Perdonarsi tra fratelli

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Una nascita contrastata (Mt 2,1-12)
Troviamo qui una scena tanto cara alla devozione cristiana da far passare in un certo senso in secondo
piano il profondo messaggio teologico che l’evangelista propone al suo lettore e che veicola a due livelli:
anzitutto attuando una serie di opposizioni e inoltre supponendo nel suo lettore una buona padronanza degli
scritti dell’Antico Testamento, come mostrano le evidenti allusioni (oltre alle citazioni esplicite) che costellano il
racconto.
Lo schema compositivo mette in rilievo le opposizioni principali: tra Gerusalemme e Betlemme, tra
Erode e il vero re dei Giudei.
La prima parte (vv.1-8) dedica la sua attenzione a Gerusalemme e al re Erode. Gli storici suppongono
che i Magi provenissero dalla Mesopotamia, patria dell’astrologia: Matteo è più generico, li fa venire «da oriente»,
mostrando in tal modo disinteresse alla loro identità e ponendo al centro invece i segni che caratterizzano la loro
venuta. Senza nessuno stacco con quando precede nel racconto, essi compaiono appena Gesù è nato a
Betlemme, mettendo in stato d’allerta la città santa. Sembra di risalire indietro di diversi secoli, allorché il
veggente Samuele, a seguito del rigetto di Saul da parte di Dio, si recò a Betlemme a consacrare il figlio di Iesse,
aprendo così una grave crisi istituzionale nel regno con la presenza di due re consacrati. Solo in seguito il lettore
di Matteo potrà comprendere che l’opposizione non è tra due regalità di questo mondo, ma tra quella temporale,
usurpata da Erode e quella permanente e universale del Cristo; costui non sarà il re che restituirà a Israele il suo
splendore nazionale o fomenterà la ribellione contro Roma, ma colui che salverà gli altri sottomettendosi
spontaneamente alla sofferenza e alla morte (27,27-31); anche in questa scena il contrasto è tra un re nel pieno
della sua potenza e un umile personaggio: un pastore adolescente, nel caso di Davide, un bambino nel caso del
Cristo.
Accanto al re di Gerusalemme troviamo una corte e gli esperti di cose religiose, i sommi sacerdoti e gli
scribi, che ora devono affrontare il problema che il re sottopone: una scena non molto diversa da quelle narrate
nel libro di Daniele, in cui l’arrogante re babilonese deve continuamente consultare i suoi sapienti di fronte ad
alcuni fatti sorprendenti e si ritrova poi sconfessato nelle sue pretese assolutistiche. Dio ancora una volta mette in
scacco la pretesa umana di padroneggiare il futuro, dimostrando la cecità di coloro che scrutano le Scritture senza
lasciarsi smuovere da queste, cioè senza mettersi in cammino verso il luogo scelto da Dio, ma rimanendo invece
ancorati ai segni umani della regalità, quei segni che appunto la nascita di Gesù a Betlemme rende privi di ogni
valore. Inoltre il modo in cui Erode reagisce alla minaccia che ritiene costituita dal bambino Gesù anticipa il
modo in cui i capi religiosi in seguito risponderanno a Gesù adulto. Sia Erode che questi rivelano di essere
“spiritualmente ciechi” (2,3; 27,63), “paurosi” (2,3; 21,46), “cospiratori” (2,7; 12,14), “perfidi”, “menzogneri” e
“omicidi” (2,8.13; 12,14; 26,4; 28,13-14), “iracondi” (2,16; 21,15). In questo racconto, Erode è il precursore dei
capi religiosi e la sua opposizione a Gesù fa presagire la loro.
La seconda parte del racconto è ambientata a Betlemme e mette in risalto la regalità di Gesù (vv.9-12).
Mentre gli scribi gerosolimitani indagano le Scritture, ma senza lasciarsi smuovere da esse, i Magi si mettono in
viaggio e solo dopo aver lasciato Gerusalemme la stella ricompare; quest’ultima si manifesta singolarmente
intelligente: è andata a cercarli a casa, in Oriente, poi si è eclissata (e a Gerusalemme è sicuro che i Magi non la
vedono più perché ne parlano al passato ed esitano sulla strada da seguire); finché Erode è in scena, essa si
nasconde, ma una volta lasciata la città ricompare: la stella non brilla che per colui che essa designa e per
condurre verso lui i viaggiatori; essa va verso colui del quale è simbolo, Gesù, l’astro annunciato dalla Scrittura
(Nm 24,17).
Giunti a Betlemme, i Magi trovano il bambino e gli rendono omaggio con doni il cui significato la
tradizione ha cercato di esplicitare: l’oro, si dice, onora il re, l’incenso il Dio, la mirra l’uomo che conoscerà la
morte. Non sappiamo con certezza se questi significati fossero così intesi da Matteo, ma nulla vieta di pensare
che i tesori che egli enumera rispondano agli usi del tempo riguardo i doni regali, gli atti di devozione e le
pratiche funerarie; in ogni caso una simile spiegazione orienta anche sulla intenzione soggiacente all’episodio dei
Magi: questi stranieri, a differenza degli ebrei, riconoscono subito l’identità di Cristo, quasi un anticipo di quel
contrasto su cui insiste anche il resoconto degli Atti degli apostoli al tempo della missione della chiesa: da una parte
la chiusura di gran parte dell’ebraismo, dall’altra l’entusiastica accoglienza di numerosi pagani.
Nel contesto di Matteo, l’episodio dei Magi manifesta tutto il suo significato: quelli che dovevano
accogliere il Messia inviato da Dio non lo riconoscono, il loro sapere è sterile; sono i pagani che lo riconoscono e
lo adorano. Il rigetto della maggioranza d’Israele e l’accoglienza da parte dei pagani, tema che sarà
abbondantemente ripreso nel primo vangelo, è qui annunciato.
Insieme a questa lettura fatta per opposizioni, il brano ci svela la sua ricchezza se si tiene conto dell’uso
che Matteo fa dell’AT, dato che per l’evangelista Gesù «compie le Scritture».
Anzitutto per capire la stella non si può non richiamare il racconto biblico che tratta del veggente Balaam
(Nm 22-24): nessuna citazione esplicita da parte di Matteo, tuttavia si può stabilire un parallelo tra Balaq, re di
Moab, ed Erode, re di Gerusalemme, tra Balaam, indovino venuto da oriente, e i Magi, così come tra Israele e
Gesù. Balaq chiede a Balaam di maledire Israele, ma Dio pone in bocca al veggente non una maledizione, ma un
oracolo di salvezza: «Da Giacobbe sale una stella, da Israele si alza uno scettro che spezza le tempie di Moab»
(Nm 24,17). Si tratta di un oracolo che nella tradizione ebraica assunse sempre più colorito messianico (come
mostrano la versione dei LXX e il Targum); in tal senso la stella è il segno della venuta del Messia e non è
necessario fare riferimento a uno specifico fenomeno naturale, come già affermava Giovanni Crisostomo: «Noi
sappiamo dalla Scrittura che questa stella non è affatto nel novero degli astri».
Non mancano allusioni ad altre profezie nel nostro brano, le quali sono probabilmente all’origine della
trasformazione dei Magi in re. Per esempio Is 6,1-6 (si veda la prima lettura): per Matteo e la comunità cristiana,
Gesù è «la luce, la gloria del Signore» che si leva come una stella verso la quale si incamminano le nazioni pagane
attratte ad adorare e a «proclamare le lodi del Signore».
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