indipendenza, significa precisamente che noi impariamo a stare al mondo come si
deve mediante tradizione o cultura, non soltanto mediante attivazione di programmi iscritti nei
nostri geni, o istintivamente.
La libertà dell’animale normativo e il fenomeno su cui lavora Socrate, quando chiede ragione e
giustificazione di tutto il fare, e per farlo deve risvegliare nel suo interlocutore un sentimento di
inadeguatezza dei suoi comportamenti sotto qualche aspetto di valore: il giusto e l’ingiusto, il bello
e l’odioso, l’opportuno e l’inopportuno. Socrate ci trasmette un modello di paideia che è una
perenne rivoluzione rispetto alla “tradizione”: non mandare a memoria la sapienza antica, non
cercare in essa la fonte delle norme del fare — ma cercarla in questo sentimento di inadeguatezza,
dunque in definitiva nella coscienza critica e nelle libera ricerca del vero, anche nel campo dei
giudizi di valore e di dovere, e non nei comandamenti della divinità e dei suoi sacerdoti, o
nell’autorità, nella tradizione. […] Si diventa moralmente adulti emergendo da una comunità di vita.
[…] Si diventa moralmente adulti prendendo posizione rispetto all’ethos della comunità in cui si è
cresciuti, o ad aspetti di esso. Questa capacità di autenticare o no un ethos a seconda che sia o no
fonte di vita autentica per noi è la nostra autonomia morale. (De Monticelli 2010,170-171,180,184)
4.3. la dinamica educativa all’insegna della inadeguatezza e della perfettibilità;
dell’autoformazione e dell’autonomia. I passaggi.
4.3.1. componente natura: un “esperimento mentale” iniziale permette di risalire alla natura
azzerando tutto ciò che la società ha sedimentato nell’uomo attraverso i propri condizionamenti
sociali e storici (aprire il soggetto alla propria natura). Il primo passaggio dell’educazione ha gli
aspetti di una “educazione negativa”, che consiste «non già nell’insegnare la virtù e la verità, ma nel
garantire il cuore dal vizio e la mente dall’errore».
4.3.2. componente società: sotto la guida dell’educatore Emilio ripercorre le tappe del cammino
compiuto dalla specie umana nel passaggio dallo stato di natura allo stato sociale, al patto di
socialità civile. Ma il processo che permette di percorrere il cammino della storia dell’umanità
(filogenesi) in modo vissuto, personale, non per riempimento dall’esterno ma per scoperta in
proprio, in autonomia formativa, è quello che porta il soggetto, sotto la guida dell’educatore, a
riconoscere quelle tappe nell’ambito della propria perfettibilità, e quindi come tappe di un cammino
di autoformazione (ontogenesi). Come l’umanità nella propria storia anche l’individuo, nella sua
evoluzione, ha tappe specifiche e «ogni età ha la sua perfezione». Principio pedagogico che
rivoluziona i modelli basati su una educazione come imitazione: il bambino imiti il mondo degli
adulti, come fosse un uomo in piccolo; forse si avvia qui un processo a partire dal quale «vengono
riconosciute le specificità della condizione femminile, dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’età
anziana, definite in precedenza solo in negativo, come qualcosa di incompleto rispetto alla pienezza
dell’uomo adulto.» (Della Zuanna Giampiero, Weber Guglielmo 2011 Cose da non credere. Il
senso comune alla prova dei numeri, Laterza, Roma-Bari, 10) Il rispetto pedagogico delle tappe
naturali dello sviluppo cognitivo (sensazione, riflessione, ragione), valorizzate e scoperte attraverso
esperienze riprese o dalla natura o dagli uomini o dalle cose. Non dunque un apprendimento di
dottrine già prefissate, ma esperienze che permettono di legare la scoperta della propria natura con
l’ingresso nel sociale.
«Noi nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno
di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto quello che non abbiamo dalla
nascita e di cui abbisogniamo da grandi, ci è dato dall'educazione. Questa educazione ci viene o
dalla natura, o dagli uomini, o dalle cose. Lo sviluppo interiore delle nostre facoltà e dei nostri
organi è l’educazione della natura; l'uso che ci s’insegna a fare di questo sviluppo e l’educazione
degli uomini; e l’acquisto della nostra esperienza sugli oggetti che ci commuovono è l’educazione
21
delle cose. Ciascuno di noi è dunque educato da tre specie di maestri. Il discepolo, nel quale le loro
diverse lezioni si contraddicono, è male educato e non si troverà mai d’accordo con se stesso; colui
invece nel quale tali insegnamenti cadono tutti sugli stessi punti e tendono ai medesimi fini, è il solo
che proceda verso il suo scopo e viva coerente a sé stesso. Quegli solo è educato bene.» (Rousseau
1762 Emilio, libro I)
Se l’educazione al sociale, il passare da una solitudine individuale assoluta chiusa a una relazione
sempre più aperta, è parallela alla scoperta e valorizzazione delle potenzialità della propria natura,
quella società non diventa la sede o dello scontro o della omologazione e sudditanza (come
denunciato da Rousseau nei due Discorsi) ma partecipazione alla volontà generale, vissuta quale
luogo della propria libertà reale e morale (come proposto nel Contratto sociale).
«L’uomo naturale è tutto per sé; è l’unità numerica, l’intero assoluto che non ha altro rapporto che
con se stesso o col suo simile. L’uomo civile non è che un'unità frazionaria dipendente dal
denominatore, e il cui valore è in rapporto con l'intero, che è il corpo sociale. Le buone istituzioni
sociali sono quelle che sanno meglio snaturare l’uomo, togliendogli la sua esistenza assoluta per
dargliene una relativa e per trasportare l’io nell’unità comune; in modo che ogni particolare non si
creda più uno, ma parte dell’unità, e non sia più sensibile se non nel tutto.» (Rousseau 1762 Emilio,
libro I)
5. questioni aperte e passaggi critici di una democrazia irraggiungibile (o impossibile)
[?]
Il problema è posto da Rousseau. «La democrazia è un ideale, beninteso. Mai pienamente
raggiungibile, dunque. Perché non svapori in flatus vocis, però, l’ideale dovrà almeno funzionare da
criterio con cui giudicare le concrete organizzazioni politiche e il loro grado di approssimazione al
modello. Un ideale esigente, quello democratico. Parecchi, come è noto, sono i motivi di legittimità
di una dominazione. A differenti motivi, del resto, corrispondono forme diverse di ragionamento
politico, di organizzazione del potere. La democrazia appartiene al gruppo degli ordinamenti
legittimati in forza di legalità, ma esibisce poi, all’interno di questa classe, tratti peculiari
irrinunciabili.
«Che cosa intendiamo noi per politica? Il concetto è estremamente ampio e comprende ogni sorta di
direttiva autonoma». In chiave democratica, la politica esige allora che ciascuno, individualmente
preso, sia il soggetto di questa attività direttiva autonoma. Che ciascuno obbedisca a se stesso,
poiché è l’autonomia della volontà l’elemento chiave del discorso. Una attività eteronoma non è più
politica (ma tecnico-strumentale, assoggettata a regole nei cui confronti le opinioni sono impotenti).
In questi termini, del resto, il problema della democrazia è stato posto fin da Rousseau. «Trovare
una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di
ciascun associato e attraverso la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia solo a se stesso,
e resti libero esattamente come prima», recita l’ambizioso traguardo posto nel capitolo VI del primo
libro del Contratto.» Flores D’Arcais Paolo 2006 Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e
politica, Fazi editore, Roma, 106-107)
5.1. Critica al tema e alla rilevanza data alla democrazia diretta e non per questioni di
numero.
5.1.1. il dilemma e l’opposizione: democrazia diretta e democrazia rappresentativa e i rischi politici
della democrazia rappresentativa.
«I governi democratici contemporanei si sono evoluti a partire da un sistema politico che era
concepito dai suoi fondatori come opposto alla democrazia. L’uso corrente distingue fra democrazia
«rappresentativa» e «diretta», trattandole come varianti di uno stesso tipo di governo. Tuttavia, ciò
che oggi chiamiamo democrazia rappresentativa trova le proprie origini nelle istituzioni che si sono
progressivamente stabilite e affermate in Occidente a seguito delle rivoluzioni inglese, americana e
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francese. Ma tali istituzioni, alla loro nascita, non furono percepite come una varietà di democrazia
o una forma di governo del popolo.
Rousseau condannò la rappresentanza politica in termini perentori, che sono rimasti famosi. Egli
dipinse il governo inglese del XVIII secolo come una forma di schiavitù punteggiata da momenti di
libertà. Rousseau vedeva un abisso immenso fra un popolo libero che faceva le proprie leggi e un
popolo che eleggeva dei rappresentanti che facevano le leggi per esso. Comunque dobbiamo
rammentare che i fautori della rappresentanza, anche se fecero una scelta opposta a quella di
Rousseau, ravvisavano una differenza fondamentale tra la democrazia e il sistema che difendevano,
un sistema che chiamavano «rappresentativo» o «repubblicano». Così, due uomini che giocarono un
ruolo fondamentale nell’affermazione della rappresentanza politica moderna, Madison e Sieyès,
contrapponevano alla stessa maniera il governo rappresentativo e la democrazia.
La vera differenza fra le democrazie antiche e la repubblica moderna risiede, secondo Madison, nel
fatto che «quest’ultima esclude completamente il popolo nella sua capacità collettiva da una
partecipazione diretta alla cosa pubblica, e non nel fatto che le prime escludessero completamente i
rappresentanti del popolo dall’amministrazione» [J. Madison Federalist 63 (Il Federalista, Bologna,
Il Mulino 1997 p. 532)] (Manin Bernard 1997 Principi del governo rappresentativo, il Mulino,
Bologna 2010, 3). Dunque nel sistema rappresentativo la democrazia è a rischio: il potere
consegnato nelle mani dei rappresentanti è un potere perso, sottratto al suo legittimo proprietario, il
popolo, unico detentore della sovranità e della volontà generale unica e inalienabile. Né basta il
diritto di voto a restituire al popolo la sovranità; si tratta di uno spiraglio effimero e si configura più
come un rito di rinnovata consegna del potere ai rappresentati come nuova perdita che non come un
esercizio politico di sovranità popolare. Una lunga tradizione politica, da Platone, Aristotele fino a
Rousseau, considera le elezioni l’elemento aristocratico all’interno della democrazia (le elezioni in
generale erano per loro aristocratiche, cfr. Manin 1997, 148).
5.1.2. I rischi della democrazia diretta. La proposta politica della democrazia diretta e il tema della
volontà generale come espressione unitaria, indivisibile e inalienabile del corpo sociale, viene ora
ripresa in senso più critico e il modello, stranamente, non risulta in grado di garantire la democrazia.
Non si tratta delle osservazioni ovvie circa l’impossibilità ad esercitare una democrazia diretta negli
stati numerosi; i recenti mezzi di comunicazione, anzi, rendono quasi per certo tecnicamente
possibile l’esercizio di una democrazia diretta, di una partecipazione del popolo per esprimere
consenso o dissenso nei confronti di ogni aspetto della vita sociale (basta un ipad). Non
l’impossibilità fisica ma i rischi politici rendono dubbiamente proponibile una democrazia diretta,
secondo Rousseau l’unica vera democrazia. Ma, va detto subito, Rousseau indica come soggetto di
democrazia e di sovranità non una generica moltitudine, quantitativamente considerata e magari
anche convivente, ma una società civile resa corpo unico e Io collettivo dal contratto sociale, dalle
leggi che si è data e che si dà, dal processo educativo che ha permesso a tutti i suoi componenti di
essere a pieno titolo cittadino, portando a realtà, attraverso istituzioni, leggi, linguaggio e religione
civile, la propria perfettibilità.
«La storia della democrazia è …la storia del conflitto fra l’idea di democrazia diretta e quella di
democrazia rappresentativa. La prima sembra più popolare e la seconda più politica; ma è vero il
contrario. La definizione della democrazia come potere del popolo assoggetta, infatti, la diversità
della società all’unità del potere politico, di cui l’idea di popolo è solo una goffa trascrizione in
termini sociali; mentre il tema della rappresentanza implica quello del primato e dell’autonomia
degli attori sociali rispetto agli attori politici, più o meno direttamente subordinati alle loro
decisioni. L’idea di potere popolare o di democrazia diretta, che si riallaccia all’idea monarchica, ha
alimentato la maggior parte delle ideologie autoritarie. Non è vero, viceversa, che la democrazia
rappresentativa lasci ai partiti politici un’autonomia che essi avrebbero trasformato in indipendenza,
per non dire in predominio. Al contrario, solo laddove essa esiste possono formarsi movimenti
sociali cui i partiti politici siano subordinati, mentre il potere popolare suscita manifestazioni di
adesione a un potere politico che resta al di sopra degli interessi sociali, sempre considerati
particolari e transitori. L’idea di democrazia diretta, espressione della volontà generale, della
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coscienza collettiva o del bene comune, non è affatto radicale, così come l’idea di democrazia
rappresentativa non è affatto moderata. Essa esprime piuttosto, nei paesi nei quali la vita politica è
libera, una crisi della rappresentanza politica; crisi così diffusa e acuta in questa fine secolo, che
quasi dappertutto si alzano voci in favore della democrazia diretta con discorsi populisti, campagne
nazionaliste e appelli sempre più oltranzisti al primato nazionale, all’omogeneità culturale e al
rifiuto delle minoranze. E dove non esistono libertà politiche, gli appelli rivoluzionari alla
democrazia diretta si riducono alla strategia di attivissime minoranze intenzionate a impadronirsi
del potere. Al contrario, la formazione di movimenti sociali è legata alla solidità delle libertà
pubbliche e, dunque, alla democrazia rappresentativa, che riconosce il pluralismo delle opinioni e
degli interessi. La nostra storia politica è stata in realtà dominata dalla prevalenza che a poco a poco
ha assunto, anche attraverso numerose crisi, la democrazia rappresentativa sulla democrazia diretta
e popolare. Fin dalla Rivoluzione francese, all’idea di popolo, retaggio dello stato monarchico, si è
contrapposta quella dei diritti dell’uomo, ben presto trasformatasi in difesa del pluralismo politico,
dei diritti sociali e delle minoranze culturali.» (Touraine Alain 1997 Libertà, uguaglianza, diversità.
Si può vivere insieme? (Pourrons-nous vivre ensemble? Egaux et differents, il Saggiatore, Milano
1998, 250-251) «Un processo democratico non approda alla formazione di una volontà generale, ma
al riconoscimento dell’area della libertà di azione di ciascuno.» (Touraine 1997, 264) Forse
sbrigativamente, si può dire che dietro l’idea di una democrazia diretta rischia di prendere corpo una
situazione di populismo demagogico totalitario, soprattutto in una società in cui le paure sollevate
(ad arte) intorno ai processi cosiddetti di globalizzazione animano progetti di comunitarismi
inclusivi ed esclusivi (includenti ed escludenti).
5.2. La nuova trascendenza del potere politico in veste di amministrazione.
Rousseau ottiene il rispetto della sovranità popolare e della volontà generale anche attraverso la
definizione del governo e del potere politico in termini di funzione e di amministrazione. Ma una
simile rilettura e ridefinizione non contiene solo il passaggio dal potere alla funzione, dal comando
al servizio; ora proprio il servizio, l’amministrazione e la funzione diventano il nuovo modo per
affermare nella società civile la trascendenza del politico, o ancora il politico in termini di dominio.
Per ironia della sorte (o per la astuta flessibilità con cui l’istinto di appropriazione continua a
realizzare se stesso nella varietà dei tempi sociali e vi riesce in quanto cambia le proprie forme),
Rousseau, nel togliere alla politica la sovranità e attribuirgli una funzione di amministrazione e,
addirittura, una funzione di servizio come dovere, ha indicato la nuova forma con cui il potere
acquista e riafferma la propria trascendenza e il proprio dominio nei confronti del sociale.
5.2.1. In nome del servizio e della funzione, lo Stato domina. Rinuncia al comando quando
proclama la propria missione di servizio ma così esercita un potere di formazione e di controllo
ancor più capillare e invasivo: elargendo servizi, esercita il potere, chiede fedeltà, crea sudditanza.
La burocrazia e gli apparati, espressione della funzione pubblica e del servizio, diventano dunque
l’organo fondamentale di dominio, di autonomia e di separazione del politico dal sociale; potere
tanto più efficace in quanto, in nome del servizio, dello “Stato sociale” (welfare), assistenziale,
l’amministrazione realizza una sua capillare diffusione in ambiti sempre più vasti del sociale e della
vita dell’uomo (dalla produzione al consumo, dalla nascita alla morte, dal tempo lavoro al tempo
libero, dalla cultura alla religione… verso la biopolitica).
5.2.2. La strategia di costruzione e esercizio in monopolio del potere attraverso la funzione di
servizio è nata nel processo storico di trasformazione del cristianesimo, e delle varie professioni di
fede religiosa, in Chiesa con compiti di assistenza e servizio; ha preso forma e vigore nelle teorie e
nelle scelte politiche dello Stato sociale; resta la strategia più efficace di controllo nelle società
contemporanee, sempre, naturalmente, nelle vesti e nella professione del servizio.
5.3. i binomi e lo spazio di movimento della ragione politica
Natura e società, essere e apparire, legge e libertà, ideale e reale, democrazia diretta e democrazia
rappresentativa …sono binomi che ricorrono nella riflessione di Rousseau ne animano lo sviluppo
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ragionato, consentono la costruzione di analisi sociali e di proposte politiche, guidano ai problemi
cruciali, agli elementi essenziali e ai fondamenti della ragione e della prassi politica.
5.3.1. Sono binomi in forma antitetica che si presentano quindi come tra loro in alternativa e quasi
in contraddizione, come se imponessero una necessaria scelta di campo tra i due.
5.3.2. In realtà sono binomi indispensabili ed essenziali poiché segnano, nella loro antiteticità, l’area
della ragione politica e, nel loro rimandare reciprocamente l’uno all’altro, costruiscono lo spazio
della riflessione e dell’azione politica. Un termine solo del binomio genera situazioni oppressive o
contrassegnate da enormi e imprevedibili rischi per la democrazia, solo nella loro interrelazione,
assunti a progetto comune in un contratto di società, gli elementi del binomio producono uno
sviluppo positivo. Un termine del binomio infatti corregge i vizi dell’altro e l’uno potenzia le virtù
dell’altro. [La loro logica di rimando e di interconnessione è talora all’origine di neologismi
significativi della politica, come l’uso della parola “nurture” (allevare, nutrire ma come incontro
linguistico di natura e cultura), “glocale” (come incontro di globale e locale); o dà luogo a sentenze
la cui efficacia è legata alla situazione ossimorica da cui sono costituite: liberi nell’obbedire (alle
leggi che ci siamo dati).]
Sono binomi irrinunciabili e stanno in un irrinunciabile e sempre aperto rimando. È questa l’area
della buona politica, quella che non si fida di sbrigative semplificazioni destinate a negare
l’esperienza, la sua complessità e la sua trasformazione; è quindi anche l’area della contingenza
della politica nelle sue scelte positive e contingenza è stare nell’attenzione.
5.3.3. Quei binomi permettono di afferrare correttamente la natura delle tesi e delle teorie di
Rousseau, già richiamata e da lui esplicitamente espressa. Rousseau non propone un modello che
possa essere realizzato ma indica i punti prospettici in cui situarsi per focalizzare correttamente il
problema della società civile e impostare la struttura politica per la sua gestione.
Richiamandone alcuni essenziali, quei punti di osservazione prospettica sono:
- la società nasce da un contratto, ma un contratto specifico: la natura dello stare insieme è un
contratto di unione e non di sottomissione;
- la sovranità appartiene al popolo ed è inalienabile; la prospettiva di democrazia diretta che
Rousseau ne deriva, più come un traguardo ideale che un sistema reale, rappresenta un monito
rivolto ai rappresentanti a non ritenersi sede del potere, esclusi dalle responsabilità politiche nei
confronti della volontà generale che essi sono chiamati a rappresentare in termini di bene comune;
- le scelte di pensiero e di azione sono sempre all’interno di un variabile equilibrio tra natura e
cultura, natura e società; equilibrio irrisolto e da gestire proprio per di due aspetti antitetici di
insufficienza e di perfettibilità della natura umana;
- la libertà civile e morale nelle leggi proclama l’assoluta autonomia del sociale, nel fare politica,
nel definire e obbedire alle leggi concordate; come recita l’esergo del Contratto sociale, tratto
dall’Eneide di Virgilio: foederis aequas dicamus leges (diremo giuste le leggi del patto).
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