Kant - La critica della facoltà di Giudizio

Kant - La critica della facoltà di Giudizio
di Renzo Grassano
Schematicamente il Giudizio è considerato da Kant come una facoltà di conoscere intermedia tra l'intelletto e la
ragione. La chiameremo Giudizio con l'iniziale maiuscola per distinguerla dai giudizi analitici e sintetici
formulati dall'intelletto nella prima Critica.
Nell'individuare il Giudizio, Kant segue sostanzialmente le indicazioni di un filosofo suo contemporaneo, Johann
Nicolaus Tetens (1736-1807), autore di Sulla filosofia speculativa universale e dei Saggi filosofici sulla natura
umana. Questi aveva affermato che, mentre i "contenuti" dei nostri concetti derivano dall'esperienza, esattamente
come sostenuto dagli empiristi inglesi, la loro "forma", in pratica la loro connessione logica, deriva dal
Denkkraft, cioè dalla facoltà attiva di pensare, che non subisce le leggi dell'associazione in modo passivo, ma
opera spontaneamente, seguendo una spinta interiore.
Secondo Tetens, l'anima umana gode di una facoltà attiva, la "volontà", che è la capacità di produrre mutamenti
irriducibili nelle rappresentazioni, e di una terza facoltà, il sentimento, che è invece un patire, una disposizione
passiva e ricettiva.
Le idee di Tetens furono in parte raccolte anche da Moses Mendelssohn e se, ben si guarda, anticiparono in
qualche misura l' impostazione kantiana delle tre critiche, anche se, ovviamente, gli sviluppi impressi da Kant
alla teoria critica andarono radicalmente più in profondità.
Il Giudizio
Tra la ragion pura, ossia i concetti della natura della filosofia teoretica che consentono di conoscere il mondo dei
fenomeni, e la ragion pratica, che è sostanzialmente il concetto della libertà dell'uomo razionale, esiste, fino a
quando non si perviene al principio del Giudizio, un abisso. Unire conoscenza della natura, un mondo dominato
dal determinismo fisico e meccanico, e mondo della libertà, cioè la sfera delle attività umane liberamente scelte,
significa quindi ricomporre due sfere distinte in modo rigoroso, provando, per giunta, a trovare un principio che
consente di pensare la natura in modo che le sue leggi si accordino con la libertà dell'uomo.
Il principio del Giudizio è un principio a priori. Non ha un ambito di applicazione proprio, e quindi non ci fa
conoscere nulla, ma si esercita sul sentimento, come riflessività sul piacere e sul dolore. «Il Giudizio in genere scrive Kant - è la facoltà di pensare il particolare come contenuto dell'universale. Se è dato l'universale (la regola,
il principio, la legge), il Giudizio che opera la sussunzione del particolare (anche se esso, in quanto Giudizio
trascendentale, fornisce a priori le condizioni secondo le quali soltanto può avvenire la sussunzione a
quell'universale), è d e t e r m i n a n t e . Se è dato invece soltanto il particolare, ed il Giudizio deve trovare
l'universale, esso è semplicemente r i f l e t t e n t e.»
Il Giudizio determinante
In generale, il Giudizio è facoltà di giudicare, nel senso di collegare un oggetto della realtà assunto nel pensiero
ad un predicato, e quindi di pensare quel particolare oggetto come contenuto in relazione al generale ed alle sue
leggi. Quando questo avviene nell'ambito della ragion pura, che si trova facilmente a disposizione le sue forme a
priori, il Giudizio è determinante, nel senso che esso determina i dati, le forme, i contenuti della conoscenza in
modo scientifico.
Ma c'è - avverte Kant - un altro tipo di Giudizio.
Il Giudizio riflettente
Quando, al contrario, si da un particolare all'intuizione sensibile, ad esempio l'ascolto di un brano musicale o
l'assaggio di un manicaretto, ciò che colpisce non è la legge naturale, ad esempio l'acustica del violino o la
percezione del salato, ma un dato sensibile che provoca la solleticazione di un piacere (od anche di un dolore).
Il Giudizio, alle prese con concetti che non stanno a priori nell'intelletto, si può anche sforzare di trovare elementi
unitari (come fece Linneo classificando gli animali) o come potremmo fare noi, ordinando i nostri cd secondo lo
stile musicale. Questa libertà di scegliere non è ancora scientifica, anche se nel caso della classificazione
biologica ci proponiamo di fare scienza, di trovare cioè un legame che comprenda tutti i fenomeni presi in
considerazione secondo un principio universalmente valido.
In sostanza, il Giudizio riflettente ha un campo di applicazione vastissimo. Si può occupare di questioni vitali
come pure di sciocchezzuole. Kant, ovviamente, tese ad occuparsi di problemi seri e, nel caso della natura in
generale, egli riaprì una discussione importante nella storia della filosofia: quella della finalità della natura. Ma
altri terreni di riflessione sono notevoli, in particolare quello del giudizio estetico e dei relativi concetti di bello e
sublime, nonchè, nell'ambito della produzione artistica, la definizione di genio creatore, non solo in grado di
riprodurre la natura, ma anche di interpretare situazioni e suscitare piacere, commozione, sentimenti umanitari.
Cominciamo dal bello.
Il giudizio estetico
Quando parla di giudizio estetico, Kant rinuncia ad usare il termine estetico nello stesso significato indicati dalla
Critica della ragione pura; si mantiene cioè nell'ambito della filosofia estetica iniziata da Baumgarten: la
disciplina del bello.
Perché una cosa viene ritenuta bella?
Secondo Kant, perché essa è in armonia col nostro spirito e produce una sensazione piacevole. Ma questo stesso
piacere è disinteressato; non genera un desiderio di possesso. Inoltre, questo piacere è universale, poichè tutti
possono liberamente concordare, quantomeno una significativa maggioranza, sul fatto che qualcosa sia bello.
Il bello può trovarsi sia in uno spettacolo naturale, "il bello di natura", sia in una creazione artistica, "il bello
d'arte".
Ma c'è in Kant una forte tendenza ad identificare il bello d'arte con quello naturale, tant'è che scrive: «Davanti a
un prodotto dell'arte bella bisogna essere coscienti che esso è arte e non natura; ma le finalità della sua forma
deve apparire libera da ogni costrizione di regole arbitrarie proprio come se fosse un prodotto della natura.»
In tal senso, si comprende perché disse che il bello è "ciò che piace universalmente senza concetto".
Distinguendo infatti la bellezza libera, ad esempio quella dei fiori, annota che essa non presuppone il concetto di
ciò che la cosa deve essere, ovvero la sua perfezione.
La bellezza, inoltre, non risponde ad un puro giudizio di gusto, perché presuppone il concetto dello scopo a cui la
cosa giudicata deve adeguarsi, mentre il gusto non ha alcuna necessità di un giudizio intellettuale.
L'estetica di Kant presenta, dunque, qualcosa in più sia rispetto agli empiristi, che pensavano il bello solo come
causa di un piacere sensibile, sia rispetto ai razionalisti che, come Baumgarten, riducevano il bello all'oggetto di
una conoscenza intellettiva ancora confusa.
La coscienza estetica: l'universalità soggettiva
Si può quindi dare una coscienza estetica in grado di affermare una comunicabilità universale, da s o g g e t t o a
soggetto?
Per Kant avviene questo: di fronte al bello, ogni soggetto permane in sé, è pienamente assorto nel proprio stato
interiore, diremmo nel suo privato, ma, allo stesso tempo si sorprende anche staccato da ogni particolarità
accidentale, portatore di un sentimento generale che non appartiene più ai singoli.
E' per questo che Kant parla di universalità soggettiva, un concetto che non serve, come hanno detto alcuni, a
limitare la rivendicazione del particolare estetico, ma che semmai spinge verso un ampliamento della comunanza.
Il sentimento artistico rimane in ognuno sensus sui, ma ogni singolo può provare un'affinità cosmica con
chiunque partecipi allo spettacolo della bellezza. Nell'atteggiamento estetico, il singolo si sente completamente
libero nei confronti del giudizio che dedica all'oggetto, ed allo stesso tempo, può anche trovare condizioni
private, storia personale, sensibilità particolare; ma necessariamente (quando si trova in coda ad un museo, od in
fila per assistere ad un spettacolo teatrale, ed infine ad applaudire) vede anche la soddisfazione comune, un
motivo di piacere fondato su ciò che si trova quasi certamente in ogni altro.
In proposito Kant scrive: «Egli parlerà così del bello come se la bellezza fosse una qualità dell'oggetto; e il suo
giudizio fosse logico (un giudizio che da una conoscenza dell'oggetto mediante il suo concetto), sebbene sia
soltanto estetico e non implichi che un rapporto della rappresentazione dell'oggetto col soggetto; perché, infatti,
esso è simile in questo al giudizio logico, che si può presupporre la sua validità in ognuno. Ma questa universalità
non può neppure provenire da concetti... Ora qui è da notare che nel Giudizio di gusto non viene postulato altro
che tale voce universale, riguardo al piacere senza mediazione di concetti, e quindi la p o s s i b i l i t à di un
giudizio estetico, che possa essere nello stesso tempo considerato valevole per ognuno. Il Giudizio di gusto, per
sé stesso non postula il consenso di tutti (perché ciò può farlo solo un giudizio logico che fornisce ragioni); esso
esige soltanto il consenso di ognuno, come un caso della regola, rispetto al quale esso attende la conferma non da
concetti ma dalla adesione altrui.»
Regole di composizione? Ogni genio ha la sua regola
Di fronte al bello d'arte, alla libera creazione umana, ci si era spesso chiesti se la tecnica prescrivesse regole
precise, quelle che ad esempio Aristotele formulò nella Poetica. Nel XVIII secolo, le dottrine estetiche erano
state compendiate da Lessing in una formula: la lotta tra il genio e la regola non ha motivo di esistere perchè la
produzione del genio non riceve alcuna regola da fuori, ma è egli stesso regola.
Anche per Kant il genio è il talento che da regola e forma all'arte. E precisa: «Difatti, ogni arte presuppone delle
regole, sul fondamento delle quali ogni produzione che debba essere chiamata artistica, è rappresentata come
possibile. Ma il concetto dell'arte bella non permette che che il Giudizio sulla bellezza del suo prodotto sia
derivato da qualche regola che abbia a fondamento un concetto... Sicché l'arte bella non può trovare da sé stessa
la regola secondo cui deve realizzare i suoi prodotti. E poiché senza una regola anteriore un prodotto nonpuò mai
chiamarsi arte, bisogna che la natura dia la regola all'arte nel soggetto (mediante la disposizione delle sue
facoltà), vale a dire l'arte bella è possibile solo come prodotto del genio. »
Il sublime
Kant introdusse un'ulteriore distinzione, quella tra il bello ed il sublime, dove questo veniva ad indicare qualcosa
al di là di ogni comparazione. E aggiunse che esisteva un sublime matematico (derivante dalla illimitata
grandezza della natura) e un sublime dinamico, suscitato dalla smisurata potenza della natura stessa. Riportando
il sublime ad una categoria superiore, illimitata e "priva di forma", Kant intese spiegare che il sublime non può
essere oggetto di giudizio estetico, anche se il sentimento di esso (è sempre un sentimento!) può essere suscitato
dalla grandiosità di certi scenari naturali. Esso non è intrinseco alle cose, ma è l'uomo che reagisce di fronte al
sublime.
Massime per il Giudizio
Onde evitare l'illusione di ritenere come oggettive condizioni soggettive facilmente scambiabili con una supposta
oggettività, Kant elaborò tre massime con cui sarebbe possibile regolarsi.
La prima: pensare da sé ed evitare la passività della ragione, perché questo atteggiamento porta all'eteronomia ed
al pregiudizio.
La seconda: pensare mettendosi nei panni degli altri. Ciò eleva l'uomo oltre il suo particolare.
La terza: pensare in modo da essere sempre d'accordo con sé stessi, ovvero la massima della coerenza.
La finalità della natura
Il problema è se il mondo biologico in cui viviamo abbia un senso e sia quindi organizzato secondo un ordine
(non solo meccanico) che gli consente di funzionare. Di conseguenza, abbiamo un ulteriore problema: è
possibile, legittimo, pensare che il mondo sia in funzione dell'uomo? O, non è, per esempio, l'uomo, che
approfittando di una sua particolare predisposizione e di condizioni di vita particolarmente favorevoli, ha saputo
adeguarsi al mondo?
Di fronte a simili domande, che erano agli occhi di Kant filosofiche, cioè metafisiche, e non ancora scientifiche,
si sarebbe potuto cercare il principio a priori dei giudizi riflettenti in un intelletto superiore al nostro, l'intelletto
divino in grado di stabilire le leggi generali. Solo in tal modo si sarebbe avuto il principio di finalità, secondo il
quale tutte le leggi di natura sarebbero riconducibili ad un unico legislatore e orientate in modo perfetto ad un
unico fine.
Il finalismo ai tempi di Kant
Ma attenzione, Achtung!
Ai tempi di Kant, la distinzione che noi attuiamo tra una finalità oggettiva (che possiamo solo ipotizzare, ma non
dimostrare) ed una finalità cosciente, di un qualcosa che deliberatamente attua, va tenuta rigorosamente alla
larga, se vogliamo capire di quale finalità parla Kant. Ci soccorre un'osservazione di Ernst Cassirer: «L'uso
linguistico del secolo XVIII prende la finalità in un senso più ampio: vi vede l'espressione generica di ogni
concordanza delle parti di una molteplice unità, non importa su quali basi si fondi. » (Cassirer - Vita e dottrina di
Kant - La Nuova Italia, ediz 1997) Pertanto, la Zueckmässigkeit di cui si discorreva amabilmente (e a volte
velenosamente) nei salotti e nelle aule di Teologia, altro non era che l'aggiornamento del concetto di Armonia
prestabilita di Leibniz. Concetto verso il quale Kant, ebbe un atteggiamento antimetafisico, ma dal quale era
fortemente attratto.
Il vero problema, per Kant, era dato dal fatto che tra le rigorose costruzioni logiche a priori possibili nel campo
della matematica e della fisica ed il mondo incerto della biologia, il salto era davvero troppo grande. Lo slancio
entusiastico del fisico di scuola newtoniana si arrestava di fronte all'intrico delle foreste, al brulicare delle forme
di vita ed ai misteri degli abissi marini. Ma, se il mondo della natura conteneva di per sé un numero innumerabile
di fatti ed eventi singoli, che dire dell'uomo e di una possibile sociologia?
La metafisica può scorgere una soluzione ultima, la scienza deve e può solo rivolgere domande alla natura stessa,
cioè procedere in modo sperimentale. Tuttavia, Kant fa un'affermazione di grande valore e saggezza di fronte
all'insoluto: «Il Giudizio può affermare e affermerà solo una cosa: che la questione non deve suonare irrisolvibile
solo perché irrisolta!»
E questa è la lezione.