UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” “QUANDO LA SPESA SOCIALE FAVORISCE LA COMPETITIVITÀ? UN MODELLO DEI COSTI E DEI BENEFICI DEL WELFARE SULL’EFFICIENZA ECONOMICA” Federico Tomassi Supervisor: Prof. Nicola Acocella, Università di Roma “La Sapienza” Partner Supervisors: Prof. Maite Montagut, Universidad de Barcelona Prof. Hans-Peter Müller, Humboldt Universität Anno accademico 2003-04 Indice 1. Introduzione ..................................................................................................... 4 2. Il paradigma dello sviluppo umano e il sistema di relazioni tra welfare, economia e società ................................................................................................ 11 2.1 Il trade-off tra equità ed efficienza ........................................................... 11 2.2 Un nuovo paradigma dello sviluppo umano ............................................. 14 2.3 Il sistema di relazioni tra welfare, economia e società ............................. 18 3. Welfare ed economia: relazioni dirette ......................................................... 24 3.1 Il costo della non politica sociale ............................................................. 24 3.2 Le varietà del capitalismo ......................................................................... 28 4. Welfare ed economia: relazioni indirette mediate dalla società .................. 33 4.1 Il soddisfacimento dei bisogni sociali ...................................................... 33 4.2 Capacità e funzionamenti ......................................................................... 38 4.3 Il welfare come fattore produttivo ............................................................ 39 5. Welfare e competitività internazionale nell’era globale ............................... 45 5.1 Le pressioni contrastanti sul welfare ........................................................ 45 5.2 I fattori di competitività ............................................................................ 50 5.3 I percorsi di crescita dei paesi avanzati .................................................... 53 6. Una formalizzazione analitica del modello ................................................... 58 6.1 Gli obiettivi ............................................................................................... 58 6.2 Le ipotesi .................................................................................................. 62 6.3 Il modello teorico ..................................................................................... 65 6.4 Le variabili strutturali ............................................................................... 73 6.5 Un’applicazione del modello: il declino italiano...................................... 78 6.6 Analisi in componenti principali: effetti economici della spesa sociale .. 82 6.7 Verifica econometrica: variabili strutturali e spesa sociale ...................... 93 7. Considerazioni conclusive ........................................................................... 102 Bibliografia ......................................................................................................... 107 Elenco di figure, grafici e tabelle Figura 2.1 - Trade-off tra efficienza ed equità ....................................................... 11 Figura 2.2 - Relazioni biunivoche tra welfare, società ed economia ..................... 18 Figura 5.1 - Contrasto tra breve e lungo periodo nella domanda e offerta di welfare ............................................................................................................. 50 Figura 5.2 - Relazione tra welfare e competitività nell’era globale ....................... 51 Figura 6.1 - Capacità di innovazione e imitazione in funzione della spesa sociale totale ................................................................................................................ 70 Figura 6.2 - Benefici e costi marginali in funzione della spesa sociale totale ....... 71 Figura 6.3 - Effetto dell'aumento del grado di globalizzazione su benefici e costi marginali ......................................................................................................... 72 Figura 6.4 - Effetto del declino economico italiano su benefici e costi marginali 80 Figura 6.5 - Spesa sociale pubblica in funzione della spesa totale ........................ 89 Figura 6.6 - Disagio sociale in funzione del livello della spesa sociale pubblica.. 92 Grafico 2.1 - Differenza tra stato sociale e spesa sociale totale netta (% del Pil, 1997) ............................................................................................................... 20 Grafico 2.2 - Trend degli indici di benessere in alcuni paesi Ocse (variaz. % totale 1980-99) .......................................................................................................... 23 Grafico 5.1 - Trend della spesa sociale pubblica (% del Pil, 1991-2000) ............. 49 Grafico 6.1 - Pesi delle variabili socio-economiche sulle prime due componenti dell’Acp ........................................................................................................... 85 Grafico 6.2 - Punteggi sulle prime due componenti dell'Acp ................................ 85 Grafico 6.3 - Relazione tra competitività e spesa sociale totale netta ................... 87 Grafico 6.4 - Relazione tra innovazione e spesa sociale totale netta ..................... 87 Grafico 6.5 - Relazione tra spesa sociale pubblica e spesa totale .......................... 89 Grafico 6.6 - Relazione tra indice di povertà umana (HPI-2) e pressione fiscale . 92 Grafico 6.7 - Effetti fissi della dimensione sezionale (paesi) sulla spesa sociale pubblica lorda .................................................................................................. 97 Tabella 6.1 - Proxy delle variabili strutturali del modello per alcuni paesi Ocse .. 76 Tabella 6.2 - Spesa sociale per alcuni paesi Ocse (% del Pil, 1997) ..................... 78 Tabella 6.3 - Variabili inserite nell'Acp e loro pesi sulle prime due componenti.. 84 Tabella 6.4 - Regressione della spesa sociale pubblica lorda sulle variabili strutturali ......................................................................................................... 95 3 1. Introduzione* Esiste un’ampia letteratura sugli effetti della protezione sociale e del welfare state sulla competitività e sull’efficienza economica. La posizione dell’ortodossia economica vede nel welfare, e in particolare nel suo pilastro pubblico, un costo che è sempre più pesante per delle economie sempre più globali ed è quindi sempre più difficilmente finanziabile. Tuttavia la teoria mostra differenti effetti secondo le differenti ipotesi sul ruolo della spesa sociale, mentre le analisi empiriche portano a risultati non conclusivi, spesso non significativi o, al contrario, irrealistici. Non esiste né evidenza teorica o empirica del trade-off tra equità ed efficienza, né prove di una complementarità indubitabile sempre e ovunque, perché la struttura del welfare conta, oltre che il suo livello [Atkinson 1999, Lindert 2004]. Quindi questo lavoro si propone piuttosto di dare un contributo teorico e analitico a favore di una visione complessa delle relazioni tra welfare e competitività, in cui il primo, attraverso numerosi canali, può favorire la seconda e ne può anzi essere un presupposto indispensabile, secondo le istituzioni economiche, sociali e politiche di un paese e la sua posizione nel sistema globale di scambi. Contribuire a una visione contingente significa studiare le condizioni strutturali sotto le quali la spesa sociale favorisce l’efficienza economica e la competitività internazionale, o al contrario le danneggia [Gough 1996]. E’ una questione decisiva per dare risposte teoricamente e analiticamente fondate al dibattito su come rispondere ai nuovi bisogni che emergono nella * Desidero ringraziare Nicola Acocella per il suo impegno come mio tutor e relatore; Elke KochWeser e Carla Angela senza la cui passione il SESS EuroPhD non sarebbe mai nato e cresciuto; Jean-Jacques Droesbeke e Maite Montagut che hanno orientato i miei semestri di studio a Bruxelles e Barcellona; Hans-Peter Müller per il suo commento; Maurizio Franzini, Luciano Milone, Sergio Scicchitano e Massimiliano Tancioni per i numerosi consigli e indicazioni utili. 4 società e come affrontare le sfide poste dalle grandi trasformazioni epocali in atto, ossia la globalizzazione delle economie, la rivoluzione informatica e il passaggio alla produzione post-industriale (“informazionale”), la transizione demografica e la fine della struttura familiare tradizionale. Globalizzazione e informatizzazione rendono ogni singolo stato nazionale più dipendente dall’esterno e più attento alla variabile competitività, e quindi lo pongono di fronte a scelte alternative di sviluppo socio-economico. La visione ortodossa, fondata sul trade-off tra equità ed efficienza, è che lo stato sociale è sempre più difficile da sostenere tramite un sistema fiscale nazionale soggetto alla mobilità del capitale e delle imprese al di là dei suoi confini, e capace solo di fissare autonomamente la tassazione sui redditi poco mobili come il lavoro. Si dovrebbe allora limitare lo stato sociale e delegare compiti alla libera contrattazione di mercato, che per di più, se liberato dai costi fiscali e dai vincoli regolativi, potrebbe meglio ridurre i disincentivi, accrescere gli incentivi e favorire la crescita economica e di conseguenza il soddisfacimento dei bisogni sociali. Ma questa è una posizione fondata generalmente su ipotesi limitative, che non corrispondono alla realtà e che non mettono in luce i rapporti che intercorrono tra variabili economiche e sociali anche nel lungo periodo, privilegiando le questioni di sostenibilità finanziaria del welfare nel breve periodo. Tale visione non tiene conto che in gran parte dei mercati non c’è concorrenza perfetta e anzi esistono fallimenti e asimmetrie informative che pregiudicano la possibilità di assicurare i cittadini dai rischi crescenti a cui sono esposti senza un adeguato ruolo della protezione pubblica, e che porterebbe a una crescita della spesa sociale privata, più distorsiva e meno efficace. Appaiono crescenti evidenze delle mancanze del mainstream economico, che si è concentrato sull’idea del trade-off tra equità ed efficienza mantenendo separate l’economia e la società, e leggendo nel welfare state solo l’aspetto della redistribuzione (“Robin Hood”) e non anche l’aspetto dell’efficienza (“Piggy Bank”) [Barr 2001]. E’ possibile, al contrario, mostrare come la protezione sociale sia, attraverso numerosi canali, un fattore e un prerequisito essenziale della competitività, se 5 possibile ancora di più oggi nel mondo globale che in passato. Se un paese avanzato fonda la sua crescita più sulla ricerca della competitività di qualità che di prezzo, i fattori di tale competitività dipendono dalla disponibilità di strumenti di protezione sociale che favoriscano direttamente o meno il capitale umano e sociale, la diffusione della creatività e dell’innovazione, la propensione al rischio, la stabilità macroeconomica e socio-politica. A tale fine vanno legati su un piano interdisciplinare fenomeni economici e sociali che abitualmente vengono considerati in ambiti teorici distinti e che invece formano un’inseparabile unità e identità, coniugando strumenti di analisi economica, sociologica e statistica. Sulla base di questa impostazione, sono due gli obiettivi del presente lavoro. 1) Proporre una rassegna delle relazioni a livello micro e macro tra welfare, società ed economia alla luce dei più recenti contributi, sia di economisti che di sociologi, definendo un sistema di legami biunivoci, complessi e dinamici tra queste tre dimensioni. In tale schema i programmi di protezione sociale possono essere legati positivamente sia ai risultati sociali, sia alla performance economica, e di conseguenza ai fattori di competitività internazionale. Gli approcci più utili sembrano essere il “costo delle non politiche sociali” [Begg et al. 2003, Fouarge 2003] e le “varietà del capitalismo” [Hall e Soskice 2001, Pierson 2001], insieme alle teorie a cavallo tra economia e sociologia di Amartya Sen [1992, 1999] e di Gøsta Esping Andersen [1996, 1999], nonché la lucidissima analisi delle trasformazioni economiche e sociali di Manuel Castells [2000]. 2) Suggerire, tramite una formalizzazione analitica e un’analisi empirica, elementi utili per rispondere ad alcuni fatti stilizzati che nel mainstream rimangono senza una spiegazione soddisfacente: sono fortemente innovatrici e progressive sia le economie con un welfare residuale (o liberale) come gli Stati Uniti, sia le economie scandinave con un welfare universale (o socialdemocratico); i paesi avanzati hanno livelli di tassazione e di stato sociale molto differenti tra loro, senza nessuna evidenza empirica di convergenza verso un livello medio o minimo; i grandi cambiamenti economici, tecnologici e sociali in corso 6 (globalizzazione, rivoluzione informatica e transizione demografica) non stanno influenzando significativamente i livelli di tassazione e di spesa sociale nei paesi avanzati; i paesi in ritardo, come l’Italia, corrono il rischio di rimanere intrappolati in un declino economico caratterizzato da una ridotta crescita dell’economia, da una scarsa diffusione di capacità innovative e da un forte sottoutilizzo di risorse umane (giovani, donne, uomini over 50). La tesi che verrà sostenuta è che il sistema di welfare, come un “investimento sociale” che si finanzia oggi per ottenerne benefici nel futuro più o meno prossimo, è decisivo nel fornire al sistema economico i fattori produttivi dei quali necessita [Esping Andersen 2002]. La sua struttura e la sua efficacia è essenziale per sostenere la competitività internazionale di un paese (in particolare quella non di prezzo), che diventa sempre più centrale nelle decisioni di politica economica a seguito del processo di globalizzazione. Di conseguenza, per accrescere la competitività serve non aumentare o ridurre la spesa sociale, ma ridisegnare l’architettura del sistema di welfare ponendo al centro una prospettiva integrata del ciclo di vita degli individui. Una struttura di welfare migliore che riduca i problemi di sostenibilità finanziaria, favorendo la specializzazione produttiva nei settori ad alta tecnologia e innovazione, accrescendo la spesa sociale per investimenti produttivi e l’efficacia della spesa stessa, ricomponendo il legame tra i costi nel breve periodo e i benefici nel lungo. Altrimenti esiste la seria possibilità che un paese come l’Italia si avvii pericolosamente verso una fase di declino economico che punta alla competitività di prezzo (in concorrenza con i paesi meno sviluppati), e non verso la competitività di qualità, in concorrenza con gli altri paesi sviluppati sulla base della qualità delle merci e dell’innovazione incorporata in esse. In altre parole, le intime relazioni tra welfare, economia e società, in un mondo che cambia profondamente struttura tecnologica, industriale e familiare, richiedono nuove forme di equilibrio per continuare a garantire il soddisfacimento dei bisogni nella sfera sociale e l’efficienza produttiva nella sfera economica. Tale 7 equilibrio si potrà fondare solo su un sistema di welfare adeguato ai cambiamenti, qualitativamente diverso da quello esistente nei diversi paesi avanzati oggi: è la struttura del welfare che conta, più o meno orientato verso spese produttive e non distorsive, oltre al livello assoluto di spesa. Quindi, rispetto al tradizionale trade-off efficienza-equità, dove la ricerca dell’equità è sempre in contrapposizione con i costi che essa comporta in termini di efficienza, sarà privilegiato il cosiddetto “paradigma dello sviluppo umano”. Un paradigma, crescente nella letteratura economica, fondato sulla complementarità tra giustizia sociale e competitività, in cui l’equità favorisce l’efficienza perché la protezione sociale, tramite differenti canali, risulta essere un vero e proprio fattore produttivo [Sen 1992, 1999]. L’interesse del presente lavoro è appunto quello di esplorare la possibilità di applicare il paradigma dello sviluppo umano tramite un modello analitico che descrive gli aspetti contraddittori della protezione sociale rispetto all’efficienza economica. L’ipotesi di base è che il ruolo del welfare sia duplice: da un lato, nel breve periodo, è un costo finanziario soprattutto per i settori economici tradizionali, mentre dall’altro lato, nel medio-lungo periodo, è un investimento in particolare per i settori innovativi e creativi. Tali benefici possono essere direttamente rivolti a migliorare l’efficienza economica, oppure indiretti, tramite l’equità, le capacità e i funzionamenti che gli individui ottengono grazie ai programmi di welfare. Tralasciando gli effetti prettamente sociali, vanno analizzati congiuntamente i costi e i benefici sull’efficienza economica, in modo da definire sotto quali condizioni i benefici di medio-lungo periodo sono maggiori dei costi di breve periodo. In altre parole, sotto quali condizioni livelli elevati di spesa sociale sono compatibili con altrettanto elevati livelli di competitività internazionale. I valori di alcune variabili strutturali dell’economia, differenti per paese e per periodo, determinano l’equilibrio tra costi e benefici marginali: la distanza dalla frontiera economica, la frazione di spesa sociale produttiva sul totale della spesa, il grado di globalizzazione economica, l’efficacia della spesa sociale, il tasso di sconto dei rendimenti futuri attesi degli investimenti sociali rispetto ai costi immediati. 8 Diversamente dalle analisi abituali, qui vengono utilizzate delle definizioni ampie sia del welfare che della competitività. Il welfare è inteso come un sistema composto da spesa pubblica sociale, spesa privata degli individui e cura informale nella famiglia o nella comunità, nell’accezione proposta da Esping Andersen [1996, 1999]. Quindi il reddito disponibile dei lavoratori è definito come somma del salario monetario, del salario sociale (servizi pubblici più trasferimenti monetari) e dei benefici aziendali derivanti da assicurazioni sociali non obbligatorie contrattate con le imprese [Standing 1999]. La competitività è strutturale, ossia non è definita come la capacità di esportare in mercati concorrenziali, ma come la capacità di garantire nel lungo periodo redditi elevati e crescenti in economie esposte alla concorrenza internazionale [Pfaller et al. 1991]. Inoltre grande attenzione è rivolta all’orizzonte di lungo periodo delle decisioni di investimento sociale, rispetto ai vincoli di breve-medio periodo dei loro costi di finanziamento, poiché il welfare è un investimento che impone costi immediati, ma allo stesso tempo permette benefici differiti nel tempo. Ed è infine necessario considerare insieme i legami micro e macroeconomici, perché il welfare dal lato micro rappresenta domanda e offerta di servizi e trasferimenti per singoli individui e imprese, ma dal lato macro, contemporaneamente, è un fattore produttivo per l’economia nel suo complesso, e in particolare un fattore della competitività internazionale. L’esposizione è organizzata come segue. Nel capitolo 2, dopo un accenno al concetto di trade-off tra equità ed efficienza, i fondamenti di un nuovo paradigma dello sviluppo umano e l’introduzione dello schema di relazioni biunivoche tra welfare, economia e società, con la sintesi degli obiettivi economici e sociali in termini di benessere sociale. Il capitolo 3 analizza le relazioni dirette tra welfare ed economia, grazie ai recenti approcci del costo della non politica sociale e delle varietà del capitalismo. Nel capitolo 4 segue l’analisi delle relazioni indirette tra welfare ed economia, mediate dalle capacità e dai funzionamenti che la società ottiene dal sistema di welfare, ma che al tempo stesso sono veri e propri fattori produttivi. Il capitolo 5 è dedicato alle trasformazioni socio-economiche in corso e 9 alle conseguenti pressioni contrastanti sul welfare, la cui domanda cresce al sorgere di nuovi bisogni, ma la cui offerta è limitata dalla difficoltà di finanziarlo. Nel mondo globale diventa centrale la competitività internazionale, che è in stretta relazione con gli elementi e la struttura del sistema di welfare. Infine nel capitolo 6 una formalizzazione analitica delle relazioni tra welfare e competitività, tramite un modello che rappresenta un’economia a due settori, uno orientato all’imitazione della frontiera tecnologica, e l’altro orientato all’innovazione. Emerge la duplice natura dello stato sociale e del sistema fiscale che ne è il corrispettivo, che sono costi nel breve periodo (in particolare per il settore imitativo) e “investimenti” nel medio-lungo periodo (soprattutto per il settore innovativo). E’ importante analizzare sotto quali condizioni l’equilibrio tra benefici e costi marginali può aversi a livelli elevati di welfare, sulla base delle variabili strutturali introdotte nel modello. Appare così il rischio per l’Italia di rimanere intrappolata in un circolo vizioso di bassa innovazione, bassa crescita e bassa natalità. L’evidenza empirica sembra portare supporto alla tesi, sulla base di un’analisi esplorativa in componenti principali degli effetti economici della spesa sociale e di un’analisi econometrica di panel delle variabili strutturali del modello come esplicative del livello di spesa sociale. 10 2. Il paradigma dello sviluppo umano e il sistema di relazioni tra welfare, economia e società 2.1 Il trade-off tra equità ed efficienza Nel mainstream economico le forme di protezione sociale, il soddisfacimento dei bisogni individuali e sociali e l’efficienza produttiva sono legati dal trade-off tra equità ed efficienza formalizzato per primo da Okun [1975]. Vuol dire che il welfare e quindi l’equità sociale sono in contrapposizione con l’efficienza economica, e più si aumentano i primi più si riduce la seconda. Il trade-off [Figura 2.1] è fondato sull’idea che gli incentivi economici dal lato dell’offerta di beni e servizi permettono di raggiungere gli obiettivi di efficienza economica, e questi a loro volta si diffondono garantendo la giustizia sociale, grazie alla diffusione dei benefici della crescita (trickle down). Figura 2.1 - Trade-off tra efficienza ed equità soddisfacimento dei bisogni SOCIETA’ (equità) diffusione dei benefici della crescita (trickle down) WELFARE relazione negativa (riduzione di risorse e crescita) ECONOMIA (efficienza) La ricerca dell’equità tramite intervento pubblico riduce il reddito nazionale e l’uso efficiente delle risorse, danneggiando proprio i destinatari dell’aiuto. Lo stato sociale è come un buco nero, un secchio bucato (leaky bucket) nel quale si disperdono le risorse accumulate dalla crescita economica, riducendo le dimensioni della “torta” mentre si cerca di rendere eque le “fette”: “[…] the conflict between equality and economic efficiency is inescapable” [Okun 1975: 120]. 11 I canali che spiegano l’effetto negativo del welfare sono essenzialmente quattro: i costi amministrativi della redistribuzione, la riduzione dello sforzo nel lavoro dei beneficiati, la riduzione degli incentivi a risparmiare e investire, la variazione delle preferenze e delle scelte indotte da tassazione e sussidi [Blank 2002]. In questo modo la spesa sociale diventa una delle cause di disoccupazione e povertà, e non più uno strumento per ridurle [Pennacchi 2003: §1]. Come ha affermato Esping Andersen [1996: 1] “Many believe that the welfare state has become incompatible with other cherished goals, such as economic development, full employment, and even personal liberty – that it is at odds with the fabric of advanced postindustrial capitalism”. La critica al welfare si basa dunque su motivazioni macro e microeconomiche [Montagut 2000: 119-122, Acocella et al. 2004: 172-176]. Tra le prime vi sono l’insostenibilità finanziaria rispetto alla crescita del debito pubblico e alle aspettative degli investitori internazionali, nonché l’onere sui prezzi di beni e servizi quando al contrario la globalizzazione impone una maggiore concorrenza internazionale e il rischio di dumping sociale. Tra le seconde vi sono la deresponsabilizzazione dell’individuo, che riduce la libertà rispetto allo sforzo (sia come scelta degli obiettivi, che come godimento dei risultati), e i fallimenti del non mercato, ossia le inefficienze che incontra l’intervento pubblico riguardo ai rapporti d’agenzia con la burocrazia e al condizionamento delle elezioni tramite il ciclo politico-elettorale. E’ evidente come i cambiamenti globali in corso incidono sulla sostenibilità della spesa sociale, sulla capacità di finanziarlo e sulla sua efficacia. Se il welfare danneggia l’efficienza economica, diventa ovvio tagliarlo sia per destinare quelle risorse a fini più efficienti, sia per ridurre i disincentivi e le distorsioni, aumentando quindi il reddito complessivo e creando migliori condizioni per la sua crescita. Inoltre, l’equità sociale si raggiungerebbe meglio, con meno distorsioni al sistema degli incentivi, tramite la diffusione dei benefici della crescita dai primi beneficiari (imprese e investitori) via via ai diversi strati sociali, sia pure nel corso del tempo e in misura differente. Tale posizione porta alla conclusione che dalla riduzione della protezione 12 sociale può derivare la crescita della competitività. Ma i numerosi lavori che si sono basati su questa visione sono molto riduttivi quanto a ipotesi e campo d’applicazione, considerando la protezione sociale non più di una redistribuzione di reddito da classi produttive a classi improduttive della popolazione: dai lavoratori ai pensionati [Alesina e Perotti 1997] oppure dagli individui di successo agli altri [Hassler et al. 2003]. In tali modelli non esistono le altre funzioni della spesa sociale (assicurazione ed efficienza), anzi a volte l’efficienza è dichiaratamente scartata dall’insieme degli obiettivi del welfare, che sembrerebbe limitato alla lotta contro la disuguaglianza e l’esclusione sociale [Bertola et al. 2000: cap.1]. In particolare, Alesina e Perotti [1997] analizzano le distorsioni che derivano dall’imposizione fiscale a scopo redistributivo in presenza di contrattazione collettiva nel mercato del lavoro. Nel loro modello, il welfare rappresenta solo un trasferimento di reddito da classi produttive a classi improduttive (i pensionati): un aumento di trasferimenti finanziato con imposte distorsive provoca l’aumento dei prezzi delle esportazioni e la riduzione della competitività (di prezzo), e a sua volta ciò porta alla riduzione dell’occupazione. Tale riduzione è tanto maggiore quanto più grande è il grado di centralizzazione della contrattazione sul mercato del lavoro, corrispondente all’inverso del numero di sindacati esistenti. Infatti l’aumento dei trasferimenti attraverso l’aumento delle imposte sul reddito provocherebbe l’aumento dei salari per la forza contrattuale dei sindacati e, quindi, la crescita dei prezzi delle esportazioni e la perdita di competitività. Ne consegue la riduzione delle esportazioni e dell’occupazione nel settore orientato all’estero, mentre l’aumento dei prezzi interni (superiore a quello dei prezzi delle esportazioni perché riguarda beni e servizi non soggetti alla concorrenza internazionale) determinerebbe la riduzione della produzione destinata all’interno e dell’occupazione anche in questo settore. E’ stato giustamente notato come “La tesi del dumping sociale accentua il ruolo della competitività di prezzo negli scambi internazionali e la logica di breve periodo. Questa impostazione spinge a considerare le spese di welfare come un aumento dei costi e una sottrazione di disponibilità finanziaria per gli 13 investimenti privati immediatamente connessi al ciclo produttivo” [Acocella et al. 2004: 175]. E ancora: “Inoltre, in questi modelli la spesa sociale è totalmente improduttiva (ha gli stessi effetti della spesa dei sovrani e delle corti settecentesche, su cui si soffermava Smith). Si ignora quindi totalmente la natura efficientistica, di superamento dei fallimenti di mercato, che deve essere riconosciuta alla spesa sociale” [Artoni 1999: 15]. In termini analitici, l’ipotesi del trade-off presuppone che l’economia si trovi sulla frontiera della curva di trasformazione, e quindi che ogni intervento pubblico rappresenti un gioco a somma zero che toglie a chi è più produttivo per redistribuire a vantaggio di chi lo è meno (“Robin Hood”). Ciò, a sua volta presuppone l’esistenza di un problema di scarsità fisica e sociale delle risorse, al contrario dell’impostazione keynesiana. Quest’ultima, invece, si fonda sulla possibilità di un intervento pubblico che incrementi l’uso sia del lavoro che del capitale, spostando così l’economia da un punto interno ad un punto verso la frontiera della curva di trasformazione [Cozzi e Zamagni 1992: 746-748]. 2.2 Un nuovo paradigma dello sviluppo umano Lindert [2004 vol.1: 227] ha ragione: “It is well known that higher taxes and transfers reduce productivity. Well known, but unsupported by statistics and history”. I nuovi approcci e le nuove teorie degli ultimi anni mostrano che esistono relazioni molto più complesse tra le variabili economiche e sociali, e tra queste e le forme di protezione sociale in senso ampio: “The relationship between equality and efficiency considerations is much more complex than the traditional view of an unavoidable trade off. Capital market and other imperfections provide quite coherent reasons to suppose that redistribution may in some circumstances increase growth: equality and efficiency may go together” [Boadway e Keen 2000: 778]. Sappiamo che il welfare è in relazione anche diretta, non solo come dispersione di risorse e distorsione dei comportamenti, con l’efficienza economica, tanto che i costi netti dei trasferimenti sociali e delle imposte che li 14 finanziano sono spesso prossimi a zero, spiegando così l’apparente paradosso del “free lunch puzzle” della spesa sociale [Lindert 2004 vol.1: 29-33 e 235-263]. Sappiamo poi che il trickle down non è scontato, come dimostra la crescita della disuguaglianza nei paesi sviluppati negli ultimi 30 anni, nonostante la loro crescita economica, tanto che qualche autore ha proclamato la fine di questa idea: “[…] economic growth is no longer translating into more jobs or higher wages for the majority of the workforce. Clearly, ‘trickle-down’ is dead” [Mishra 1999: 33]. E sappiamo infine che il sistema economico, da solo, non può garantire l’uguaglianza tra domanda aggregata e offerta di beni e servizi al livello di pieno impiego delle risorse, in quanto le ipotesi alla base della concorrenza perfetta non valgono in una realtà dove esistono avversione al rischio, second best, incertezze e asimmetrie informative. Esistono rischi non controllabili dall’individui, ma non esistono mercati per ogni rischio, e quindi, se ben disegnate, le indennità di disoccupazione non aumentano la disoccupazione naturale, l’assistenza sociale non riduce la partecipazione alla forza lavoro e le pensioni a ripartizione non limitano l’accumulazione di capitale [Barr 1992, 2001: cap.2, Atkinson 1999: cap.1, van der Ploeg 2003, Acocella et al. 2004: cap.6, Pennacchi 2004: 207-212]. Anche empiricamente il trade-off non sembra valere, perché le numerose analisi econometriche non mostrano nessuna robusta e significativa evidenza che il livello del welfare o della tassazione siano in relazione (positiva o negativa) con la crescita; emergono piuttosto risultati contraddittori e spesso irrealistici, dovuti a differenze nelle variabili considerate, nelle dummy inserite, nelle definizioni adottate e nelle tecniche seguite [Atkinson 1999: cap.2, Lindert 2004 vol.2: 8299]. Anzi, vari paesi (come ad esempio l’Olanda) riescono a coniugare gli obiettivi sociali egualitari con gli obiettivi economici della crescita, favoriti proprio da un sistema di welfare di tipo socialdemocratico [Goodin et al. 1999: 259-262]. Nelle parole di Lindert [2004 vol.1: 234] “The overriding fact about the case of costly welfare state, though, is that they never happened. Such costs only arise when the patterns are extrapolated beyond the sample range, beyond the actual historical experience. Within the range of true historical experience, there is no clear net GDP cost of higher social transfers”. E il Rapporto 15 sull’innovazione in Europa [EC 2003b: 27] afferma che “Regardless of the explanation, high equity clearly does not interfere with either high per capita GDP or with high innovative capabilities […]”. Atkinson [2002: 25-27] spiega come le verifiche degli effetti economici del welfare darebbero risultati diversi qualora fosse seguito un differente metodo di analisi: una prospettiva storica che tenga conto del fatto che gli Stati Uniti, oggi considerati l’esempio da seguire, negli anni 80 erano considerati in crisi rispetto al modello renano e a quello giapponese; un modello teorico che incorpori le contingenze per le quali lo stato sociale esiste (eterogeneità ex ante ed ex post tra gli individui); un’analisi dei dettagli istituzionali dei programmi sociali; una distinzione tra effetti generali della spesa pubblica (se è eccessiva si possono anche ridurre le spese non sociali, come quelle militari) ed effetti specifici della spesa sociale (su cui si può intervenire modificandone la struttura). A loro volta, gli argomenti filosofici e libertari contro lo stato sociale sono posti in forte discussione dai concetti di capacità e funzionamento, utilizzando i quali il welfare in quanto tale è una fonte di benessere perché permette più libertà di scelta e di partecipazione economica, sociale e politica per gli individui [Sen 1992: cap.3]. In questo modo le imposte e i contributi che finanziano la spesa sociale perdono la connotazione di “esproprio”, tipica delle crociate anti-tasse, per essere invece commisurati ai beni collettivi e ai legami di cittadinanza che creano, per essere valutati come corrispettivi delle prestazioni sociali conseguite [Atkinson 1999: 63-65, Pennacchi 2004: cap.1-5]. In altre parole, comincia ad essere seguita una visione ampia e alternativa dei fenomeni socio-economici, tanto che qualcuno parla, sulla base delle teorie di Sen [1992, 1999], di un vero e proprio nuovo paradigma teorico, il “paradigma dello sviluppo umano”, fondato sull’individuo membro di una collettività mutuamente interdipendente, sull’uguaglianza come prerequisito di equità e reciprocità, sulle imposte come contributo al benessere collettivo, sulla spesa pubblica come strumento di efficienza, sulla non contrapposizione tra uguaglianza e libertà [Pennacchi 2004: cap.7]. La spesa sociale non è vista più solo come consumo o redistribuzione, ma anche come “investimento sociale” di lungo 16 periodo nella qualità del sistema economico, in cambio di imposte e contributi1 [Esping Andersen 2002: 9-10, 2003: §4.2-4.3]. L’obiettivo della semplice crescita economica cede così il posto all’espansione delle libertà reali quali veri fini dello sviluppo2. Studiare insieme la dimensione sociale ed economica, ossia legare insieme le diverse prospettive con le quali la sociologia e l’economia guardano al welfare, è decisivo per superare la visione ristretta delle politiche sociali come spreco di risorse e distorsione di comportamenti. Il superamento della radicale separazione generalmente mantenuta tra i due ambiti e l’abbandono della supposta centralità dell’interesse proprio nelle spiegazioni economiche permettono di analizzare efficacemente le dinamiche delle società moderne ad elevata complessità, che necessitano di una visione multidimensionale e multidisciplinare [Montagut 2000: 95, Zamagni 2002]. Ad esempio, non si potrebbe valutare appieno il lavoro nella sua dimensione economica (partecipazione alla divisione del prodotto) e insieme sociale (posizione nella società, status), non comprendendo i due distinti effetti della precarizzazione del lavoro, ossia l’aumento della povertà e il calo della partecipazione sociale. Con questa ottica, quelle politiche economiche e sociali che sarebbero dannose in un mondo dove valgono le ipotesi semplificatrici di Arrow e Debreu, sono invece benefiche [Søndergaard 1999: 296], tanto da poter dire che “Social policy is more than just a financial burden. It is a productive factor contributing to political stability and economic dynamics” [Fouarge 2003: 35] e che “[…] en la nueva economia, invertir en lo social es al mismo tiempo invertir en productividad”3 [Castells 1996: 48]. 1 Inoltre, se le assicurazioni sociali sono attuarialmente eque, i contributi che le finanziano dovrebbero essere esclusi dalle analisi sugli effetti economici del welfare, in quanto non rappresentano una tassazione distorsiva, bensì un anticipo sui diritti futuri relativi a pensioni, sanità, assistenza e formazione [Boadway e Keen 2000: 764]. 2 Cfr. in particolare Sen [1992, 1999], Atkinson [1999], Goodin et al. [1999], Mira d’Ercole e Salvini [2003], Dutheillet de Lamothe et al. [2004]. Su un nuovo paradigma di razionalità fondato sui beni relazionali cfr. Gui [2002] e Zamagni [2002]. 3 Il ruolo del welfare come fattore produttivo per l’economia sarà approfondito nel paragrafo 4.3. 17 2.3 Il sistema di relazioni tra welfare, economia e società Alla luce di questi tentativi di superare una visione ristretta, welfare, società ed economia possono essere rappresentati come un sistema formato da relazioni biunivoche tra essi, ossia con legami teorici di azione e retroazione welfaresocietà (tramite le teorie di Sen e il soddisfacimento dei bisogni), welfareeconomia (tramite gli approcci del costo delle non politiche sociali e delle varietà del capitalismo) e società-economia (tramite il capitale umano e sociale, la propensione al rischio, la stabilità socio-politica e macroeconomica, i prerequisiti per i cambiamenti tecnologici e organizzativi). Lo schema delle relazioni biunivoche [Figura 2.2] è ripreso dal modello presente nell’Agenda di politica sociale della Commissione Europea [EC 2000: 8], ma variando la prospettiva dalla politica del lavoro al sistema di welfare. Il sistema è complesso e adattivo, perché dinamico e aperto, composto da elementi diversi con interazioni non lineari e mutevoli nel tempo, capaci di evolvere e adattarsi alle trasformazioni del contesto storico e sociale. Figura 2.2 - Relazioni biunivoche tra welfare, società ed economia domanda di soddisfacimento dei bisogni sociali SOCIETA’ prevenzione, attenuazione e trattamento dei rischi WELFARE capitale umano e sociale, domanda di skills propensione al rischio, per le imprese stabilità occupazione, consumi uguaglianza Benessere sociale costo della non politica sociale ECONOMIA Tra gli elementi del sistema esistono connessioni molto strette, tramite conclusioni di differenti approcci di analisi, e che tuttavia possono essere inserite in un unico schema teorico complessivo che mostra come una modifica in una dimensione ha effetti sulle altre due e viceversa. Un cambiamento (positivo o negativo che sia) del regime di welfare ha effetti diretti sui risultati economici e sulla soddisfazione dei bisogni sociali, e tramite questi ultimi anche effetti indiretti sui risultati economici. A loro volta tali effetti creano delle retroazioni sul 18 regime di welfare in termini di domanda di servizi e di capitale umano e sociale da parte degli individui e delle imprese. Vediamo ora in dettaglio gli elementi del sistema e poi, nei due capitoli successivi, le relazioni che sussistono tra essi. In primo luogo, per il welfare è necessaria una definizione. Diversamente dalle analisi abituali, come regime o sistema di welfare qui si intende l’insieme delle forme di protezione sociale nei campi delle pensioni, della sanità, dell’assistenza e della formazione, offerte dallo stato, dal mercato e dalla comunità, nell’accezione proposta dal sociologo Gøsta Esping Andersen [1996, 1999] che qui sarà seguita. Chiameremo quindi welfare state o stato sociale solo il pilastro pubblico dell’offerta complessiva di welfare, completata dalla spesa privata (aziendale e individuale) sul mercato e dalle reti informali di protezione e auto-produzione nell’ambito della famiglia e delle comunità locali. Tale distinzione è fondamentale per poter definire il reddito disponibile dei lavoratori come somma del salario percepito, del salario sociale e dei benefici aziendali derivanti da assicurazioni sociali non obbligatorie, e quindi per poter valutare gli effetti sia della spesa sociale pubblica che di quella privata sulla competitività4. Una metodologia5 [Adema 2001] consiste nel calcolare la spesa sociale net net totale netta ( S tot ) pari alla somma tra spesa sociale pubblica netta ( S pub ) e spesa sociale privata per istruzione, sanità, assistenza e pensioni integrative (Spriv). La spesa pubblica netta è uguale al valore lordo, ossia lo stato sociale come gross abitualmente viene definito ( S pub ), più le deduzioni e detrazioni fiscali a scopo sociale (TBSP, tax breaks for social purposes), meno le imposte dirette sui benefici stessi e indirette sui consumi indotti (T): [1] net net gross Stot S pub S priv S pub TBSP T S priv Risulta una variabilità della spesa sociale totale netta nei paesi avanzati molto ridotta rispetto al semplice welfare state, con una forte somiglianza tra paesi che invece hanno una spesa sociale lorda molto diversa: nel 1997 Usa 23,4%, Regno 4 Tale distinzione avrà conseguenze nella formalizzazione del modello nel paragrafo 6.3. Per una metodologia simile che calcola la spesa sociale familiare cfr. Esping Andersen [1999: 288-294]. 5 19 Unito 24,6%, Italia 25,3%, Germania 28,8%, Svezia 30,6% [Grafico 2.1]. Inoltre la spesa sociale pubblica netta è inferiore al valore lordo soprattutto nei paesi socialdemocratici (mentre al contrario è superiore nei paesi anglosassoni), riducendo così la forza delle argomentazioni almeno contro l’insostenibilità finanziaria dei welfare state elevati. Grafico 2.1 - Differenza tra stato sociale e spesa sociale totale netta (% del Pil, 1997) 40 35 30 Stato sociale 25 20 Spesa totale netta 15 10 5 Usa Australia Irlanda Canada N. Zelanda R. Unito Paesi Bassi Austria Germania Italia Norvegia Belgio Finlandia Svezia Danimarca 0 Fonte:Adema [2001: tab.7, p.27-28] Ai fini dell’efficienza economica, è importante considerare sia il livello della spesa pubblica, sia la dimensione della spesa sociale complessiva. Ciò perché è vero che le critiche sul welfare eccessivo e sulle sue distorsioni riguardano il pilastro pubblico della spesa, però, se i bisogni sociali non sono soddisfatti grazie alla spesa pubblica, essi verranno comunque soddisfatti dalla spesa aziendale o individuale privata. Dunque è altrettanto importante confrontare quanta parte del Pil viene utilizzata a scopi di protezione sociale rispetto agli obiettivi. L’approccio dei costi della non politica sociale permette infatti di mostrare che “Diminishing public health, pension, or social care expenditure is unlikely to produce any real cost savings since households will compensate with market purchase or with self-servicing. If welfare is externalized to markets, this will not result in appreciably lower net household money outlays” [Esping 20 Andersen 2002: 25]. Per esempio la spesa sanitaria pubblica negli Usa è simile all’Europa, ma quella totale è quasi il doppio, lasciando tuttavia scoperte alcune fasce di popolazione, e con risultati inferiori in termini di attesa di vita e di mortalità infantile6. Così definito, il sistema del welfare assorbe le domande di soddisfacimento dei bisogni provenienti dalla società e le domande di capitale umano e sociale provenienti dal sistema produttivo, e offre da un lato prevenzione, attenuazione e trattamento dei rischi alla società e, dall’altro lato, risparmio di costi immediati e futuri all’economia. La sfera economica (che chiamiamo “economia” per semplicità) è un sottoinsieme nel quale consideriamo come input la disponibilità dei fattori produttivi, ossia, oltre a materie prime e capitale finanziario, l’offerta di lavoro segmentato per skills (il capitale umano), la coesione sociale, la propensione al rischio, il grado di stabilità socio-politica e macroeconomica, i prerequisiti per i cambiamenti tecnologici ed organizzativi determinati dal sistema sociale, nonché i risparmi o gli aggravi di costi che derivano direttamente dal sistema di welfare. L’output saranno i livelli di occupazione, di consumi e di uguaglianza della società da un lato, e la domanda di capitale umano per il sistema produttivo dall’altro lato. L’obiettivo della sfera economica è la crescita, da raggiungere sia con miglioramenti dell’efficienza dal lato dell’offerta, sia con maggiori consumi e investimenti sul lato della domanda. La crescita passa per il soddisfacimento della condizione di uguaglianza dell’offerta e della domanda aggregata (Y = E in termini keynesiani) a un livello sufficientemente vicino al pieno impiego dei fattori. La sfera sociale, a sua volta, è un altro sottoinsieme (chiamato “società” per semplificare) nel quale gli input sono sia le possibilità di prevenzione, attenuazione e trattamento dei rischi determinati dal sistema di welfare, sia i livelli di occupazione, consumo e uguaglianza determinati dal sistema economico. Gli output sono sia la domanda di soddisfacimento di bisogni rivolta al sistema di Sia la dimensione che l’efficienza della spesa sono questioni centrali nell’analisi delle relazioni tra welfare e competitività, e saranno approfondite nei paragrafi 6.4 e 6.6. 6 21 welfare, sia il capitale umano e sociale, la propensione al rischio, il grado di stabilità socio-politica e macroeconomica, i prerequisiti per i cambiamenti tecnologici ed organizzativi come fattori produttivi per il sistema economico. L’obiettivo sociale è l’equità, un concetto multidimensionale che tiene conto della soddisfazione dei bisogni individuali e sociali e dell’inclusione sociale. L’equità passa per il conseguimento di capacità e funzionamenti da parte dell’individuo. Obiettivi sociali ed economici non sono obiettivi ultimi, ma intermedi e quindi sintetizzabili in relazione al fine ultimo del benessere sociale. Tale concetto comprende non solo il reddito, dato che il Pil pro capite ha una debole correlazione con il benessere e la felicità quando è elevato [Mira d’Ercole e Salvini 2003: n.97, p.84], ma anche i beni relazionali consumati dalla collettività e il capitale umano, sociale ed ambientale a disposizione. Forse non è banale ricordare che la crescita economica e l’equità sociale, di per sé, non sono un fine, ma un mezzo per raggiungere una migliore qualità della vita. Il benessere sociale è dunque un concetto multidimensionale, che non si limita a registrare i flussi di reddito e consumo, ma che tiene conto della ricchezza a disposizione della collettività, sia in termini fisici che ambientali e immateriali, e di come i flussi di reddito distruggono gli stock di ricchezza esistente o ne creano di nuova. Essendo impossibile da osservare e misurare direttamente, c’è bisogno di una valutazione che isoli solo alcune dimensioni del benessere stesso, più facilmente accessibili. Noti esempi quantitativi sono gli indici dell’Undp [2004: 153-160] di sviluppo umano (HDI) e di povertà umana nei paesi avanzati (HPI-2), che comprendono le dimensioni fondamentali del benessere in termini economici, vitali, sociali e culturali. Ma sono stati proposte anche misurazioni più complesse, come l’indice OS di Osberg e Sharpe [2002], composto dagli strumenti per raggiungere il benessere sociale: i consumi pro capite (in termini monetari e di servizi pubblici), la variazione negli stock di ricchezza (capitale fisico, capitale da R&D, debito estero e degrado ambientale), l’uguaglianza (povertà e opportunità), la sicurezza economica (rischio di disoccupazione, malattia e povertà)7. Il Pil pro 7 Begg et al. [2003: §4] vi aggiungono la dimensione della coesione sociale, misurata dalla quantità e qualità delle relazioni sociali. 22 capite cresce nei paesi Ocse selezionati molto più di quanto non facciano gli indici di benessere OS e HDI, con una netta differenza tra la crescita del Pil e del benessere in particolare per gli Stati Uniti. Anzi, nel caso di Svezia e Regno Unito l’indice OS si riduce addirittura, a causa del peggioramento nella distribuzione del reddito e nella sicurezza economica tra gli anni 80 e 90 [Grafico 2.2]. Grafico 2.2 - Trend degli indici di benessere in alcuni paesi Ocse (variaz. % totale 1980-99) 60 50 40 30 PIL pro capite 20 indice OS indice HDI 10 0 -10 -20 Norvegia Usa R. Unito Australia Canada Svezia Fonte: Osberg e Sharpe [2002: tab.5, p.310] per il Pil pro capite e l’indice OS, elaborazione su dati Undp [2004: tab.2, p.169] per l’indice HDI (variazione 1980-2000). 23 3. Welfare ed economia: relazioni dirette 3.1 Il costo della non politica sociale Due differenti linee di ragionamento, entrambe molto recenti, suggeriscono la possibilità che il welfare, in particolare quello elevato europeo, garantisca adeguate performance economiche: i “costi della non politica sociale” e le “varietà del capitalismo”. Nello schema delle relazioni tra welfare, economia e società introdotto nel capitolo precedente, tali approcci legano direttamente il sistema del welfare all’efficienza economica, rispettivamente grazie ai risparmi di costi immediati e futuri che un welfare adeguato permette all’economia, e tramite il bisogno che ogni sistema economico ha di un determinato sistema di welfare che fornisca skills adeguati8. I costi della non politica sociale [Begg et al. 2003, Fouarge 2003]9 derivano dalla riduzione del livello di spesa sociale pubblica perché ritenuto troppo elevato rispetto alla sua stessa sostenibilità finanziaria. Di conseguenza la soddisfazione di alcuni bisogni si sposta almeno in parte dal pilastro pubblico a quello privato o informale, per la fornitura di livelli adeguati di educazione, sanità o pensioni. Il ragionamento è semplice ma ribalta le linee di pensiero abituali fondate sulla preminenza delle considerazioni di natura finanziaria, prevedendo un’analisi costi-benefici per valutare se i benefici economici e finanziari risultano superiori ai costi economici e sociali. Il punto di partenza è che nel corso del secondo dopoguerra i sistemi di La distinzione tra effetti diretti del welfare sull’efficienza economica ed effetti indiretti mediati dall’equità è utile ai fini espositivi, ma chiaramente il confine è labile e comunque non è rilevante ai fini dell’analisi del sistema di welfare come fattore di competitività. 9 L’approccio nasce da un gruppo di lavoro guidato da Begg e facente capo alla DG Employment and Social Affairs della Commissione Europea, ma per un’analisi simile cfr. anche Atkinson [1999], Barr [2001] ed Esping Andersen [2002, 2003]. 8 24 welfare si sono presi carico di tutte quelle attività nelle quali il mercato, se lasciato da solo, non sembrava pienamente efficiente. Cosa succede ora al soddisfacimento dei bisogni e ai risultati economici se il pilastro pubblico viene ridimensionato? Bisogna prendere i singoli sistemi storicamente sviluppati e studiare quali conseguenze si producono e quali modelli alternativi possono essere creati: non basta prendere un sistema di welfare astratto e teorico, valido per ogni paese, di cui valutare in teoria distorsioni e disincentivi, che è il procedimento da cui nasce l’idea del trade-off, ma che porta anche a sotto o sovrastimare gli effetti di politiche sociali che sono nella realtà diverse da come appaiono in teoria. Ad esempio, gli effetti distorsivi dei sussidi di disoccupazione sono generalmente inferiori a quanto in teoria possa sembrare dai confronti normativi internazionali, perché l’entità effettiva dei sussidi dipende dalla presenza dei requisiti di ammissibilità, dai contributi versati in precedenza, dalla ricerca attiva di un lavoro, dalla durata della disoccupazione [Atkinson 1999: cap.4]. Riducendo o modificando la struttura attuale di protezione sociale, avremo, oltre ai costi sociali che per ora tralasciamo10, anche dei costi economici, relativi in primo luogo allo spostamento del peso del bisogno dal settore pubblico a un altro dei pilastri del welfare, e in secondo luogo alla mancata soluzione delle inefficienze. I primi sono costi immediati, e derivano dall’omeostasi del complesso sistema socio-economico, che “cerca” comunque di soddisfare in altri modi un bisogno non più adeguatamente soddisfatto, rivolgendosi al mercato, alla cura informale nella famiglia o nella comunità, o ad altre politiche pubbliche non adeguate. I secondi sono costi dinamici, e derivano invece dal progressivo deterioramento nel tempo di un sistema dove un particolare bisogno non è più coperto dalle politiche pubbliche, e quindi dalla necessità di prendere successivamente provvedimenti per risolvere i problemi sociali creati. Un costo immediato è la mancanza di misure esplicite e adeguate di sostegno universale al reddito in Italia, che causa lo spostamento del peso di soddisfare il bisogno, in presenza di disoccupazione elevata per alcuni segmenti I costi relativi all’incapacità di soddisfare i bisogni sociali non vengono approfonditi qui perché sono discussi nel paragrafo 4.1. 10 25 della popolazione, su misure non adatte, come gli assegni familiari, i prepensionamenti e le pensioni di invalidità, e comunque non applicabili a tutti, certo non a chi ha una vita lavorativa soprattutto in nero, ai giovani, alle donne divorziate senza abbastanza anni di lavoro. Un costo dinamico è invece la mancanza di un sostegno efficace alle famiglie povere (in particolare le ragazze madri) negli Stati Uniti, dove la scarsa assistenza pubblica nella cura e nell’educazione dei bambini li rende statisticamente più esposti, in futuro, al rischio di povertà e più dipendenti dalle politiche pubbliche, con la conseguenza di minore capitale umano rispetto al potenziale e di maggiori spese pubbliche per assistenza e prevenzione del crimine [Begg et al. 2003: 6-9]. E’ così possibile analizzare cosa succede se si riduce, per esempio, la dimensione delle indennità di disoccupazione e delle pensioni di vecchiaia pubbliche [Barr 2001: cap.2]. In generale un individuo avverso al rischio decide volontariamente un’assicurazione privata attuariale perché preferisce un reddito inferiore al suo, ma certo, rispetto a un reddito atteso maggiore, ma con una variabilità elevata. Il premio di assicurazione per l’individuo i è pari a [1] i (1 ) Pi L dove α è il mark-up per costi amministrativi e profitti, Pi la probabilità individuale della perdita di parte del reddito, e L la perdita eventuale. Le ipotesi affinché l’assicurazione privata sia perfettamente efficiente sono l’indipendenza dei rischi tra gli assicurati, la probabilità (sufficientemente) inferiore a 1, la mancanza di incertezza nel calcolo dei rischi (perché rari o complessi nel lungo periodo), la (ragionevole) mancanza di selezione avversa e rischio morale. Quando queste condizioni non sono soddisfatte, l’assicurazione privata non è pienamente efficiente, e può esserlo di può un’assicurazione sociale, caratterizzata da obbligatorietà, che rompe così il legame attuariale tra Pi e Пi, e da minore specificità del contratto, che può modificarsi nel tempo per coprire nuovi rischi. Le indennità di disoccupazione rientrano in questo ragionamento, non essendo possibile sostituirle efficacemente con assicurazioni private perché la disoccupazione è un rischio in generale non indipendente da quello degli altri 26 cittadini, e per alcuni individui prossimo a 1, nonché soggetto a selezione avversa e rischio morale. La loro riduzione potrebbe portare a più disoccupazione anziché a meno, dato che il reddito familiare atteso si ridurrebbe e più componenti della famiglia (il partner, un figlio studente) dovrebbero cercare un lavoro per compensare il mancato reddito sociale, nell’ipotesi, opposta all’economia neoclassica ma più realistica, che l’offerta di lavoro (LS), almeno nelle famiglie a basso reddito, sia tanto più alta quanto più bassa è la somma di reddito monetario e (wmon) e reddito sociale atteso ( wsoc ) [Atkinson 1999: 99-104]: [2] e LS LS ( w) LS ( wmon wsoc ) Anche nel caso delle pensioni, i fondi privati sono soggetti a incertezza in relazione a futuri shock macroeconomici (soprattutto all’andamento futuro dell’inflazione), alle aspettative di vita e ai profitti attesi dalle compagnie, ma anche difficilmente monitorabili dagli assicurati quanto a eventuali frodi e incompetenza nella gestione. Negli ultimi anni i fondi pensione anglosassoni hanno subito forti perdite patrimoniali e distrutto notevoli quantità di risparmio gestito, oltre ad avere costi amministrativi e di gestione estremamente elevati11. Attraverso i costi della non politica sociale è possibile analizzare che in molte situazioni le distorsioni create dalle politiche sociali sono minime, rispetto ai problemi che creerebbe la loro mancanza. Prendiamo un semplice modello a un solo periodo [Blank 2002] in cui sono dati gli sforzi di lavoro del contribuente (taxpayer) t e del beneficiario (recipient) r senza (et, er) e con ( et* , er* ) redistribuzione, il loro reddito da lavoro (Yt, Yr), le imposte (T) pari ai benefici (B) più i costi amministrativi (C), e i benefici monetari per i contribuenti netti (G). I redditi netti (Rt, Rr) sono pari rispettivamente a [3] Rt Yt (et ) T Lt (et et* ) G [4] Rr Yr (er ) B Lr (er er* ) con B = T – C I costi in termini di efficienza delle politiche sociali sono tanto più bassi, oltre ovviamente a quanto più bassi sono i costi amministrativi, quanto più sono alti i 11 Su questi dati e le diverse esperienze di riforma sociale cfr. Acocella et al. [2004: 182-185]. 27 benefici monetari per i contribuenti netti e quanto meno si riduce il loro sforzo individuale (per esempio grazie a minori costi dinamici), e quanto meno si riduce lo sforzo individuale dei beneficiari netti. Lo sforzo dei beneficiari si riduce poco, a sua volta, quando è minima la possibilità di cambiare comportamento a causa delle condizioni del beneficiario stesso (disabili, anziani, particolari gruppi sociali e in misura minore bambini), dei vincoli al beneficio (workfare) o delle caratteristiche intrinseche del beneficio (sanità e istruzione non servono molto a chi non ne ha bisogno). Anzi, lo sforzo dei beneficiari può addirittura crescere quando la politica sociale funziona come un investimento, uno strumento per creare sviluppo e per accrescere le capacità (à la Sen) degli individui: la sanità riduce malattie e infermità, l’educazione accresce la produttività economica, la cura dei bambini promuove un precoce sviluppo cognitivo e relazionale, i programmi di inclusione sociale e a favore della natalità accrescono le opportunità e il tasso di attività dei gruppi svantaggiati e delle donne [Gough 1996, Sen 1999: 41-45 ed.it., Esping Andersen 2002, 2003]. Tali programmi generano un’attesa di maggiori entrate fiscali e di maggiore sostenibilità della spesa futura. In particolare, gli investimenti in capitale umano sono fondamentali per raggiungere gli obiettivi di efficienza economica. Quindi sottrarre risorse alla formazione rischia di essere fortemente controproducente riguardo alla protezione dai rischi e dall’incertezza crescente nel mondo globale, e riguardo alla capacità del sistema economico nel lungo periodo di competere con l’estero. 3.2 Le varietà del capitalismo Se il sistema di welfare può incidere direttamente sull’efficienza economica, tramite il risparmio dei costi immediati e dinamici che emergerebbero con un welfare inadeguato, l’approccio delle varietà del capitalismo mostra la relazione inversa, ossia come il sistema economico richiede un adeguato sistema di welfare. Tale approccio, sviluppato da diversi contributi raccolti nei due lavori curati da Hall e Soskice [2001] e Pierson [2001], suggerisce che ogni sistema economico 28 richiede un sistema di welfare coerente con i vantaggi istituzionali derivanti dalle proprie istituzioni economiche, sociali, e politiche, a loro volta formatesi nel corso del tempo sulla base di cultura, storia e risorse dei diversi paesi. In particolare, nel contributo di Hall e Soskice [2001] l’elemento centrale sono le imprese, considerate come gli agenti chiave dell’aggiustamento del sistema di fronte alle trasformazioni esogene. L’idea alla base del loro lavoro è che il welfare, la qualificazione della forza lavoro e le strategie di mercato delle imprese siano coerenti e intimamente legate tra loro. Il livello macro (le variabili economiche) viene legato al livello micro (le strategie d’impresa) per spiegare l’adattamento di un dato sistema socio-economico ai cambiamenti del mondo esterno. Tale aggregazione passa attraverso le decisioni che ogni impresa compie per rispondere agli stimoli che riceve, ma, poiché non è isolata, bensì in relazione con gli altri agenti economici e con l’insieme delle istituzioni del paese, le sue strategie dipendono anche dalla rete economica, sociale e politica che la circonda. I problemi di coordinamento che affrontano le imprese vengono appunto risolti dalla rete di istituzioni, organizzazioni e mercati esistenti, che è più orientata agli accordi di mercato nelle economie liberali anglosassoni (LME) e più orientata alle relazioni non di mercato nelle economie europee che gli autori chiamano coordinate (CME). La differenza tra i due idealtipi, che in sé sono perfettamente coerenti, si ripercuote in differenti strategie d’impresa, che a loro volta, pur permettendo entrambi performance economiche elevate, creano differenze nel tipo di innovazione perseguita e nella distribuzione del benessere. Nelle economie liberali il sistema finanziario è costruito in modo che l’accesso al credito dipende dalla valutazione sulla redditività d’impresa che fanno i mercati sulla base di informazioni pubbliche, cosicché i manager sono premiati se gli utili e il valore delle azioni crescono. Il mercato del lavoro è deregolamentato e fluido, con bassi costi di licenziamento e salari flessibili e variabili secondo la produttività, perciò i dirigenti hanno il pieno controllo dell’impresa, e salari e prezzi dipendono dalla concorrenza sul mercato. Un mercato del lavoro molto fluido incoraggia la formazione nelle scuole e nelle università di general skills, facilmente trasferibili da un’impresa all’altra. Le 29 relazioni tra imprese basate sulla concorrenza di mercato facilita lo scambio di tecnologie tramite il trasferimento di ricercatori da un’impresa all’altra e la compravendita di brevetti. Sono quindi favoriti gli investimenti, da parte delle imprese e dei lavoratori, in switchable assets, il cui realizzo è possibile anche se i beni sono spostati verso altri scopi. Al contrario, nelle economie coordinate il sistema finanziario è basato su un insieme di rapporti anche esterni al mercato, che permettono finanziamenti e quindi progetti industriali di lungo periodo grazie alla rete di collegamenti intorno all’impresa. Se la redditività o il prezzo delle azioni scendono, non c’è bisogno immediato di ridurre la forza lavoro, con un mercato del lavoro regolamentato e concertato, in modo da conseguire la cooperazione dei lavoratori in cambio della moderazione salariale. I dirigenti non hanno un controllo assoluto, ma devono assicurarsi la cooperazione dei sindacati, dei principali azionisti, dei quadri, dei fornitori, dei clienti. La formazione, di conseguenza, può essere specifica e legata all’impresa o al settore, dato che gli investimenti dell’impresa e del lavoratore sono relativamente protetti. La tecnologia si sposta da un’impresa all’altra tramite le relazioni intraindustriali non di mercato, la cooperazione, i programmi finanziati almeno in parte con interventi pubblici. Sono favoriti gli investimenti in specific e co-specific assets, il cui realizzo non è facile se dirottati ad altri scopi. Date queste differenti strutture istituzionali createsi nel tempo, emergono differenti vantaggi per attività economiche che hanno bisogno in maniera differente del tipo di efficienza ottenibile, e quindi differenti percorsi di sviluppo e di progresso tecnologico, ossia vantaggi istituzionali comparati differenti. Le economie liberali favoriscono l’innovazione radicale, tramite la flessibilità del mercato del lavoro e la facilità nell’acquisizione di tecnologia: sono quindi favorite, come negli Stati Uniti, le produzioni molto innovative: la biotecnologia, i semiconduttori, le telecomunicazioni e le apparecchiature mediche. Le economie coordinate, invece, favoriscono l’innovazione incrementale tramite la formazione, la protezione e l’autonomia della forza lavoro e la protezione delle imprese da scalate ostili: sono quindi favorite, come in Germania, le produzioni più mature ma sensibili ai controlli di qualità: la meccanica, i mezzi di trasporto, i beni di 30 consumo durevoli. Queste differenze in termini di vantaggi istituzionali comparati derivanti dalle differenti istituzioni esistenti, si ripercuotono in differenti sistemi di welfare necessari per mantenere tali istituzioni [Estevez-Abe et al. 2001]. Per perseguire le loro strategie di mercato, adeguate ai vantaggi istituzionali dei paesi nelle quali operano, le imprese hanno bisogno di una diversa qualificazione della forza lavoro, e quindi di una diversa offerta di skills. In questo modo le imprese sostengono un determinato sistema di welfare, adeguato a garantire la disponibilità di una forza lavoro qualificata secondo le proprie necessità. Partiamo dal legame tra skills e strategie. I primi si classificano secondo la propria crescente trasferibilità: specifici dell’impresa (derivanti da formazione interna), specifici dell’industria (da apprendistato e scuole professionali) e generali (dall’educazione non professionale). Secondo le diverse strategie di mercato, ci sarà bisogno di una diversa qualificazione della forza lavoro: semiqualificata per la produzione di massa fordista, specifica dell’impresa per la produzione diversificata di massa giapponese o di qualità tedesca, specifica del settore per la produzione artigianale a scala ridotta, generale per la new economy dell’informatica e della finanza anglosassone. Arriviamo così al legame tra welfare e skills. La loro acquisizione deriva da un investimento in formazione del lavoratore, che dipende dal costo iniziale (tasse più salario a cui si rinuncia), dalla differenza di reddito attesa (premio per lo skill) e dal rischio di perdere il lavoro e con esso il premio (crescente al crescere della specificità). Nei sistemi liberali di welfare, dove i lavoratori si aspettano limitati interventi pubblici, la massimizzazione dei benefici favorisce skills generici, trasferibili tra imprese e settori. Vengono invece preferiti skills specifici se esiste una certa protezione del posto di lavoro o del reddito (sicurezza nell’impresa o nel settore) grazie al sistema di welfare e alla regolamentazione pubblica. Quindi la domanda di una data qualificazione da parte delle imprese richiede, affinché ci sia un’analoga offerta da parte dei lavoratori, un sistema di welfare adeguato. Un livello di protezione sociale elevato si spiega con strategie d’impresa fortemente basate su competenze specifiche dell’impresa o del settore, 31 che creano società più egualitarie di quelle fondate su competenze generiche: “[Welfare programs] in CME help to assure workers that they can weather an economic downturn without having to shift to a job in which their investment in specific skills does not pay off” [Hall e Soskice 2001: 51]. Al contrario, un livello basso di protezione sociale è legato alla presenza di forti incentivi per i lavoratori a proteggersi grazie a skills trasferibili e a una formazione generica, che compensano il limitato intervento pubblico e la scarsa regolamentazione del mercato del lavoro. L’esistenza di un sistema di welfare adeguato è garantito dal sostegno politico che si rafforza reciprocamente grazie al consenso elettorale dei lavoratori per politiche che assicurano rendimenti elevati ai propri investimenti in formazione, e degli industriali per politiche che assicurano tali condizioni per il tipo di investimenti a cui sono interessati. E’ così possibile analizzare le preferenze delle imprese nel contesto di una riforma del welfare stesso, sulla base dell’incidenza del rischio per i lavoratori e di dimensione e tipo di skills richiesti dall’impresa, mostrando come le imprese appartenenti a settori diversi abbiano obiettivi diversi riguardo alla redistribuzione del rischio e alla partecipazione nella formazione delle decisioni redistributive [Mares 2001]. E’ giusto chiedersi quale sia il rapporto strutturale tra imprese e protezione sociale, visto che le analisi abituali “[…] overshadowed a broad range of questions and issues related to the significance of social insurance to employers. […] What does social policies represent to firms? Is the welfare state only a constraint on firms, which comes in the form of higher costs or unnecessary labour market rigidities, or does it also provide some tangible and immediate benefits to employers? When do the benefits offered by the welfare state to firms outweigh the costs imposed by social policies on business?” [Mares 2001: 184-185]. Con questo framework, la domanda di welfare viene spiegata con le strategie d’impresa derivanti dal contesto istituzionale dove operano, quindi da un’angolazione diversa, ma complementare, rispetto alla domanda di welfare per soddisfare i bisogni individuali, che sarà oggetto del prossimo capitolo. 32 4. Welfare ed economia: relazioni indirette mediate dalla società 4.1 Il soddisfacimento dei bisogni sociali I sistemi di welfare e i risultati economici sono anche indirettamente legati, mediante l’equità, le capacità e i funzionamenti che gli individui ottengono grazie alla spesa sociale. Le relazioni che intercorrono da un lato tra welfare e società e dall’altro tra economia e società verranno presentate insieme perché strettamente collegate concettualmente ed empiricamente. Gli output del sistema sociale sono anche input produttivi per il sistema economico, e ciò lega i due sistemi, ma anche economia e welfare ne risultano legati indirettamente, perché gli output sociali derivano dall’efficacia con cui il sistema di welfare riesce a soddisfare i bisogni sociali. Il soddisfacimento dei bisogni sociali è garantito in due forme, non alternative, ma complementari. Da una parte tramite la distribuzione della ricchezza prodotta dal sistema economico e dalla sua crescita, dall’altra tramite la redistribuzione e il sistema di welfare che intervengono per correggere quei problemi distributivi e allocativi che i meccanismi di mercato da soli non sono in grado di risolvere. La domanda di soddisfacimento dei bisogni riguarda non tanto il denaro in sé, quanto il consumo di beni e servizi forniti indifferentemente, in proporzione variabile, dal mercato privato o dallo stato sociale. Inoltre, i risultati sociali dipendono sì dal welfare e dalle variabili economiche, ma anche, comunque, dallo sforzo individuale nel raggiungimento di tali risultati. Possiamo dire che dipendono dalla “lotteria sociale” delle risorse di gruppo (modificabili da trasferimenti e assicurazione contro i rischi), dalla “lotteria naturale” delle capacità individuali (modificabili dagli investimenti in educazione e formazione) e dalla volontà individuale di sforzarsi per raggiungere i propri obiettivi (solo 33 influenzabile secondo il disegno del sistema di welfare) [Acocella 2002]. Comunque, i principali canali attraverso i quali le variabili economiche incidono sulla soddisfazione dei bisogni sociali sono i tassi di attività e disoccupazione, i livelli di consumo permessi dal potere d’acquisto (ossia dalla ricchezza prodotta, dalle modalità di distribuzione e dall’inflazione), e infine il grado di uguaglianza economica (che incide sulla soddisfazione relativa). Invece il sistema di welfare interviene sull’incidenza dei rischi sociali, attraverso la redistribuzione, sia interpersonale tra individui diversi che intrapersonale all’interno dei percorsi di vita di un singolo individuo. I canali sono la prevenzione del rischio (politiche di stabilità, tassazione progressiva, formazione, regolazione del mercato del lavoro, prevenzione sanitaria), l’attenuazione dei rischi generici (pensioni, pari opportunità, inclusione sociale, politiche attive per l’occupazione) e specifici (assicurazione contro disoccupazione, vecchiaia, disabilità e malattia), e infine il trattamento dei rischi eventualmente concretizzati (interventi di emergenza, assistenza sociale, sussidi, lavori pubblici) [Holzmann e Jørgensen 2000]. Entrambe le modalità (mercato e welfare) sono strumenti per rispondere alla domanda di soddisfacimento dei bisogni che viene dagli individui. Questa domanda sociale deriva dalla necessità che gli individui hanno di vedere coperte le proprie esigenze, da quelle più elementari della sopravvivenza (alimentazione e abitazione) a quelle via via più complesse dell’autorealizzazione nell’ambito della società [Doyal e Gough 1991]. I bisogni cambiano nel tempo, sia in termini relativi, ossia in relazione ai miglioramenti che avvengono nel resto della società, che in termini assoluti, ossia sulla base delle trasformazioni del lavoro, degli scambi e della famiglia, come vedremo successivamente. I diversi sistemi o regimi di welfare hanno differenti modi di mettere insieme la distribuzione di mercato e la protezione sociale. Seguendo la nota classificazione di Esping Andersen [1996], lo studio di Goodin et al. [1999]12 12 Non a caso è un lavoro interdisciplinare, dove gli autori Goodin, Headey, Muffels e Dirven sono studiosi ognuno di una scienza sociale differente: un filosofo, un politologo, un economista e un sociologo. Si rimanda al libro per l’analisi quantitativa sull’efficacia dei differenti sistemi nell’assicurare gli obiettivi socio-economici. 34 mostra come i tre paesi per i quali esistono dati sufficienti (panel socio-economici di lungo periodo) evidenziano modalità diverse di soluzione dei bisogni sociali. Il modello liberale degli Stati Uniti è centrato sull’autonomia dell’individuo e sull’intervento pubblico residuale solo per coloro che non riescono a beneficiarne perché impossibilitati al di là della loro volontà, con l’obiettivo di massimizzare l’efficienza dell’economia. Il modello socialdemocratico olandese13 cerca invece di separare il soddisfacimento dei bisogni degli individui dal loro reddito (demercificazione) per conseguire maggiore uguaglianza e minore povertà possibile. Infine, il modello corporativo o conservatore tedesco punta alla coesione sociale dentro i differenti gruppi sociali e tra essi, con una forte protezione per gli individui, in particolare i lavoratori, all’interno dei singoli settori di attività. Per distinguere l’effetto della distribuzione di mercato dalla redistribuzione pubblica (e dall’appartenenza a una determinata famiglia), gli autori distinguono tre definizioni di reddito. a) Il reddito da lavoro individuale (individual labour income) misura l’autonomia attribuibile al mercato da solo, anche se ciò, almeno in parte, dipende comunque dalla regolamentazione pubblica del mercato del lavoro e dei meccanismi economici, e questo effetto non è scindibile da quello ipotetico di un mercato totalmente libero di fissare i salari. b) Il reddito familiare di mercato (pre-government household equivalent income) misura l’autonomia attribuibile all’appartenenza familiare ed è pari alla somma di redditi da lavoro dei componenti, rendite da investimento, trasferimenti privati (regali, alimenti dell’ex coniuge, ecc.) e affitto presunto della casa (per le famiglie proprietarie della casa in cui abitano), oltre ad essere aggiustato per il numero di componenti della famiglia stessa. c) Il reddito familiare disponibile (post-government household equivalent income) misura l’autonomia derivante dalla stato sociale ed è pari al precedente più i trasferimenti pubblici a qualsiasi titolo meno le imposte dirette, escludendo 13 I Paesi Bassi non sono propriamente un modello socialdemocratico, ma gli autori ritengono che abbiano caratteristiche più vicine ai paesi nordici che al modello conservatore continentale. 35 quindi sia i benefici non monetari, sia le imposte indirette. E’ possibile così studiare con quali modalità e quale efficacia i diversi sistemi di welfare contribuiscono al soddisfacimento dei bisogni sociali, che gli autori sintetizzano in sei grandi dimensioni, misurabili mediante differenti indicatori. i) La promozione dell’efficienza economica è valutabile in termini di crescita economica (reddito pro capite e reddito equivalente mediano), occupazione (person-year occupation rate) e bassi sprechi del sistema di welfare (dipendenza dal welfare, disincentivi al lavoro, over- e under-payments, efficacia dei programmi). Il regime liberale favorisce la crescita e l’occupazione e riduce gli sprechi, ma non garantisce che la crescita sia diffusa nella società, un risultato raggiunto invece dal regime socialdemocratico. ii) La riduzione della povertà, quanto a estensione (prima e dopo la redistribuzione pubblica), profondità, durata e ricorrenza, richiede un forte intervento pubblico per contrastarla e per ridurne il rischio, perché ovunque circa il 20% dei cittadini, senza redistribuzione, ne sarebbero affetti. iii) L’uguaglianza di reddito (anche qui prima e dopo la redistribuzione pubblica), sociale (pari opportunità di educazione e occupazione) e di cittadinanza (universalità dei benefici), ha bisogno della redistribuzione pubblica per ridurre le forti differenze dei redditi di mercato, persistenti nel tempo. iv) La promozione dell’integrazione degli individui nelle famiglie (divorzi, convivenze), nella forza lavoro (lavoro stabile a tempo pieno), nell’economia (mobilità ascendente nella scala dei redditi) e nella società (esclusione sociale in termini di reddito, educazione e ore lavorate). v) La promozione della stabilità familiare, lavorativa e di reddito passa per un sistema di protezione che riduca l’insicurezza soprattutto di chi sta peggio e dei lavoratori capifamiglia. vi) La promozione dell’autonomia sociale, lavorativa, di reddito e di tempo libero, infine, necessita di un intervento pubblico sia nella fase di regolazione del mercato (che paradossalmente incide molto sul reddito nelle socialdemocrazie), che nella fase di redistribuzione (che incide di meno ovunque rispetto al mercato e 36 alla famiglia). Il risultato più importante dell’analisi dei panel è probabilmente che il perseguimento di questi obiettivi non passa necessariamente per una redistribuzione dalla parte benestante della popolazione a quella in difficoltà. Anzi, le traiettorie di vita esaminate mostrano come la maggiore redistribuzione sia intrapersonale, tra periodi positivi e negativi nel corso della vita di un individuo e dell’esistenza di una famiglia, e non interpersonale tra gruppi sociali diversi14 [Goodin et al. 1999: 262-264]. In generale, è possibile analizzare i servizi e i trasferimenti sociali semplicemente come la restituzione ai singoli individui dei loro contributi pregressi o delle imposte dirette a cui sono stati soggetti [Artoni 2004: 16-19]. Così, non è possibile distinguere nettamente tra beneficiari e contribuenti netti, se non in un singolo anno, perché ognuno può essere beneficiario in un periodo e contribuente in un altro: “[…] most people who are welfare beneficiaries in one year will be (and will have been) productive taxpayers in other years. Government assistance in such circumstances is more like ‘disaster relief’ or a ‘bridging loan’ which will be repaid many times over through tax contribution once recipients’ fortunes have again turned. Redistribution here is not between one person or one social class and another, but between periods of fortune and misfortune across one’s own life [… Many] of us benefit more than we might have imagined from the sort of insurance against those risks of life that we all, in one way or another, inevitably run” [Goodin et al. 1999: 264]. E se l’esposizione ai rischi aumenta nella nostra società postindustriale, allora la redistribuzione intrapersonale è destinata ad assumere un ruolo sempre maggiore rispetto a quella interpersonale. 14 Il 62% dei trasferimenti negli anni 90 nel Regno Unito furono intrapersonali [Goodin et al. 1999: n.5, p.264]. Ciò potrebbe anche spiegare le differenze di atteggiamento tra Stati Uniti ed Europa rispetto al welfare, perché nei primi un welfare elevato significherebbe, a causa della disuguaglianza nella distribuzione del reddito di mercato, redistribuzione più tra gruppi etnicamente differenti (o comunque socialmente non affini) che intrapersonale. 37 4.2 Capacità e funzionamenti L’equità è l’obiettivo del sistema sociale e insieme uno dei principali componenti, insieme alla disponibilità di beni e servizi di mercato, che concorrono a definire un concetto multidimensionale di benessere sociale. Ma equità è un termine astratto da tradurre nella realtà, perché esprime un concetto di uguaglianza indefinito, che va spiegato rispetto all’oggetto da eguagliare tra gli individui, rispetto a cosa si ritiene fondamentale distribuire equamente per il soddisfacimento dei bisogni sociali e la promozione dell’efficienza economica, valutando che tutto il resto può anche non essere distribuito equamente. Secondo le diverse teorie della giustizia che si sono diffuse negli ultimi 30 anni, l’oggetto da eguagliare può essere reddito, benessere, successo, felicità, diritti, opportunità, risorse iniziali o risultati finali, o persino, nelle teorie che si dichiarano non egualitarie, il trattamento degli individui rispetto all’utilità, l’immunità dalle interferenze, il premio dei meriti [Sen 1992: cap.1-2]. Una definizione molto importante e con forti conseguenze sulla letteratura è stata proposta da Amartya Sen [1992: cap.3], il quale considera due componenti nello star bene dell’individuo. La prima sono le acquisizioni effettive che riusciamo a ottenere in termini di cibo, salute, vita, felicità, rispetto di sé e integrazione sociale (funzionamenti), che rappresentano elementi costitutivi dello stare bene di per sé, e non strumenti per raggiungerlo. La seconda componente è la libertà di acquisire, ossia la concreta possibilità di mettere in atto ciò che apprezziamo (capacità), che rappresenta le combinazioni acquisibili di funzionamenti e quindi uno strumento per ottenere funzionamenti ma anche elemento dello stare bene in sé. In questa imposizione è cruciale l’idea che differenti individui abbiano differenti capacità di convertire le risorse a disposizione in acquisizioni e libertà effettive, benché possano avere pari opportunità in partenza. Allora la povertà non si configurerà più come una situazione di reddito basso (assoluta o relativa che sia), ma di reddito inadeguato a generare le capacità necessarie per essere parte della società, cosicché la povertà nei paesi ricchi non appare più come un paradosso. La libertà è dunque decisiva per il suo ruolo costitutivo, come sviluppo in 38 sé, e per il ruolo strumentale, come mezzo per creare sviluppo. Ma è anch’esso un concetto multidimensionale, che fa riferimento insieme alla libertà politica di scelta e critica del governo (è famoso l’esempio delle carestie mai verificatesi nelle democrazie), alle infrastrutture economiche che permettano consumo, occupazione e scambio, alle occasioni sociali di promozione della vita e della partecipazione, alla fiducia negli altri, alla sicurezza della protezione sociale. Dal punto di vista dinamico, queste libertà vengono rafforzate dalla crescita economica che permette più spesa sociale, e al tempo stesso dalla spesa sociale che permette una migliore qualità della vita e quindi favorisce la crescita, come sembra valere per le Tigri asiatiche [Sen 1999: 41-53 e 259 ed.it.]. Sen invita così a rifiutare il “feticismo” dei beni, perché la qualità della vita non dipende solo dal reddito monetario, ma dall’esistenza di una rete generalizzata di sicurezza potenziale per tutti, come è la protezione sociale. Lo è, infatti, per i cittadini che effettivamente vivono in situazioni di disagio e che quindi vanno protetti con la redistribuzione. Ma lo è anche per quei cittadini che attualmente non sono in condizioni di essere assistiti, ma che potrebbero esserlo in futuro, e a cui va quindi assicurato il mantenimento del proprio tenore di vita, modificando attivamente l’insorgenza dei rischi. I rischi, infatti, non sono esogeni ma endogeni al sistema socio-economico, e di conseguenza modificabili dal sistema di welfare che ne è parte integrante. E da questo punto di vista solo lo stato sociale è in grado di assicurare contro rischi non specifici del singolo individuo (come la carenza di capitale umano) e correlati con gli altri cittadini (come la disoccupazione in condizioni di recessione economica) [Barr 2001: 2429, Begg et al. 2003: 18-23]. 4.3 Il welfare come fattore produttivo Molti autori mostrano come la crescita economica non possa prescindere dal contributo del sistema di welfare, in forma indiretta e mediata dall’equità, dalle capacità e dai funzionamenti che grazie ad esso la società si garantisce. Tali benefici sono allo stesso tempo sono fattori produttivi per il sistema economico, e 39 quindi precondizioni per lo sviluppo e l’integrazione economica, al pari della forza lavoro, dei capitali, delle infrastrutture e delle materie prime. Nella misura in cui sono protetti dai rischi grazie al sistema di welfare, gli individui “producono” in cambio capitale umano e sociale, propensione al rischio, stabilità socio-politica e macroeconomica. Se ciò è vero, allora la promozione dell’efficienza economica non risulta alternativa ma complementare alla ricerca dell’equità sociale e di una migliore qualità della vita, che non sono più solo costi improduttivi da sopportare per ottenere risultati socialmente importanti [Berghman et al. 1998: cap.2, Esping Andersen 2002: 9-10, Fouarge 2003: 9-10]. Il sistema di welfare favorisce l’efficienza economica grazie alla stabilità rispetto a shock e fluttuazioni economiche monetarie e di bilancio, il superamento dei fallimenti di mercato, la riduzione dei rischi e la propensione alle attività rischiose, la promozione degli investimenti in quantità (educazione a partire dall’infanzia e formazione continua) e qualità (sanità) del capitale umano, il sostegno alla crescita della coesione e del capitale sociale, la possibilità di una flessibilità che non si traduca in precarietà di fronte alle trasformazioni della tecnologia e dell’organizzazione produttiva e alla crescente apertura internazionale, la promozione delle pari opportunità e della conciliazione tra il ruolo di madre e di lavoratrice [Castells 1996: 47-48, Gough 1996, Pizzuti 1999: 110-113, Rubery et al. 1999: 1-11, Esping Andersen 2003: §4.2, Fouarge 2003: 24-42, Pennacchi 2004: 204-217, Sapir et al. 2004: 76-82 ed.it.]. Il Rapporto Sapir et al. [2004: 16 ed.it.] sottolinea appunto l’importanza di tali politiche per la crescita economica, parallelamente alla necessità di incentivi per gli scambi, la concorrenza e la mobilità dei fattori produttivi: “Una ripartizione efficiente dell’attività economica, tuttavia, non necessariamente è equa o accettabile sul piano politico: le pressioni del mercato possono essere percepite come ingiuste ove i mercati siano imperfetti. […] Non desta quindi meraviglia che i dirigenti nazionali e sovranazionali si interessino non solo alla crescita economica, ma anche alla coesione […], nonché alla stabilità […] Ecco perché nella storia e nella prassi delle politiche economiche europee, le implicazioni interne in termini di efficienza (o di crescita) dell’integrazione 40 economica e di altri sviluppi istituzionali sono strettamente connesse con gli obiettivi in materia di coesione e di stabilità”. Nelle società postindustriali aperte e insicure dei paesi avanzati, come sarà discusso nel prossimo capitolo, la protezione sociale diventa se possibile ancora più importante, perché da un lato siamo esposti in maniera crescente ai rischi connessi con il ciclo di vita e dall’altro lato l’economia stessa richiede una maggiore capacità di innovazione per competere efficacemente a livello globale [Acocella et al. 2004: 185-187]. Se ben strutturata, la protezione sociale può comportare una redistribuzione egualitaria che incentiva la produttività nell’ambito del processo di globalizzazione [Bowles 2003]. In questo contesto, il welfare permette il controllo dell’incertezza sui benefici futuri e sui costi per ottenerli, trasformandoli in rischi controllabili [Ciccarone 1997: 194-195]. In sintesi, il welfare garantisce un migliore funzionamento nel tempo del sistema economico: “Markets produce many benefits, but they also make life riskier and more insecure for many people. A reliable welfare state thus contributes to a proper functioning of the market economy” [van der Ploeg 2003: 2]. I principali canali attraverso i quali il welfare crea fattori produttivi per l’economia sono il capitale sociale, la propensione al rischio e la stabilità socioeconomica. Il concetto di capitale sociale deriva dall’idea che lo sviluppo non dipenda solo dalla disponibilità di capitale naturale, fisico o umano, ma anche dal tessuto sociale e istituzionale creatosi nel corso del tempo [Fouarge 2003: 30-33]. Tale tessuto è un bene pubblico, composto dall’insieme delle istituzioni, delle regole, dei valori condivisi e delle reti di relazioni interpersonali che costituiscono risorse per la produzione di benessere a disposizione degli individui e della collettività. E’ una risorsa accumulabile sia razionalmente, con decisioni politiche e collettive (e persino individuali nell’approccio utilitarista), sia incidentalmente, grazie alle normali attività umane e, nel lungo periodo, ai processi storici. Il capitale sociale è quindi uno stock di valori d’uso15, che influenza i comportamenti delle persone, permettendo loro di agire collettivamente e 41 perseguire fini altrimenti irraggiungibili. Ai fini economici, può essere uno strumento decisivo di promozione della crescita grazie all’utilizzazione dei valori d’uso stessi nella produzione di beni e servizi e nella formazione di capitale privato: riduzione dei costi di transazione, diffusione di informazioni e conoscenze non facilmente acquistabili sul mercato, rafforzamento di impegno e motivazione, crescita della capacità di monitorare e interpretare la realtà (e quindi promozione dell’innovazione), creazione di reti interpersonali che favoriscono lo sviluppo, riduzione dell’incertezza (e quindi sostegno agli investimenti) [Sabatini 2004: 10-21]16. E’ sempre più diffusa la convinzione che “Le interazioni sociali esplicano il loro effetto sulle attività economiche e sul rendimento dell’economia soprattutto nel lungo periodo, favorendo l’accumulazione di asset materiali e intangibili da utilizzarsi nei processi produttivi futuri” [Sabatini 2004: 15]. In particolare possiamo vedere nel capitale sociale uno strumento per aumentare le interazioni tra individui in una società, accrescere la reciprocità tra individui, e di conseguenza ridurre i payoffs di chi decide di assumere comportamenti opportunistici e perseguire opportunità esclusivamente private17 [Zamagni 2002, Fong et al. 2003]. Il capitale sociale, insieme a quello umano, sono strumenti, rappresentano libertà di acquisire funzionamenti migliori da parte degli individui. Sono, insomma, capacità, nell’accezione di Sen discussa nel paragrafo precedente. Tali capacità permettono di proteggere gli individui (avversi al rischio) dai rischi a cui sono soggetti nel corso della loro esistenza. Se gli individui sono sufficientemente protetti da tali rischi, sono anche più propensi a comportamenti rischiosi, o almeno lo sono rispetto a una situazione in cui ogni decisione di consumo, produzione o investimento può portare a una condizione peggiore in termini di I valori d’uso, prodotti consapevolmente o meno tramite le interazioni sociali, sono quei beni e servizi scambiati fuori dal mercato, che migliorano il benessere sociale e allo stesso tempo sono input del processo produttivo [Sabatini 2004: 4]. Cfr. anche Gui [2002]. 16 Tuttavia può avere effetti negativi se la rete di relazioni interpersonali è diretta a favore di attività lobbistiche e clientelari, o addirittura criminali. 17 Nella teoria dei giochi, il Folk Theorem mostra come in giochi ripetuti la probabilità di soluzioni cooperative Pareto-efficienti rispetto all’equilibrio di Nash dipenda da un tasso di sconto sufficientemente basso e da una probabilità sufficientemente bassa che il gioco termini dopo ciascuna ripetizione [Ciccarone 1997: 152 e 236]. 15 42 occupazione o di reddito. In tale modo i comportamenti micro di un individuo immerso in una rete di relazioni sociali si traducono prima in capacità disponibili in termini di propensione al rischio e capitale sociale e umano, e quindi in variabili macro come gli investimenti, l’innovazione, i consumi. Arriviamo quindi a un secondo fattore produttivo sociale, legato al primo: la propensione al rischio indotta dall’esistenza di diversi elementi del sistema di welfare fa assumere agli individui, nel corso della loro vita, rischi che altrimenti non accetterebbero [Sinn 1995, 1996, Bowles e Gintis 2000]. In particolare una maggiore propensione al rischio può promuovere gli incentivi degli individui ad assumere comportamenti più rischiosi ma maggiormente efficienti, al contrario delle ipotesi alla base del trade-off: riduce i risparmi precauzionali, rende meno necessaria la protezione rigida dell’occupazione, favorisce i cambiamenti di lavoro e di residenza, promuove le attività in settori rischiosi e nel lavoro autonomo, incentiva gli investimenti in capitale umano, riduce la resistenza dei probabili perdenti nelle situazioni di cambio organizzativo e tecnologico. In particolare, gli investimenti in educazione, oggetto di numerosi lavori nell’ambito della teoria della crescita, sono progetti di lungo periodo la cui incertezza è relativa ai redditi futuri e quindi ai rendimenti dell’investimento, e deriva dalle differenti capacità innate di beneficiare della formazione, dai differenti eventi della vita, dai differenti impatti del background familiare. Sinn [1996: 260] afferma che “Social insurance, like private insurance, makes people more daring since the government takes an equal share in the gains and losses resulting from their economic decisions. It makes people jump the dangerous chasms which otherwise would have put a halt to their economic endeavors”. Un welfare che favorisce l’assunzione dei rischi, quindi, può essere visto come una precondizione per la crescita dell’integrazione economica globale garantendo un certo livello di reddito e occupazione in un sistema internazionale di scambi nel quale le politiche protezionistiche non sono più possibili [Rieger e Leibfried 1998, Rodrik 1998]. Allo stesso tempo è un prerequisito per lo sviluppo della società dell’informazione su basi stabili, poiché la deindustrializzazione dei paesi avanzati rende necessari migliori strumenti di protezione sociale e 43 promozione economica per favorire l’occupazione nel settore dei servizi e contrastare l’esclusione sociale [Iversen 2001]. Castells e Himanen [2002: 101-102 e 183] nel loro studio di caso della Finlandia, paese che coniuga un’elevata innovazione con ridotte disuguaglianze e una dimensione sociale sostenibile, affermano che “Sin embargo, a largo plazo la economia informacional require una dimensión social sostenible. […] dada la fuerte oposición actual a la globalización, podrìa occurrir que sin una dimensión de bienestar social global más fuerte, la economia informacional tenga que enfrentarse a una oposición tan dura que su desarrollo se haga extremadamente volátil o insostenible. Por este motivo, la economia informacional global podrìa tener como requisito un tipo determinado de estado del bienestar” e più avanti che “[...] Finlandia muestra que un estado del bienestar plenamente desarrollado no es incompatible con la innovación tecnologica, con el desarrollo de la sociedad informacional y con una nueva economia dinámica y competitiva. Antes al contrario, parece ser un factor que contribuye de forma decisiva al crecimiento de esa nueva economia sobre una base estable”. La protezione sociale assicura una certa stabilità di reddito e occupazione (e quindi bassa resistenza tra i lavoratori e i settori danneggiati) in periodi di profonda trasformazione dell’organizzazione industriale e del lavoro: “[…] social policy can reduce uncertainty, enhance the capability to adjust and the readiness to accept change, bear more risk, acquire more specialized skills, and pursue investment opportunities. Social policy also serves to create and stabilize collective goods, channel and mitigate industrial conflict in periods of structural adjustment, and, in turn, foster political stability and social cohesion” [Streeck cit. in Esping Andersen 2002: 173-174]. La stabilizzazione delle aspettative, la promozione di opportunità non legate al mercato (demercificazione) e la compensazione degli individui potenzialmente danneggiati hanno permesso all’economia di avanzare più velocemente, e di avviare il percorso verso un’economia globale dell’informazione. Come ha affermato Schumpeter [cit. in Rieger e Leibfried 1998: 375], “Motorcars are travelling faster than they otherwise would because they are provided with brakes”. 44 5. Welfare e competitività internazionale nell’era globale 5.1 Le pressioni contrastanti sul welfare Le relazioni tra welfare, società ed economia sono complesse, ma anche dinamiche, perché sottoposte a continue trasformazioni del contesto culturale, sociale, politico e tecnologico. Se ciò è normale, molti dei cambiamenti in corso sono invece di portata storica, delineando nuove forme di organizzazione produttiva, nuovi beni e nuovi servizi, e anche nuove forme di struttura familiare con un crescente individualismo. La teoria del sociologo catalano Manuel Castells [2000 vol.1: cap.1-2] è che la rivoluzione informatica cominciata negli Usa negli anni 70, la crisi economica delle società capitalistiche (crisi petrolifera del 1973) e stataliste (crollo del comunismo del 1989) e i nuovi movimenti sociali e culturali avviati negli anni 60 (antiautoritarismo, difesa dei diritti umani, femminismo, ecologismo) siano tre processi indipendenti, ma in un rapporto di reciproco sostegno. L’economia e la società dell’informazione hanno rivoluzionato in forme sconosciute prima, a livello del sistema nel suo complesso, la struttura della produzione e degli scambi internazionali e, a livello di singole unità, i rapporti familiari e sociali [Esping Andersen 1996, 1999, Beck 1997, Castells 2000, Panic 2003, Sapir et al. 2004: cap.7]. La combinazione del processo di globalizzazione dell’economia con la rivoluzione informatica che la permette, crea una nuova economia fondata su un nuovo paradigma produttivo che ha come materia prima l’informazione e la conoscenza. La nuova economia, che presenta una vera e propria discontinuità storica con l’economia industriale, è “informazionale" perché produttività e competitività di imprese o paesi interi sono basate sulla capacità di generare, trattare e applicare con efficacia le informazioni. E’ globale 45 perché produzione, consumo e scambio sono organizzati a scala globale, sia direttamente dalle multinazionali sia indirettamente mediante una rete di vincoli tra imprese e tra mercati. E’ infine connessa in rete perché si sviluppa entro una rete di interazioni tra agenti economici. Tuttavia l’industria rimane centrale e i servizi non la sostituiscono del tutto, piuttosto l’informatica penetra e interconnette tutti i settori produttivi, in un sistema produttivo integrato e complesso [Castells 2000 vol.1: cap.2]. La società ne esce profondamente mutata. Cresce la domanda di lavoro flessibile e individualizzato (e quindi vulnerabile e insicuro) adeguato alla flessibilità di prodotto e di processo, si riduce la domanda di lavoro poco qualificato nei paesi occidentali, aumentano l’attenzione ai risultati di breve periodo nelle imprese e la segmentazione dei redditi e delle garanzie per i lavoratori. La conseguenza è un’iniqua distribuzione dei benefici tra paesi o aree ricche centrali e paesi o aree povere marginali, tra capitale e lavoro, tra lavoro qualificato ad alta produttività e lavoro generico sostituibile con immigrati o macchine, tra settore privato e pubblico, tra economia e ambiente. Cresce il dualismo economico e sociale nelle società avanzate, dove aumenta la disuguaglianza e la povertà, e quindi la polarizzazione tra cittadini inclusi ed esclusi, sia come capacità di consumo che come possibilità di trovare un buon lavoro18 [Castells 2000 vol.1: cap.4]. La transizione demografica e i cambiamenti nei ruoli familiari, infine, significano ulteriori conseguenze microeconomiche legati alla fine di una struttura familiare fondata sull’uomo lavoratore come unico percettore di reddito: migliora l’aspettativa di vita, cala nettamente la natalità, nascono nuovi modelli di famiglia, più instabili, con meno maschi capifamiglia e con più percorsi di vita non standard [Esping Andersen 1996: cap.4, Castells 2000 vol.2: cap.4]. Quali sono le conseguenze dei cambiamenti per il sistema di welfare? Più che una crisi epocale e definitiva, cambiano piuttosto la domanda e l’offerta di Castells [2000 vol.3: cap.2] parla di un “Quarto mondo”, formato dai paesi in via di sviluppo ma anche dalle aree marginali dei paesi e delle città avanzate, la cui espansione è inseparabile dalla crescita dell’economia globale, a meno di un’azione socio-politica consapevole e condivisa per bloccarla. 18 46 protezione sociale, ossia emergono nuovi bisogni della società e nuove esigenze del sistema produttivo, da confrontare con la difficile sostenibilità finanziaria e competitiva del welfare nel mondo globale. Appaiono quindi degli effetti opposti, delle pressioni contrastanti, che comportano variazioni nelle preferenze dei cittadini e delle imprese non ancora fatte proprie, per ritardi interni o per vincoli esterni, dal sistema di welfare [Esping Andersen 1996, Rodrik 1997: cap.4, Franzini e Milone 1999: 36-40, Pizzuti 1999: 116-122]. La domanda di protezione sociale cresce perché emergono nuovi bisogni, tipici dell’economia globale, relativi in particolare, nella sfera sociale, all’insorgere di nuovi rischi non assicurabili dalle forme tradizionali di protezione [Esping Andersen 1999: cap.8-9, Mira d’Ercole e Salvini 2003: cap.3-4]. Oggi il mercato del lavoro post-fordista e post-industriale è flessibile ma insicuro quanto a (sufficiente) stabilità dell’occupazione e del reddito: l’inserimento di giovani e donne è problematico, l’espulsione di lavoratori adulti con competenze superate è frequente (via prepensionamenti o disoccupazione tout court), le prospettive dei lavoratori non qualificati sono negative (quanto a occupazione, gap salariale e sostituibilità del proprio lavoro), il rischio di avere un reddito familiare insufficiente o persino nullo è alto. La conseguenza è un rischio elevato di marginalizzazione ed esclusione dal mercato del lavoro non precario e dal tessuto sociale, in una triste alternativa tra il modello americano di bassa disoccupazione ma con molti working poor e quello europeo di maggiore disoccupazione ma minore rischio di povertà. La famiglia post-fordista e post-industriale, a sua volta, vede un rischio alto di povertà soprattutto nelle famiglie monoparentali e, di conseguenza, rischi di scarso accesso al capitale umano e sociale per i bambini di oggi [Esping Andersen 2003]. Ma per accrescere l’offerta di lavoro, soprattutto delle donne, serve una offerta di servizi finora non sufficientemente garantita, affinché possano conciliare vita professionale e la cura familiare, incrementando insieme i propri tassi di attività e di fecondità. Anche il sistema economico vede crescere i suoi bisogni, per due motivi. In primo luogo perché nell’economia della conoscenza, fondata sulla produzione 47 immateriale e sullo scambio di informazione, occorre più sapere per produrre beni e servizi di qualità, ma anche più sapere e più benessere diffuso per sostenere il consumo e l’utilizzo di quegli stessi beni, come anche per accedere ai servizi pubblici e privati e della pubblica amministrazione. Inoltre, al crescere dell’interdipendenza e dell’innovazione tecnologica, cresce anche l’importanza dei fallimenti di mercato, soprattutto le asimmetrie informative del nostro sistema socio-economico complesso, che al contrario richiederebbe più certezza del consumo e della domanda, e un maggiore controllo degli shock esterni [Rodrik 1997, Stiglitz 2002]. Al tempo stesso, però, la crescita dell’offerta di protezione sociale è bloccata, perché vincolata alla sua sostenibilità finanziaria e competitiva. I vincoli all’offerta riguardano essenzialmente solo il pilastro pubblico del welfare, ma creano difficoltà anche agli altri pilastri perché essi non sono in grado di coprire tutti i rischi da cui uno stato sociale con meno risorse non potrebbe più proteggere19. L’intensificarsi dei processi di globalizzazione (crescita esponenziale dei flussi di capitale, accresciuta volatilità dei mercati internazionali, estensione degli investimenti diretti esteri) e gli accordi internazionali come la moneta unica europea riducono gli spazi di autonomia delle politiche economiche e sociali nazionali rispetto al passato e rendono quindi più condizionata dall’esterno la definizione del sistema di welfare ottimale. Oltre un certo grado di globalizzazione, le istituzioni pubbliche perdono la capacità di garantire lo stato sociale preesistente attraverso la politica fiscale relativa a capitali e profitti d’impresa20 [Rodrik 1997: cap.4, Tanzi 2000]. D’altro canto, sembra ormai inattuabile una crescita economica keynesiana, non inflazionistica e guidata dalla domanda, in un solo paese [Esping Andersen 1996: 257, Mishra 1999: 6]. Almeno finora, la conseguenza delle pressioni contrapposte sul welfare dei paesi avanzati sono livelli elevati di spesa sociale, ma stabili a partire dagli anni 90 [Grafico 5.1]. 19 Nel paragrafo 3.1 si è discusso di come in molte situazioni non valgano le condizioni che renderebbero le assicurazioni private pienamente efficienti. 20 Tuttavia gli stati nazionali mantengono ancora la capacità di decidere aspetti importanti delle proprie politiche, senza nessuna evidente convergenza verso un modello unico [Castells 1996: 4748, Barr 2001: 263-272, Pierson 2001: 411-427, Bowles 2003: 2-5, De Grauwe e Polan 2003, Lindert 2004 vol.1: 235-263]. 48 Grafico 5.1 - Trend della spesa sociale pubblica (% del Pil, 1991-2000) 30 28 Francia Germania 26 Italia Regno Unito 24 22 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 Fonte: Inpdap [2003: graf. 2.1, p.57] su dati Eurostat L’esistenza di pressioni contrapposte sul welfare è un paradosso che deriva dalla crescente distanza tra l’economia e la società, da un lato, e la politica, dall’altro lato. Da un lato ci sono sistemi economici sempre più globali e sempre più orientati al breve periodo (profitti, valore delle azioni, guadagni dei grandi manager, speculazione, vincoli di bilancio e di competitività), insieme a una società che perde sempre più l’orizzonte, la prospettiva e la responsabilità verso il futuro. Dall’altro lato ci sono sistemi politici, ancora largamente fondati sugli stati nazionali, che dovrebbero al contrario essere sempre più orientati al lungo periodo per realizzare quegli investimenti pubblici in innovazione, infrastrutture e formazione invocati già un decennio fa da Jacques Delors nel Libro Bianco [EC 1993]. Ma lo stato sembra farsi sempre più impresa esso stesso, accogliendo un’etica dell’economia basata su concorrenza e competitività, con l’obiettivo di attirare e non governare i fattori produttivi mobili (risparmio, produzione, domanda, forza lavoro qualificata), proprio come fanno le imprese [van Parijs 1995]. Cresce il contrasto tra i pochi istanti necessari per guadagnare con investimenti speculativi e i decenni necessari per migliorare il capitale umano e la coesione sociale, tra il sempre più diffuso “short-termism” nella finanza, nel mercato del lavoro e nelle strategie dei manager, e il sempre più auspicabile “long-termism” nelle politiche pubbliche [Borghesi e Vercelli 2003: 7-9]. Nella Figura 5.1 l’apparente paradosso è schematizzato mostrando come lo 49 stato nazionale, il solo che potrebbe programmare politiche di lungo periodo necessarie per gli investimenti produttivi in capitale umano e innovazione e la protezione dai nuovi bisogni, diventa sempre più distante dall’economia globale, che invece è fondata sugli obiettivi di breve periodo di redditività e competitività. Cresce la distanza tra i flussi globali e senza frontiere di capitali e merci e le identità legate al territorio dove gli individui vivono e lavorano [Castells 2000 vol.2: 342], e si riduce la disponibilità a finanziare investimenti come quelli sociali, i cui benefici sono differiti nel tempo [Pizzuti 1999: 124]. Afferma Onofri [2001: 158]: “Può apparire a prima vista paradossale che mentre si prospettano per il futuro esigenze crescenti di solidarietà sociale e di redistribuzione, l’atteggiamento generale corrente sembra rimuoverle, aspirando a organizzazioni sempre più individualistiche del soddisfacimento dei bisogni e, quindi, verso la riduzione del ruolo dello stato nella redistribuzione delle risorse. E’ il lento emergere della consapevolezza di queste prospettive contrapposte che genera il disorientamento nei confronti del futuro […]”. Figura 5.1 - Contrasto tra breve e lungo periodo nella domanda e offerta di welfare Capitale umano Innovazione Nuovi lavori Profitti Finanza globale Competitività Stato nazionale Domanda crescente di welfare Lungo periodo Economia globale Breve periodo Offerta limitata di welfare 5.2 I fattori di competitività Nello schema delle relazioni tra welfare, economia e società, il sistema produttivo determina costo e qualità delle esportazioni, e a sua volta la competitività, che si basa su costi e qualità, determina la quantità delle esportazioni stesse [Figura 5.2]. Ma in questa catena di relazioni i cambiamenti legati alla globalizzazione e alla rivoluzione informatica rendono sempre più 50 centrale la concorrenza internazionale, che a sua volta rende la competitività un elemento sempre più decisivo per un paese. Infatti, sia realmente (tramite investimenti diretti esteri e commercio con i paesi in via di sviluppo, ma anche immigrazione di forza lavoro poco qualificata) che solo psicologicamente (tramite la paura di crescenti investimenti, importazioni e immigrazioni), i paesi sviluppati sono di fronte alla necessità di adeguare il proprio sistema economico per migliorare la propria competitività, e attraverso le relazioni già analizzate, modificare di conseguenza il proprio sistema di welfare per continuare a garantire i risultati socio-economici [Rodrik 1997: cap.3, Acocella et al. 2004: 88-94]. Figura 5.2 - Relazione tra welfare e competitività nell’era globale bilancia commerciale Società Economia Competitività prezzo e qualità delle esportazioni Sistema del welfare domanda crescente ma vincoli all’offerta di welfare crescente concorrenza internazionale Trasformazioni socio-economiche (globalizzazione, informatica, nuove famiglie) Nota: i legami tra welfare, società ed economia non vengono riportati poiché sono gli stessi della Figura 2.2 L’efficienza produttiva che sta alla base di incrementi di competitività riguarda sia i costi dei fattori produttivi (competitività di prezzo, ossia il tasso di cambio reale) che la capacità di innovazione e creatività (competitività di qualità), ma anche le istituzioni economiche, sociali, politiche e religiose che formano la spina dorsale di un paese. Ebbene, tutti e tre questi ambiti possono essere favoriti da un welfare efficiente e adeguato, anche nell’era globale. Il costo dei fattori produttivi è influenzato dal sistema di welfare tramite il contenimento del prezzo dei beni e servizi intermedi (grazie alle infrastrutture, che rientrano nella spesa pubblica ancorché non sociale) e del costo del lavoro (dipendente dalla domanda e dall’offerta di lavoro segmentato per skills, ossia dai salari monetari e sociali per i lavoratori e dall’incentivo a investire in formazione), e l’incremento della produttività (grazie agli investimenti anche pubblici in 51 infrastrutture, formazione e capacità di innovazione). In particolare, ai fini della competitività di prezzo, conta la combinazione di costo del lavoro e produttività, ossia il costo del lavoro per unità di prodotto [Pizzuti 1999: 106]. Una formalizzazione semplice è, come ampiamente noto, la combinazione tra il tasso di cambio reale e il mark-up in mercati non perfettamente concorrenziali, dove le imprese hanno un certo potere di mercato. La competitività, espressa appunto come tasso di cambio reale (eR), dipende dal tasso di cambio nominale (e) e dal differenziale tra prezzi interni (p) ed esteri (p*), e a sua volta il livello dei prezzi dipende dal costo del lavoro (w), dalla produttività del lavoro (a) e dai margini di profitto (m): [1] eR e p* , p con p w (1 m) a Indicando la variazione della variabile con il punto sopra il simbolo e le variabili relative all’estero con l’asterisco, segue che la variazione della competitività è: [2] * m ) eR e (w * w ) (a * a ) (m A loro volta, la qualità e l’innovazione sono supportate dalla spesa in ricerca e sviluppo (investimenti pubblici, ma anche quelli privati legati all’esistenza di una domanda aggregata sostenuta), dal capitale umano adeguato (spesa in formazione pubblica a livello macro e incentivi a investire nella propria formazione e nell’assumersi il rischio a livello micro), dalla capacità di diffusione delle innovazioni (favorita da un contesto sociale, culturale e istituzionale favorevole e da una adeguata capacità di acquisto delle nuove tecnologie), dalle capacità imprenditoriali e organizzative (anche grazie alle scuole di alta formazione come i politecnici), dalle politiche industriali (sostegno ai settori industriali vitali e privatizzazioni e liberalizzazioni efficienti). Anche le strategie d’impresa, pur non direttamente dipendenti dalle politiche pubbliche, vanno considerate legate al sistema di welfare nell’ottica dell’approccio delle varietà del capitalismo, perché la scelta di un tipo di percorso industriale o di un altro è in stretta relazione biunivoca con il sistema di welfare esistente [Hall e Soskice 2001]. In particolare, elevati investimenti di lungo 52 periodo delle imprese (ma anche delle famiglie, per esempio in capitale umano) dipendono sia da fattori sociali che economici. Servono una diffusa fiducia nelle prospettive future, in particolare aspettative positive rispetto alla domanda aggregata e ai prezzi [Sapir et al. 2004: 76-82 ed.it.], e una consolidata stabilità socio-politica grazie all’assenza di forti conflitti sociali [Alesina e Perotti 1996]. Ciò rende controllabile l’incertezza e la trasforma in rischio calcolabile e in aspettative stabili sui redditi futuri e sui costi necessari per ottenerli [Ciccarone 1997: 194-195]. L’esistenza di istituzioni economiche, sociali, politiche e culturali solide, efficienti e adeguate al percorso di sviluppo che un paese decide di perseguire, permette a un paese di differenziarsi dagli altri e di ridurre il vincolo della concorrenza internazionale, se valgono due condizioni. La prima è che il percorso di sviluppo del paese vada nella direzione del progresso sociale e tecnologico, la seconda è che la globalizzazione non comporti la crescita della concorrenza internazionale (come sembrerebbe intuitivo), ma piuttosto l’espansione territoriale di mercati monopolistici od oligopolistici, configurando un’economia di concorrenza monopolistica od oligopolistica dove un paese può differenziare i propri beni da esportare e concentrarsi sulle produzioni ad alta qualità, tecnologia e innovazione [Acocella et al. 2004: 187-189]. 5.3 I percorsi di crescita dei paesi avanzati Se diventa sempre più importante per un paese la questione della competitività di sistema nei confronti del resto del mondo, tale necessità va calibrata sulla base degli obiettivi che, più o meno implicitamente, una società decide di perseguire tramite le proprie istituzioni economiche, sociali, e politiche, sulla base della propria cultura, storia e risorse. Poiché si può competere con l’estero sia abbassando i propri prezzi (competitività di prezzo) sia aumentando l’appetibilità delle proprie esportazioni e differenziandole dai competitori (competitività non di prezzo o di qualità), saranno diverse le politiche da adottare e quindi le necessità riguardo al sistema di welfare. 53 La competitività di prezzo è la strada implicitamente scelta quando si paventa in Europa l’invasione delle merci dei paesi in via di sviluppo come Cina o India, che costano di meno perché gravate di meno di tasse e contributi sociali, e quindi sarebbero vincenti perché tali paesi attuerebbero un dumping sociale. La soluzione, allora, è solo quella di ridurre anche in Europa il costo del lavoro tagliando le imposte alle imprese, per aumentarne gli incentivi e mantenere i margini di profitto, e contenendo lo stato sociale, per ridurre i contributi sociali e quindi i costi di produzione, ma anche per ridurre i disincentivi all’offerta di lavoro. Rispondere con meno stato sociale al presunto dumping sociale dei paesi in via di sviluppo si basa sull’ipotesi che paesi sviluppati e non abbiano sistemi produttivi simili e dunque competano negli stessi settori, e che il costo del lavoro per unità di prodotto sia simile. Pizzuti [1999: 110] critica la tesi del dumping sociale perché in realtà ci troviamo in una fase di riorganizzazione della divisione internazionale del lavoro: “In queste fasi la competitività di prezzo è maggiormente operante, ma tale circostanza non implica l’opportunità di ridurre le spese dello stato sociale come suggerito dalla tesi del dumping sociale. Le possibilità dei paesi economicamente sviluppati di sottrarsi alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, specializzandosi in nuove attività non accessibili a questi ultimi, possono infatti essere agevolate proprio dalle istituzioni dello stato sociale di cui essi sono maggiormente dotati”. Al contrario, la competitività di qualità evita la concorrenza con i paesi in via di sviluppo assecondando e non contrastando la divisione internazionale del lavoro in corso tra fasi produttive creative e innovative ad alta intensità di capitale fisico, sociale e umano nei paesi sviluppati e fasi produttive ad alta intensità di lavoro nei paesi in via di sviluppo [Pizzuti 1999: 107-110, Acocella et al. 2004: 185-187]. Infatti le statistiche del commercio internazionale mostrano crescenti interscambi nell’ambito dello stesso settore produttivo, perché sono sempre più non i beni e i servizi finiti, ma le singole fasi produttive a essere divise internazionalmente per ridurre i costi e migliorare l’efficienza complessiva dell’economia globale. In altre parole, i paesi sviluppati si specializzano in quelle 54 fasi del processo produttivo nelle quali godono di un vantaggio in termini di capitale disponibile, sia fisico che umano, ma anche sociale, grazie al welfare esistente che li “protegge” dal dumping sociale. Nel quadro della nuova divisione internazionale del lavoro, i paesi avanzati possono accrescere la loro competitività in beni e servizi ad alta qualità ed alta tecnologia grazie a crescenti investimenti in educazione e formazione continua (maggiore e migliore capitale umano) e alla soddisfazione dei nuovi bisogni delle società post-industriali (minori rischi da sostenere). E’ difficile vedere un ruolo dei paesi avanzati se non nella loro specializzazione in quella parte della produzione della ricchezza mondiale ispirata a criteri di “qualità”: qualità dei prodotti industriali, della R&D, del vivere quotidiano e della riproduzione sociale. Analogamente, i paesi in via sviluppo attraggono soprattutto le fasi nelle quali conta la disponibilità di forza lavoro poco costosa perché poco qualificata e poco protetta21, anche se le cose cambiano rapidamente come è evidente per la crescente specializzazione produttiva di Cina e India in beni e servizi ad alta tecnologia. Acocella et al. [2004: 186-187] sottolineano che “Nei paesi economicamente più avanzati, una più accentuata presenza di queste caratteristiche produttive – oltre ad avere effetti positivi sulla produttività del lavoro, sull’incidenza del suo costo per unità di prodotto e, dunque, sulla stessa competitività di prezzo – consente specializzazioni produttive più riparate dalla concorrenza dei paesi dove la scarsa spesa sociale contribuisce a rendere molto bassi gli oneri salariali […] Il capitale umano e le assicurazioni economicosociali, che – da un lato – favoriscono l’innovazione produttiva e – dall’altro – preservano i lavoratori, le imprese e la collettività dai rischi che essa comporta, costituiscono un contributo significativo delle istituzioni dello stato sociale allo sviluppo economico e civile. L’accresciuta integrazione internazionale non riduce, ma anzi accentua il ruolo dell’innovazione nella crescita economica e nella competizione internazionale. Corrispondentemente, il ruolo dello stato 21 Resta la necessità di favorire anche nel Sud del mondo maggiore protezione sociale e maggiore scolarizzazione, pur evitando politiche pseudo-protezionistiche [Lindert 2004 vol.1: 222-223]. 55 sociale non sembra diminuito dalla globalizzazione; semmai cresce anche la sua funzione di input produttivo di tipo infrastrutturale che, in quanto tale, deve tuttavia adeguarsi alle nuove esigenze del sistema economico sociale con il quale interagisce”. E analogamente Bowles [2003: 27]: “[…] the traditional vehicles of egalitarian aspirations – trade unions and states – have a different but no less important role to play in a highly competitive world than in closed economies. […] But policy to implement Pareto-improving productivity gains may in some respects require a greater rather than lesser degree of collective interventions in atomistically competitive outcomes”. Tale percorso di crescita empiricamente non sembra un controsenso, poiché le analisi sui fattori di competitività e innovazione mostrano chiaramente come un’elevata protezione sociale non interferisce con un elevato reddito pro capite o con forti capacità innovative [EC 2003b]. Anche lo studio di Castells e Himanen [2002: cap.4] sulla Finlandia mostra come un innovazione elevata non sia alternativa a una limitata esclusione e ingiustizia sociale. E’ diffusa la convinzione che gli obiettivi della sostenibilità economica e sociale (nonché ambientale) non sono alternativi, ma possono rappresentare un gioco a somma positiva [Sapir et al. 2004: cap.5]. E’ quindi vantaggioso anche dal punto di vista competitivo coltivare i punti di forza europei che sostengono lo sviluppo concorrenziale e il dinamismo, tra cui la coesione sociale, la qualificazione della forza lavoro e la pratica del dialogo tra le parti sociali [Dutheillet de Lamothe et al. 2004]. Ciò è tanto più vero in sistemi economici le cui funzioni di produzione generiche Y f ( A, K , L, H ) sono composte da tecnologia (A), capitali finanziari (K) e lavoro poco qualificato (L) soggetti a interscambi e diffusione globali [Barr 2001: 168-170]. Questi fattori sono omogenei in molte economie e di conseguenza scarsamente significativi per definire il successo economico di un paese. In altre parole, se la disponibilità di capitale, lavoro non altamente qualificato e tecnologie è scarsa, si può importare da chi ne ha in eccedenza. Allora il solo fattore che rimane sufficientemente legato al territorio sono le idee e la creatività degli individui, sintetizzate nella quantità e qualità di capitale umano (H), che diventa centrale come fonte di crescita economica autonoma. Un 56 imprenditore catalano ha ricordato efficacemente che “Hoy endia, si no tienes el dinero, lo puedes pedir prestado; si no tienes tecnologia, la puedes comprar; pero lo que finalmente cuenta de verdad son las ideas y la creatividad de las personas”22. D’altronde, la complementarità tra giustizia sociale e competitività non è una novità nel corso della storia umana. Tra i fattori che sono stati decisivi per la crescita economica e la diffusione dell’innovazione nelle diverse epoche, sono numerosi quelli oggi influenzabili dalle politiche sociali: l’istruzione tecnicoscientifica, la propensione al rischio, la scarsa disponibilità di forza lavoro a basso costo, l’aumento dell’aspettativa di vita in buona salute (e quindi l’accumulazione delle conoscenze e la possibilità di fare progetti di lungo periodo), la fertile mescolanza di idee e culture diverse [Diamond 1997: 196-198 ed.it.]. 22 Intervista a Pedro Durán Farell, in National Geographic España, dicembre 1998, pag.58 57 6. Una formalizzazione analitica del modello 6.1 Gli obiettivi I capitoli precedenti inseriscono il presente lavoro nel dibattito sugli effetti del welfare rispetto a efficienza e competitività. In tale letteratura, le analisi teoriche ed empiriche arrivano a risultati non univoci, secondo le diverse ipotesi sul ruolo del welfare. Non esiste né evidenza teorica o empirica del trade-off tra equità ed efficienza, né prove di una complementarità indubitabile sempre e ovunque, perché la struttura del welfare conta, oltre che il suo livello [Atkinson 1999: cap.2, Lindert 2004 vol.2: 82-99]. Di conseguenza, sembra più feconda una visione contingente della relazione tra welfare ed efficienza [Gough 1996]. L’obiettivo è quello di proporre un modello dei costi e benefici del welfare sulla competitività internazionale, esplorando le condizioni strutturali sotto le quali il sistema di protezione sociale può migliorare l’efficienza economica o al contrario danneggiarla. Diversamente dalle analisi abituali, qui vengono utilizzate delle definizioni ampie sia del welfare che della competitività. Il welfare è inteso come un sistema composto da spesa pubblica sociale, spesa privata degli individui e cura informale nella famiglia o nella comunità, nell’accezione proposta da Esping Andersen [1996, 1999]. Quindi il reddito disponibile dei lavoratori è definito come somma del salario monetario, del salario sociale (servizi pubblici più trasferimenti monetari) e dei benefici aziendali derivanti da assicurazioni sociali contrattate con le imprese [Standing 1999]. La competitività è strutturale, ossia non è definita come la capacità di esportare in mercati concorrenziali, ma come la capacità di garantire nel lungo periodo redditi elevati e crescenti in economie esposte alla concorrenza internazionale [Pfaller et al. 1991: 5-11]. Inoltre grande attenzione è rivolta all’orizzonte di lungo periodo delle 58 decisioni di investimento sociale, rispetto ai vincoli di breve-medio periodo dei loro costi di finanziamento23. Zagler e Dürnecker [2003: 397] partono proprio dall’idea che breve e lungo periodo vadano considerati insieme, quantomeno riguardo alla spesa pubblica: “Fiscal policy, in essence, is a short-run issue. In the debate on economic policy, fiscal policy is predominantly viewed as an instrument to mitigate short-run fluctuations of output and employment. […] Nonetheless, we cannot and should not ignore the long-run implications of short run policy instruments in taxation and government expenditure”. Lo schema interpretativo fa riferimento al cosiddetto “paradigma dello sviluppo umano”, secondo il quale i fenomeni economici e sociali sono strettamente legati, tanto che la protezione sociale può essere considerata un vero e proprio fattore produttivo [Sen 1992, 1999]. La rassegna dei capitoli precedenti mostra l’esistenza di vari canali grazie ai quali il sistema di welfare ha effetti positivi sull’efficienza economica, in particolare nel medio-lungo periodo, oltre agli effetti negativi in termini di costo di breve periodo per le imprese (costo del lavoro e tassazione), distorsione dei comportamenti e dispersione delle risorse. In primo luogo la propensione al rischio, la possibilità di cambiamenti produttivi e organizzativi e la stabilità rispetto agli shock e alle fluttuazioni dipendono dall’esistenza di una rete adeguata di protezione sociale, in particolare rispetto alla possibilità di una flessibilità che non sia precarietà di fronte alle trasformazioni della tecnologia e dell’organizzazione produttiva e alla crescente apertura internazionale. Poi gli investimenti pubblici in quantità (educazione a partire dall’infanzia e formazione) e qualità (sanità) del capitale umano sono resi possibili da un adeguato livello di tasse, imposte e contributi che li possa finanziare24. Ma anche la promozione delle pari opportunità e della conciliazione tra il ruolo di madre e di lavoratrice, nonché la possibilità per ragazze e ragazzi di lavorare e formarsi una famiglia, sono decisivi nel garantire un pieno utilizzo delle risorse a disposizione della società. Infine, elevati investimenti delle imprese 23 Cfr. la critica di Acocella et al. [2004: 175-176] al concetto di dumping sociale, che è invece fondato su breve periodo e competitività di prezzo. 24 La possibilità di ricorrere al debito pubblico per finanziare la spesa pubblica non è infinita, ed è peraltro molto limitata nei paesi dell’euro dal Patto di stabilità e crescita. 59 sono resi possibili da aspettative positive e condizioni favorevoli a un orizzonte decisionale di lungo periodo, a loro volta favorite dalla diffusione dei benefici della crescita e dall’esistenza di un insieme di prestazioni sociali che stabilizzano la domanda in funzione anticiclica e riducono i conflitti sociali e l’incertezza25. Abbiamo visto come la globalizzazione (e la rivoluzione informatica che la sostiene) ponga forti sfide alle economie nazionali, che hanno bisogno di sostenere la propria competitività a fronte dell’accresciuta concorrenza internazionale, sia all’interno dell’Occidente che tra paesi avanzati e non. La competitività può basarsi sul prezzo delle esportazioni, e allora in un unico mercato globale prevarrà chi riesce a ridurre di più i costi, ma può invece basarsi sulla qualità della produzione, e allora ogni paese cercherà di inserirsi nei diversi mercati differenziati per prodotto, riducendo la propria esposizione alla concorrenza internazionale rispetto ai costi. Grazie alla formalizzazione analitica delle relazioni tra sistemi di welfare e concorrenza globale, appare una contraddizione relativa al ruolo della spesa sociale (e del sistema fiscale che ne è il corrispettivo), che presenta contemporaneamente effetti positivi e negativi sulla competitività complessiva, perché “Welfare state has benefits as well as costs” [Barr 2001: 263]. Da un lato, nel breve periodo, sono costi diretti per le imprese, e quindi pesano sul prezzo dei prodotti e sulla competitività internazionale; dall’altro lato, nel medio-lungo periodo, sono investimenti produttivi, che promuovono l’innovazione, il capitale umano e le reti di infrastrutture [Fouarge 2003: 12]. Lasciando da parte gli effetti prettamente sociali, l’obiettivo è quindi quello di definire sotto quali condizioni i benefici di medio-lungo periodo sono maggiori dei costi di breve periodo, ovvero sotto quali condizioni è maggiore la probabilità che un welfare elevato ma ben disegnato sia sostenibile. In tale circostanza giustizia sociale e concorrenza internazionale sarebbero effettivamente complementari. L’obiettivo è quindi un’analisi costi-benefici del sistema di welfare, sulla Gli investimenti privati dipendono anche da altri fattori, però l’orizzonte di lungo periodo nel quale vengono valutati è favorito dalla stabilità socio-politica che riduce l’incertezza e accresce la produttività [Alesina e Perotti 1996] e dalla stabilità macroeconomica che limita le fluttuazioni della domanda, dei prezzi e delle entrate e uscite pubbliche [Sapir et al. 2004: 76-82 ed.it.]. 25 60 base di molti autori che propongono di confrontare le due facce della protezione sociale, con l’idea che esistono condizioni grazie alle quali la differenza tra benefici e costi risulta essere positiva. Tra essi, i confronti proposti tra i vantaggi per la competitività settoriale dovuti a bassi salari, svalutazione e delocalizzazioni produttive e gli svantaggi che queste stesse politiche causano alla competitività strutturale [Gough 1996], tra le imposte distorsive che riducono la propensione a investire e i trasferimenti che limitano le tensioni sociali e creano un contesto socio-politico migliore [Alesina e Perotti 1996: 1226], tra gli incentivi positivi per i percettori e gli incentivi negativi per i contribuenti [Aghion e Howitt 1998: 280298], tra il costo e l’investimento produttivo della spesa sociale che favorisce le pari opportunità [Rubery et al. 1999: 3], tra gli incentivi all’offerta di lavoro creati dalla spesa sociale e i disincentivi derivati dal suo finanziamento [Søndergaard 1999: 307], tra i benefici del welfare per le imprese in termini di skills e i costi del suo finanziamento che ricadono sulle imprese stesse [Mares 2001: 184-185], tra gli effetti positivi della spesa produttiva e gli effetti negativi delle distorsioni create dalla tassazione [Zagler e Dürnecker 2003: 408-409], tra l’indebolimento del vincolo del credito a beneficio degli investimenti in capitale umano e i costi delle distorsioni dovute alla redistribuzione [Bénabou 2004: 10-13]. Un’analisi di questo tipo può essere utile per analizzare alcuni fatti stilizzati che rimangono senza spiegazione nel mainstream economico: 1) sono fortemente innovatrici e progressive sia le economie con un welfare residuale (o liberale) come gli Stati Uniti, sia le economie scandinave con un welfare universale (o socialdemocratico); 2) i paesi avanzati hanno livelli di tassazione e di stato sociale molto differenti tra loro, senza evidenze empiriche di convergenza verso livelli medi o minimi; 3) almeno finora i grandi cambiamenti economici, tecnologici e sociali in corso (globalizzazione, rivoluzione informatica e transizione demografica) non incidono significativamente sui livelli di tassazione e di spesa sociale nei paesi avanzati; 4) in particolare, l’Italia sembra intrappolata da alcuni anni in un declino economico caratterizzato da una ridotta crescita dell’economia, da una scarsa diffusione di capacità innovative e da un forte sottoutilizzo di risorse umane. 61 6.2 Le ipotesi Nell’ambito della teoria della crescita endogena [Aghion e Howitt 1998], esiste un’ampia letteratura teorica ed empirica sulle relazioni tra elementi del sistema di welfare e crescita economica di lungo periodo. Numerosi lavori analizzano il ruolo dell’istruzione come strumento di accumulazione di capitale umano, ritenendo centrale l’offerta pubblica in caso di imperfezioni del mercato del credito, congestione nell’offerta o esternalità. Un filone di analisi si concentra in particolare sugli effetti negativi della disuguaglianza di reddito sulla crescita economica, tramite diversi canali che possono essere influenzati dal welfare, inteso però solo come trasferimenti di reddito dai benestanti ai bisognosi. Tra i fattori che influiscono negativamente sulla crescita vi sono infatti l’ereditarietà del capitale umano [Galor e Zeira 1993], la ridotta appropriazione dei risultati economici del proprio sforzo a causa di politiche fiscali fortemente redistributive [Persson e Tabellini 1994], i conflitti sociali che aumentano l’incertezza e riducono la produttività, e quindi scoraggiano gli investimenti [Alesina e Perotti 1996], l’instabilità socio-politica e le scelte individuali non ottimali di educazione e natalità [Perotti 1996], l’imperfetta salute della forza lavoro [Bloom et al. 2001]. Acemoglu, Aghion e Zilibotti [2003] propongono un modello dove l’innovazione diventa sempre più importante per la crescita dell’economia, rispetto all’imitazione, man mano che un paese si avvicina alla frontiera tecnologica mondiale. Nelle prime fasi di sviluppo di un paese l’imitazione della frontiera è più importante dell’innovazione, e ciò richiede elevati investimenti e relazioni economiche stabili, mentre non è decisiva la selezione delle imprese e degli imprenditori. Invece, per un paese vicino alla frontiera, l’innovazione assume maggiore rilevanza rispetto all’imitazione, e ciò rende necessari una forte selezione delle imprese e degli imprenditori più capaci, relazioni economiche di breve periodo finalizzate all’efficienza, ridotte barriere agli scambi, R&D e skills elevati. L’intervento pubblico, nelle prime fasi di sviluppo, è utile perché politiche protezionistiche o comunque non orientate alla concorrenza possono favorire l’imitazione. Però, successivamente, lo sviluppo dell’economia richiede maggiore concorrenza e minore rigidità per favorire l’innovazione e contrastare la caduta 62 del tasso di convergenza verso la frontiera26. Rispetto a questo framework, propongo un’estensione nella direzione delle politiche sociali. Infatti gli autori descrivono un intervento pubblico limitato alle politiche per la concorrenza (nazionale e internazionale), senza considerare altre possibilità. Così potrebbero avere ragione nel dire che l’intervento pubblico, positivo nelle prime fasi di sviluppo, diventa in seguito dannoso, ma forse le conclusioni sarebbero differenti qualora si prendano in considerazioni altre forme di intervento, come appunto le politiche sociali. Infatti esse possono rivestire un ruolo cruciale anche in economie vicine alla frontiera, come precondizione di flessibilità organizzativa e diffusione delle capacità innovative, nonché fattore di contenimento dei conflitti sociali. La conseguenza di questa estensione sarà che, mentre tralascerò l’analisi microeconomica delle decisioni di impresa e del credito presente nel loro paper, approfondirò invece gli effetti degli strumenti di politica sociale sulle capacità di imitazione e innovazione, senza considerarle esogene. Consideriamo le due modalità di sviluppo (imitazione e innovazione) come due settori produttivi all’interno di un’economia avanzata e aperta, senza spillover tra essi. Entrambi i settori esportano verso il resto del mondo, ma il processo di globalizzazione comporta differenti conseguenze su essi. Il primo settore, tradizionale e lontano dalla frontiera tecnologica globale, è fondato sulla competitività di prezzo in un mercato globale concorrenziale e punta all’imitazione della frontiera cercando di avere prezzi bassi tramite imposte e costo del lavoro contenuti. Il secondo settore, prossimo alla frontiera, è orientato alla competitività non di prezzo (ossia di qualità) in un mercato globale di concorrenza oligopolistica o monopolistica, ricercando capacità creative e innovative e qualità della forza lavoro indipendentemente dal loro costo, potendo contare su una bassa elasticità della domanda rispetto al prezzo. Nella misura in cui l’economia si avvicina alla frontiera, il suo tasso di crescita rallenta, perché dipende negativamente dalla distanza (come è comune nei modelli di crescita endogena), e il settore tradizionale perde importanza come Quando è necessario cambiare politiche, tuttavia, l’influenza politica di chi ne beneficia può impedire le riforme, finendo per mantenere istituzioni inadeguate e rischiando di bloccare il paese 26 63 motore della crescita a vantaggio del settore innovativo27. Allora un paese vicino alla frontiera dovrebbe spostare le proprie risorse produttive dal primo al secondo settore per aumentare il proprio tasso di crescita. Ma tale paese avrebbe bisogno di maggiore o minore spesa sociale per sostenere il proprio settore innovativo? La mia ipotesi di base è che la spesa sociale, sia pubblica che privata, abbia un duplice e contraddittorio effetto, differente nel tempo e tra settori produttivi: negativo soprattutto per il settore tradizionale nel breve periodo e positivo in particolare per il settore innovativo nel medio-lungo periodo. Nel breve periodo prevale l’effetto negativo del finanziamento della protezione sociale pubblica e delle assicurazioni private, che impone un onere sui prezzi di produzione tramite le imposte e il costo del lavoro. Ma nel lungo periodo emerge l’effetto positivo degli investimenti tramite il maggiore (e migliore) capitale umano e sociale, la maggiore propensione al rischio, la maggiore stabilità socio-politica e macroeconomica, la minore resistenza ai cambiamenti tecnologici e organizzativi. In altre parole, entrambi i settori presentano sia effetti negativi del welfare perché finanziato con imposte e costo del lavoro, sia effetti positivi grazie agli “investimenti sociali” di medio-lungo periodo. Non è interessante tanto il livello assoluto di spesa sociale, che dice poco sugli effetti concreti delle politiche sociali, quanto la sua struttura, che, invece, proteggendo alcuni rischi anziché altri, investendo in alcuni ambiti piuttosto che in altri e disperdendo risorse oppure no, influisce significativamente sui risultati. Atkinson [1999: cap.2] e Stiglitz [1999: 240] considerano l’analisi delle strutture effettive di welfare (“the fine structure of welfare matters”) come la soluzione per superare l’inconcludenza delle analisi empiriche che tengono conto solo del livello di spesa per spiegare le performance economiche. Alcuni lavori hanno appunto cercato di dimostrare l’importanza del disegno della struttura del welfare, perché le politiche economiche che migliorano la struttura del welfare possono favorire sia la crescita che l’uguaglianza [Franzini e Milone 1999: 58-61], tanto in una trappola di non convergenza. 27 Secondo il Rapporto Sapir et al. [2004: 54-58 ed.it.] il motivo della ridotta crescita europea rispetto agli Stati Uniti negli ultimi anni è proprio la lentezza nel cambiare la struttura socioeconomica per sostenere l’innovazione, con l’approssimarsi dei paesi europei alla frontiera. 64 che il paradosso del free lunch della spesa sociale si spiega con la struttura non troppo progressiva delle imposte, i limitati disincentivi al lavoro e i programmi a favore della crescita [Lindert 2004 vol.1: 235-263]. L’attenzione alla struttura del welfare permette di superare la sterile contrapposizione tra “pessimisti” e “ottimisti” riguardo agli effetti del processo di globalizzazione sul livello di spesa sociale [Farina 2001]. Infatti, mentre i primi ritengono l’economia globale dannosa per la sopravvivenza dei sistemi estesi di protezione sociale a causa della fine della piena occupazione e dell’erosione della base di finanziamento del welfare [Mishra 1999], i secondi suggeriscono al contrario che tale fenomeno sia positivo, poiché i sistemi di welfare non sono più in grado di ridurre le disuguaglianze e anzi bloccano gli effetti benefici della globalizzazione in termini di efficienza economica [Bertola et al. 2000]. Una posizione “neutra” consiste invece nel mettere al centro del dibattito la ricerca di una migliore efficienza interna e del giusto equilibrio tra protezione pubblica, incentivi di mercato e cura familiare. Seguendo questa impostazione la globalizzazione imporrebbe piuttosto la rimodulazione del sistema di welfare, in modo che continui ad essere uno strumento di promozione dell’efficienza anche nell’era globale [Esping Andersen 1999: 284-287], l’adattamento della struttura di welfare ai cambiamenti economici e tecnologici [Barr 2001: 263-272], la ricalibratura del welfare grazie alla sua razionalizzazione e al suo aggiornamento alla domanda che cambia [Pierson 2001: 419-427], il ridisegno del welfare per minimizzare le perdite di efficienza e favorire le sinergie tra competitività e giustizia sociale [Pennacchi 2003: §3]. 6.3 Il modello teorico In Acemoglu et al. [2003: 8-12] il processo di convergenza del settore intermedio v (facente parte di un continuum di settori normalizzato a 1) di un paese verso la frontiera tecnologica mondiale è descritto dall’equazione: ~ [1] At (v) At 1 (v) At 1 ~ dove At (v) è la produttività del settore v al tempo t, At 1 è la frontiera tecnologica 65 mondiale nel periodo precedente imitata al tasso < 1, (v) > 1 misura le capacità innovative nel settore v e infine At-1 è lo stato medio dell’economia nel periodo ~ precedente. Quindi At 1 rappresenta la parte di produttività che dipende dall’imitazione dei paesi più avanzati (indipendente dalle capacità innovative), e At-1 la parte che dipende dall’innovazione rispetto alla tecnologia locale precedente (indipendente dalla frontiera). Per ottenere il tasso di crescita della produttività nell’intera economia si integra l’equazione [1] e si divide per At-1: 1 [2] At At 1 v 0 At (v)dv At 1 ~ At 1 (v) dv v 0 At 1 1 con ~ At 1 1 At 1 La distanza dalla frontiera () determina il tipo di sviluppo dell’economia: quando il paese è lontano dalla frontiera ( è elevato) l’imitazione è la fonte principale di crescita a causa del forte peso di , quando invece il paese si avvicina alla frontiera ( è prossimo a 1) la crescita è guidata dall’innovazione perché aumenta il peso di . “In altre parole, più un paese è prossimo alla frontiera mondiale, più l’innovazione assume rilevanza ai fini della crescita rispetto all’imitazione, e più diventa quindi importante porre in essere istituzioni e politiche in grado di favorire l’innovazione” [Sapir et al. 2004: 58 ed.it.]. Ora semplifichiamo la [2] considerando le capacità innovative uguali per ogni settore, e estendiamo il modello con gli effetti della spesa sociale, definendo: i) la spesa sociale totale rispetto al Pil (S) come somma della spesa per programmi di protezione pubblica (Spub) e della spesa privata per assicurazioni o servizi sociali pagati dalle imprese o direttamente dai cittadini (Spriv); ii) la pressione fiscale rispetto al Pil (t) come funzione positiva della spesa sociale pubblica (Spub); iii) la quota del costo del lavoro sul Pil (w) come funzione positiva della spesa sociale privata (Spriv); iv) i benefici della spesa sociale sul settore tradizionale (B) come funzione positiva dell’efficacia della spesa stessa (), misurata in termini di limitate distorsioni, sprechi e costi amministrativi [Alesina et al. 2001: 203, Rajkumar e 66 Swaroop 2002: 5-9, De Grauwe e Polan 2003: 22], e come funzione negativa del grado di globalizzazione dell’economia (), che aumenta i costi del finanziamento a parità di spesa, in termini di vincoli finanziari e competitivi al livello delle imposte e alla regolamentazione pubblica28 [Mishra 1999: 36-52, Castells 2000 vol.2: 281-282, Tanzi 2000, Panic 2003: 161-173, Stiglitz 2003: 3]; v) i benefici della spesa sociale sul settore innovativo (B) come funzione positiva della frazione di spesa sociale produttiva (), ossia della composizione productivity-enhancing [Bowles e Gintis 2000: 6-7] e growth-enhancing29 [Zagler e Dürnecker 2003: 405-406], e come funzione negativa del tasso di sconto dei benefici futuri attesi (i), che permette di valutare i rendimenti di lungo periodo degli “investimenti sociali” rispetto ai costi immediati del suo finanziamento, dando più o meno peso al presente rispetto al futuro [Stiglitz 1999: 240]. E’ così possibile definire: [3] S = Spub + Spriv [4] t = t (Spub) con t’ > 0 [5] w = w (Spriv) con w’ > 0 [6] B = B (, ) con B’ > 0, B’ < 0, [0;1] e [0;1] [7] B = B (, i) con B’ > 0, B’i < 0, [0;1] e i > 0. L’equazione [5] deriva dall’idea che il reddito disponibile dei lavoratori sia composto da un salario monetario derivante dal lavoro, dai benefici aziendali non salariali (benefits e assicurazioni sociali non obbligatorie) e da un salario sociale derivante dall’essere parte della società, composto a sua volta dagli eventuali trasferimenti monetari, servizi sociali e sussidi che ricevono dallo Stato [Atkinson 28 Il grado di globalizzazione può essere definito rispetto sia agli scambi commerciali (esportazioni più importazioni sul Pil), sia agli scambi finanziari (attività più passività sul Pil). 29 Distinguere tra spesa produttiva e di puro consumo (rispetto non all’intera spesa pubblica ma alla sola spesa sociale), è preferibile alla classica ripartizione tra investimenti sempre produttivi (tralasciando la possibilità che alcuni siano male disegnati e creino quindi più distorsioni che benefici), e spesa corrente sempre improduttiva (che a sua volta tralascerebbe le infrastrutture, l’educazione, la sanità). Tuttavia, è importante notare che anche spese apparentemente improduttive come i trasferimenti monetari a titolo di pensioni o ammortizzatori sociali possono avere effetti positivi sull’efficienza, nell’ottica di lungo periodo del reddito permanente. Infatti i lavoratori attuali modificano le loro decisioni su consumi, risparmi e investimenti, nonché il loro atteggiamento riguardo alla flessibilità, sulla base del valore atteso della loro pensione futura e della probabilità di godere di ammortizzatori sociali nel caso di un ciclo economico negativo. 67 1999: cap.3, Standing 1999: 145-147, Søndergaard 1999: 307]. Se w è definito come il salario monetario netto che assicura la quantità di beni di consumo e di servizi sociali desiderati dal lavoratore, è allora pari a: w pC C pS S S pub S az [8] dove C sono i beni di consumo desiderati, S i servizi sociali desiderati, Spub i servizi sociali offerti dal settore pubblico, Saz i benefici aziendali non monetari, pc il prezzo dei beni di consumo, ps il prezzo dei servizi sociali. Se viene ridotta la spesa sociale pubblica e quindi l’offerta di servizi (Spub), i lavoratori cercano di garantirsi ugualmente i beni e i servizi desiderati acquistando sul mercato servizi privati o contrattando schemi aziendali di assicurazione [Esping Andersen 2002: 25]. Entrambe le soluzioni comportano maggiori costi del lavoro, la prima tramite salari più alti (w) per permettere ai lavoratori una maggiore spesa sociale “out of pocket”, e la seconda tramite maggiori spese dell’impresa per assicurazioni sociali non obbligatorie (Saz)30. Perché ciò sia vero, è tuttavia necessario che i lavoratori dispongano di un sufficiente potere di mercato nei confronti dell’impresa. In tale circostanza, infatti, è più probabile che venga accolta la richiesta di un aumento dei salari o delle assicurazioni aziendali da parte dei lavoratori, e quindi che tale necessità si traduca effettivamente in un maggiore costo del lavoro a carico dell’impresa. La capacità di imitazione () è allo stesso tempo favorita dai benefici della spesa ma danneggiata dal suo finanziamento tramite imposte e costo del lavoro. Poiché il settore imitativo è definito come un settore lontano dalla frontiera, e quindi necessitato a competere sul prezzo dei prodotti, possiamo ipotizzare che un aumento della spesa sociale, a causa del suo finanziamento, abbia un effetto netto 30 La rilevanza del welfare aziendale, anche ai fini della competitività internazionale, è mostrata dalle stime della Morgan Stanley sui costi dei produttori di automobili relativi a pensioni e sanità. Nel 2003 tali costi sono ammontati a 1824 dollari ogni automobile prodotta per la General Motors, 1460 per la Ford e 985 per la Chrysler, rispetto a 186 dollari per la Toyota e a meno di 10 euro per l’Opel, grazie al diverso sistema di welfare in Giappone ed Europa. La GM garantisce negli Stati Uniti l'assistenza sanitaria gratuita a 1,1 milione di dipendenti, pensionati e loro parenti, per una spesa complessiva prevista nel 2005 di 5,6 miliardi di dollari. I dati sono riportati negli articoli “GM schreibt Gewinnziele in den Wind” di Guido Reinking (The Financial Times Deutschland, 17 novembre 2004) e “G.M. Reports Sharp Drop in Quarterly Profit” di Jeremy W. Peters (The New York Times, 20 gennaio 2005). 68 negativo sul tasso di imitazione qualunque siano i valori delle variabili strutturali, ossia [9] t , w B La realtà non è ovviamente così schematica, ma l’ipotesi che esistano costi netti per il settore tradizionale e (come vediamo subito dopo) benefici netti per il settore innovativo è solo una semplificazione utile a riprodurre gli effetti contrapposti di un aumento della spesa sociale su un’economia complessa, che ne subisce allo stesso tempo i costi immediati di finanziamento e i benefici di lungo periodo. Dalle equazioni [3], [4], [5], [6] e [9] otteniamo: [10] = ~ (B, t, w) = (S, , ) con le derivate parziali ’B > 0, ’t,w < 0, ’S < 0, ’’S < 0, ’ > 0, ’ < 0. Analogamente, la capacità di innovazione () è contemporaneamente favorita dai benefici della spesa ma danneggiata dal suo finanziamento in termini di imposte e costo del lavoro. Dal momento che il settore innovativo è definito come un settore prossimo alla frontiera, e quindi interessato a competere sulla qualità dei prodotti, si può ipotizzare che un aumento della spesa sociale, soprattutto sotto forma di investimenti sociali, abbia un effetto netto positivo sulla capacità di innovazione qualunque siano i valori delle variabili strutturali, ossia [11] B t , w Allora le equazioni [3], [4], [5], [7] e [11] implicano: [12] = ~ (B, t, w) = (S, , i) con le derivate parziali ’B > 0, ’t,w < 0, ’S > 0, ’’S < 0, ’ > 0, ’i < 0. Nella Figura 6.1 sono rappresentate le equazioni [10] e [12]. La [10] rappresenta il tasso di imitazione come funzione negativa della spesa sociale totale (pubblica e privata), amplificata dal grado di globalizzazione, poiché maggiori imposte sulle imprese e maggiori costi del lavoro accrescono il prezzo dei prodotti e quindi riducono la capacità di imitazione delle imprese nel settore concorrenziale. L’equazione [12] mostra invece il tasso di innovazione come 69 funzione positiva della spesa sociale totale, perché l’effetto negativo delle imposte e dei salari sui costi di produzione è più che compensato dai benefici (scontati perché futuri) della spesa sociale produttiva che è il corrispettivo di tali imposte. Figura 6.1 - Capacità di innovazione e imitazione in funzione della spesa sociale totale , (S , , i ) (S , , ) S Derivando [2] rispetto al tempo e inserendo le equazioni [10] e [12], otteniamo il tasso di crescita della produttività ( a ), proxy della competitività strutturale di lungo periodo, come funzione della spesa sociale totale: ~ [13] a = a ( + ) = a(S , , ) (S , , i) con le derivate parziali a ’ > 0, a ’ < 0, a ’ > 0, a ’i < 0. Rimane incerto il segno della derivata della produttività rispetto alla spesa sociale totale ( a ’s), perché dipende dalla combinazione degli effetti positivi sul settore innovativo con gli effetti negativi sul settore tradizionale. Massimizzare l’equazione [13] significa quindi analizzare il livello di spesa sociale (S*) per il quale la struttura delle politiche sociali garantisce un beneficio marginale netto al settore innovativo uguale al costo marginale netto che sopporta il settore tradizionale. In altre parole, significa analizzare le condizioni sotto le quali il welfare non è in contrapposizione con la crescita della produttività e della competitività internazionale, ovvero la ricerca dell’equità sociale è complementare e non alternativa all’efficienza economica. In tale circostanza un riduzione della spesa sociale sotto il livello S* (o un aumento oltre tale valore) danneggerebbe la crescita della produttività, allontanando il sistema socioeconomico dall’equilibrio tra benefici e costi marginali. La condizione di primo 70 ordine che deriva dalla massimizzazione di [13] rispetto a S è ’S(, ) + ’S(, i) = 0 [14] dove il primo addendo rappresenta il costo marginale (C’) sulla competitività di prezzo e il secondo il beneficio marginale (B’) sulla competitività di qualità. Tale condizione è verificata quando B’ = |C’|, ossia quando ’S(, i) = |’S(, )| [15] Figura 6.2 - Benefici e costi marginali in funzione della spesa sociale totale C ' C ' (S , , , ) C’1 B’,C’ E1 E B’1 B' B' ( S , , i ) S* S*1 S Studiamo graficamente la condizione [15] in funzione del livello di spesa sociale S [Figura 6.2]. Nell’equilibrio E abbiamo B’ = C’, e quindi la spesa sociale totale è al livello ottimale S*. La curva del beneficio marginale B’ si sposta verso l’alto nella posizione B’1 (il beneficio aumenta a parità di S) quando scende il tasso di sconto i (aumenta il rendimento attuale degli “investimenti sociali”) oppure aumenta la percentuale di spesa sociale produttiva (il welfare è più orientato verso qualità e innovazione). A sua volta, la curva del costo marginale C’ si sposta verso il basso nella posizione C’1 (il costo diminuisce a parità di S) quando scende la distanza dalla frontiera (si riduce il peso dell’imitazione sull’economia), aumenta l’efficacia della spesa sociale stessa (si riducono dispersioni, distorsioni e sprechi) oppure diminuisce il grado di globalizzazione (si abbassano i costi di finanziamento della spesa sociale). La spostamento delle due curve permetterebbe di raggiungere un nuovo equilibrio E1 più avanzato, a cui 71 corrisponde un maggiore livello di spesa sociale totale (S*1). L’equilibrio E non è stabile nel tempo, perché il grado di globalizzazione aumenta spingendo la curva verso l’alto: tale effetto aumenta i costi della spesa sociale (C’G) erodendo la base fiscale del suo finanziamento [Figura 6.3]. Tuttavia l’aumento dei costi marginali non riesce a ridurre imposte e spesa nel nuovo equilibrio EG a causa della resistenza dello status quo [Esping Andersen 1996: 265-267, Mishra 1999: 92, Estevez-Abe et al. 2001: 182, Pierson 2001: 411-419]. Tale resistenza, per vari canali (incentivi elettorali, poteri istituzionali o informali di veto, path dependency), frena la riduzione della spesa sociale e crea in E un disequilibrio (la cosiddetta crisi dello stato sociale) dove i costi superano i benefici marginali (|C’G| > B’). La realtà empirica ci mostra come effettivamente la pressione fiscale e la spesa sociale siano pressoché stabili nei grandi paesi avanzati nel corso degli anni 90 [Grafico 5.1]. Figura 6.3 - Effetto dell'aumento del grado di globalizzazione su benefici e costi marginali C’G B’,C’ C ' C ' (S , , , ) EG1 EG E B’1 B' B' ( S , , i ) S* S Il superamento del disequilibrio è possibile o indebolendo le resistenze sociali e politiche al ridimensionamento del welfare, oppure aumentando i benefici marginali o riducendo i costi marginali. Quest’ultima strada passa sia per l’aumento dell’efficacia della spesa o per una specializzazione produttiva sempre più orientata ai settori ad alta tecnologia (ossia una distanza dalla frontiera minore), sia per l’aumento della frazione della spesa sociale produttiva. 72 Nel primo caso la curva dei costi marginali si sposta verso il basso intorno alla posizione originaria C’, tornando così vicino all’equilibrio E; nel secondo caso la curva dei benefici marginali si sposta verso l’alto nella posizione B’1, rendendo possibile un equilibrio EG1 con imposte e spesa simili rispetto a E. E’ invece difficile, almeno nel breve periodo, modificare il tasso di sconto i o influenzare il grado di globalizzazione . 6.4 Le variabili strutturali Il modello teorico introdotto è utile per confrontare la compatibilità dei sistemi di welfare con la crescita nei differenti paesi avanzati, non per definirne un livello ottimale. Se il livello di equilibrio della spesa sociale (S*) è elevato, allora una spesa sociale elevata è sostenibile grazie alla sua struttura ben disegnata e all’ambiente economico favorevole, e quindi giustizia sociale e competitività possono essere complementari. Chiaramente, nella Figura 6.2 la probabilità che l’equilibrio corrisponda a un elevato livello di S è tanto maggiore quanto più i benefici sono spostati in alto verso la posizione B’1 e/o i costi spostati in basso verso la posizione C’1, secondo il valore delle variabili introdotte nel modello, che variano nello spazio tra paesi diversi e, per un singolo paese, possono variare nel tempo. I principali fattori che permettono benefici marginali elevati o costi marginali limitati, ovvero la sostenibilità di un’elevata spesa sociale in termini di efficienza economica, dipendono da valori adeguati delle variabili strutturali. 1) La distanza dalla frontiera () bassa, poiché aumenterebbe il peso dell’innovazione rispetto all’imitazione e quindi l’importanza dei costi per il settore tradizionale si riduce. Un esempio di tale situazione è quella di molti paesi avanzati che spostano le proprie risorse verso le produzioni ad alta tecnologia come l’informatica, l’aerospaziale, i sistemi elettromeccanici, la farmaceutica, la biochimica, ma anche verso settori tradizionali che incorporano forti investimenti in capitale umano, R&D e innovazione come l’automobile, la chimica, l’elettronica di consumo [EC 2003a: tab.1 e 5]. Allo stesso tempo si può considerare la vicinanza alla frontiera anche come un indicatore della capacità di 73 un paese di spendere maggiori risorse per il welfare, considerato come un bene il cui consumo aumenta al crescere del reddito, come è avvenuto nel dopoguerra per i paesi occidentali e come è possibile che avvenga nei prossimi anni per i paesi attualmente in via di sviluppo [Lindert 2004 vol.1: 222-223]. 2) La frazione di spesa sociale produttiva sul totale () alta, perché rappresenterebbe un miglioramento della struttura del welfare, più orientato alla promozione della qualità e alla diffusione delle capacità creative e innovative. E’ difficile distinguere nettamente tra spesa produttiva e di puro consumo, però è possibile includere sicuramente nella prima gli investimenti in infrastrutture socio-economiche, la spesa nell’accumulazione di conoscenze e salute e i sussidi (per giovani e famiglie) che incentivano la partecipazione alla forza lavoro [Zagler e Dürnecker 2003: 405-408]. 3) Il grado di globalizzazione () basso, perché la concorrenza internazionale sarebbe ridotta in termini di commercio di beni e servizi, investimenti diretti esteri, volatilità finanziaria e immigrazione, sia realmente che solo psicologicamente, e quindi sarebbero ridotti i costi di finanziamento della spesa sociale dovuti ai vincoli finanziari e produttivi. Ovviamente su questo parametro è difficile incidere a livello nazionale, ma una politica economica coordinata sovranazionale potrebbe ottenere dei risultati, per esempio un’Unione Europea più integrata, dove il livello politico continentale sarebbe più vicino al livello economico globale [Panic 2003: 245-257]. 4) L’efficacia della spesa sociale () alta, poiché ridurrebbe dispersioni, distorsioni e sprechi delle risorse nei vari passaggi intermedi dai costi ai benefici. Infatti i costi sono essenzialmente diretti, e quindi si ripercuotono rapidamente sui prezzi dei prodotti, mentre i benefici sono soprattutto indiretti e differiti anche di anni, e dunque hanno bisogno che freni, attriti, viscosità, sprechi e costi amministrativi siano minimi affinché si realizzino. 5) Il tasso di sconto (i) basso, perché accrescerebbe il valore attuale dei rendimenti attesi futuri della spesa produttiva pubblica rispetto ai suoi costi immediati, dando più peso al futuro rispetto al presente e incentivando così le decisioni di investimento. Esistono tuttavia ragioni demografiche, culturali ed 74 economiche che suggeriscono che il tasso di sconto possa essere elevato. Demograficamente, nelle società anziane, come quelle dell’Europa meridionale, l’alto tasso di invecchiamento e la bassa natalità creano maggiore attenzione al breve periodo e minore agli anni e alle generazioni successive, e quindi riducono la “salienza dei benefici” futuri rispetto ai loro costi immediati [Franzini e Milone 1999: 64-65]. Culturalmente, è anche difficile che siano proiettate nel futuro le società dominate dal “tempo atemporale” di cui parla Castells [2000 vol.1: 546], dove l’orizzonte, la prospettiva e la responsabilità di lungo periodo sono sempre meno sentiti ed “[…] è aumentata la miope indisponibilità a finanziare spese, come quelle dello stato sociale, la cui redditività è di più difficile percezione per i singoli e comunque è più differita nel tempo” [Pizzuti 1999: 124]. Economicamente, il diffuso “short-termism”, vale a dire “the myopic emphasis on short-term objectives to the cost of jeopardising the achievement of longer-run objectives” [Vercelli e Borghesi 2003: 7], riduce l’orizzonte temporale degli agenti economici, e deriva da tre fenomeni in rapida espansione: l’importanza dei vincoli finanziari nei piani industriali, la flessibilità nel mercato del lavoro e nelle relazioni industriali, la valutazione dei manager secondo indici di performance di breve periodo [Atkinson 1999: 172-174 ed.it., Gallino 2001: 13-23, Vercelli e Borghesi 2003: 7-9]. Queste variabili strutturali possono essere quantificate utilizzando alcune proxy adeguate [Tabella 6.1]. Per la distanza dalla frontiera la proxy è la differenza con l’indice tecnologico degli Stati Uniti (che ha le performance migliori secondo diversi indici tecnologici)31; per la frazione di spesa produttiva sul totale le voci di spesa considerate produttive pesate per i beneficiari32; per il grado di globalizzazione l’indice di apertura finanziaria e commerciale con il resto 31 Misurare la distanza con i livelli assoluti di produttività totale dei fattori (Tfp) non permette di distinguere tra la parte di Tfp che dipende dal progresso tecnologico e quella invece legata ad altri elementi, come migliori allocazioni dei fattori produttivi e economie di scala [Islam 1999: 507-9]. 32 Per costruire l’indice, le voci di spesa sociale sono state divise per la frazione di popolazione che ne beneficia (intera popolazione, tra 15 e 64 anni, 65 anni e oltre), sono poi stati sommati tali rapporti sia per tutte le voci che per le sole spese produttive (sanità, carichi familiari, politiche attive nel mercato del lavoro e alloggi), ed è stata infine divisa la somma relativa alle sole spese produttive per la somma relativa a tutte le voci. 75 del mondo; per l’efficacia della spesa la performance del sistema sanitario (anche se si riferisce solo a un capitolo di spesa che tuttavia ammonta tra un quarto e un terzo della spesa complessiva); per il tasso di sconto sia l’indice insider-outsider che misura la vicinanza ai due sistemi idealtipici delle economie coordinate e liberali (tasso di sconto “socio-economico”), sia l’indice di vecchiaia pari al rapporto tra popolazione anziana e giovane (tasso di sconto “demografico”). Tabella 6.1 - Proxy delle variabili strutturali del modello per alcuni paesi Ocse Paese Distanza dalla frontiera () Proxy: differenza con l’indice tecnologico Australia Austria Belgio Canada Danimarca Finlandia Francia Germania Irlanda Italia Norvegia N. Zelanda Paesi Bassi Regno Unito Spagna Svezia Svizzera Usa degli Usa 1,40 1,61 1,65 1,15 1,05 0,30 1,63 1,27 1,93 1,58 1,22 1,50 1,37 1,34 2,06 0,40 1,04 0,00 Nome per stime DISTF econometriche Fonte: Wef [2003: tab.7, p.20-21] Spesa sociale produttiva () Proxy: spesa produttiva pesata per Grado di globalizzazione () Efficacia della spesa () Proxy 1: apertura finanziaria Proxy 2: apertura commerciale Proxy: performance del sistema sanitario 1,85 3,04 6,49 2,15 3,44 3,64 3,58 2,81 14,40 2,01 2,40 1,95 6,71 6,34 2,37 4,17 9,03 1,63 0,33 0,73 1,58 0,68 0,60 0,61 0,47 0,55 1,20 0,42 0,52 0,49 1,12 0,41 0,44 0,63 0,63 0,19 i beneficiari 0,20 0,10 0,14 0,17 0,19 0,14 0,15 0,14 0,20 0,10 0,19 0,19 0,14 0,16 0,11 0,18 0,09 0,12 0,876 0,959 0,915 0,881 0,862 0,881 0,994 0,902 0,924 0,991 0,955 0,827 0,928 0,925 0,972 0,908 0,879 0,838 Tasso di sconto (i) Proxy 1: indice insideroutsider Proxy 2: indice di vecchiaia n.d. –1,20 –0,63 1,24 –0,42 –0,06 0,02 –0,22 –0,94 –0,49 –0,37 n.d. 0,03 2,21 –0,39 0,38 n.d. 1,68 0,61 0,96 1,00 0,68 0,82 0,84 0,86 1,09 0,53 1,30 0,52 0,78 0,75 0,84 1,17 0,97 0,99 0,57 SPROD GLOB1 GLOB2 EFFS DISC1 DISC2 Oecd [2004b], dati 2001 pesati per i beneficiari Lane e Milesi-Ferretti [2005], media 1999-2003 in % del Pil Wto [2004: appendix tab. A6, A7]; media 1999-2003 in % del Pil Who [2000: annex tab.10, p.200], indice da 0 a 1 Block [2002: tab. A.1, p.36], indice anni 90 Oecd [2002: tab.GE2.1.A, GE2.1.B], rapporto tra pop(65+) e pop(14-) Possiamo considerare le posizioni B’1 e C’1 nella Figura 6.2 come la situazione di alcuni paesi dell’Europa continentale rispetto agli Stati Uniti. In questi ultimi la distanza dalla frontiera è 0, poiché gli indici tecnologici mostrano come essi siano il paese leader. Ma a fronte di una distanza dalla frontiera 76 leggermente superiore, in Europa la curva dei costi marginali è spinta verso il basso da un’efficacia della spesa maggiore. Ciò si evince, sia pure limitatamente alla spesa sanitaria, dagli indici relativi alla performance del sistema sanitario rispetto alle risorse impiegate e ai risultati raggiunti, che mostrano come negli Stati Uniti una spesa doppia rispetto all’Europa non copra tutte le categorie di cittadini e ottenga risultati peggiori [Who 2000: cap.2]. Inoltre nell’Europa continentale la curva dei benefici marginali è spostata verso l’alto, sia grazie alla maggiore frazione di spesa produttiva (quando essa è pesata per i beneficiari), sia grazie a un tasso di sconto minore. Il secondo fenomeno è rintracciabile nel carattere delle economie coordinate europee (insider systems), che, diversamente dalle economie liberali anglosassoni (outsider systems), sono rivolte non tanto all’innovazione radicale di prodotto, quanto a quella incrementale di processo [Block 2002]. Quest’ultima è fondata su investimenti specifici di lungo periodo delle imprese in un sistema economico centrato sulle banche (più che sui mercati azionari) e sulla struttura proprietaria e manageriale protetta [Hall e Soskice 2001: 14-33]. La diversità nei valori delle variabili strutturali nei diversi paesi avanzati, e in particolare le differenze tra Europa continentale e paesi anglosassoni, rende possibile che il livello di equilibrio della spesa sociale in alcuni paesi europei sia maggiore rispetto agli Stati Uniti, anche se di poco. Nella realtà è proprio così, se definiamo la spesa sociale totale netta europea come spesa pubblica più spesa privata, tolte le imposte sui benefici e aggiunte deduzioni e detrazioni fiscali33 [Adema 2001]. Tale ammontare risulta essere leggermente superiore in Europa (nel 1997 in Italia 25,3% e in Germania 28,8%) rispetto agli Stati Uniti (23,4%) e al Regno Unito (24,6%). I livelli di spesa nei paesi avanzati (escluse da un lato la Svezia e dall’altro Irlanda e Nuova Zelanda) sono tuttavia abbastanza simili, compresi tra il 22 e il 28%, con una variabilità ridotta rispetto alla sola spesa pubblica lorda solitamente considerata [Grafico 2.1 e Tabella 6.2]. 33 La definizione di spesa sociale totale netta e la sua formulazione sono state discusse nel paragrafo 2.3. Una grossa differenza tra spesa lorda e netta è data dai diversi regimi fiscali a cui sono soggetti i trasferimenti sociali: per esempio l’aliquota fiscale media sulle pensioni era nel 77 Tabella 6.2 - Spesa sociale per alcuni paesi Ocse (% del Pil, 1997) Paese Australia Austria Belgio Canada Danimarca Finlandia Germania Irlanda Italia Norvegia Nuova Zelanda Paesi Bassi Regno Unito Svezia Usa Spesa sociale pubblica lorda (SL) 18,7 28,5 30,4 20,7 35,9 33,3 29,2 19,6 29,4 30,2 20,7 27,1 23,8 35,7 15,8 Spesa sociale pubblica netta (Spub) 17,9 23,4 26,3 18,7 26,7 24,8 27,2 17,1 24,1 24,4 17,0 20,3 21,6 28,5 16,4 Spesa sociale totale netta (S) 21,9 24,6 28,5 21,8 27,5 25,6 28,8 18,4 25,3 25,1 17,5 24,0 24,6 30,6 23,4 % di spesa pubblica netta ( = Spub / S) 0,82 0,95 0,92 0,86 0,97 0,97 0,94 0,93 0,95 0,97 0,97 0,85 0,88 0,93 0,70 Fonte: Adema [2001: tab.7, p.27-28] 6.5 Un’applicazione del modello: il declino italiano Le variabili strutturali del modello vanno analizzate per comprendere se un’elevata protezione sociale e un altrettanta elevata competitività internazionale siano effettivamente compatibili. In particolare in Italia, diversamente dal resto dell’Europa continentale, tale complementarità potrebbe non valere, confermando dal lato del welfare la crescente letteratura sul cosiddetto declino economico [Gallino 2003, Pennacchi e Proietti Rossi 2003, Toniolo e Visco 2004]. Infatti, sia lo sviluppo dell’economia globale e della società dell’informazione, sia i cambiamenti delle famiglie e dei valori, modificano il contesto di riferimento delle politiche sociali: “Entrambe le trasformazioni aprono scenari di maggiore benessere, più ampie opportunità e nuove libertà. […] Ma gli scenari virtuosi non possono essere dati per scontati. La prospettiva di un “equilibrio al ribasso”, imperniato sul declino demografico, la perdita di efficienza e di competitività, l’emergenza di marcate polarizzazioni sociali, resta infatti uno dei possibili esiti delle dinamiche in atto” [Ferrera 2004: 1]. 1997 pari al 26,5% in Svezia, 13,3% in Italia e solo 2,1% nel Regno Unito. Inoltre negli Usa le imposte indirette sono minori e le detrazioni maggiori rispetto all’Europa [Adema 2001: 16-18]. 78 Numerosi studi hanno messo in luce alcuni importanti problemi rispetto agli altri grandi paesi europei, che potrebbero intrappolare l’Italia in un equilibrio inferiore rispetto al resto dell’Europa continentale, in un percorso di sviluppo orientato alla competitività di prezzo piuttosto che di qualità. i) La distanza dalla frontiera è maggiore rispetto ai grandi paesi europei a causa di una specializzazione settoriale orientata alla media e medio-bassa tecnologia: il 63% del Pil italiano è compreso in questi settori, un valore maggiore rispetto a Germania (46%), Francia (55%) e Regno Unito (58%) [EC 2003a: 8]. E’ una specializzazione dovuta a strutture produttive vecchie (moltissime piccole e medie imprese incapaci di investire in misura adeguata in R&D e innovazione), strutture proprietarie eccessivamente familiari e chiuse, liberalizzazioni e privatizzazioni poco efficaci in termini di concorrenza creata. ii) L’efficacia della spesa, quantomeno pubblica, è bassa a causa della corruzione ancora persistente, dello scarso senso dello Stato nella classe dirigente, dei potenti blocchi di potere, delle lente procedure parlamentari e amministrative. iii) La spesa produttiva è scarsa a fronte di eccessivi trasferimenti monetari accompagnati a ridottissimi incentivi per giovani, donne e uomini over 50 a partecipare al mercato del lavoro. I sussidi per famiglie, disoccupati e alloggi arrivano solo all’1,3% del Pil in Italia, molto meno di Germania (5,6%), Francia (5,5%), Regno Unito (4,1%) e persino Spagna (3,1%) [Inpdap 2003: 60]. iv) Il tasso di sconto è alto a causa dell’invecchiamento elevato della popolazione (l’Italia ha il più basso tasso di natalità e il più alto indice di vecchiaia in Europa), che danneggia la propensione a investire e risparmiare. Il tasso di sconto rimane alto anche a causa della diffusione della criminalità organizzata, che peggiora le aspettative economiche favorendo, in alcune zone del paese, la ricerca di rendimenti di breve periodo e disincentivando gli investimenti [Castells 2000 vol.3: 238]. Rappresentiamo graficamente tali differenze inserendole nello schema di costi e benefici marginali della spesa sociale [Figura 6.4]. La curva dei costi marginali si sposta verso l’alto a seguito dell’intensificarsi della globalizzazione (C’ita), amplificata sia dalla specializzazione produttiva (ferma a una struttura 79 tradizionale mentre gli altri paesi sviluppano i settori più avanzati) che fa aumentare , sia della scarsa efficacia della spesa sociale che riduce . A ciò si accompagna lo spostamento dei benefici marginali verso il basso (B’ita) a causa sia dell’invecchiamento della popolazione (superiore ad ogni altro paese europeo a parte la Spagna) che accresce i, sia della spesa sociale eccessivamente orientata a trasferimenti monetari e molto poco alla promozione della partecipazione di donne, giovani e uomini over 50 al mercato del lavoro, riducendo così . Figura 6.4 - Effetto del declino economico italiano su benefici e costi marginali C’ita B’,C’ Eita S*ita C ' C ' (S , , , ) E Sita S* B' B' ( S , , i ) B’ita S A causa di maggiori costi marginali e minori benefici, l’attuale livello italiano di spesa sociale (Sita) potrebbe risultare insostenibile se confrontata con il livello di equilibrio (S*ita). Potrebbe infatti essere troppo elevato, simile agli altri grandi paesi europei avanzati, i cui costi e benefici marginali (rappresentati dalle curve generiche B’ e C’) permettono loro un livello di equilibrio superiore (S*). E potrebbe non essere sufficiente per ritornare all’equilibrio originario E un eventuale spostamento dei benefici marginali verso l’alto grazie a una maggiore spesa produttiva e/o dei costi marginali verso il basso grazie a una maggiore efficienza della spesa stessa. L’Italia rischierebbe così di rimanere intrappolata in un circolo vizioso di 80 crescita ridotta, scarsa innovazione34 e bassissima natalità, rendendo l’attuale livello di spesa insostenibile nell’economia globale. Allo stesso tempo, però, senza una crescita quantitativa e qualitativa del welfare, i settori ad alta qualità e tecnologia non potranno svilupparsi, la spesa pubblica non potrà essere gestita in maniera più innovativa ed efficace, la società sarà sempre più anziana e chiusa in se stessa. Se ciò è vero, solo un’azione politica esogena che blocchi questo circolo vizioso e punti su qualità e innovazione potrebbe dunque interrompere il declino. Gli studi sulla struttura del welfare italiano hanno evidenziato in particolare due questioni centrali da risolvere: la cronica mancanza di strumenti universalistici e la pericolosa tendenza verso una società senza figli. Il welfare familistico e non universalistico (a parte la sanità) che esiste in Italia, non sostiene adeguatamente la crescita economica, sociale e civile dell’Italia, perché ancora centrato essenzialmente sul lavoratore di una famiglia tradizionale degli anni 6070 e non sul cittadino [Esping Andersen 1999: cap.9, Ferrera e Gualmini 2000: 357-361, Onofri 2001]. Il welfare italiano protegge contro certi rischi (vecchiaia in particolare) e non altri (carichi familiari, povertà, esclusione dal mercato del lavoro), dando luogo a prestazioni differenti a parità di bisogno e accentuando il ruolo della famiglia nel ridurre le disparità di reddito. Ciò crea disuguaglianze tra categorie e tra settori produttivi, riduce la partecipazione alla forza lavoro di giovani, donne e uomini over 50, e quindi comprime la sua stessa base di finanziamento. Non esiste una rete di sicurezza per gli individui esclusi dal mercato del lavoro o che non beneficiano delle detrazioni fiscali, e l’attenzione viene distolta dall’offerta di servizi reali. La prospettiva più pericolosa è quella di una società senza figli, nella misura in cui il modello italiano di welfare non permetta ai cittadini di vivere e di crearsi una famiglia nel modo che preferiscono, rischiando di danneggiare seriamente l’innovazione, il dinamismo e la produttività, e quindi la crescita del paese [Dutheillet de Lamothe et al. 2004: 21-22]: “Firstly, low-low fertility is not the Quasi tutti gli indicatori di innovazione per l’Italia sono inferiori alla media dell’Ue, e persino inferiori rispetto ad alcuni dei nuovi stati membri, senza che il gap si riduca nel tempo. Cfr. il Rapporto sull’innovazione in Europa e i suoi technical papers sulla specializzazione produttiva e sui fattori economici, sociali, culturali e istituzionali dell’innovazione [EC 2003a, 2003b, 2004]. 34 81 result of some post-modern mindset but, rather, a symptom of welfare deficits. Secondly, a ‘no-kids’ scenario implies an increasingly aged society, meaning less innovation, dynamism and productivity. Thirdly, the macro-economic consequences of such population decline can be severe” [Esping Andersen 2003: 5]. La bassissima natalità italiana è legata alla mancanza di un reddito sufficientemente stabile, alla prolungata permanenza all’università e alla scarsa offerta di alloggi e servizi all’infanzia, che impediscono ai giovani di diventare autonomi, e di conseguenza limitano il numero di figli ben al di sotto del numero desiderato35 [Castells 2000 vol.2: 177]. Per risolvere tali questioni cruciali, è decisivo modificare in maniera adeguata la struttura del welfare italiano, fondandolo su un approccio preventivo ex ante, che riduca i rischi promuovendo le opportunità e le capacità (à la Sen) tra gli individui, piuttosto che intervenire per compensare ex post i bisogni. Sembra necessario allargare la base di finanziamento del welfare, incentivando la partecipazione nella forza lavoro e allungando la vita lavorativa di giovani, donne e over 50. Gli strumenti possono essere servizi all’infanzia che concilino maternità e lavoro e riducano il rischio di povertà tra i minori, maggiore protezione del lavoro precario e dei carichi familiari mediante redditi minimi garantiti, migliori opportunità formative anche grazie alla riqualificazione continua, più rapido ingresso degli universitari nella forza lavoro [Pizzuti 1999: 124-128, Onofri 2001: 165-168, Esping Andersen 2003: 6-8, Ferrera 2004: 2-5]. 6.6 Analisi in componenti principali: effetti economici della spesa sociale Prima di una verifica econometrica del modello teorico presentato in questo capitolo, è interessante provare a valutare gli effetti economici della spesa sociale in un’ottica puramente esplorativa, cioè senza stimare modelli formali dove la variabilità di una variabile dipendente è spiegata dalle variabili esplicative. Infatti 35 Il tasso di fecondità in Italia è 1,2 figli per donna, ma in Francia, Danimarca, Norvegia e Irlanda è 1,8-1,9, sebbene quasi ovunque il numero desiderato di figli sia superiore a 2 [Undp 2004: tab.5]. D’altronde solo il 16% dei ragazzi e il 39% delle ragazze italiane tra 25 e 29 anni vivevano da soli nel 1998, rispetto al 97% dei ragazzi e al 96% delle ragazze danesi [Esping Andersen 2003: tab.1]. 82 esistono già numerose stime di modelli molto estesi della crescita economica in funzione della spesa sociale, tra cui uno dei più ricchi e recenti contributi è quello di Lindert [2004 vol.2: 90-98]. Tale modello dimostra efficacemente come il livello di spesa sociale non danneggi la crescita economica, che è al contrario spiegata da catching-up, capitale umano, shock macroeconomici su domanda e offerta, dotazione pro capite di capitale. Di conseguenza, cercheremo piuttosto di esplorare la correlazione che esiste tra indicatori di spesa, di performance economica e di disagio sociale, nonché la posizione dei diversi paesi rispetto alle variabili stesse, in modo da ottenere alcune indicazioni di carattere generale per ragionare sugli effetti economici della spesa sociale. A tale fine la tecnica più efficace è quella dell’analisi in componenti principali (Acp), che permette di misurare l’associazione statistica tra variabili, considerate come differenti indicatori dello stesso concetto generale [Di Franco e Marradi 2003]. L’Acp è stata effettuata su un’insieme di variabili socioeconomiche sufficientemente correlate tra loro, relative a differenti dimensioni (spesa sociale, tassazione, performance economica, innovazione, disagio sociale, struttura del welfare), alcune delle quali già inserite nel modello dei costi e benefici del welfare. Il risultato è l’estrazione di due componenti fattoriali, che spiegano buona parte della variabilità tra paesi [Tabella 6.3 e Grafico 6.1]. Sembra corretto interpretare gli assi come “equità sociale” (componente 1 sull’asse delle ascisse) ed “efficienza economica” (componente 2 sull’asse delle ordinate). La prima componente è infatti caratterizzata, nel semiasse positivo, dalla spesa sociale totale e pubblica netta, dalla pressione fiscale e dalla dummy che indica le economie coordinate europee; sono poi prossimi al semiasse negativo alcuni indici di disagio sociale (povertà umana, Gini, mortalità infantile) e la dummy che denota le economie liberali anglosassoni. La seconda componente, invece, è caratterizzata nel semiasse positivo dagli indici di competitività, tecnologia, innovazione, “non spreco” della spesa pubblica, gender empowerment e sviluppo umano. Poiché i due assi sono ortogonali per costruzione, le variabili vicine a uno di essi e lontane dall’altro risultano fortemente associate al primo e non associate al secondo. Così competitività, 83 innovazione e tecnologia non risultano legate alla spesa sociale o alle imposte, né al sistema socio-economico, ossia l’efficienza è indipendente dall’equità sociale. E’ interessante però la vicinanza degli indicatori di performance economica agli indici di progresso sociale relativi allo sviluppo umano e alle relazioni di genere. Per disaggregare tali considerazioni rispetto ai singoli paesi, analizziamo i loro punteggi sulle due componenti [Grafico 6.2]. I punteggi mostrano come i paesi anglosassoni siano caratterizzati da scarsa equità, ma senza che ciò influisca sull’efficienza; tra essi, però, gli Stati Uniti presentano contemporaneamente bassissima equità e altissima efficienza. I paesi europei continentali, tra cui Francia e Germania, sono invece caratterizzati da alta equità ma ridotta innovazione, mentre i paesi scandinavi presentano alta equità e alta efficienza allo stesso tempo. In posizioni intermedie Svizzera e Paesi Bassi, i cui sistemi socioeconomici hanno caratteristiche eterogenee. Più preoccupante è la posizione di Italia e Spagna, caratterizzate da equità media (comunque inferiore rispetto al resto dell’Europa continentale) ma efficienza molto bassa (inferiore rispetto a tutti gli altri paesi), e ciò sembra confermare ancora una volta i rischi di declino sia sociale che economico. Tabella 6.3 - Variabili inserite nell'Acp e loro pesi sulle prime due componenti Variabile Sigla Spesa sociale pubblica netta Indice di disuguaglianza di Gini Pressione fiscale Mortalità infantile Dummy per le economie anglosassoni Dummy per le economie europee Indice di povertà umana (HPI-2) Spesa sociale totale netta Indice di competitività Indice di tecnologia Indice di innovazione Indice di “non spreco” della spesa pubblica Indice di gender empowerment Indice di sviluppo umano (HDI) spubnet gini imposte mortinf lme cme hpi stotnet compet tech innovaz effspesa gender hdi Pesi sulle componenti 1 (equità) 2 (efficienza) 0,94 0,00 –0,91 –0,21 0,90 0,15 –0,89 0,13 –0,88 0,13 0,84 0,24 –0,82 –0,26 0,80 0,16 0,95 0,09 0,02 0,87 –0,04 0,86 0,09 0,75 0,42 0,71 0,06 0,61 Note: rotazione Varimax con normalizzazione di Kaiser test di sfericità di Bartlett: Chi-quadro = 165,98 (p=0,00) Fonte: Adema [2001: tab.7, p.27-28] per la spesa sociale; Oecd [2004a: tab.26] per le imposte; Undp [2004: tab.1,4,9,25] per HDI, HPI-2, Gini, mortalità infantile e gender empowerment; Wef [2003: tab.3,5,7] per gli indici di competitività, “non spreco” della spesa, innovazione e tecnologia; Hall e Soskice [2001] per le dummy CME e LME 84 Grafico 6.1 - Pesi delle variabili socio-economiche sulle prime due componenti dell’Acp compet innovaz tech 1,0 effspes a Componente 1: = 6,7 varianza = 48,1% gender hdi Componente 2: = 3,6 varianza = 25,9% ,5 cme stotnet imposte lme mortinf spubnet 0,0 gini hpi -,5 Varianza cumulata spiegata = 74,1% -1,0 -1,0 -,5 0,0 ,5 1,0 Componente 1 (equità sociale) Grafico 6.2 - Punteggi di alcuni paesi Ocse sulle prime due componenti dell'Acp 2 us fin sw e 1 nor den aus ch can nz 0 ned uk aut ger bel fra ire -1 spa ita -2 -3 -2,0 -1,5 -1,0 -,5 0,0 ,5 1,0 1,5 2,0 Punteggi dei paesi sulla componente 1 85 L’Acp permette di derivare importanti indicazioni di carattere generale che concordano con le ipotesi già avanzate da alcuni autori riguardo alle relazioni tra spesa sociale, performance economiche e obiettivi sociali [Artoni 2004]. i) Non esiste evidenza empirica significativa e conclusiva che la spesa sociale o la tassazione abbiano effetti (negativi o positivi) sulla crescita economica o sulla capacità di un paese di mantenere livelli elevati di competitività, innovazione e sviluppo tecnologico. ii) La quota di prodotto nazionale dedicato al soddisfacimento dei bisogni sociali è simile, e le differenti modalità di spesa (pubblica o privata) suggeriscono piuttosto l’esistenza di due distinti equilibri (stato sociale ampio oppure welfare residuale) che derivano da differenze culturali, sociali e politiche consolidatesi nel corso del tempo. iii) Tali differenze, tuttavia, hanno un impatto sulla capacità dei diversi sistemi di welfare di garantire un accesso universale ed equo alle prestazioni e alle opportunità, e quindi sul rischio che solo una parte della popolazione benefici di meccanismi di protezione adeguati. L’iniquo accesso al sistema di welfare ne limita l’efficacia redistributiva e di conseguenza ostacola i canali tramite i quali alcuni suoi elementi diventano fattori produttivi per il sistema economico. Se la spesa sociale totale è simile nei paesi avanzati, la possibilità che un’economia sia competitiva e innovativa non dipende dal livello di spesa sociale o pressione fiscale. Una minore spesa pubblica implica una maggiore spesa privata, forse meno efficace e più distorsiva, ma comunque la quota di prodotto nazionale dedicato alla protezione sociale risulta simile. Empiricamente, sia il livello di spesa sociale totale, sia il livello di pressione fiscale non sembrano affatto correlati significativamente con gli indici di innovazione36 e di competitività37 [Grafico 6.3 e Grafico 6.4]. L’indice di innovazione è composto da dati quantitativi (brevetti registrati in Usa per milione di abitanti e studenti post-secondari) e dati di survey riguardanti il livello tecnologico del paese, l’interesse ad assorbire nuove tecnologie, la spesa privata in R&D e la collaborazione in R&D tra università locali e imprese [Wef 2003: 27]. 37 L’indice di competitività strutturale (growth competitiveness index) è alla base del rapporto annuale del World Economic Forum ed è composto dagli indici del contesto macroeconomico, della qualità delle istituzioni pubbliche e del livello tecnologico [Wef 2003: 4-5]. Per De Grauwe e Polan [2003] la spesa sociale pubblica lorda è correlata negativamente con il ranking di tale indice. 36 86 Grafico 6.3 - Relazione tra competitività e spesa sociale totale netta in alcuni paesi Ocse 6,5 Coefficiente di correlazione: 0,26 (non significativo) fin Fonte: Wef [2003: tab.3, p.12] per la competitività (indice da 1 a 7) e Adema [2001: tab.7, p.2728] per la spesa sociale netta (percentuale del Pil) 6,0 us sw e den 5,5 aus can nz nor neduk ger aut 5,0 bel competitività ire 4,5 ita 4,0 Rsq = 0,0691 16 18 20 22 24 26 28 30 32 spesa sociale totale netta Grafico 6.4 - Relazione tra innovazione e spesa sociale totale netta in alcuni paesi Ocse 7,0 Coefficiente di correlazione: 0,28 (non significativo) us 6,5 Fonte: Wef [2003: tab.7, p.2021] per l’innovazione (indice da 1 a 7) e Adema [2001: tab.7, p.27-28] per la spesa sociale netta (percentuale del Pil) 6,0 fin sw e 5,5 (percentuale del Pil) 5,0 can 4,5 innovazione nz aus 4,0 ger den nor uk ned aut bel ire 3,5 ita 3,0 Rsq = 0,0801 16 18 20 22 24 26 28 30 32 spesa sociale totale netta 87 Poiché contano sia il livello che la struttura della spesa sociale, anche se la loro spesa pubblica è molto differente, sia gli Usa che la Scandinavia possono avere grandi risultati in innovazione e competitività. Al contrario, la struttura di welfare mal disegnata in Italia sembra essere dannosa per la competitività sia di prezzo che di qualità, persino con un livello di spesa inferiore alla media europea. Anche se la spesa totale risulta simile nei paesi avanzati, non è così per il welfare state propriamente detto, che è significativamente maggiore nell’Europa continentale rispetto ai paesi anglosassoni. Come hanno lucidamente spiegato Alesina et al. [2001] e Lindert [2004 vol.1: 179-190], ciò deriva dalle diverse preferenze per l’intervento pubblico di protezione sociale, a loro volta consolidatesi nei decenni a seguito di differenze culturali, sociali e politiche. Tali differenze riguardano storia, sistema politico, grado di apertura internazionale, tasso di invecchiamento, valutazione del ruolo della fortuna nella vita e nel successo degli individui, percezione della mobilità sociale. In particolare, una notevole differenza è il basso grado di affinità sociale negli Stati Uniti, dove un incremento della redistribuzione di reddito sarebbe un trasferimento da bianchi benestanti a neri o ispanici poveri, rendendo difficile l’identificazione del bianco contribuente con il nero o ispanico percettore, così infrangendo il principio che “that could be me” [Lindert 2004 vol.1: 26-27]. Definiamo la spesa sociale pubblica (o welfare state propriamente detto) come una frazione del totale, pari al rapporto tra spesa pubblica netta e spesa totale netta, distinguendo tra i valori del coefficiente angolare in Europa (eu) e negli Stati Uniti (us) [Figura 6.5]: [16] Spub = S con eu > us Effettivamente i dati sulla spesa sociale [Tabella 6.2] mostrano come, a parità di spesa totale, il livello di welfare state sia maggiore nell’Europa continentale (eu compreso tra 0,92 e 0,97, esclusi i Paesi Bassi) che negli Stati Uniti (us pari a 0,70) e nei paesi anglosassoni, e di conseguenza come il livello di spesa privata sia minore nei paesi europei [Grafico 6.5]. Se tali differenze derivano da diversità istituzionali, sociali e politiche, ciò non implica a priori diverse performance in termini di innovazione, produttività o competitività. 88 Figura 6.5 - Spesa sociale pubblica in funzione della spesa totale Spub Spub.eu = eu S bisettrice Spub.us = us S S*pub.eu spesa privata europea S*pub.us us spesa pubblica europea eu S S* Grafico 6.5 - Relazione tra spesa sociale pubblica e spesa totale in alcuni paesi Ocse 30 Coefficienti di correlazione: sw e 28 den per i paesi CME 0,92 (significativo all’1%) ger per i paesi LME 0,58 (non significativo) bel 26 24 fin nor ita aut 22 uk ned Sistema socio-econ. 20 18 can LME aus Rsq = 0,3378 nz ire CME us 16 16 Rsq = 0,8436 18 20 22 24 26 28 30 32 Spesa sociale totale netta Nota: LME denota le economie liberali anglosassoni (Australia, Canada, Irlanda, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti) e CME le economie coordinate europee (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Norvegia, Paesi Bassi e Svezia). Fonte: Adema [2001: tab.7, p.27-28], dati in percentuale del Pil 89 E’ probabile che abbiano ragione gli autori che si sono chiesti se esista un duplice equilibrio, sulla base di differenti fattori economici, culturali e politici [Barr 2001: 268-270, EC 2003b: 18-19, Alesina e Angeletos 2003, van der Ploeg 2003, Bénabou 2004, Bénabou e Tirole 2004]. Il primo, tipico degli Stati Uniti, è caratterizzato da bassa spesa pubblica e bassa equità: i cittadini credono che siano premiati lo sforzo individuale, l’istruzione e il lavoro duro, e l’innovazione risulta quindi guidata da motivazioni privatistiche (alti profitti e diffusi incentivi agli investimenti). Il secondo equilibrio, tipico dell’Europa continentale, è invece caratterizzato da alta spesa pubblica e alta inclusione sociale: gli individui sono convinti che la sorte abbia un’importanza decisiva, e l’innovazione è dunque guidata da motivazioni solidaristiche (qualificazione della forza lavoro, elevato reddito disponibile after-tax, stabilità macroeconomica, coesione sociale). Il duplice equilibrio è legato all’esistenza di due sistemi idealtipici, uno fondato sull’interazione strategica tra imprese, istituzioni e sindacati (economie coordinate europee) e uno basato su concorrenza di mercato e centralità dei mercati finanziari (economie liberali anglosassoni). Sebbene con differenti tipi di innovazione (rispettivamente incrementale o di processo e radicale o di prodotto) e diverse distribuzioni di benessere sociale (maggiore o minore equità), entrambi i modelli permettono di raggiungere elevate performance economiche di lungo periodo [Castells 2000 vol.1: 285, Hall e Soskice 2001: 21, Block 2002]. Molti autori, in particolare negli ultimi anni, hanno sottolineato l’importanza delle diversità istituzionali nello spiegare i diversi percorsi di sviluppo, ma senza che si possa definire una supremazia di un modello sull’altro: è stato affermato che le risposte alle sfide comuni sono differenti secondo le diverse istituzioni esistenti [Scharpf e Schmidt 2000: cap.1-2], che lo stesso paradigma tecnologico altamente innovativo può essere applicato a differenti modelli di welfare come è il caso di Finlandia e Stati Uniti [Castells e Himanen 2002: 24-26], che esistono differenti relazioni tra la funzione e la forma che le istituzioni possono assumere [Rodrik 2002: 3-13], che bassa e alta redistribuzione rappresentano due equilibri alternativi ma ugualmente validi [van der Ploeg 2003: 3-5], che paesi con risultati 90 economici simili possono sostenere sistemi redistributivi molto differenti non confrontabili secondo un criterio paretiano [Bénabou 2004: 13-16]. Se è vero che la qualità delle istituzioni è più importante della geografia e dell’integrazione economica nello spiegare i differenti tassi di crescita dei paesi, allora le politiche pubbliche nei diversi ambiti i (pi) possono essere considerate come flussi che incrementano lo stock della qualità delle istituzioni (I): [17] I i pi I dove I rappresenta la variazione della qualità, i l’impatto della politica pi sulla qualità stessa e il suo tasso di decadimento nel tempo [Rodrik et al. 2004: 156]. Dunque, sia le economie coordinate continentali che le economie liberali anglosassoni permettono di raggiungere una alta qualità delle istituzioni ed elevate performance economiche di lungo periodo. Ma, se la possibilità di avere un’economia innovativa e competitiva è simile nonostante differenti livelli di spesa pubblica, è tuttavia diverso l’impatto sull’efficacia della protezione dai bisogni sociali e sulla distribuzione del benessere sociale [Hall e Soskice 2001: 21]. Infatti gli Europei sembrano più protetti rispetto agli Anglosassoni grazie alla struttura del loro welfare, più orientata all’equità sociale grazie alla prevalenza di spesa pubblica. L’accesso universale ed equo al sistema di welfare non è solo un obiettivo sociale, perché ne garantisce l’efficacia redistributiva e di conseguenza sostiene i canali tramite i quali alcuni suoi elementi diventano fattori produttivi per il sistema economico. Indici di disagio sociale (U) come l’indice di Gini, la mortalità infantile o l’inverso del gender empowerment presentano una forte e significativa correlazione negativa con il livello di spesa sociale pubblica o di pressione fiscale che ne è il corrispettivo [Figura 6.6]: [18] U = U (Spub) con U’ < 0 Poiché è stato concepito appositamente per i paesi avanzati, l’indice di povertà umana HPI-2 dell’Undp38 sembra essere il più appropriato come proxy del loro E’ composto dalla probabilità alla nascita di non sopravvivere a 60 anni, dalla mancanza di capacità funzionali di scrittura nella popolazione adulta, dalla disoccupazione di lungo periodo e 38 91 livello di disagio sociale [Grafico 6.6]. Figura 6.6 - Disagio sociale in funzione del livello della spesa sociale pubblica U U*us U*eu U = U (Spub) S*pub.us Spub S*pub.eu Grafico 6.6 - Relazione tra indice di povertà umana (HPI-2) e pressione fiscale in alcuni paesi Ocse 16 us ire Coefficiente di correlazione: -0,87 (significativo all’1%) uk Fonte: Undp [2004: tab.4, p.176-177] per l’indice HPI-2 e Oecd [2004a: tab.26] per la pressione fiscale (percentuale del Pil) 14 aus bel can 12 ita spa fra ger 10 den fin ned 8 nor sw e 6 30 Rsq = 0,7251 40 50 60 Aliquota fiscale implicita dalla povertà relativa misurata come reddito inferiore del 50% rispetto alla mediana [Undp 2004: 92 6.7 Verifica econometrica: variabili strutturali e spesa sociale Per dare supporto empirico al modello presentato in questo capitolo, utilizziamo un’analisi econometrica per verificare le relazioni ipotizzate. Il punto centrale del modello sono i legami tra il livello di spesa sociale e i valori delle variabili strutturali socio-economiche, al variare dei quali le curve dei costi e dei benefici marginali della spesa sociale sulla competitività internazionale assumono una posizione diversa nel piano [Figura 6.2]. Dall’analisi ci attendiamo una conferma dell’ipotesi che la spesa sociale (chiamata nelle stime SL), considerata come variabile dipendente, può essere associata ad alcune variabili strutturali esplicative, e quindi che adeguati valori di queste ultime rendono una spesa sociale elevata compatibile con le condizioni socio-economiche di un paese. Sulla base delle derivate inserite nel modello, i segni attesi sono positivi per la frazione di spesa sociale produttiva sul totale (SPROD) e l’efficacia della spesa (EFFS) e negativi per tutte le altre: distanza dalla frontiera (DISTF), globalizzazione finanziaria (GLOB1) e commerciale (GLOB2), tasso di sconto “socio-economico” (indice insider-outsider DISC1) e “demografico” (tasso di vecchiaia DISC2). Il modello teorico da stimare è quindi rappresentato da: [19] SL 0 1 DISTF 2 EFFS 3 DISC1 4 DISC 2 5 SPROD 6 GLOB1 7 GLOB2 con 1 < 0, 2 > 0, 3 < 0, 4 < 0, 5 > 0, 6 < 0 e 7 < 0. Anche se ciò non è perfettamente corrispondente al modello, ai fini della presente analisi per spesa sociale intendiamo la spesa sociale pubblica lorda, l’unica variabile per la quale esistono serie storiche, visto che la spesa pubblica o totale netta sono state calcolate da Adema [2001] solo per il 1997. Il campione utilizzato è costituito da 180 osservazioni su un panel di 18 paesi (tutti gli stati dell’Ocse per i quali esistono dati sufficienti) per il periodo dal 1992 al 2001 (ultimo anno per il quale esistono dati completi per tutte le variabili). Le variabili esplicative sono sette [Tabella 6.1], ma le serie storiche non sono utilizzabili per tab.4, p.176-177]. 93 ogni variabile, poiché esistono, oltre che per la spesa sociale, solo per la frazione di spesa produttiva sul totale, il grado di globalizzazione finanziaria e commerciale e il tasso di sconto “demografico”. Sono state quindi inserite tre variabili costanti nel tempo: l’indice 2003 per la distanza dalla frontiera, l’indice 1997 per l’efficacia della spesa e l’indice degli anni 90 per il tasso di sconto “socio-economico”. Il periodo analizzato, gli anni 90, è quello nel quale si dovrebbe essere realizzato l’effetto contrapposto della globalizzazione e della rivoluzione informatica su domanda e offerta di welfare. I risultati di tutte le stime econometriche effettuate, insieme alle diverse tecniche utilizzate [Greene 2003], sono riportate nella Tabella 6.4. Disponendo di dati nella dimensione sezionale (paesi) e temporale (anni), una prima verifica viene effettuata sul pool del campione. In altri termini, viene stimata una relazione ad intercette e pendenze omogenee, utilizzando, in prima battuta, lo stimatore dei minimi quadrati pooled: [20] y it cˆ bˆ X it u it con i = 1,…,18 e t = 1992,…,2001 La variabilità spiegata è di poco superiore alla metà (R2corr. = 0,55). Le variabili risultano tutte significative all’1%, tranne l’efficacia della spesa, che, oltre ad essere quantificata da una proxy poco rappresentativa, è anche costante per tutto il periodo analizzato (ciò significa che l’unica fonte di variabilità è nella dimensione sezionale). I segni sono quelli attesi, tranne che per il tasso di vecchiaia e la globalizzazione commerciale. Il primo caso deriva dal basso valore degli Stati Uniti (a causa dell’alta natalità degli Afro-Americani e degli Ispanici) che presenta tuttavia un livello di welfare limitato, mentre i paesi europei con il maggiore invecchiamento hanno bisogno di dedicare frazioni elevate del Pil alla spesa pensionistica. Poiché anche altri indicatori demografici come gli indici di fecondità, natalità o invecchiamento presentano la stessa caratteristica, probabilmente la demografia non fornisce buoni indicatori dell’ottica di breve o lungo periodo di una società, che è meglio rappresentata dall’indice insideroutsider, relativo all’insieme delle norme sociali, economiche e finanziarie di un paese. Il secondo caso potrebbe derivare dalla relazione che Rodrik [1998] individua tra apertura commerciale, esposizione agli shock internazionali e 94 protezione sociale, e quindi, almeno entro certi limiti, sembrerebbe confermare che una maggiore globalizzazione può essere correlata con una maggiore spesa sociale. Tabella 6.4 - Regressione della spesa sociale pubblica lorda sulle variabili strutturali Stima [20] Variabili esplicative Minimi quadrati pooled Stima [21] Stima [22] Stima [23] Stima [24] Minimi quadrati Minimi quadrati Minimi quadrati pooled generalizzati generalizzati ed effetti fissi ed effetti fissi Panel eterogeneo (SURE) C 3,89 (0,56) [vedi effetti fissi in basso] 2,50 (0,38) [vedi effetti fissi in basso] 15,86*** (3,02) DISTF -3,35*** (-5,18) -3,03 (0,00) -3,00*** (-4,73) 0,19 (0,36) 3,13*** (6,82) EFFS 4,89 (0,59) 13,09 (0,00) 5,59 (0,71) -0,50 (-0,08) -7,86 (-1,24) DISC1 -1,55*** (-3,71) -0,41 (0,00) -1,49*** (-3,71) 0,92** (2,30) 1,91*** (2,90) DISC2 16,70*** (8,62) 8,40*** (4,97) 18,27*** (9,56) 8,87*** (4,41) SPROD 42,74*** (5,38) -50,07*** (-7,63) 39,67*** (5,14) 31,38*** (5,14) GLOB1 -0,47*** (-2,98) -0,33*** (-7,63) -0,50*** (-3,28) -0,47*** (-4,19) GLOB2 3,50** (2,57) -4,44*** (-3,88) 3,18** (2,44) 1,77* (1,80) R2 corretto: 0,55 0,99 0,67 0,77 0,77 Errore standard di regressione: 3,46 1,47 3,43 2,45 2,45 F (prob.): 31,80 (0,00) 1815,75 (0,00) 53,49 (0,00) 68,67 (0,00) --- Osservazioni: 180 180 180 (sbilanciate) divise in 3 gruppi 180 (sbilanciate) divise in 3 gruppi 180 (sbilanciate) divise in 3 gruppi GER IRE ITA NOR NZ NED UK SPA Effetti fissi per la stima [21]: Effetti fissi per la stima [23]: Coefficienti del panel eterogeneo per la stima [24]: AUS AUT BEL CAN 17,32 18,96 27,09 17,54 CH DEN FIN FRA 17,70 27,68 22,88 23,99 20,48 23,01 12,17 22,20 [vedi coefficienti del panel eterogeneo in basso] 20,29 22,62 19,92 13,19 SWE 26,79 US 6,96 LME CME MED 7,80 (1,54) 16,29*** (3,03) 10,63* (1,87) Test di Wald: Ipotesi nulla LME = CME = MED CME = MED Chi quadro (prob.) 173,49 (0,00) 35,46 (0,00) DISC2_LME DISC2_CME DISC2_MED 9,76*** (2,62) 12,73*** (5,13) 23,25*** (10,05) Test di Wald per DISC2: SPROD_LME SPROD_CME SPROD_MED -21,69** (-2,40) 42,87*** (4,40) -34,55 (-1,62) Ipotesi nulla LME = CME = MED LME = CME LME = MED CME = MED Chi quadro (prob.) 20,51 (0,00) 0,45 (0,50) 12,08 (0,00) 12,19 (0,00) GLOB1_LME GLOB1_CME GLOB1_MED -0,45*** (-5,31) -0,52** (-2,14) -2,89*** (-3,73) Test di Wald per GLOB1: Ipotesi nulla LME = CME = MED LME = CME Chi quadro (prob.) 10,37 (0,01) 0,09 (0,77) 95 GLOB2_LME GLOB2_CME GLOB2_MED LME = MED CME = MED 5,12*** (3,58) 0,50 0,36) -21,49** (-2,54) 10,31 (0,00) 8,83 (0,00) Note: variabile dipendente: SL statistiche t tra parentesi: *** = significatività all’1% ** = significatività al 5% * = significatività al 10% vedi Tabella 6.1 per le definizioni e le fonti delle variabili Al fine di ottenere maggiori informazioni sull’eterogeneità nella dimensione sezionale, è utile una stima ad effetti fissi. Il metodo utilizzato è lo stimatore dei minimi quadrati generalizzato (GLS) nella versione iterativa39. La formalizzazione è diversa poiché con questa tecnica le differenze tra paesi vengono catturate dalle differenti intercette di ogni paese, corrispondenti a distinte strutture istituzionali: [21] yit cˆi bˆ X it uit con i = 1,…,18 e t = 1992,…,2001 In questo caso gran parte della variabilità è catturata dalle intercette (tanto che R2 è praticamente pari a 1), cosicché otteniamo che le tre variabili costanti nel tempo, che presentano variabilità solo nella dimensione sezionale, non risultano significative. Tra le altre quattro significative all’1%, la globalizzazione commerciale e finanziaria ha il segno atteso negativo, mentre tasso di sconto “socio-demografico” e spesa produttiva hanno segni opposti a quelli attesi. La scarsa consistenza dei risultati è probabilmente dovuta ai pochi gradi di libertà dell’analisi (180 osservazioni rispetto a 7 variabili per 18 paesi). 39 La procedura standard a due stadi viene iterata fino a convergenza (definita da un criterio soggettivo di minima variazione nel passaggio dall’iterazione i-1-esima alla i-esima). Il peso delle osservazioni è inversamente proporzionale alla varianza della stima OLS. 96 Grafico 6.7 - Effetti fissi della dimensione sezionale (paesi) sulla spesa sociale pubblica lorda 30 25 20 15 10 5 0 den bel swe fra ire fin ned nor ger nz uk aut ch can aus spa ita us Fonte: stima [21] nella Tabella 6.4 E’ comunque interessante analizzare le intercette per i diversi paesi: i valori maggiori li hanno Danimarca, Belgio e Svezia, dove sembrerebbe esistere una struttura intrinsecamente orientata a una spesa sociale pubblica più elevata, mentre i valori minori li hanno Spagna, Italia e, soprattutto, Stati Uniti, che al contrario presenterebbero una struttura orientata a una protezione sociale pubblica limitata [Grafico 6.7]. Per ovviare al problema dei pochi gradi di libertà, l’informazione di partenza può essere riorganizzata in gruppi di omogeneità, stabiliti rispetto a valutazioni teoriche generalmente condivise o sulla base dell’evidenza empirica della stima ad effetti fissi. In questo caso ridefiniamo le osservazioni rispetto a tre raggruppamenti che rappresentano diversi sistemi socio-economici, e riprendiamo la formalizzazione pool stimata con il metodo GLS. La fonte della variabilità è in tal caso data dai tre raggruppamenti e non dai singoli paesi, sebbene il panel sia sbilanciato poiché la numerosità di tali raggruppamenti (ni) non è omogenea: [22] yih cˆ bˆ X ih uih con i = 1, 2, 3 e hi = t*ni La distinzione tra economie liberali anglosassoni e coordinate europee è stata già proposta in precedenza, ma vi aggiungiamo le economie mediterranee (Italia e Spagna), che secondo alcuni autori rappresentano una diversa modalità di organizzazione sociale e che l’analisi precedente, nonché l’Acp, ha distinto dalla 97 media europea e avvicinato piuttosto agli Stati Uniti. In questo modo i risultati sono più consistenti, con una variabilità spiegata di circa due terzi (R2corr. = 0,67). Tutte le variabili sono significative al 5%, tranne l’efficacia della spesa, e i segni risultano essere quelli attesi, tranne che per il tasso di vecchiaia e la globalizzazione commerciale, ossia le stesse discrepanze con il modello teorico già viste riguardo alla stima [20]. Di conseguenza, l’accostamento dei diversi paesi in gruppi omogenei secondo le istituzioni che li caratterizzano comporta una stima nella quale la variabilità spiegata è sufficientemente elevata e quasi tutti i coefficienti risultano significativi e in linea con le attese. Affiniamo l’analisi mantenendo i tre raggruppamenti, ma riprendendo la formalizzazione ad effetti fissi. Otteniamo in questo caso 3 diverse intercette: [23] y ih cˆi bˆ X ih u ih con i = 1, 2, 3 e hi = t*ni Sebbene con una maggiore variabilità spiegata (R2corr. = 0,77), due variabili non risultano significative (distanza dalla frontiera e efficacia della spesa), oltre alla costante per le economie anglosassoni, e tra le altre variabili ci sono segni opposti a quelli attesi. Tuttavia, il test di omogeneità strutturale di Wald, applicato ai coefficienti delle intercette, permette di rifiutare l’ipotesi che essi siano tutti e tre uguali o anche che siano uguali quello europeo e quello mediterraneo. Tale risultato dà consistenza empirica all’ipotesi che esistano modelli socio-economici distinti (liberale anglosassone, coordinato europeo e familistico mediterraneo) che comportano per la loro stessa natura livelli di spesa sociale pubblica lorda differenti, pur implicando livelli di spesa totale netta simili40. Se le differenze istituzionali sembrano avere un effetto significativo sulla variabile dipendente (il livello di spesa sociale pubblica lorda), è allora interessante verificare se tale impatto è spiegato, oltre che da differenti intercette, anche da differenti pendenze (slopes) delle rette di regressione. Relativamente alle sole variabili di cui disponiamo serie storiche, utilizziamo allora il modello del 40 Le definizioni di spesa sociale totale netta e pubblica lorda e la loro formulazione sono state discusse nel paragrafo 2.3 e riprese nel paragrafo 6.4. 98 panel eterogeneo41, una tecnica mediante la quale le differenze tra paesi vengono appunto catturate da differenti coefficienti delle variabili esplicative: [24] yih cˆi bˆi X ih uih con i = 1, 2, 3 e hi = t*ni Otteniamo così per quattro variabili coefficienti diversi secondo l’appartenenza ai tre raggruppamenti considerati, con una variabilità spiegata uguale alla stima precedente (R2corr. = 0,77). In particolare, il test di omogeneità strutturale di Wald mostra che l’impatto del tasso di sconto “demografico” non è significativamente differente tra paesi anglosassoni ed europei, ma è differente tra essi e i paesi mediterranei, che quindi subirebbero un maggiore incremento di spesa a parità di invecchiamento. Inoltre, anche l’impatto della globalizzazione sia finanziaria che commerciale risulta significativamente differente tra le economie mediterranee (per le quali è negativo) e gli altri paesi (per i quali è praticamente nullo o persino positivo). Poiché nel modello teorico l’aumento del grado di globalizzazione comporta un aumento dei costi marginali del welfare a causa dei vincoli crescenti al suo finanziamento, sembra quindi che tale effetto sia significativo solo in Italia e Spagna, mentre nelle altre economie potrebbe valere la relazione positiva tra apertura, volatilità e protezione che lega al contrario l’intensificarsi della globalizzazione all’aumento della spesa sociale. Di più incerta spiegazione sono invece i valori relativi alla spesa produttiva, che risulta avere un forte impatto positivo nell’Europa continentale e un impatto negativo nei paesi anglosassoni (mentre non è significativo nei paesi mediterranei). Nonostante la presenza di variabili (di cui tre costanti nel tempo) che sono solo proxy di fenomeni socio-economici complessi e non facilmente catturabili da indicatori sintetici, e nonostante che la variabile dipendente non sia per necessità pratiche la stessa definita nel modello teorico, tuttavia la verifica econometrica apporta alcune conferme interessanti. a) Le stime [20] e [22] mostrano che alcune variabili strutturali del modello sono effettivamente correlate al livello di spesa sociale, con il segno previsto nel 41 In questo caso viene utilizzato lo stimatore SURE (Seemingly Unrelated Regression Equations), secondo il quale, sebbene le variabili esplicative siano specifiche al singolo raggruppamento, gli shock possono essere comuni. 99 modello teorico: la distanza dalla frontiera, l’indice insider-outsider e la globalizzazione finanziaria hanno un impatto negativo e significativo sulla spesa sociale, mentre la frazione di spesa produttiva sul totale comporta un effetto positivo e significativo. Altre variabili significative (globalizzazione commerciale e tasso di vecchiaia) presentano segni opposti a quelli teorici, ma è possibile spiegare tale discrepanza. Nel primo caso potrebbe dipendere dalla relazione tra apertura internazionale e protezione sociale, che potrebbe essere inversa a quella prevista nel presente modello, ma in linea con l’ipotesi di Rodrik [1998] che l’apertura commerciale comporta maggiore esposizione agli shock internazionali e quindi maggiore protezione sociale per compensare tale rischio crescente. Nel secondo caso potrebbe derivare dall’elevata natalità degli Stati Uniti, e quindi dalla scarsa utilità degli indicatori demografici per spiegare l’ottica di breve o lungo periodo di una società. b) Le stime [21] e soprattutto [23] suggeriscono che i differenti sistemi socio-economici (ossia le diverse istituzioni di un paese) sono di per sé legati a differenti livelli di spesa sociale pubblica. L’appartenenza alle economie liberali anglosassoni, alle economie familistiche mediterranee o alle economie coordinate europee è significativamente correlata a intercette crescenti, cioè a valori differenti di spesa sociale, a parità di altri fattori. In particolare, l’Italia sembra accomunata a Spagna e Stati Uniti riguardo al basso valore dell’intercetta. c) Infine, la stima [24] mette in luce che anche l’impatto di variazioni delle variabili strutturali è differente secondo l’appartenenza a un diverso sistema. In particolare, a parità di aumento del tasso di vecchiaia, la spesa sociale cresce di più nelle economie mediterranee che negli altri paesi. Analogamente, a parità di aumento del grado di globalizzazione (sia commerciale che finanziaria), la spesa subisce un impatto negativo nei paesi mediterranei mentre non ha un impatto significativo o addirittura lo ha positivo negli altri paesi. Emerge comunque per queste variabili una differenza nella struttura mediterranea rispetto a quella anglosassone ed europea continentale, e ciò rappresenta un ulteriore conferma della preoccupazione per la sostenibilità del welfare italiano nell’economia globale. 100 E’ evidente che la verifica econometrica proposta non indaga in maniera approfondita su quali nessi causali sussistano, ma il suo fine era solo quello di fornire alcune indicazioni generali sulla correlazione tra i valori delle variabili strutturali e il livello di spesa sociale, con le prime che rappresentano fattori permissivi per la crescita del secondo. L’analisi sembra confermare l’ipotesi che, al migliorare delle condizioni strutturali socio-economiche, anche livelli elevati di spesa sociale possono essere compatibili con i vincoli dell’economia globale. Tale risultato apporta un elemento empirico importante a sostegno del ruolo cruciale del tipo di sistema di welfare nel modello teorico dei costi e benefici del welfare sulla competitività internazionale. 101 7. Considerazioni conclusive Abbiamo analizzato un sistema di relazioni biunivoche, complesse e dinamiche tra sistema di welfare, bisogni sociali e performance economiche, dove gli elementi del welfare influiscono direttamente o meno sull’efficienza di un’economia e quindi sulla sua competitività, fattore cruciale nel nostro mondo globale. Abbiamo mostrato come tale analisi sia parte di un nuovo paradigma dello sviluppo umano, che non considera solo gli effetti negativi del finanziamento del welfare, ma anche gli effetti positivi della spesa sull’efficienza economica nel medio-lungo periodo, e non considera solo la spesa sociale pubblica ma anche quella privata, che in molti casi è complementare alla prima. Più che il livello di spesa sociale, è decisiva la struttura del sistema di protezione sociale, affinché i benefici del welfare possano essere maggiori dei costi del suo finanziamento. Ciò avviene se la struttura del welfare è efficiente, disegnata in modo tale da minimizzare distorsioni, disincentivi e sprechi e al tempo stesso massimizzare incentivi e spese produttive. Dal punto di vista metodologico, e nello spirito del nuovo paradigma dello sviluppo umano, il presente lavoro si propone come un tentativo di modellizzare e quantificare fenomeni che la letteratura economica non ha finora cercato di legare insieme. Sembra fruttuoso il tentativo di tenere insieme fenomeni e teorie economiche e sociologiche, che troppo a lungo sono state considerate come due campi distinti di studio, ma che la complessità del mondo attuale impone di ricondurre a unità. Dal punto di vista teorico, l’analisi esplora la possibilità di una formalizzazione analitica nell’ambito del paradigma dello sviluppo umano, proponendo un’analisi dei costi e dei benefici che contemporaneamente il welfare crea sulla competitività internazionale. Le novità rispetto alle analisi tradizionali 102 sono la definizione ampia di sistema di welfare che integra l’offerta pubblica e il mercato privato, e la caratterizzazione della competitività come discendente da caratteri strutturali di lungo periodo. Di conseguenza l’ottica non è solo rivolta alla compatibilità finanziaria di breve periodo, bensì anche alla realizzazione degli investimenti sociali nel medio-lungo periodo. Il livello ottimale di welfare appare allora come il risultato non solo di decisioni politiche o del grado di apertura commerciale, ma di numerosi fattori strutturali socio-economici che, nei diversi paesi e nei diversi periodi, rendono più o meno compatibili un’elevata spesa sociale e un’altrettanto elevata competitività. Questa impostazione permette di proporre un modello analitico dei costi e dei benefici marginali del welfare su efficienza e competitività. In un’economia a due settori, uno orientato all’imitazione della frontiera tecnologica e l’altro orientato all’innovazione, emerge la duplice natura del sistema di welfare. E’ infatti un costo nel breve periodo (in particolare per il settore imitativo) e un investimento nel medio-lungo periodo (soprattutto per il settore innovativo). Il livello di equilibrio della spesa sociale deriva dalla posizione delle curve dei costi e dei benefici marginali, che a loro volta dipendono dai valori delle variabili strutturali introdotte nel modello: distanza dalla frontiera, frazione della spesa sociale produttiva, grado di globalizzazione, efficacia della spesa, tasso di sconto dei benefici futuri attesi. L’ipotesi che, al migliorare delle condizioni strutturali socio-economiche, anche livelli elevati di spesa sociale possono essere compatibili con i vincoli dell’economia globale, sembra essere confermata dalla verifica econometrica del livello della spesa in funzione delle variabili strutturali. Queste hanno effettivamente un impatto sulla spesa sociale, rendendo l’adeguamento e la rimodulazione della struttura del welfare il focus prioritario della riforma della protezione sociale. Non sembra infatti centrale l’alternativa tra la riduzione della spesa sociale pubblica, che significherebbe più spesa sociale privata non necessariamente più efficiente, e la difesa dell’attuale livello, che non garantisce sulla qualità della spesa. In particolare la distanza dalla frontiera, il tasso di sconto “socio-economico” e il grado di globalizzazione finanziaria hanno un impatto 103 negativo e significativo sulla spesa sociale, mentre la frazione di spesa produttiva sul totale comporta un effetto positivo e altrettanto significativo. Inoltre, i differenti sistemi istituzionali di un paese sono di per sé legati a differenti livelli di spesa a parità di altri fattori e a differenti effetti della modificazione delle variabili strutturali. Il modello teorico e la verifica econometrica (nonché l’analisi in componenti principali degli effetti economici della spesa sociale) apportano quindi alcuni elementi interessanti per analizzare in una luce diversa i fatti stilizzati da cui siamo partiti. 1) Economie con diversi sistemi di welfare possono essere ugualmente innovative perché in realtà, ai fini dell’efficienza e dell’innovazione, non conta tanto il livello di spesa sociale pubblica, quanto la spesa sociale totale netta e la sua struttura. La spesa totale netta rappresenta la quota di prodotto nazionale dedicato a scopi sociali, ed è abbastanza simile nei paesi avanzati, perché tutti sono soggetti a problemi simili e bisogni crescenti: esposizione agli shock internazionali, flessibilità del lavoro, invecchiamento della popolazione, strutture familiari sempre meno standard. 2) Livelli di tassazione e di stato sociale molto differenti tra loro rispondono a diverse preferenze consolidatesi nel tempo riguardo alla spesa pubblica o privata, dipendenti dalla storia, dalla politica, dai valori e dall’affinità sociale dei diversi paesi. Sia pure tramite diversi percorsi di sviluppo, tali differenze non danneggiano, generalmente, la capacità di raggiungere alti livelli di efficienza economica e competitività, nonché di innovazione di prodotto o di processo. Per questo l’Agenda di politica sociale della Commissione Europea [2000], a partire dal Consiglio di Lisbona, cerca di rafforzare quel legame tra economia europea e modello sociale che rappresenta un vantaggio istituzionale comparato e che viene considerato un punto di forza nel mondo globale. 3) Globalizzazione, rivoluzione informatica e transizione demografica comportano forti pressioni sulla spesa sociale, in particolare aumentando i costi del suo finanziamento a fronte di una domanda crescente. Tuttavia, il livello effettivo di tale spesa non cambia, perché esistono forti resistenze alla contrazione 104 del welfare, che creano un disequilibrio tra costi e benefici marginali. Se non è possibile rimuovere le resistenze dello status quo, allora è necessario ridurre i costi oppure aumentare i benefici. Nel breve-medio periodo ciò significa una spesa sociale maggiormente efficace, una specializzazione produttiva più orientata ai settori ad alta tecnologia, e una maggiore frazione di spesa sociale dedicata agli investimenti produttivi. Nel lungo periodo diventano però possibili anche azioni volte a rafforzare il coordinamento sovranazionale delle politiche economiche, limitare lo “short-termism” politico e culturale, e rallentare l’invecchiamento della popolazione. 4) Una forte protezione sociale e alti livelli di spesa possono essere quindi sostenibili e persino favorire l’efficienza. Diversamente dall’Italia ciò è possibile se la struttura del welfare è orientata verso spese produttive ed efficaci, e la specializzazione produttiva è orientata verso i settori economici a media-alta tecnologia. Il rischio del declino italiano sembra quindi grave non solo dal lato produttivo, relativo alla struttura delle imprese e dei mercati, ma anche dal lato del welfare, relativo alla capacità di soddisfare quei bisogni sociali che allo stesso tempo sono fattori produttivi per il sistema economico e precondizioni per la crescita. Ciò rende necessaria un’azione politica consapevole che rompa il pericoloso circolo vizioso tra crescita limitata, scarsa innovazione e bassissima natalità, e avvicini così l’Italia alle condizioni socio-economiche degli altri grandi paesi europei. La questione centrale riguarda le modalità con cui tale azione può essere realizzata: se cioè sia possibile mantenere le caratteristiche storiche del welfare italiano (la centralità della famiglia, la protezione legata al lavoro) adeguandole al mutato contesto sociale, economico e produttivo, oppure se sia necessario abbandonare tale modello per adottare una protezione maggiormente universale e legata alla cittadinanza. Sembra in ogni caso decisivo un approccio preventivo ex ante, che riduca i rischi promuovendo le opportunità e le capacità, piuttosto che compensare ex post i bisogni. A tale fine è necessario allargare la base di finanziamento del welfare, incentivando la partecipazione nella forza lavoro e allungando la vita lavorativa di giovani, donne e uomini over 50. L’analisi effettuata presenta chiaramente alcune lacune, che derivano 105 dall’impianto essenzialmente teorico del modello, non troppo elaborato e degno di estensioni e approfondimenti. Non sono stati infatti analizzati gli effetti sulla crescita delle variabili strutturali, e non è stato discusso l’impatto della diversa modalità di offerta (pubblica o privata) del welfare, soprattutto riguardo all’offerta di istruzione, che è stata semplicemente considerata come una parte della protezione sociale pur presentando caratteristiche distinte. Anche la verifica empirica ha fornito alcune indicazioni generali che avrebbero potuto essere più consistenti e rilevanti se fosse stato possibile utilizzare serie storiche migliori, e non semplici indicatori di fenomeni socio-economici complessi e difficilmente sintetizzabili. Nonostante tali limitazioni, il presente lavoro vuole essere un contributo alla crescita del paradigma dello sviluppo umano, proponendo un modello analitico che rappresenta il ruolo contraddittorio del welfare come costo nel breve periodo e investimento sociale nel medio-lungo periodo. La consapevolezza di tale duplice ruolo può contribuire a riformare con efficacia la struttura del welfare nei paesi occidentali, e in particolare in Italia. Non servono né rivoluzioni né tagli radicali, ma piuttosto la rimodulazione del sistema di welfare rispetto alle crescenti pressioni contrapposte su domanda e offerta. E’ decisivo riformarne i tre pilastri pubblico, privato e familiare, ottimizzandoli per conseguire la possibilità di proteggere i cittadini dai rischi crescenti a cui sono esposti, ma allo stesso tempo favorendo lo sforzo competitivo nei settori ad alta qualità e alta innovazione. 106 Bibliografia* ACEMOGLU Daron, AGHION Philippe, ZILIBOTTI Fabrizio [2003]: Distance to Frontier, Selection, and Economic Growth; mimeo; http://econ-www.mit.edu/faculty/download_pdf.php?id=891 ACOCELLA Nicola [1999]: Il dibattito sul welfare state, in ACOCELLA Nicola (cur.): Globalizzazione e stato sociale; Bologna; Il Mulino ACOCELLA Nicola [2002]: Theories of justice: social conditioning and personal responsability in Roemer’s contribution; mimeo ACOCELLA Nicola, CICCARONE Giuseppe, FRANZINI Maurizio, MILONE Luciano M., PIZZUTI Felice R., TIBERI Mario [2004]: Rapporto su povertà e disuguaglianze negli anni della globalizzazione; rapporto per la Fondazione Premio Napoli; www.unisi.it/criss/download/poverta_disuguaglianze.pdf ADEMA Willem [2001]: Net Social Expenditure, 2a ed.; OECD Labour Market and Social Policy Occasional Papers, n.52 AGHION Philippe, HOWITT Peter [1998]: Endogenous Growth Theory; Cambridge (Mass.); MIT Press ALESINA Alberto, ANGELETOS George-Marios [2003]: Fairness and Redistribution: U.S. versus Europe; NBER Working Paper, n.9502 ALESINA Alberto, GLAESER Edward, SACERDOTE Bruce [2001]: Why Doesn’t the United States Have a European-Style Welfare State?; Brookings Papers on Economic Activity, n.2/2001 ALESINA Alberto, PEROTTI Roberto [1996]: Political Instability, Income Distribution and Investment; European Economic Review, vol.40, n.6 * Comprende anche i siti internet dai quali sono stati scaricati paper, rapporti e dati non altrimenti reperibili. 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