FP.italiano 10/2014
IL RINNOVAMENTO DELLA MISSIONE
alla luce di Evangelii Gaudium
Gabriele Ferrari s.x.
Il primo documento ufficiale scritto da Papa Francesco, Evangelii Gaudium1, è nuovo nel suo
genere. Tecnicamente è un’esortazione apostolica, il documento cioè che il Papa scrive alla
conclusione di un Sinodo dei vescovi. Ma non solo. Esso si presenta - e il Papa stesso lo presenta come il programma pastorale di Papa Francesco. P. Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà
Cattolica, afferma che Evangelii gaudium è “un testo che contiene un disegno ed è frutto di una
maturazione durata anni, se non decenni, non solo di riflessione, ma anche (e soprattutto) di
esperienza pastorale”2. Da questo punto di vista, si può dire che Evangelii Gaudium sostituisce la
classica enciclica programmatica che ogni nuovo Papa fa uscire poco dopo la sua elezione.
Alla sua conclusione, il Sinodo dei Vescovi del 2012 su “La nuova evangelizzazione per la
trasmissione della fede cristiana”, aveva offerto a Papa Benedetto XVI 57 Propositiones riassuntive
dei lavori sinodali e ci si attendeva un’esortazione apostolica postsinodale che però Benedetto XVI
non ha avuto tempo di preparare. Per questo Papa Francesco afferma di aver “accettato con piacere
l'invito dei Padri sinodali di redigere quest’Esortazione” e nel farlo ha inteso raccogliere “la ricchezza
dei lavori del Sinodo” (n. 163). Nello stesso tempo però, e forse in modo prevalente, il Papa ha voluto
anche “esprimere le preoccupazioni” che lo “muovono in questo momento concreto dell'opera
evangelizzatrice della Chiesa” (ibid.). Sembra perciò insufficiente leggere il documento solo in
rapporto all’ultimo Sinodo dei vescovi, dato che il Papa afferma di voler “delineare un determinato
stile evangelizzatore che invito ad assumere “in ogni attività che si realizzi” (n. 18). La “nuova
evangelizzazione” (termine che il Papa usa solo 12 volte nel corso dell’Esortazione, facendola
coincidere in pratica con l’evangelizzazione tout court) sarà l’impegno permanente che il Papa ritiene
fonte di “dolce e confortante gioia” (n. 10) e che segna con il richiamo di Paolo alla conclusione
dell'introduzione: “Siate sempre lieti nel Signore. Ve lo ripeto, siate lieti” (Fil 4,4) (n. 18).
Un testo programmatico per una nuova tappa dell’evangelizzazione
Evangelii gaudium deve quindi essere considerato come un primo abbozzo del programma del
pontificato di Papa Francesco per un radicale rinnovamento della vita della chiesa e della sua
missione: “Ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze
importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per
avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come
stanno” (n. 25).
Prendendola in mano, Evangelii gaudium impressiona per le sue dimensioni, inusuali in un
documento pontificio4, e per lo stile nuovo del testo che non è quello elaborato e calibrato dei
documenti vaticani, ma che ha un tono diretto (in qualche punto si rivolge all’interlocutore in seconda
persona …), quasi colloquiale e spesso provocatorio. Anche le citazioni sono fuori serie: infatti,
accanto alle numerose citazioni dei suoi due predecessori, Papa Francesco cita molti testi di Paolo VI
(ben 12 citazioni di Evangelii nuntiandi che in questi ultimi tempi era quasi scomparsa, oltre a quelle
di Ecclesiam suam, Populorum progressio, Octogesima adveniens, Gaudete in Domino), di diverse
Conferenze episcopali, del Documento di Aparecida (CELAM 2007), di teologi e filosofi e anche del
romanzo Il diario di un curato di campagna di Georges Bernanos, mentre non vi si trovano che due
citazioni del Catechismo della Chiesa cattolica, quando il Compendio della dottrina sociale della
chiesa è citato ben sette volte.5 Evangelii gaudium si rivela così un testo decisamente nuovo, che
corrisponde alla personalità di questo Papa sempre sorprendente e imprevedibile nelle sue aperture.
Quanto però il testo sembra dimesso e popolare, altrettanto è dirompente nel suo contenuto,
paragonabile all’eruzione di un vulcano, a “un’esplosione in cui una serie di materiali evangelici
2
incandescenti spingono la Chiesa a rinnovare la sua coscienza missionaria, ad avviare un processo di
riforma, a innestare nella vita dei credenti la letizia dell’annuncio verso uno stato permanente di
missione” (Lorenzo Prezzi, in Settimana n. 43).
Il duplice registro del documento, post-sinodale e programmatico, si concretizza in un intreccio
molto ampio di sette temi indicati dal Papa stesso al n. 18: la riforma della Chiesa «in uscita»
missionaria; le tentazioni degli operatori pastorali; la Chiesa come totalità del Popolo di Dio che
evangelizza; l'omelia e la sua preparazione; l'inclusione sociale dei poveri; la pace e il dialogo sociale;
le motivazioni spirituali per l'impegno missionario. Questi temi sono distribuiti in cinque capitoli.
Il Papa stesso non si nasconde che lo sviluppo dei temi “forse potrà sembrare eccessivo” (n. 18),
ma se si tiene conto della duplice natura del documento, la lunghezza appare giustificata. Non si
nasconde neppure il fatto “che oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e
sono rapidamente dimenticati”, e tuttavia considera Evangelii gaudium come un testo “programmatico
dalle conseguenze importanti” per cui auspica che “tutte le comunità facciano in modo da porre in atto
i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può
lasciare le cose come stanno” (n. 25). Andando verso la conclusione dell’Esortazione, Papa
Francesco, con una nota autobiografica, afferma che “la missione al cuore del popolo non è una parte
della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti
dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono
una missione su questa terra e per questo mi trovo in questo mondo” (n. 273).
La missione è una realtà essenziale della chiesa ed “è vitale che oggi la chiesa esca ad
annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e
senza paura” (n. 23) nella convinzione che la missione è la forza che trasformerà la chiesa, una forza
destinata a rivoluzionare, sconvolgere e condurre la chiesa lontano, verso prospettive che non si
possono prevedere, perché entrare nella missione “è come immergersi in un mare dove non sappiamo
che cosa incontreremo. Io stesso - confessa il Papa - l’ho sperimentato tante volte” (n. 280) e,
consapevole che il lavoro che sta davanti alla chiesa è quindi in-menso, non misurabile né prevedibile,
chiama tutti a una “conversione missionaria” (n. 30) in vista della necessaria riforma della chiesa. Una
conversione globale del popolo di Dio che deve essere “in capite et in membris” (come dicevano i
Padri del Concilio di Trento): “non ci serve una semplice amministrazione [della realtà esistente].
Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione” (n. 25). Con questo
appello Papa Francesco vuol realizzare finalmente quel “bisogno generoso e impaziente di
rinnovamento” di cui parlava Paolo VI in Ecclesiam suam n. 10 (1964), richiesto esplicitamente dal
Concilio (Unitatis Redintegratio n. 6), ma che non si è ancora realizzato, ricorda Papa Francesco al n.
26 e che egli chiama ormai un “improrogabile rinnovamento ecclesiale” (n. 32) da intraprendere a
tutti i livelli della chiesa, Papato compreso!
Non è lo scopo di questo testo e sarebbe presuntuoso voler riassumere in poche pagine la
ricchezza di un documento così vasto e denso. Mi limito pertanto a richiamare tre punti di particolare
interesse per il rinnovamento della missione:
1. «La chiesa in esodo», in uscita da se stessa per annunziare il vangelo al mondo di oggi, un
mondo che cambia rapidamente un mondo e parla una nuova lingua, che offre alla chiesa nuovi
contesti e nuove tentazioni, che moltiplica i poveri ed aggrava la loro situazione e che richiede quindi
nuovi atteggiamenti .
2. Una nuova metodologia missionaria in discontinuità con il passato che inaugura una nuova
relazione missionaria con il mondo e si fonda non più su un proselitismo più o meno aperto o su
forme di colonialismo spirituale, ma sulla testimonianza cristiana del vangelo che attira i nuovi
candidati alla chiesa.
3. Un’evangelizzazione non più ossessionata dal dovere di salvare l’unità, ma attenta alle
diverse culture per offrire il vangelo in modo comprensibile e persuasivo, un’evangelizzazione aperta
al pluralismo affinché la chiesa incarnata nella cultura locale, possa a sua volta evangelizzare in modo
efficace e valido il proprio mondo.
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1. Una chiesa missionaria «in uscita» per rinnovare se stessa e il mondo
Non possiamo dire Papa Francesco voglia innovare l’ecclesiologia. Egli anzi afferma e
conferma l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, con tutte le novità che essa ha portato e tutta la
tradizione che suppone, abbandonando così la sterile discussione sulla continuità o discontinuità che
ha occupato questi ultimi anni, riaffermando invece l’importanza e l’attualità dei documenti del
Vaticano II. Ha invece impresso alla chiesa un nuovo dinamismo e sottolineato alcuni atteggiamenti
che contribuiscono a darle quasi una nuova identità. Fin dai suoi primi interventi dopo l’elezione, ha
affermato che la chiesa che deve uscire da se stessa per dirigersi verso le “periferie esistenziali”6,
perché una chiesa che non esce da sé, si isola, s’isterilisce e si ammala7. “Usciamo, usciamo ad offrire
a tutti la vita di Gesù Cristo” (49), questo è l’invito del Papa.
a) Una chiesa aperta verso il mondo
Ogni cristiano è invitato a discernere “quale sia il cammino che il Signore gli chiede. Tutti però
sono invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di
raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del vangelo” (20). La chiesa deve quindi
abbandonare i suoi problemi interni e vincere la tentazione di chiudersi in sé per assumere il suo
nuovo ruolo di “chiesa in esodo”, con le porte aperte, pronta ad accogliere tutti, perché “la chiesa non
è una dogana ma la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa” (47). Questo
impegno a uscire dalle sue mura è richiesto oggi dalla realtà che oggi caratterizza questo momento di
crisi sociale ma anche ecclesiale, riconosciuta quest’ultima con molta chiarezza da Benedetto XVI in
Porta Fidei 8, una chiesa stanca e malata, una chiesa autoreferenziale, preoccupata di se stessa, dei
suoi problemi (chiese vuote, mancanza di vocazioni, rivalità interne, pubblicazione di carte riservate e
scandali nel clero ecc.).
Nell’intervista data al Direttore de La Civiltà Cattolica Papa Francesco ha detto che la chiesa
deve essere una chiesa coraggiosa “che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare
verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per
ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia,
coraggio”.9
A questa chiesa stanca e malata Papa Francesco offre la terapia della missione che dona la gioia.
Lo fa richiamandola alla sua identità conciliare di “popolo pellegrino ed evangelizzatore, che
trascende ogni pur necessaria espressione istituzionale” (n. 111) nel quale tutti riprendono il
protagonismo missionario che corrisponde al battesimo e che per molto tempo è stato delegato alla
gerarchia e ai suoi delegati. Papa Francesco ricupera la categoria ecclesiologica del “popolo di Dio”
(Lumen gentium 2.9) che dopo il Concilio è stata messa da parte per paura che nascondesse una
tendenza democratica e che invece conferisce alla chiesa quell’identità di popolo regale profetico e
sacerdotale che cammina nella storia e annuncia “le opere ammirevoli di lui che vi ha chiamato dalle
tenebre alla sua luce meravigliosa” (cf. 1Pt 2,9). In questa chiesa popolo di Dio tutti godono una
fondamentale uguaglianza, tutti sono fratelli di Gesù e suoi discepoli. Ogni discepolo però deve
sentirsi “discepolo-missionario” inviato nel mondo per annunciare l’amore di Dio apparso in Gesù
Cristo. Proprio perché popolo di Dio, la chiesa è una chiesa che vive immersa nella storia e in
continuo esodo e in costante conversione, interpellata dal Regno e al servizio del Regno. Questa
indicazione non è nuova, viene dalla storia della salvezza ed è radicata nella teologia trinitaria. Ma è
nuova nel senso che nella pratica molti cristiani e molte chiese pensano ancora alla missione come a
un compito «speciale», riservato a certe persone e comunque estraneo alla prassi quotidiana. Papa
Francesco invece fa della missione quasi una nota teologica della chiesa: “chiesa in uscita”, “popolo
pellegrino e evangelizzatore”.
b) Una chiesa in conversione permanente per essere libera
La chiesa in esodo è, come il popolo eletto della prima Alleanza, una chiesa consapevole delle
sue fragilità e dei suoi peccati, chiamata a vincere le tentazioni che le vengono dal mondo e che il
Papa elenca nel II capitolo di Evangelii gaudium. Sono di vario genere, dalla tentazione di escludere e
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di cedere all’inequità (n. 53) alla tentazione dell’indifferenza per le esclusioni e le emarginazioni (n.
54); dalla tentazione di adorare il denaro, cedere al consumismo e credere all’autonomia del mercato
nel rifiuto delle norme etiche e di Dio (nn. 55-57), di un denaro che invece di servire governa il
mondo (n. 58), alla tentazione di cadere nelle spirali della violenza prodotta dalla caduta delle illusioni
che vengono dal “consumismo sfrenato” e dalla corruzione (nn. 59-60). La chiesa non solo deve
vincere queste tentazioni che sono nel mondo, ma deve anche rispondere alle attuali sfide culturali
della storia che possono farle perdere la gioia e l’entusiasmo dell’evangelizzazione, come per es. la
cultura del relativismo autoreferenziale (n. 61), le minacce politiche e culturali che vengono dai paesi
ricchi e dalle culture forti e colpiscono i paesi più deboli mettendone a rischio i valori tradizionali (n.
62). Deve rispondere alla proliferazione dei nuovi movimenti religiosi, provocata dal vuoto lasciato
dal razionalismo secolarista e da una povera accoglienza da parte delle comunità cristiane (n. 63), e
alle pretese della società globalizzata di rinchiudere la fede nell’ambito privato e di credere ai diritti
della persona ritenuti assoluti, senza accettare più una legge universale valida per tutti (n. 64). Deve
difendere la famiglia e la stabilità dei legami sociali (n. 67).
Oggi la «chiesa in uscita» deve preoccuparsi di evangelizzare le culture per inculturare il
vangelo (n. 69), occuparsi della formazione dei fedeli e trasmettere la fede alle nuove generazioni,
deve dare tempo e risorse a evangelizzare la città (nn. 70-71) e gli ambienti multiculturali (nn. 72-75)
curando le ferite che si producono nelle convivenze urbane.
Il Papa chiede alla chiesa di affrontare inoltre una serie di tentazioni che sono altrettante
patologie che colpiscono la chiesa e, in particolare, i suoi ministri (nn. 76-109): l’esagerata
preoccupazione per sé che porta all’individualismo, alla crisi di identità e alla perdita del fervore e
della gioia (n. 78); la sfiducia nella forza intrinseca del messaggio della chiesa e il nascere di un
complesso di inferiorità nei confronti del mondo; il narcisismo relativistico che spegne l’entusiasmo
missionario (n. 80); l’accidia egoista che produce stanchezza e scoraggiamento e porta alla tristezza
(n. 83), al pessimismo (n. 84) e alla perdita della speranza (n. 86). Il Papa invita invece a “scoprire e
trasmettere la mistica del vivere insieme”, la gioia di incontrarsi, di appoggiarsi, di uscire da sé per
unirsi agli altri” (n. 87) superando la paura e il sospetto e gli atteggiamenti difensivi (n. 88); a
“rispondere adeguatamente alla sete di Dio” che emerge oggi nel mondo con un ambiguo, ma
interessante «ritorno del sacro» (n. 89) e a insegnare come vivere la fraternità, mentre si tende a
sfuggire i legami “profondi e stabili” (n. 91) per costruire invece buone relazioni (n. 92). Con forza il
Papa stigmatizza la “mondanità spirituale” che si esprime in forme di autoreferenzialità gnostica o di
neopelagianesimo volontaristico che crede nelle proprie possibilità e cade in un attivismo
inconcludente, in forme di trionfalismo che presume delle capacità intrinseche della chiesa, che si
lascia prendere dai valori mondani, dall’autocompiacimento, dal carrierismo (n. 96) cercato attraverso
la denigrazione degli altri e la ricerca ossessiva dell’apparenza (n. 97), la competizione e la rivalità (n.
101). Il Papa chiude questo lungo capitolo ricordando l’urgenza di promuover la donna, i giovani e le
vocazioni (105-108).
Il campo della conversione della chiesa è vasto, ma non deve scoraggiare nessuno. Papa
Francesco, attento alla priorità data alla missione evangelizzatrice cui chiama tutta la chiesa, invita a
non cedere alle tentazione: “Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario (n. 80), la gioia
dell’evangelizzazione (n. 83), la speranza (n. 86), la comunità (n. 92), il Vangelo (n. 97), l’ideale
dell’amore fraterno (n. 101), la forza della missione (n. 109)”. Queste espressioni enfatiche
scandiscono l’analisi del Papa e puntano a dare coraggio, entusiasmo, gioia nell’evangelizzazione.
c) Una chiesa capace di discernimento
Il Papa esorta “tutte le comunità ad avere una sempre vigile capacità di studiare i segni dei
tempi” (n. 51 che cita Ecclesiam suam n. 19) e quindi a discernere10 quei fenomeni e quelle situazioni
che attendono la luce del vangelo e la forza della carità cristiana per essere vissute in accordo con la
misericordia divina. Il Papa sa bene che spesso le comunità cristiane fanno lunghe e dettagliate analisi
della realtà che però rischiano di non approdare ad una conclusione pastorale. Dichiara apertamente
che non vorrebbe che si cadesse “nell’eccesso diagnostico” e neppure nelle analisi sociologiche, ma
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suggerisce invece di far un “discernimento evangelico” sulla realtà, un discernimento che è “lo
sguardo del discepolo missionario che si nutre della luce e della forza dello Spirito santo” (n. 50) e
che punta alla terapia e cioè a mettere in atto un’evangelizzatrice nella quale troverà la cura adeguata
sia per sé che per il mondo che le sta attorno.
La chiesa è la comunità dei discepoli missionari invitati a entrare nel dinamismo della
comunione e della missione, al quale sono chiamati a partecipare insieme con Gesù (cf. Gv 20,21).
Sono collaboratori che insieme con Gesù e con la luce del suo Spirito cercano di vedere le attese del
mondo, “che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e
festeggiano. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha
preceduta nell’amore (cf. 1Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa
senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli
esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita
misericordia del Padre e la sua forza diffusiva” (n. 24). Essa diventa “il fermento di Dio in mezzo
all’umanità” e il “luogo della misericordia gratuita dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati
e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del vangelo” (n. 114).
Nell’intervista con p. Spadaro il Papa ha usato un’immagine ardita per descrivere il
discernimento che la chiesa deve fare: “Io vedo con chiarezza - prosegue - che la cosa di cui la Chiesa
ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la
prossimità. Io vedo la chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un
ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare
di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso (…) La chiesa a
volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo
annuncio: Gesù Cristo ti ha salvato!”11.
Ma come potrà la chiesa curare le ferite di un mondo sconosciuto? L’impegno missionario della
chiesa in uscita è quindi quello di essere dentro il mondo, di ascoltarne le aspirazioni e di sentirne
tensioni e di simpatizzare per il mondo e le sue attese, di non condannare subito quello che il mondo
pensa, ma di cercare quell’anima di verità che sempre si trova in ogni persona. In questo senso,
grande, e fors’anche esagerata, è stata l’eco che hanno avuto le espressioni di comprensione del Papa
per chi nella chiesa ha una posizione irregolare. La chiesa in uscita deve mettersi alla ricerca dei “semi
del Verbo” di cui parla Ad gentes al n. 11. A partire da essi è possibile portare a pienezza quello che lo
Spirito Santo di Dio stesso ha seminato nel mondo e che è appello alla missione.
d) Una chiesa che sente l’urgenza di testimoniare e annunciare il vangelo
Questa è il compito fondamentale della chiesa: dire a tutti “Dio ti vuol bene, Gesù ti ha salvato, ti
accompagna, non si è stancato di te”. Il Papa vuole una chiesa che vada verso tutti coloro che non hanno
avuto l’annuncio di Gesù o l’hanno smarrito, o si sono stancati della sua chiesa e della sua predicazione;
vuole una chiesa che non attenda che gli altri vengano da lei a cercare gli aiuti, ma una chiesa che
prenda l’iniziativa (il Papa usa neologismo, primerear) per arrivare a tutti superando il “si è sempre fatto
così” (n. 33). Una comunità di discepoli che vanno ad annunziare da persona a persona, con una
“predicazione che compete a tutti noi … [per] portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che
fare, tanto ai più vicini quanto agli sconosciuti …È la predicazione informale che si può realizzare
durante una conversazione ed è anche quella che attua un missionario quando visita una casa. Essere
discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo
avviene spontaneamente in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una strada” (n. 127).
In questa predicazione informale, da persona a persona, ”sempre rispettosa e gentile” (cf. 1 Pt
3,16), che si accompagna al dialogo della vita e alla testimonianza, “il primo momento consiste in un
dialogo personale, in cui l’altra persona si esprime e condivide le sue gioie, le sue speranze, le
preoccupazioni per i suoi cari e tante cose che riempiono il suo cuore. Solo dopo tale conversazione è
possibile presentare la Parola, sia con la lettura di qualche passo della Scrittura o in modo narrativo,
ma sempre ricordando l’annuncio fondamentale: l’amore personale di Dio che si è fatto uomo, ha dato
sé stesso per noi e, vivente, offre la sua salvezza e la sua amicizia” (n. 128).
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Il momento della trasmissione della fede è decisivo nell’evangelizzazione ed è questa è la
ragione per cui il Papa, sorprendentemente, dà un ampio spazio anche all’omelia e alla sua
preparazione (nn. 135-159). Anzi Francesco considera l’omelia e la sua qualità la misura “della
vicinanza e della capacità d’incontro di un pastore con il suo popolo” (n. 135). Papa Francesco tiene
molto alla prossimità come la via per trasmettere la tenerezza di Dio: “Sogno una Chiesa Madre e
Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone,
accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è
Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie,
cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo
devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro,
di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio
vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato”. 12
Nell’evangelizzazione la chiesa deve puntare all’essenziale senza lasciarsi bloccare in una
“trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine” (n. 35) tra loro disparate, che perderebbe di
vista “la gerarchia delle verità” (n. 36), cadrebbe nel moralismo, pronta invece a rivedere le sue
consuetudini (n. 43) per non appesantire la vita dei fedeli, ma fare della fede una sorgente di gioia e
non una noiosa ripetizione di cose dette, ridette e finalmente scontate. 13
e) Una chiesa povera per i poveri
Superate le polemiche legate alla teologia della liberazione, che avevano portato a rifiutare il
termine «opzione preferenziale» per i poveri, trasformandola per paura di derive ideologiche in
«amore preferenziale»14 per i poveri, riemerge a distanza di tempo l’intuizione del Concilio Vaticano
II sulla chiesa dei poveri (Lumen gentium 815). L’idea della chiesa dei poveri si era persa, anche se la
chiesa non ha mai cessato di occuparsi dei poveri, nelle turbolenze del dopo Concilio. Papa Francesco
ora rimette in auge quell’intuizione conciliare: dalla teologia della liberazione e dalla prassi pastorale
delle chiese dell’America latina, essa rientra ora come dottrina - e si spera come prassi - della chiesa
universale. I poveri non sono considerati più come oggetto della chiesa ma soggetto di una chiesa che
il Papa vuol ritorni ad essere “chiesa dei poveri per i poveri” (n. 198). L’ha espresso a più riprese nella
sua predicazione ed esplicitamente ora l’afferma in Evangelii gaudium: “Per la Chiesa l’opzione per i
poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede
loro « la sua prima misericordia ». Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di
tutti i cristiani, chiamati ad avere « gli stessi sentimenti di Gesù » (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa
ha fatto un’opzione per i poveri intesa come una « forma speciale di primazia nell’esercizio della
carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa16». Quest’opzione –
insegnava Benedetto XVI – « è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per
noi, per arricchirci mediante la sua povertà »17. Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri.
Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze
conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova
evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del
cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare a essi la nostra voce nelle
loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa
sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro” (n. 198).
L’opzione preferenziale dei poveri significa e comporta non solo cercare la lotta alla povertà e
l’aiuto i poveri a uscire dalla loro condizione, ma assumere il loro punto di vista per guardare il
mondo e i suoi problemi, lo sviluppo e la crescita del mondo, significa cercare di giudicare le realtà
della storia dal punto di vista del povero. Questo permette una diversa percezione dei problemi e
questo giustifica il giudizio pesante che il Papa Francesco ha dato sulla distribuzione dei beni e sul
mercato e i suoi meccanismi perversi (nn. 203-204). Questo gli ha attirato le critiche delle
corporazioni capitalistiche.
La chiesa che si lascia evangelizzare dai poveri, presta attenzione alla loro esperienza, apprezza
i poveri nella loro bontà e riconosce la loro cultura e il loro modo di vivere la fede, ne contempla la
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bellezza “al di là delle apparenze” e “li accompagna adeguatamente nel loro cammino di liberazione”,
li fa sentire a casa loro in ogni comunità cristiana(n. 199). L’opzione per i poveri comprende anche
l’attenzione e la cura per la loro crescita spirituale e la maturazione nella fede (n. 200). Il Papa
richiama la chiesa al fatto che non ci può essere azione sociale che prescinda dall’impegno per i
poveri e chiede di “cercare comunitariamente nuove strade per accogliere questa rinnovata proposta”
(n. 201) nella convinzione che “senza l’opzione preferenziale per i più poveri, « l’annuncio del
Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a
cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone»18” (n. 199) e si chiede: “«Non
sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?»19”
(Ibid.).
2. Un cambio metodologico: non proselitismo ma testimonianza
Un grande impatto ha avuto nei mass media l'intervista di Eugenio Scalfari a Papa Francesco20,
sia per il fatto in se stesso che per le affermazioni che in essa si trovano. In particolare, oltre
all’allusione al primato della coscienza che vale anche per i non credenti, ha fatto scalpore la frase
detta dal Papa in risposta alla benevola battuta di Scalfari al quale qualcuno aveva detto che il Papa lo
avrebbe convertito. Sorridendo, il Papa rispose: “Il proselitismo è una solenne sciocchezza, bisogna
conoscersi e ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda… Il mondo è percorso
da strade che riavvicinano e allontanano, ma l'importante è che portino verso il Bene”. I cattolici
tradizionalisti hanno reagito negativamente a quest’affermazione quasi il Papa avesse con ciò abolita
la missione evangelizzatrice. Leggendo bene e contestualizzando l’affermazione, non si tratta in
nessun modo di una rinuncia all’evangelizzazione bensì di un metodo nuovo o, quanto meno,
rinnovato, di evangelizzazione. In Evangeliii gaudium Papa Francesco ha formulato con più
precisione ma con altrettanta forza, citando un’omelia di Benedetto XVI ad Aparecida21, la sua idea
circa la metodologia missionaria dell’evangelizzazione: “La Chiesa non cresce per proselitismo ma
per attrazione” (n. 14).
a) La testimonianza strada dell’evangelizzazione
Che cosa voleva dire il Papa? Che il Vangelo non si deve imporre ricorrendo alla forza di
persuasione dei mezzi materiali, delle opere e dei vantaggi offerti, più o meno intenzionalmente, dai
missionari; neppure coi meccanismi della persuasione mediatica né grazie alle argomentazioni
razionali (con le cinque vie di S. Tommaso non si converte nessuno!). Il Vangelo si farà invece strada
nel cuore dell’ascoltatore grazie al fascino del Bene, all'attrattiva del Bello, alla seduzione del Vero e
del Giusto che brillano nell’esistenza dei discepoli di Cristo, convinti e gioiosi testimoni del Signore.
Questa era la metodologia missionaria dei primi cristiani che attiravano nuovi membri della chiesa per
irradiazione o attrazione. Essi non facevano propaganda della loro religione, ma la mostravano nel
loro comportamento. Lo afferma chiaramente il libro degli Atti degli Apostoli: “Il Signore ogni giorno
aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (At 2,47; cf. anche 2Co 2,15). La testimonianza
cristiana che viene dalla vita buona e bella del vangelo, dalla vita comune, dalla partecipazione
fervorosa alla liturgia, dalla carità e dalla comunione dei beni è la forza di attrazione che chiama alla
fede, questa testimonianza infatti rende visibile Gesù e la sua maniera di vivere e attira con la sua
bellezza coloro che aderiscono alla chiesa: “Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i
suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua dedizione totale,
tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale. Ogni volta che si torna a scoprirlo, ci si convince che
proprio questo è ciò di cui gli altri hanno bisogno, anche se non lo riconoscano” (n. 245).
Questo annuncio fatto sempre di vita e, appena possibile, anche di parole è il dovere
fondamentale di ogni cristiano perché è l'esigenza di ogni uomo: “Tutti hanno il diritto di ricevere il
Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un
nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto
desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione” (n. 14).
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Non si deve quindi pensare che il Papa rinunci alla missione o ne sminuisca l’urgenza.
Francesco precisa che dei tre ambiti a cui la missione evangelizzatrice si rivolge: i praticanti, i fedeli
che non praticano e tutti coloro che non conoscono Cristo, questi ultimi costituiscono il compito
primo e paradigmatico della chiesa.
b) Proclamazione e dialogo
Questa è la missione ad gentes, la prima e la fondamentale forma della missione, che rimane il
paradigma e l’orizzonte di ogni attività missionaria. Papa Francesco pensa a questa attività quando
invita alla missione evangelizzatrice e lo fa ricordando il magistero missionario tradizionale:
“Giovanni Paolo II ci ha invitato a riconoscere che «bisogna non perdere la tensione per l'annunzio» a
coloro che stanno lontani da Cristo, «perché questo è il compito primo della Chiesa». L'attività
missionaria «rappresenta ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa» e la «la causa missionaria deve
essere la prima»” (n. 15) 22.
Questa ripresa della missione nella sua forma più originale, fatta di fede professata, celebrata e
proclamata e condivisa, soprattutto e prima di tutto con la testimonianza della vita, è certamente una
sottolineatura importante di Evangelii gaudium per rinnovare la missione in generale e quella ad
gentes in particolare. Questa, non possiamo nascondercelo, in questo tempo batte il passo perché ha
perso il fervore gioioso e contagioso dei primi cristiani (n. 263), è diventata un monopolio del mondo
occidentale inquinandosi di superiorità coloniale e di cultura occidentale in modo tale che essa è
inevitabilmente straniera ovunque essa cerchi di entrare. Essa sta seguendo un modello ormai
obsoleto, segnato ancora dal paradigma della conquista dei non cristiani. Con il Concilio e con la
nuova visione delle religioni non cristiane la missione evangelizzatrice deve assumere lo stile del
dialogo, che non esclude la conversione, ma che rispetta i tempi della persona, della cultura e della
grazia. Non è responsabilità dell’evangelizzatore portare alla conversione o determinarne i tempi.
L’evangelizzatore non deve convincere nessuno, deve solo condividere la gioia di aver trovato la
sorgente della felicità autentica.
Questa è la strada del dialogo, e Papa Francesco invita a percorrerla con semplicità e impegno:
“Un atteggiamento di apertura nella verità e nell’amore deve caratterizzare il dialogo con i credenti
delle religioni non cristiane, nonostante i vari ostacoli e le difficoltà, particolarmente i
fondamentalismi da ambo le parti. Questo dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la
pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose. Questo
dialogo è in primo luogo una conversazione sulla vita umana o semplicemente un atteggiamento di
apertura verso di loro, condividendo le loro gioie e le loro pene. Così impariamo ad accettare gli altri
nel loro differente modo di essere, di pensare e di esprimersi. Con questo metodo, potremo assumere
insieme il dovere di servire la giustizia e la pace, che dovrà diventare un criterio fondamentale di
qualsiasi interscambio” (n. 250).
“In questo dialogo, sempre affabile e cordiale, non si deve mai trascurare il vincolo essenziale
tra dialogo e annuncio, che porta la Chiesa a mantenere e intensificare le relazioni con i non cristiani.
(…) La vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con
un’identità chiara e gioiosa, ma aperti « a comprendere quelle dell’altro » e « sapendo che il dialogo
può arricchire ognuno » (n. 251)
Per concludere il Papa ritiene che la missione ad gentes “continua ad essere la fonte delle
maggiori gioie della Chiesa” (n. 15 cita Lc 15,7) e per questo in tutto il capitolo primo (nn. 19-49)
sollecita “la trasformazione missionaria della Chiesa”, richiesta ancora da Paolo VI e dal Concilio e
diventata oggi “improrogabile” (n. 32).
c) Tutti sono missionari
Il Papa ricorda a parecchie riprese e con forza che il soggetto della missione non sono solo i
membri della gerarchia e, meno ancora, i missionari di professione, ma l'intero popolo di Dio
sollecitato più volte ad «uscire», in senso proprio e traslato: «uscire dalla propria comodità e avere il
coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (n. 20). La
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«chiesa in uscita» “accorcia le distanze, si abbassa fino all'umiliazione, se è necessario, e assume la
vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno odore di
pecore e queste ascoltano la loro voce” (n. 24).
d) Prossimità non superiorità, in nome dell’amore
L’immagine così suggestiva dell’«odore delle pecore» parla di una missione che è anzitutto
prossimità e comunione di vita con coloro che si vogliono evangelizzare e quindi di una missione
nella solidarietà, nella compassione, nella prossimità sulla falsariga della parabola del Buon
Samaritano. La stessa immagine dell’«odore delle pecore» ricorda anche che la missione rinnova
anche le comunità cristiane che ne sono soggetto, perché esse per essere testimoni credibili e
convincenti sono sfidate a vivere quello che annunciano e a praticare quella comunione che vogliono
diffondere. L’evangelizzazione produce auto-evangelizzazione.
In una parola, viene archiviata una missione di tipo coloniale che, al di là delle intenzioni,
s’imponeva con la superiorità culturale, la forza delle opere, dei mezzi e dell’esperienza e che è così
difficile abbandonare. Il Papa chiaramente invita alla testimonianza di un amore ricevuto, sentito ed
esperimentato personalmente dall’evangelizzatore, perché “ogni cristiano è missionario nella misura
in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù” (n. 120). Non basta il mandato missionario a
muovere la chiesa verso la missione. È la forza dell’amore che spinge alla missione quei discepoli che
avendo fatto esperienza personale di essere amati, cercati, perdonati, sentono l’urgenza di condividere
questa gioia con i fratelli e le sorelle.
“La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza
di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente
la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo
l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui
che torni ad affascinarci” (n. 265).
Ancora una volta risulta chiaro che “è la bellezza che salverà il mondo” (Fëdor M. Dostoevskij,
L’Idiota). Il Papa conclude Evangelii gaudium con un capitolo sulla spiritualità missionaria che lui
chiama “lo spirito della nuova evangelizzazione” e dice: “Come vorrei trovare le parole per
incoraggiare una stagione evangelizzatrice più fervorosa, gioiosa, generosa, audace, piena d’amore
fino in fondo e di vita contagiosa! Ma so che nessuna motivazione sarà sufficiente se non arde nei
cuori il fuoco dello Spirito. [Per questo il Papa prega lo Spirito perché] venga a rinnovare, a scuotere,
a dare impulso alla chiesa in un’audace uscita fuori da sé per evangelizzare tutti i popoli” (n. 261).
3. Il pluralismo nell’unità, novità per la missione
a) Missione e inculturazione
La giovane comunità cristiana di Gerusalemme, dispersa dalla persecuzione nelle città del
bacino del Mediterraneo, si era radicata nelle culture dei luoghi in cui i discepoli si erano venuti a
trovare, adattandosi alle sensibilità dei diversi contesti culturali. Quando, libera di organizzarsi,
comincia ad assumere le forme dell’impero, la Chiesa cattolica entra in un processo di progressiva
centralizzazione, certamente giustificato dalla storia. Ma a partire da questo tempo, per reagire alle
eresie e agli scismi, la chiesa irrigidisce i modelli teologici e i paradigmi pastorali in un’uniformità
che ha fatto male alla missione e che perdura anche oggi. Sembra che per essere cristiani bisogna
cessare di essere … se stessi! Si pensi alla triste vicenda di Matteo Ricci e de Nobili.
Papa Francesco vuol reagire a questo processo di ingiusta uniformizzazione della fede che,
senza giudicare le intenzioni di nessuno, chiama “una vanitosa sacralizzazione della propria cultura”
(n. 117) e punta a promuovere Il “volto pluriforme della chiesa” (n. 116). Il Concilio Vaticano II ha
deciso di procedere all’inculturazione del messaggio evangelico, ma la chiesa per paura di
compromettere l’unità (o di perdere il controllo?) ne ha permesso ben poca, ad eccezione del campo
della lingua nella liturgia, elemento culturale peraltro molto importante. E ciò malgrado i teologi e
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anche i documenti della S. Sede continuino a sentenziare che si deve inculturare il vangelo nelle
culture. In Evangelii gaudium Papa Francesco sdogana questa richiesta e afferma: “Non farebbe
giustizia alla logica dell’incarnazione pensare a un cristianesimo monoculturale e monocorde.
Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo
sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede
un contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno
accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per
quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo presenta
sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa
sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore
evangelizzatore” (n. 117).
La preoccupazione dell’ortodossia e la paura di possibili nate nel dopo-concilio e coltivate fino
ai nostri giorni, ha paralizzato la ricerca teologica e l’esigenza d’inculturazione del messaggio
evangelico nel campo della liturgia, della pastorale, della catechesi, del diritto, della vita consacrata e
della morale e oggi ci si rende conto che la preoccupazione dell’unità è diventata un freno che
paralizza la missione nel suo compito di evangelizzare le culture e scoraggia la creatività e la ricerca
delle nuove strade della missione. Il Papa ha dichiarato a più riprese che bisogna riprendere
coraggiosamente le strade della missione nel mondo pur accettando di correre qualche rischio:
“Preferisco una chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una
chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze … più della paura di
sbagliare spero ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione,
nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli,
mentre fuori c’è una moltitudine affamata” (n. 49).
b) Pluralismo culturale e pastorale
Papa Francesco ha così dichiarato di voler favorire un maggior pluralismo pastorale. Parla di un
“popolo dai molti volti” (n. 115) e di una chiesa che persegue l’unità nella pluralità delle espressioni.
Il fondamento di questo pluralismo di forme sta nella “libertà inafferrabile della Parola, che è efficace
a modo suo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri
schemi. [Infatti] La Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il Vangelo parla di
un seme, che una volta seminato, cresce da sé anche quando l'agricoltore dorme (cfr. Mc 4, 26-29)”
(n. 22).
Questa volontà di favorire il pluralismo degli approcci pastorali spiega le molte citazioni che
Evangelii gaudium prende dai documenti delle conferenze episcopali a proposito dell’inculturazione
nell'annuncio del Vangelo. Dopo aver affermato che il “popolo di Dio s’incarna nei popoli della
Terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura” (n. 115) che sviluppa “con legittima autonomia”, il
Papa si dichiara convinto che “la diversità culturale... non minaccia l'unità della Chiesa” ma è
“armonia che attrae” (n. 117) e che un cristianesimo inculturato favorisce la sua stessa diffusione (n.
129).
c) Attuazioni del pluralismo
Il Papa afferma anche il dovere della chiesa di lasciare più spazio alle iniziative pastorali dei
singoli episcopati che non vuol soffocare con il magistero papale: “Non credo... che si debba attendere
dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e
il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le
problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere
in una salutare 'decentralizzazione' (forse era meglio tradurre ‘decentramento’)” (n. 16).
Papa Francesco ha già dato prova di voler perseguire nuovi percorsi pastorali che rispettino e
sostengano il governo collegiale della chiesa. L’ha fatto capire subito quando, ancora nei primi mesi
del suo pontificato, ha costituito il cosiddetto G8, il gruppo degli otto cardinali consultori che vengono
dalla periferia della chiesa, che consigliano il Papa non solo per la riforma della curia romana, ma
11
anche per la riforma del sinodo dei vescovi. Questa scelta mostra anche la volontà del Papa di
associare a sé in modo pratico e non solo teorico i vescovi del mondo per governare la chiesa con
quello spirito collegiale che il Concilio ha restituito alla chiesa, ma che non è stato ancora messo
veramente in atto.
È evidente che Papa Francesco, che ribadisce continuamente di essere il vescovo di Roma, in
comunione con gli altri vescovi del mondo, non intende più esercitare il suo ministero primaziale in
modo monarchico, come il capo unico che governa da solo la chiesa. Egli continua a cercare, come
già Giovanni Paolo II, un modo di esercitare il ministero petrino all’interno della chiesa che sia
rispettoso della collegialità (Ut unum sint n. 95) e riformare il modo di governare la chiesa nella
convinzione che “anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di
ascoltare l'appello a una conversione pastorale [perché] un'eccessiva centralizzazione, anziché aiutare,
complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria” (n. 32).
Insieme con il pluralismo culturale e teologico, il Papa intende riformare le strutture centrali
della chiesa, la curia romana, che con il suo monolitismo condiziona la scioltezza della missione
evangelizzatrice. Una sana decentralizzazione in favore delle chiese locali e delle conferenze
episcopali permetterà un annuncio del vangelo più aderente alla realtà del mondo attuale. “Non
voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e
procedimenti... Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture
che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle
abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c'è una moltitudine affamata” (n. 49).
Il Papa è consapevole che “né il Papa né la Chiesa posseggono il monopolio dell'interpretazione
della realtà sociale o della proposta di soluzioni per i problemi contemporanei” (n. 184) e che quindi
“nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le questioni
particolari” (n. 241). Anche “la Chiesa, che è discepola missionaria, ha bisogno di crescere nella sua
interpretazione della Parola” (n. 40). Una lezione di umiltà e di santità che non possiamo non
assumere come stile di chiesa e di missione.
14 gennaio 2014.
Gabriele Ferrari s.x.
1
Papa Francesco, Evangelii gaudium, Esortazione apostolica ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone
consacrate e ai fedeli laici sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale, Città del Vaticano 24 novembre 2013.
2
www.cyberteologia.it.
3
I numeri tra parentesi senz’altra determinazione si riferiscono al testo di Evangelii Gaudium.
4
Il testo dell’Esortazione consta di 129 pagine fitte fitte nell’edizione EDB, di 256 nell’edizione dell’editrice San
Paolo, per complessivi 288 paragrafi e 217 note in calce al testo.
5
È infine interessante notare le ricorrenze lessicali: popolo si trova 114 volte, evangelizzazione 89, gioia 79, cuore
79, poveri 60, missione 55, misericordia 31, fervore 16, tenerezza 11, entusiasmo 7. Sono segni di un linguaggio
decisamente nuovo con un lessico inusitato nei documenti pontifici.
6
Il Papa ne parla cinque volte in Evangelii gaudium ai nn. 20.30.46.63.191.
7
Cf. Francesco, Messaggio per la Giornata missionaria mondiale del 2013, n. 1. Il Papa usa frequentemente questi
tre verbi nelle sue diagnosi della chiesa non missionaria.
8
Benedetto XVI¸ Porta Fidei (11 ottobre 2011), n. 2.
9
Intervista a p. Antonio Spadaro, 19 settembre 1913, in La Civiltà Cattolica 2013 III n. 3918 p. 462
10
Secondo i calcoli del mio computer discernimento appare in Evangelii gaudium ben 10 volte, altre 8 si trova il verbo
discernere . Un riflesso della formazione gesuitica di Francesco?
11
Ibid. art. cit., p. 461
12
Ibid. p. 462.
13
“La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo
annuncio: «Gesù Cristo ti ha salvato!». E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il
confessore, ad esempio, corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o troppo lasso. Nessuno dei due è
misericordioso, perché nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo
rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente «questo non è peccato» o cose simili. Le
persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate” (Ibid., p. 462).
14
Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987) n. 42; Vita consecrata (25 marzo 1996), n. 82.
15
“Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a
12
prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione divina...
spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2Co
8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per
cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo infatti è
stato inviato dal Padre « ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc 4,18),
« a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti
dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa
premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. Ma mentre Cristo, « santo, innocente, immacolato
» (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2Co 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17),
la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza
continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento (Lumen Gentium 8).
16
Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), n. 42.
17
Benedetto XVI, Discorso alla Sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano
e dei Caraibi (13 maggio 2007), 3.
18
Giovanni Paolo II, Novo Millennio ineunte (6 gennaio 2001), n. 50.
19
Ibid.
20
Apparso in La Repubblica del 1 ottobre 2013.
21
Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa di inaugurazione della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei caraibi presso il santuario La Aparecida (13 maggio 2007), AAS 99 (2007), 437.
22
Giovanni Paolo II, Redemptoris missio nn. 34.40.86..