Barbara McClintock – Il gene non è una cosa (Il lavoro comincia con

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Barbara McClintock – Il gene non è una cosa
(Il lavoro comincia con la biografa, in video, seduta dietro alla cattedra di
un’aula universitaria. Scrive. Ad un certo punto si volta e capisce che la
troupe che deve intervistarla ha fatto il suo ingresso)
Biografa: Buongiorno !
Intervistatore: Salve…
Biografa: Siete in anticipo !
Intervistatore: Come vede…sì.
Biografa: Un attimo solo che prendo la mia roba e andiamo nello studio
Intervistatore: Perfetto.
(La biografa si avvia all’uscita, mentre, in scena, l’attrice affronta il discorso di
ringraziamento di Barbara McClintock al banchetto per il Nobel)
McClintock live:
“Vostre Maestà, Sua Altezza Reale, Signore e Signori, sono felice di essere qui
e sono incantata dal calore mostratomi dal popolo svedese. Desidero
ringraziarlo per le sue tante gentilezze.
So di essere tra voi questa sera perché la pianta del mais, con la quale ho
lavorato per molti anni, ha rivelato un fenomeno genetico che era, quando lo
scoprii a metà degli anni Quaranta, totalmente in contrasto con il dogma del
tempo. Recentemente, con la sua generale accettazione, mi è stato chiesto
come mi sono sentita durante il lungo periodo in cui il mio lavoro era ignorato
e messo da parte. Inizialmente, lo ammetto, fui sorpresa e poi perplessa,
poiché pensavo che l’evidenza e la logica che sostenevano la mia
interpretazione, fossero sufficientemente rivelatrici. Ma mi fu ben presto
chiaro che quei taciti presupposti- la sostanza del dogma – costituivano una
barriera a un’efettiva comunicazione.
La mia comprensione del fenomeno responsabile dei rapidi cambiamenti
nell’azione genica, comprese le variegazioni che comunemente si osservano sia
nelle piante che negli animali, era troppo radicale per il tempo. Chi avesse
desiderato avere le mie esperienze però, o altre simili, avrebbe penetrato
questa barriera. Diversi genetisti del mais, in seguito, riconobbero e
indagarono la natura di questo fenomeno e subirono la mia medesima
esclusione.
Con la creazione di nuove tecniche si scoprì che questo fenomeno era
universale, ma ciò avvenne molti anni dopo. Nel frattempo non fui invitata a
tenere conferenze o seminari, eccettuate rare occasioni, o a far parte di
commissioni o giurie, o ad adempiere ai doveri richiesti agli altri scienziati.
Invece di causarmi difficoltà personali, questo lungo intervallo fu una gioia. Mi
lasciò la completa libertà di continuare le ricerche senza interruzione e per il
puro piacere di farlo.
(in video, l’intervista prende finalmente il via nello studio della biografa)
Intervistatore: Così Barbara McClintock è un Premio Nobel…
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Biografa: A Barbara McClintock venne conferito il Premio Nobel per la
medicina e fisiologia nel 1983, 32 anni dopo la prima presentazione pubblica
della sua scoperta.
Fu durante il ‘simposio’ di Cold Spring Harbor del 1951.
Intervistatore: Cold Spring Harbor...
Biografa: E‘ una piccola località marittima a quaranta miglia ad est di New
York.
I frequentatissimi simposi estivi di Cold Spring, erano una meta importante per
i genetisti dell’epoca.
Barbara, che faceva parte del ristretto numero di scienziati residenti, presentò
il risultato di ben sei anni di intenso lavoro, svolto in quasi totale solitudine, nei
locali laboratori di biologia.
Era cosciente che molti dei colleghi avrebbero avuto difficoltà a cogliere le
implicazioni delle sue scoperte, ma non se lo aspettava il muro di silenzio che
seguì alla lettura della sua relazione .
Tolte una o due eccezioni, nessuno aveva capito. Ci furono borbottamenti,
risatine e qualche aperta protesta.
Una vera novità per lei ! Perché, se aveva sempre avuto difficoltà con
l’Istituzione, tanto da ottenere un impiego fisso solo nel 1941, a 39 anni e
guarda caso non in un’Università, ma come ricercatrice presso la Carnagie
Institution di Washington, si era ormai abituata al successo personale e alla
stima dei colleghi.
Intervistatore: Quindi aveva già avuto dei successi…
Biografa:
Importantissimi.
Nel 1944 era venuta l’elezione a membro della National Academy e, subito
dopo, a Presidente della Genetic Society of America, due riconoscimenti che la
ripagavano del dispetto delle gerarchie accademiche per quel suo non volersi
adattare a una carriera femminile in qualche modo preconfezionata.
Eccentrica e piantagrane finché si vuole, da molti giudicata ‘difficile’, ma come
scienziata era una vera fuoriclasse.
Si può dire che la citogenetica del mais fosse nata e cresciuta con lei.
Barbara McClintock era entrata alla Cornell nel 1919, a diciassette anni, e si
era laureata nel 1923 in citologia botanica, portando genetica e zoologia come
complementari. Il mais, l’oggetto di studio prediletto, divenne, grazie a lei, la
‘versione vegetale’ della drosophila, fino ad allora organismo principe della
sperimentazione genetica. Anzi, nel 1931 e grazie a McClintock, il mais riuscì
a battere sul filo di lana il ben più famoso moscerino.
Intervistatore: Lei sta parlando della dimostrazione del crossing over ?
Biografa: Sì, proprio di quella.
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E’ dell’agosto di quell’anno l’articolo firmato da Barbara e da Erriet Creigthton,
che dimostrava quanto i genetisti davano da tempo per scontato, ma senza
averne le prove, cioè la correlazione tra scambio genetico e scambio
cromosomico, ovvero l’effettivo scambio fisico di segmenti di cromosoma
durante la produzione di cellule sessuali. Curt Stern, che in Germania stava
lavorando alla medesima dimostrazione utilizzando cellule di drosophlia,
presentò i suoi risultati diversi mesi dopo, ignaro di quella gentile concorrenza.
Fu durante quella stessa estate del 1931 che Barbara raggiunse Lewis Stadler
all’Università del Missouri, dando iniziò a una ricerca che, nel corso degli anni,
l’avrebbe condotta a quella controversa relazione. Al ‘simposio’ del 1951.
McClintock live:
L’esperimento che iniziai nel 1944 avvenne tredici anni dopo che avevo
cominciato ad osservare il comportamento delle parti terminali spezzate dei
cromosomi. Fu la conoscenza ottenuta in quegli anni che mi condusse a
concepirlo.
I primi studi sulle rotture delle estremità cromosomiche li iniziai nell’estate del
1931. All’epoca avevamo ancora una conoscenza piuttosto primitiva dei
cromosomi e dei geni: i geni venivano visti come grani disposti in ordine
lineare sul filamento del cromosoma. Tutto era ancora da scoprire e le
pubblicazioni di Muller del 1927 e 1928 che riferivano dell’uso dei RX per
ottenere mutazioni in Drosophila, e quelle simili di Stadler del 1928 con l’orzo,
produssero un profondo effetto su noi genetisti. Ecco il modo per ottenere
mutazioni a piacimento. Non c’era più bisogno di aspettare che apparissero
spontaneamente. Questa tecnica poteva accelerare molto lo studio delle
strutture geniche.
Fu proprio per osservare gli effetti dei RX sui cromosomi del mais che mi recai
all’università del Missouri, a Columbia, nell’estate del 1931. Stadler mi aveva
chiesto se mi andava di esaminare durante lo stadio meiotico le cellule delle
piante che aveva ottenuto quell’anno per determinare che tipo di eventi
potessero essere responsabili delle alterazioni che presentavano. Ciò che
imparai risultò nuovo e impressionante.
Nessuno dei fenotipi recessivi nelle piante esaminate derivava da una
cosiddetta “mutazione del gene”. Ciascuno rifletteva la perdita di un
segmento di un cromosoma che portava con sé l’allele del tipo selvatico, e
erano i raggi X a causare queste rotture. I RX producevano altri tipi di
riarrangiamento cromosomico, alcuni inaspettatamente complessi.
Fu durante queste ricerche che scoprii che le estremità spezzate dei cromosomi
si fondevano due a due. Questo principio è stato poi ampiamente dimostrato
in una serie di esperimenti. Ma mi è subito divenuto chiaro che due parti
terminali spezzate entrate nella telofase del nucleo si sarebbero ritrovate e
fuse, senza riguardo per la distanza iniziale che le separava. Fu questa
consapevolezza a farmi intuire e poi provare l’esistenza del cromosoma ad
anello, un cromosoma con le due estremità fuse assieme così da formare una
struttura circolare.
Le cellule sono in grado di percepire la presenza nei loro nuclei delle parti
terminali rotte dei cromosomi, e di attivare un meccanismo che le avvicinerà e
che le unirà l’una con l’altra. Questa abilità a percepire le estremità rotte, a
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indirizzarle l’una verso l’altra e poi ad unirle è un esempio particolarmente
rivelatore della sensibilità della cellula a tutto ciò che sta accadendo al suo
interno. Le cellule prendono decisioni saggie e agiscono di conseguenza. La
sfida è vinta da una risposta programmata. E’ necessario, perché le rotture
possono essere frequenti. Se non venissero riparate porterebbero a deficienze
genomiche con serie conseguenze.
Biografa: Dal 1931 in poi, lo studio delle rotture dei cromosomi del mais e di
sistemi di riparazione come quello descritto del ‘cromosoma ad anello’ o quello
del ciclo ‘rottura-fusione-ponte’ e dei fenotipi che queste modificazioni
genomiche esprimevano, diventarono l’impronta del lavoro di Barbara.
La sua capacità di osservazione e deduzione, anche a partire da minimi
dettagli, era leggendaria. Seguiva le proprie piante dalla semina al raccolto,
faceva tutto personalmente, anche il lavoro considerato di routine.
C’è chi dice, un po’ malignamente che avrebbe potuto scrivere la biografia di
ogni pianta su cui aveva lavorato.
Barbara dedicava la stessa maniacale attenzione sia alla pianta che alla cellula,
ogni minima variazione veniva annotata; macro e micro si fondevano in uno
sguardo che vedeva distintamente anche là dove altri incespicavano.
Marcus Rhoades, che era un amico e collega, le chiese come riuscisse a vedere
così tanto guardando una cellula al microscopio e lei rispose: “beh, sai, quando
osservo una cellula, è come se ci entrassi e mi guardassi intorno.”
Una capacità straordinaria che però giocò contro di lei, nella partita che
condusse al fallimento del 1951.
Intervistatore: In che senso lo dice ?
Può spiegarlo meglio ?
Biografa: Tutti sappiamo per esperienza che non sempre è facile comunicare
quanto si è visto a chi non ha partecipato direttamente a una osservazione,
soprattutto se questa è il frutto di un occhio particolarmente allenato.
Per Barbara McClintock esisteva una reciprocità superiore alla norma tra
cognitivo e visivo: lei sapeva col vedere e vedeva col sapere.
Durante anni di osservazioni e interpretazioni aveva costruito una salda
prospettiva teorica, un’immagine estremamente precisa dell’interno della
cellula. Guardando crescere le piante di granturco, esaminando l’aspetto delle
foglie e dei semi - le cariossidi -, osservando la loro struttura attraverso le lenti
del microscopio, era giunta ad orientarsi in quel mondo in modo istantaneo e le
risultava difficile tradurre puntualmente in parole tutto ciò che il suo occhio
capiva.
La comunicazione ordinaria, che deve passare attraverso la descrizione,
sembrava avere bisogno di un’esperienza condivisa che ai più mancava
completamente.
Gli happy few che riuscirono a penetrare davvero nel suo lavoro ricordano però
con emozione il momento in cui “cominciarono a capire” e come questa
comprensione arrivasse sempre grazie a un’immagine.
Difficoltà a comunicare.
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Difficoltà che non dipendevano solo dal suo stile del tutto peculiare, ma, anche
e soprattutto, dall’assoluto isolamento nel quale era nato e cresciuto il lungo
esperimento di Barbara.
Intervistatore:
Ma questo non contraddice il fatto che lei abbia definito Cold Spring come un
luogo di incontro e di scambio fra gli scienziati ?
Biografa: La realtà è che la McClintock era rimasta la sola a Cold Spring
Harbor a lavorare ancora sul mais.
Ciò che faceva nel suo campo di granturco o in laboratorio non destava più
l’interesse dei colleghi, che erano invece tutti presi dalla novità del periodo.
Negli anni ’40 si era di fronte a una vera e propria rivoluzione in genetica e i
risultati più evidenti si videro nei decenni successivi. Si trattava del passaggio
dalla genetica formale del periodo classico alla genetica molecolare.
I personaggi principali della ‘nuova scena’ provenivano da discipline come la
biochimica, la microbiologia, la cristallografia a Raggi X e, soprattutto, dalla
fisica. Pochissimi di loro avevano fatto esperienza in genetica e praticamente
nessuno in citologia, la scienza che studia la struttura e le funzioni della cellula.
Protagonista assoluto di questo nuovo corso era Max Delbruck, un fisico teorico
che aveva studiato con Niels Bohr. Delbruck aveva profonde radici in quella
tradizione riduzionista che cerca la conoscenza nella semplicità, che procede
isolando e studiando i fenomeni nella loro forma più elementare e considera la
varietà e l’abbondanza della natura come una distrazione.
Da fisico, cercò l’organismo più semplice possibile da analizzare.
E in biologia più semplice spesso vuol dire più piccolo.
Che questo significasse lasciare al loro destino quelle forme di complessità che
i genetisti avevano cercato di spiegare non costituiva un problema, anzi era un
pregio.
La sua attenzione si concentrò su batteriofagi e batteri. Insomma procarioti,
organismi in cui non esiste alcuna membrana nucleare che separi il materiale
genetico primario dal citoplasma e che non subiscono i cicli di mitosi e meiosi
caratteristici degli organismi superiori. Ben presto furono in molti a seguirlo e,
dopo che ebbe organizzato a Cold Spring il primo corso estivo annuale sui virus
batterici, il numero di seguaci cominciò a crescere in maniera esponenziale.
L’obiettivo del corso era apertamente missionario: divulgare il nuovo vangelo
tra i fisici e i chimici. Bisognava imparare a porre domande acute sfrondando
la varietà lussureggiante della biologia a pochi casi elementari che potessero
indicare la direzione verso un semplice modello esplicativo. Si trattava di una
biologia fatta per mettere a proprio agio quanti provenivano da altre discipline.
(La breve parte di testo immediatamente successiva non fa più parte della
videointervista, ma è un commento fuori campo che traghetta l’attenzione del
pubblico verso il terzo testo in prima persona della McClintock)
E Barbara, la regina delle citogenetiste, col suo mais che impiegava mesi per
svilupparsi, contro i venti minuti che impiega un batterio per dividersi in due,
con il suo interesse per la varietà e la crescita, dove si collocava in tutto
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questo? E soprattutto cosa stava facendo mentre il mondo della biologia si
concentrava sui procarioti ? Cosa stava indagando, mentre il pallone preso a
calci dai giovani specializzandi di Cold Spring, tra i quali spiccava un tal Jim
Watson, finiva come al solito nel suo campo di granturco ? Lei, che quei
giovani entusiasti, proiettati verso il futuro, certi di poter scoprire il segreto
della vita, vedevano come la rappresentante di una tradizione che aveva poco
da insegnare.
McClintock live:
Stavo continuando la ricerca sulle nuove mutazioni prodotte dal ciclo rotturafusione- ponte e avevo coltivato delle piantine ottenute per autoimpollinazione
di piante nel cui sviluppo precoce uno o entrambi i cromosomi 9 si erano rotti.
Mi accorsi che la mutazione del colore era apparentemente instabile. In ogni
piantina si potevano osservare striature o chiazze di colore la cui presenza era
del tutto inattesa. Si trattava di quel fenomeno che viene chiamato ”geni
mutabili” , mosaicismo o variegazione, ma che solo molto di rado era stato
osservato nel granturco. In quelle piantine i “geni mutabili” sembravano
essere dappertutto.
Esaminando le macchie, la loro grandezza e la loro frequenza durante la
crescita mi accorsi che ciascuna piantina presentava un tasso caratteristico di
mutazione, che restava invariato durante tutto il suo ciclo vitale. Si trattava
quindi di mutazioni che non saltavano fuori a capriccio: qualsiasi ne fosse la
causa, si trattava di un fattore costante. Questa regolarità mi fece pensare
che qualcosa controllasse quel tasso di mutazione. L’idea di un controllo o
regolazione che dir si voglia, all’epoca era un’eresia, eppure chiunque osservi
un organismo può vedere che lo sviluppo di una singola cellula fecondata
segue delle regole precise. Il fatto che ogni cariosside di granturco racchiuda
in sé la futura pianta non è sufficientemente spiegato dal fatto che si sviluppi a
partire da un appropriato corredo cromosomico. Le cellule devono
differenziarsi a mano a mano che si moltiplicano se devono dare origine a
diversi tipi di tessuti i quali, a loro volta, danno all’organismo la sua forma
caratteristica. Quelle mutazioni agivano come un tracciante che permetteva la
leggibilità della storia di differenziamento della cellula. Mi sembrava che,
guardando l’organismo intero e il suo modo di svilupparsi, quelle cose che
chiamiamo geni dovessero in qualche modo essere controllate.
Come ben saprete è attraverso l’eccezione che quasi sempre si riesce a
stabilire la regola.
Stavo proseguendo nello studio di questi schemi stabiliti di instabilità quando
mi imbattei in settori occasionali di tessuti variegati che mostravano un tasso
diverso da quello della pianta in generale. Si trattava di due settori adiacenti,
originati da due cellule sorelle, che mostravano un rapporto inverso nei
rispettivi tassi di mutazione. Mollai ogni altra cosa!
Ci doveva essere, durante lo sviluppo, un cambiamento tale per cui si
formavano due cellule sorelle che davano origine a due settori adiacenti, lato
contro lato, in cui la modalità di azione del gene di cui si vedeva l’espressione
era molto diversa da quella di partenza. Ed era diversa anche nelle due cellule
sorelle. In una la frequenza veniva fortemente aumentata, nell’altra molto
ridotta… Doveva succedere qualcosa, in una mitosi precoce, per dare origine
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a uno schema così diverso. Era talmente evidente che mollai ogni altra cosa,
senza sapere… ma ero sicura di essere capace di scoprire che cosa perdeva
una cellula e che cosa guadagnava l’altra, perché questo era quello che
sembrava avvenire. E non riuscivo a togliermi dalla mente che quello che
guadagnava una cellula veniva perso dall’altra, e che io sarei riuscita a
scoprirlo.
Si trattava di un evento che portava alla differenziazione di due cellule, forse
proprio quel tipo di evento necessario per dare origine ai diversi tipi di tessuto
di un organismo. Da un simile punto di partenza, si poteva cominciare ad
immaginare una scienza della genetica dello sviluppo.
Mi ci vollero due anni per sapere che quello che stavo osservando era una
forma di rottura controllata (o di dissociazione) del cromosoma. Avevo la
risposta, e consisteva nel fatto che proprio vicino al gene responsabile del
colore c’era un componente e questo rispondeva, spostandosi, a un segnale
inviato da un altro elemeto. Lo chiamai sistema Ac Ds , cioè Attivatore
Dissociatore. Si trattava di un processo che portava alla liberazione di un
elemento cromosomico dalla sua posizione originaria e al suo inserimento in
una nuova posizione. La rimozione del pezzetto di cromosoma dal loco in cui
si trova il gene funzionale ne riattivava l’espressione.
Biografa: Quegli anni di indefesso lavoro, tra il 1944 e il ’51, culminarono
nella ‘scoperta’ di Barbara.
I ‘trasposoni’, i cosiddetti geni cavalletta, quegli elementi mobili del genoma
che a partire da vent’anni più tardi dovevano essere trovati ovunque, in ogni
genere di organismo.
Spostandosi e ricollocandosi nella sequenza del DNA, gli elementi trasponibili
operano sui geni funzionali, cioè quelli che ‘codificano’, come si dice, per le
proteine, e possono tacitarne, attivarne o ampliarne l’espressione. Essi
rimodellano il genoma, sono causa di riarrangiamenti dell’informazione
genetica e ne facilitano il movimento, portando, ad esempio, i batteri a
resistere agli antibiotici. Oggi si parla di genoma dinamico, fluido…
Nei casi più semplici, la trasposizione richiede solo due cose: un trasposone,
cioè il DNA che migra, e una trasposasi, l'enzima che taglia il DNA e lo sposta
in una diversa posizione. Il processo inizia quando due copie dell'enzima si
legano al DNA ai due capi del trasposone. I due capi vengono poi avvicinati
tra loro fino a formare una struttura ad anello. E’ a questo punto che la
trasposasi taglia il DNA in corrispondenza dei due capi e cerca nel genoma una
nuova posizione dove inserire il segmento reciso.
E’ questo, tradotto nel linguaggio della biologia molecolare, un linguaggio di cui
Barbara non disponeva ancora, il ‘meccanismo’ da lei individuato.
(La lunga digressione che segue non è pronunciata dalla biografa, ma ancora
dalla voce fuori campo. Essa accompagna il microdocumentario con cui si
cerca di rendere conto del clima storico che accompagna e segue la scoperta
della struttura del DNA sottolinenando l’inconciliabilità fra il ‘dogma centrale’
lanciato da Crick e le posizioni della McClintock)
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Nel 1949 Barbara fu certa che il fenomeno della trasposizione avveniva
realmente
In quello spegnersi e accendersi di geni sottoposto al diretto controllo della
cellula, Barbara vide la possibilità di spiegare il differenziamento cellulare.
Mostrare come la cellula germinale possa generare tessuti diversi.
Per lei era inadeguato il concetto classico di gene che la gran parte della
ricerca continuava a ritenere una realtà materiale, discreta e definita
Era chiaro che non si aveva a che fare con geni in sé, ma con sistemi
organizzati, che funzionano come delle unità in ogni particolare momento dello
sviluppo.
Fu questo il risultato che presentò al Simposio di Cold Spring, con l’esito che
ormai sappiamo.
Ma mentre nel 1951il problema di ‘definire’ il gene - che cos’era ? come e di
che cosa era fatto ? - rimaneva ancora aperto e tutto si muoveva all’interno di
un’aspra contesa, gli anni seguenti videro l’ostracismo colpire quanti, come
Barbara, si erano incamminati nel solco sbagliato.
Quella che era stata una fredda accoglienza si trasformò in aperta ostilità.
Il cordone sanitario intorno a Barbara divenne così impenetrabile da lasciarla
totalmente isolata, al punto che smise praticamente di pubblicare.
Con il 1953 il reato d’ opinione di Barbara McClintock si era infatti mutato in
un’eresia, che la trasformava in un paria della ricerca.
Il programma ambizioso di un’intera generazione di giovani scienziati, svelare
le leggi fisiche e la struttura molecolare del gene, si era ormai realizzato di
colpo come il trionfo del secolo e, anche, come il maggiore tributo alla dottrina
tradizionale dell’inviolabilità e impermeabilità dei geni.
Quando nel 1952 venne dimostrato in modo incontrovertibile che i geni erano
fatti di DNA tutto procedette in fretta.
L’ anno dopo, Jim Watson e Francis Crick annunciavano al mondo la scoperta
della ‘doppia elica’, scoperta che rendeva possibili risposte semplici a molteplici
domande circa i meccanismi dell’ereditarietà.
L’entusiasmo arrivò alle stelle, sembrò che il mistero della vita fosse svelato!
L’informazione era contenuta nella sequenza di poche basi nucleotidiche.
Quattro
La sequenza era il codice.
Un lungo nastro di triplette in cui a ciascuna corrispondeva un aminoacido.
Ordinato, semplice, elegante.
Si trattava di un risultato straordinario, ma l’interpretazione della nuova
scoperta riproponeva un punto di vista che Barbara aveva già rifiutato,
schierandosi contro l’idea dei geni come singoli oggetti materiali.
Se le unità funzionali del genoma erano segmenti di DNA, speciali parole di
senso compiuto composte da una sequenza di precise lettere, il loro significato
doveva rimanere lo stesso qualunque fosse la posizione nel cromosoma.
Non c’era nessuna novità, da questo punto di vista, rispetto al passato.
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Si trattava ancora di una teoria ‘locale’, della stessa razza di quella dei geni
‘grani di una collana’. La trasposizione esigeva effetti ‘non-locali’: gli elementi
genetici non solo cambiavano di posizione, ma in ciascuna nuova posizione
veniva espressa una nuova funzione.
Per Barbara questo significava una cosa sola; che l’informazione genetica non
era contenuta nel gene in quanto tale, ma veniva creata man mano da un
insieme interagente di unità, che chiamava in causa l’intera cellula,
l’organismo, forse addirittura l’ambiente stesso.
Ma alla luce di quanto stava avvenendo, l’ insistere con queste affermazioni la
poneva sempre più al di fuori della scienza.
Il suo tornare di continuo ai misteri dell’accrescimento aveva un che di
patetico, perché secondo i sacerdoti del cosidetto “dogma centrale”, non
esisteva più alcun enigma.
La struttura del DNA era stata definita come una sequenza fissa e lineare di
unità semplici in cui erano già contenute tutte le potenzialità dell’organismo.
Le informazioni vitali, codificate nelle stringhe di DNA, venivano copiate
nell’RNA, e quest’ultimo utilizzato come ‘programma’ per la produzione delle
proteine responsabili dei tratti genetici: un processo a senso unico, che non
permetteva interferenze.
Questa era la sostanza del ‘dogma’ che Francis Crick impose a chiunque
volesse affacciarsi sulla scena della genetica. Esso condizionò per anni lo
sguardo di buona parte dei suoi interpreti sotto forma di quelle che Barbara
definiva “tacite assunzioni”, le quali presupponevano l’ implicita adesione a un
modello dato:
«… l’informazione genetica è completamente indipendente da eventi che
capitano al di fuori o persino al di dentro della cellula. Nessuna informazione
proveniente dall’esterno, di nessun genere, può mai penetrare nel messaggio
genetico ereditabile».
Oggi sappiamo che non è vero.
Basti dire che se Crick avesse avuto ragione non esisterebbero retrovirus come
l’HIV che funzionano grazie alla trascrizione inversa, che permette la sintesi di
un filamento di DNA a partire dall’RNA virale.
Se così fosse oggi non si parlerebbe di trasmissione genetica orizzontale.
I geni per l'antibiotico-resistenza in linea di principio possono superare il limite
di specie, di genere e, risalendo la gerarchia tassonomica, perfino quello di
regno.
E se l’informazione fosse contenuta esclusivamente in un DNA immune da
qualsiasi influenza, perché nella clonazione soltanto un nucleo impiantato in un
ovocita sviluppa un embrione, mentre il medesimo nucleo, una volta messo in
una cellula somatica, genera sempre e solo altre cellule somatiche ?
(Conclusasi la parte riservata alla voce fuori campo, la parola e il video
ritornano alla biografa)
Biografa: Fu la genetica molecolare stessa che, ad un certo punto, dovette fare
i conti con i propri iniziali presupposti e l’idea di un controllo sull’attività del
gene strutturale cominciò infine a farsi strada.
9
Alle soglie degli anni sessanta due scienziati francesi, Jacob e Monod,
proposero il modello dell’ ’operone’, il quale pur non intaccando il presupposto
base dell’unidirezionalità, attribuiva alle proteine e ad altre sostanze chimiche
la possibilità di influenzare l’entità del flusso dell’informazione.
Barbara, leggendo il loro primo articolo su ‘Comptes Rendus’, nel 1960, ne fu
entusiasta. Finalmente , dopo un decennio di completa frustrazione, uno
spiraglio. Le somiglianze tra le sue idee di controllo e regolazione e il lavoro di
Jacob e Monod le sembravano sorprendenti; come lei anche loro erano giunti a
identificare due elementi, uno adiacente al gene strutturale e l’altro situato in
un locus indipendente.
Non vi era però trasposizione; una differenza che la condannava ad essere
nuovamente delusa: mentre la teoria dei francesi si preparava ad una calda
accoglienza, il suo lavoro continuò a sperimentare le acque morte
dell’incomprensione.
McClintock live:
L’idea di trasposizione rimaneva indigesta. Perché? I biologi conoscevano
bene la trasduzione; ormai avevano accettato l’idea che il DNA virale si
integrasse in quello batterico per poi liberarsene portandosene appresso dei
pezzetti. Che differenza c’era con l’emissione e l’inserzione di pezzi del DNA
residente?
Loro non sapevano di essere legati a un modello ed era impossibile farglielo
vedere… anche facendo uno sforzo.
Il pericolo più grande è la presunzione di spiegare ogni cosa sulla base di ciò
che si pensa di sapere. Ecco perché trovo così irritante quando si cominciano
a promulgare modelli. Nell’entusiasmo si scambia il modello per la realtà!
La teoria dell’operone era ben lontana dallo spiegare ogni forma di
regolazione. Ciò che è vero per l’Escherichia Coli non necessariamente lo è
per l’elefante.
Gli eucarioti sono fatti di un gran numero di cellule, e non ci sono due cellule in
parti diverse dell’organismo che facciano la stessa cosa. Perciò ci devono
essere dei controlli che sono molto diversi da quelli che si trovano nei batteri.
Gli organismi possono fare un sacco di cose; fanno cose fantastiche. Fanno
tutto quello che facciamo noi, e lo fanno meglio, con più efficienza,
meravigliosamente… cercare di fare rientrare tutto in un dogma prestabilito
non funziona… Non esiste un dogma centrale in cui tutto combacia. Qualsiasi
meccanismo si possa inventare si finisce per trovarlo, anche se riflette il più
bizzarro dei modi di pensare. Qualunque cosa… anche se non sembra troppo
sensata, la si può trovare… Così se il materiale ti suggerisce ‘le cose stanno in
questo modo’, occorre dargli credito. Non bisogna rifiutarlo chiamandolo ‘un
eccezione’, ‘un’aberrazione’, ‘un contaminante’…
Questo è quello che è successo spesso a tante ottime intuizioni.
La mia impressione è che un sacco di ricerca venga fatta perché si vuole
imporre una risposta. La risposta è già pronta e si accetta solo il materiale
che dia proprio quella risposta. Qualunque altra cosa emerga dagli
esperimenti non la si riconosce, o si pensa che sia un errore e la si scarta.
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Intervistatore: Perciò era necessario che fosse la biologia molecolare a
riscoprire il fenomeno della trasposizione ?
Biografa: Sì, fu esattamente quello che accadde.
A partire dalla metà degli anni Sessanta cominciarono ad accumularsi risultati
sperimentali che mettevano in dubbio la stabilità del genoma e l’idea di un
riarrangiamento sembrò diventare meno peregrina. Furono trovati segmenti
specifici di DNA che si recidevano e si reinserivano nella catena nucleotidica e
che facendo ciò sembravano in grado di accendere e spegnere geni.
Nel frattempo, da quel famigerato ’51, erano passati più di vent’anni e
rimaneva aperta una questione spinosa. Se la trasposizione in quanto tale
non era più in dubbio, ormai era un fatto accertato, ben altra cosa si poteva
dire del suo reale significato. Per Barbara si aveva a che fare con elementi di
controllo che rispondevano in modo intelligente ai bisogni della cellula, per i
genetisti molecolari si trattava invece di un fenomeno da confinare tra le
aberrazioni e poteva avere al massimo conseguenze evolutive.
Le cose cambiarono solo quando i biologi spostarono la loro attenzione sui
sistemi eucariotici, accettando il dato di fatto che un batterio non è un
elefante, che l’Escherichia Coli o la Salmonella sono e rimangono degli
organismi unicellulari.
In breve cominciò a farsi strada l’idea che la ricombinazione potesse rientrare
tra i processi del normale sviluppo eucariotico.
Intervistatore: E Barbara McClintock venne riabilitata.
Biografa: Nei tardi anni Settanta le tesi di Barbara McClintock conobbero un
vero rinascimento, tanto che lei stessa cominciò a sentirsi confortata da questo
nuovo corso e decise di affrontare pubblicamente un ulteriore aspetto della
trasposizione.
Barbara si appuntò sull’idea che esistesse un meccanismo innato di
ristrutturazione del genoma che veniva attivato in presenza di eventi
traumatici. In particolare pensava a strumenti, che gli organismi avevano
selezionato nel corso del tempo, di risposta agli stress esterni ed interni.
Incidenti interni alla cellula, infezioni virali, incroci, veleni, alterate condizioni
ambientali, dovevano avere l’effetto di risvegliare innumerevoli elementi
trasponibili rimasti silenti e in grado di produrre nel genoma cambiamenti a
vari livelli, fino ad arrivare a grosse modificazioni di ampi segmenti dei
cromosomi. Si era di fronte al tentativo dell’organismo di riprogrammarsi
quando le circostanze avverse ne mettevano in pericolo la sopravvivenza.
Secondo le audaci tesi di McClintock, drastici mutamenti ambientali potevano
essere alla base del sorgere di nuove specie o persino di nuovi generi.
Un simile quadro implicava un concetto di variazione genica né accidentale né
finalizzata e che tendeva a una comprensione del fenomeno dell’evoluzione che
trascendeva sia Lamarck che Darwin.
Sulla scia delle idee di Barbara, Evelyn Witkin, che a Cold Spring era stata
forse l’unica a mostrare un vivo interesse per il suo lavoro, giunse a collegare,
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nei suoi studi con Miroslav Radman, ricombinazione e riparazione, suggerendo
l’esistenza di un meccanismo di riparazione tendente all’errore. Questo
meccanismo fu chiamato “riflesso SOS” ed è in grado di generare, quando la
cellula si trova in grave pericolo, un alto tasso di mutazioni, che hanno il solo
scopo di mantenerla in vita.
Il sistema ‘SOS’ è in grado di bloccare temporaneamente tutti gli altri
meccanismi preposti alla riparazione e al controllo del DNA, per poi tornare al
suo normale stato represso quando la regione lesa è stata scavalcata,
sostituita o scambiata con una omologa e vicina.
E’ proprio grazie a risultati come questi se stabilità e mutabilità risultano oggi
essere due facce della stessa medaglia.
Intervistatore: Perciò si potrebbe usare come titolo «Barbara McClintock, una
storia a lieto fine » !
Biografa: Indubbiamente sì ! Alla soglia degli ottant’anni era diventata una
specie di star ! Proprio lei…rincorsa da riconoscimenti, titoli e premi !
Abituata a fare i conti con budget ristrettissimi, Barbara si ritrovò letteralmente
coperta di denaro e con in mano il più ambito dei riconoscimenti: il Premio
Nobel.
Ben presto però sancì che tutta quell’attenzione, e tutta quanta in una sola
volta, era decisamente eccessiva ! Dichiarò ripetutamente di non amare la
pubblicità e di voler essere lasciata in pace, nel suo laboratorio.
Uno strano destino per una persona che, nonostante i suoi sforzi di farsi
ascoltare, era stata ignorata per decenni.
Oggi sappiamo che seppe vedere più lontano e più in profondità dei suoi
colleghi ed è attraverso vicende come la sua che possiamo esplorare le
condizioni entro cui si manifesta il dissenso in campo scientifico, le funzioni cui
esso assolve e la pluralità di valori e di scopi che mette in luce. In uno stesso
periodo storico non tutti gli scienziati cercano lo stesso tipo di spiegazioni e
nemmeno le domande che vengono poste sono mai le stesse.
Barbara si concentrò su tutto ciò che è caratteristica individuale, su ciò che
costituisce una differenza. La sua stessa vita si nutrì di quella differenza che
fu la stella polare del suo lavoro, disegnando un percorso fuori dal comune,
libero e indipendente.
Intervistatore: Sappiamo che la Professoressa McClintock è deceduta.
dirci quando ?
Può
Biografa: Sì…Barbara McClintock morì il 2 settembre 1992 all’età di
novant’anni.
(segue scambio di battute offline in video)
Intervistatore ai cameramen: Ok…stacca !
Biografa: Allora, come è andata ? Tutto bene ?
Intervistatore: Direi bene, direi bene…
Biografa: Se vuole avere altre informazione possiamo risentirci.
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Intervistatore: Possiamo tenerci in contatto per e-mail se è d’accordo…
(qui l’audio dell’intervista sfuma nella parte musicale che accompagna il finale)
McClintock live:
Occorre avere il tempo di guardare, la pazienza di “ascoltare ciò che le cose
hanno da dire”, occorre avere l’apertura mentale di “lasciarle venire da te”. E
soprattutto occorre sentirsi in sintonia con l’organismo. Si deve capire come
ogni organismo cresce, capirne le parti, capire quando succede qualcosa di
sbagliato. Un organismo non è un pezzo di plastica, è qualcosa in costante
relazione con l’ambiente, che durante la sua crescita rivela in continuazione
attributi e infermità. Si deve essere consapevoli di tutto questo… Occorre
conoscere la pianta così bene che se qualcosa cambia… puoi guardarla e
sapere subito da dove ha origine il danno che vedi. Occorre sentirsi in
sintonia con ciascuna singola pianta perché non esistono due piante
esattamente uguali. Ciascuna è diversa e di conseguenza è necessario saper
riconoscere quella differenza.
Le irregolarità o le sorprese sono indizi della grande complessità dell’ordine
effettivo della natura.
L’organismo ci sorprende sempre! Elude le nostre aspettative!
Ricordo i primi studi, dopo la guerra, sugli effetti delle radiazioni in Drosophila.
Risultò che i moscerini che erano stati esposti costantemente ai raggi erano più
vigorosi di quelli normali. Beh, era comico; andava assolutamente contro
tutto quello che si era pensato prima. A me è parso buffissimo e ne ero
deliziata!
A volte mi viene da pensare alle galle, a come lo stimolo associato all’impianto
dell’uovo dell’insetto nella foglia, inizi a riprogrammare il genoma della pianta,
forzandolo a creare una struttura adatta ai bisogni e allo sviluppo dell’insetto
stesso. E ogni tipo d’insetto produce la sua specifica galla. La vite, ad
esempio, può produrne contemporaneamente di tre tipi diversi.
Sappiamo così poco delle potenzialità del genoma !
Ad esempio molte colture tissutali di piante sviluppano nuovi individui e, in
alcuni casi, diversi individui a partire da una singola cellula iniziale o tessuto
isolato.
Non bisogna sottovalutare la flessibilità degli organismi viventi. Io non l’ho
mai fatto.
La scoperta dell’instabilità genetica e della flessibilità ci costringe a riconoscere
la splendida integrazione dei processi cellulari, tipi di integrazione che sono
semplicemente incredibili per il nostro modo di pensare vecchia maniera. Noi
siamo al centro di una rivoluzione che riorganizzerà il modo di guardare le
cose, il modo di fare ricerca. E io non vedo l’ora. Perché penso che sarà
meraviglioso, semplicemente meraviglioso. Avremo una comprensione
completamente nuova del rapporto che le cose hanno l’una con l’altra.
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