CAPITOLO NONO
IL DANNO PER LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO, LESIVO
DELLA PERSONALITÀ DEL LAVORATORE.
9.1. Il rapporto di lavoro come “area a rischio” con riguardo alla lesione dei diritti della
persona del lavoratore. L’implicazione della persona del lavoratore nella prestazione
contrattuale. - 9.2. La disciplina legale delle conseguenze del licenziamento illegittimo. 9.3. La risarcibilita degli ulteriori danni subiti dal lavoratore. - 9.4. La risarcibilità dei
danni ulteriori nella giurisprudenza. Il licenziamento ingiurioso ed il licenziamento lesivo
della personalità del lavoratore. - 9.5. L’interpretazione giurisprudenziale che ritiene
indispensabile la diffusione della notizia del recesso da parte del datore di lavoro ai fini
della configurazione della fattispecie del licenziamento ingiurioso. - 9.6. Il licenziamento
disciplinare “ingiurioso”. - 9.6.1. Il rapporto tra l’obbligo legale di contestazione
dell’addebito disciplinare e di motivazione del recesso del datore di lavoro e la fattispecie
del licenziamento ingiurioso. - 9.7. Il licenziamento lesivo della dignità del lavoratore. 9.8. La congiunta applicazione dell’art. 2043 c. c. e delle norme costituzionali poste a
tutela della persona e del lavoratore. - 9.9. L’orientamento giurisprudenziale che
riconduce la risarcibilità dei danni ulteriori al modello della responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale. - 9.10. La natura dei danni risarcibili in caso di licenziamento lesivo
della personalità del lavoratore. - 9.11. Il danno derivante dalla lesione della dignità del
lavoratore. - 9.11.1. Il pregiudizio alla dignità del lavoratore come danno esistenziale. 9.12. I diversi profili del danno esistenziale da licenziamento lesivo della personalità del
lavoratore. - 9.12.1. Funzione sistematica ed evolutiva della figura del danno esistenziale.
- 9.13. La prova del danno esistenziale da licenziamento illegittimo. La quantificazione
del risarcimento. - 9.14. Riferimenti giurisprudenziali espressi al danno esistenziale in
materia di rapporto di lavoro subordinato. - 9.15. Le resistenze all’evoluzione del sistema
risarcitorio: la sentenza del Tribunale di Ferrara data 10.11.1996. - 9.16. L’orientamento
interpretativo finalizzato a tutelare la dignità del lavoratore mediante l’estensione dei
danni risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c. c. La sentenza della Pretura di Bologna in data
20.11.1990. - 9.16.1. Il collegamento tra il recente orientamento della Corte di cassazione
in materia di risarcimento del danno non patrimoniale e la sentenza della Pretura di
Bologna in data 20.11.1990. - 9.17. Ulteriori danni risarcibili in caso di licenziamento
lesivo del lavoratore. Il danno biologico, morale e patrimoniale. - 9.18. Conclusioni.
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9.1. Il rapporto di lavoro come “area a rischio” con riguardo alla
lesione dei diritti della persona del lavoratore. L’implicazione della
persona del lavoratore nella prestazione contrattuale.
Bibliografia Cester 2000.
Quella del rapporto di lavoro subordinato costituisce, a causa
dell’implicazione del lavoratore nella prestazione contrattuale (Cester
2000, 493), un’area al cui interno possono verificarsi gravi lesioni dei
diritti della persona. E’ stato in tal senso acutamente osservato che
non si scopre certo una cosa nuova se si afferma che il rapporto di lavoro costituisce
uno dei terreni privilegiati nei quali si possono vagliare e misurare le nuove opportunità di
tutela della persona che siano in grado di superare, o quanto meno di adattare gli
strumenti protetttvi offerti dalle tecniche tradizionali.
Ed invero, il rapporto di lavoro è caratterizzato, per sua natura e a differenza della
generalità degli altri rapporti interprivati, dalla implicazione della persona del lavoratore debitore nel rapporto, nel senso che il rapporto e la sua esecuzione, prima e ancor più che
all'avere, attengono all'essere del lavoratore medesimo, perchè l'attività lavorativa, come
attività di adempimento, non sembra scindibile dalla persona e la persona ne risulta
direttamente coinvolta. La peculiarità che sotto questo profilo caratterizza il rapporto di
lavoro deriva, infatti, dalla circostanza che il lavoratore, con la sua persona, viene inserito
in un organismo da altri predisposto e viene assoggettato ad un potere - che non è solo di
fatto, ma anche giuridico - di direzione e di organizzazione necessariamente incidente
sulla persona. Questo assoggettamento, ancorchè circoscritto, secondo la lettura
tradizionale, ad un profilo meramente tecnico funzionale, vale tuttavia a caratterizzare in
modo specifico il rapporto di lavoro, perchè, se anche altri rapporti ben possono avere ad
oggetto un'attività «lavorativa » personale, questa si realizza sulla base di un'autonoma
organizzazione del debitore della prestazione, mentre solo nel primo l'elemento personale
«è inserito in una situazione capovolta per effetto dell'assenza radicale di autonomia nella
sfera personale dell'obbligato » (…).
Dunque, il rapporto di lavoro, in ragione del contatto sociale che necessariamente
instaura, è rapporto ad alto rischio di pregiudizio per i valori e i beni collegati alla
persona e in questa riflessi. Un pregiudizio, si può aggiungere, che sarebbe riduttivo
limitare ai casi più, eclatanti - spesso ancora oggetto di cronache giornalistiche - nei quali
il lavoro è prestato in situazioni largamente al di sotto delle condizioni minime accettabili
quanto a sicurezza, ad estensione temporale o a remunerazione, e che molto più' spesso si
radica nella, e deriva dalla, vita “quotidiana” del rapporto, dalle relazioni interpersonali
non solo con il datore di lavoro o con i superiori, ma anche con gli stessi compagni di
lavoro. Difficoltà ambientali, contrasti di vario tipo, sofferenze e mortificazioni piccole e
grandi, vessazioni, situazioni di disagio e talora di vera e propria intollerabilità: il
microcosmo delle relazioni di lavoro sembra addirittura paradigmatico per la redazione di
un catalogo dei pregiudizi alla persona
(Cester 2000, 493).
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Ciò premesso, si tratta di esaminare quali pregiudizi di natura
personale possono derivare da un licenziamento intimato in contrasto con
la disciplina legale di tale istituto, ed in particolare di verificare se e come
l’ordinamento giuridico tuteli il lavoratore in relazione ai conseguenti
profili dannosi di natura non patrimoniale.
9.2. La disciplina legale delle conseguenze del licenziamento
illegittimo.
Legislazione l. 20.5.1970, n. 300 - l. 15.7.1966, n. 604 - l. 11.5.1990, n. 108.
Sono ben note le conseguenze che l’ordinamento prevede direttamente
per la fattispecie del licenziamento illegittimo. Nel caso di imprese che
occupino più di quindici dipendenti nella stessa unità produttiva - od anche
in più unità produttive diverse, se queste si trovano nello stesso comune -,
il dipendente illegittimamente licenziato – cioè in mancanza di giusta
causa o giustificato motivo - ha diritto ad essere reintegrato nel posto di
lavoro - c. d. tutela reale – (art. 18, 1° co., l. 20.5.1970, n. 300), e di
ottenere un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione; in ogni
caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque
mensilità della retribuzione globale di fatto (art. 18, 4° co., l. 20.5.1970, n.
300). Il lavoratore, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, può
optare, in luogo della riassunzione, per la corresponsione di un’indennità
pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto (art. 18, 5° co.,
l. 20.5.1970, n. 300).
Nel caso in cui non raggiunga i limiti occupazionali rilevanti ai fini
dell’applicazione della tutela reale, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi
dell’art. 8, l. 15.7.1966, n. 604, a riassumere il lavoratore illegittimamente
licenziato, oppure a corrispondergli un’indennità variabile da un minimo
di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto - c. d.
“tutela obbligatoria” -.
Si deve però ricordare che un licenziamento discriminatorio - cioè
determinato, come previsto dall’art. 4, l. 604 / 1966, da ragioni di credo
politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla
partecipazione ad attività sindacali - è comunque nullo, e comporta le
conseguenze di cui all’art. 18, l. 300 / 1970, a prescindere dal numero dei
dipendenti occupati dal datore di lavoro (art. 3, l. 11.5.1990, n. 108).
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9.3. La risarcibilita degli ulteriori danni subiti dal lavoratore.
Bibliografia Parpaglioni 2001 – Cester 2000.
E’ necessario verificare se un licenziamento illegittimo possa dar
luogo ad ulteriori conseguenze, ed in particolare se il datore di lavoro
possa essere condannato al risarcimento dei danni non patrimoniali
eventualmente subiti dal lavoratore. La possibilità di addivenire al
risarcimento di danni ulteriori, rispetto a quelli di natura patrimoniale
(Cass. 10.3.1998 n. 2630, MGC, 1998, 551) previsti dalla legislazione
speciale, ha formato oggetto di estese discussioni in dottrina.
Secondo un’opinione, infatti, la ricordata disciplina legislativa
esaurirebbe tutti i danni subiti dal lavoratore in conseguenza del
licenziamento illegittimo. Come ricordato da un’autrice, la tesi negativa si
è fondata in particolare sulla considerazione che il legislatore avrebbe
introdotto, specie con riferimento al regime di stabilità obbligatoria, una
forfettizazione del danno risarcibile, o comunque delle conseguenze del
licenziamento illegittimo (Parpaglioni 2001, 2141). E’ stato così osservato
che
in effetti, il danno da perdita del posto (leggibile nel sistema della stabilità
obbligatoria e nell’indennità di cui alla legge n. 604 / 66) appare realmente forfettizzato,
nel senso che quell’indennità rappresenta il prezzo che il datore di lavoro deve pagare per
l’estinzione del rapporto e la rottura di ogni vincolo con il lavoratore. La situazione
successiva, il dopo, restano assorbiti e non hanno autonomia rispetto al venir meno del
rapporto: il datore di lavoro, pagando un certo prezzo (tutt’altro che elevato) acquisisce il
diritto di privare il lavoratore anche delle utilità “vitali” connesse al rapporto
(Cester 2000, 502).
E’ stato, però, evidenziato in dottrina e giurisprudenza che il
risarcimento del danno ulteriore deve essere riconosciuto allorché il
licenziamento, oltre ad essere illegittimo, risulti essere caratterizzato da un
elemento aggiuntivo, cioè quello di essere lesivo della personalità del
lavoratore. E’ stato sottolineato dallo stesso autore citato:
come noto, la soluzione è ormai pacifica in senso positivo, dovendosi perciò
ammettere l’autonoma risarciblità dei danni ulteriori, come quelli derivanti dallo sfratto
subito dal lavoratore che a seguito del licenziamento non abbia più alcuna risorsa
economica o quelli del costo di un mutuo che egli abbia dovuto accendere per
fronteggiare necessità vitali non differibili (…). Pacifica, per altro verso, è anche la
possibilità di risarcimento di danni non patrimoniali alla persona, che siano conseguenti al
licenziamento in sé, per le modalità con le quali questo è stato intimato e che siano tali da
provocare conseguenze negative alla dignità, all’onore, all’immagine e alla rispettabilità
del soggetto
(Cester 2000, 500).
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Quindi, ai fini della risarcibilità dell’ulteriore danno subito dal
lavoratore, si deve distinguere tra licenziamento illegittimo, cioè
semplicemente carente dei requisiti previsti dalla legge, e licenziamento
lesivo della personalità del lavoratore, come tale caratterizzato da ulteriori
profili di antigiuridicità. E’ stato in proposito giustamente osservato che
il carattere di ingiuriosità del licenziamento non si identifica, né va confuso con la
mancanza di giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma secondo i principi
generali dettati dall’art. 2697 c. c. va rigorosamente provato da chi l’alleghi come causa
del lamentato pregiudizio. Al fine della sua dimostrazione si è anche ammesso il ricorso
a presunzioni semplici (Cass. n. 1219 del 1994) e si è precisato che può ritenersi illecito
secondo i principi generali, e quindi tale da legittimare il risarcimento di ulteriori danni,
l’aver addotto a motivo del licenziamento un fatto offensivo del dipendente poi rilevatosi
insussistente (Cass. 3 giugno 1991 n. 6265). La giurisprudenza, partendo dal
riconoscimento del risarcimento del licenziamento ingiurioso, oggi ammette la
risarcibilità del danno ulteriore in generale, qualora il provvedimento espulsivo si è
concretizzato in un comportamento lesivo della personalità del lavoratore.
Accertata, quindi, l’illegittimità del licenziamento, il danno non patrimoniale è risarcibile
nei casi in cui il provvedimento espulsivo, per la forma e le modalità della sua adozione e
per le conseguenze morali e sociali che ne derivano, rappresenti un atto ingiurioso (cfr.
Cass. 1.7.1997, n. 5850), con la conseguenza che tale voce risarcitoria non può ritenersi
ex se compresa nel danno risarcibile a norma dell’art. 18 St. Lav. (…). Per quanto
riguarda poi la natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità per il danno
causato dall’illegittimo licenziamento, dottrina e giurisprudenza hanno concluso col
riconoscergli natura extracontrattuale
(Parpaglioni 2001, 2145).
9.4. La risarcibilità dei danni ulteriori nella giurisprudenza. Il
licenziamento ingiurioso ed il licenziamento lesivo della personalità
del lavoratore.
Come già accennato, ai fini della risarcibilità di danni ulteriori a
favore del lavoratore illegittimamente licenziato, rispetto a quelli
forfettariamente previsti dalla legislazione speciale, non è sufficiente la
mancanza di giustificazione del recesso del datore di lavoro. La
giurisprudenza ha infatti a tale fine richiesto un quid pluris, al quale ha
fatto spesso riferimento utilizzando il concetto di “licenziamento
ingiurioso”. E’ stato ritenuto che, per la sussistenza del carattere ingiurioso
del licenziamento, non è sufficiente il difetto di giustificazione dello
stesso, essendo invece necessaria la dimostrazione da parte del lavoratore
ai sensi dell’art. 2697 c. c. che, per la forma della sua intimazione o per
altre ragioni, il licenziamento gli ha causato effetti lesivi sul piano sociale
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o morale (Pret. Milano 31.5.1999, OGL, 1999, I, 465). Ha in tal senso
affermato la Corte di cassazione che
il carattere "ingiurioso" del licenziamento, infatti, non si identifica nè con il difetto
di giustificazione, nè con la mera comunicazione o la previa contestazione dei motivi (di
cui il datore di lavoro, peraltro, è onerato), ma - secondo la giurisprudenza di questa
Corte (vedine, per tutte, le sentenze 6265-91, 6375-87, 3208-84, 28-80, 5713-79, 379276, 3104-72, 1451-71, 1091-66, 2749-62) - postula la dimostrazione (anche mediante
presunzioni semplici (v. Cass. 5317-79, cit.), da parte del prestatore (in base alle regole
generali, di cui all'art. 2697 c.c., sulla ripartizione dell'onere della prova), che il
licenziamento - per le forme usate od altre peculiarità - abbia cagionato al prestatore un
danno ingiusto (lesivo, cioè, dell'onere, del decoro o di altro bene giuridico) - che ecceda,
tuttavia, le "normali" conseguenze pregiudizievoli di qualsiasi licenziamento (anche
ingiustificato) - ed abbia, perciò, cagionato un danno risarcibile
(Cass. 7.2.1994, n. 1219, OGL, 1994, 863).
Già in precedenza la Suprema Corte, con riferimento al licenziamento
di un dirigente, aveva affermato il principio, secondo cui
il licenziamento di un dirigente (non soggetto, oltre tutto, alla normativa di cui alle
leggi n. 604 del 1966 e n.300 del 1970) non costituisce, di per sè, un fatto doloso e
colposo produttivo di danno ingiusto per il lavoratore. Affinché il recesso del datore di
lavoro possa dar luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto comune (art.2043 e segg.
cod. civ.), deve concretarsi - per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le
conseguenze morali e sociali che ne derivano - in un atto "ingiurioso", cioè lesivo della
dignità e dell'onore del lavoratore licenziato (v. in tal senso, da ultimo, Cass. 24-5-84 n.
3208). Il carattere ingiurioso del licenziamento non si identifica nè va confuso con la
mancanza di giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma va rigorosamente
provato da chi l'alleghi come causa del lamentato pregiudizio (di cui va parimenti
dimostrato sia l'an che il quantum), secondo i principi generali dettati dall'art. 2697 cod.
civ
(Cass. 22.7.1987, n. 6375, MGC, 1987).
Quindi, l’espressione “licenziamento ingiurioso” è stata utilizzata non
solo per indicare la fattispecie specifica in cui la forma del recesso del
datore di lavoro sia - per le espressioni usate - di per sé offensiva, ma
anche, in senso lato, come equivalente di licenziamento, per qualsiasi
ragione, lesivo della personalità del lavoratore (Pret. Milano 31.5.1999,
OGL, 1999, I, 465). In tale ultima accezione, l’aggettivo “ingiurioso” non
si riferisce alla forma, ma all’effetto del recesso datoriale, cioè alla
compromissione dell’onore e della dignità del lavoratore.
Sotto questo secondo profilo, è stato ritenuto ingiurioso il
licenziamento che leda la dignità e l’onore del lavoratore (Cass. 22.7.1987,
n. 6375, MGC, 1987; Cass. 29.4.1981, n. 2637, OGL, 1981, 750),
arrecandogli in tal modo un pregiudizio sul piano morale e sociale (Pret.
Milano 31.5.1999, OGL, 1999, I, 465).
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9.5. L’interpretazione giurisprudenziale che ritiene indispensabile la
diffusione della notizia del recesso da parte del datore di lavoro ai fini
della configurazione della fattispecie del licenziamento ingiurioso.
Bibliografia Parpaglioni 2001.
In giurisprudenza è stata attribuita grande rilevanza anche alla
“pubblicità” e diffusione che il datore di lavoro abbia dato del recesso
(Cass. 29.4.1981, n. 2637, OGL, 1981, 750). Tale elemento è stato talvolta
ritenuto indispensabile per la configurazione della fattispecie del c. d.
“risarcimento ingiurioso”, come sottolineato da un’autrice, la quale ha
rilevato che
il riconoscimento della risarcibilità del licenziamento ingiurioso ha rappresentato il
primo passo verso la più generale risarcibilità del danno non patrimoniale causato
dall’illegittimo licenziamento. Il licenziamento ingiurioso consiste in quell’atto di recesso
che, per la volgarità o offensività del linguaggio adoperato nell’indicazione dei motivi e
per la pubblicizzazione dei motivi stessi, ha causato un danno alla dignità del lavoratore
licenziato. Elemento fondamentale dell’ingiuriosità del licenziamento è la pubblicità data
all’atto contenente le espressioni ingiuriose. Senza la divulgazione dei motivi infamanti
del licenziamento, anche solo nell’ambiente produttivo dove si esplica la professionalità
del lavoratore, non è possibile configurare l’ingiuriosità dello stesso. Un ulteriore passo è
stato compiuto dalla giurisprudenza, attraverso il riconoscimento dell’ingiuriosità del
licenziamento, anche qualora i motivi del recesso siano non rispondenti a verità,
indipendentemente quindi, dalle espressioni utilizzate
(Parpaglioni 2001, 2122).
E’ stato in tal senso affermato in giurisprudenza che il licenziamento
ingiurioso è quello che viene propalato – senza plausibile ragione – anche
al di fuori dell’impresa e con caratteristiche di sistematica denigrazione,
tali da determinare un concreta diminuzione del valore del dipendente
(Trib. Milano 23.5.1995, OGL, 1998, I, 709). L’importanza della
diffusione della notizia da parte del datore di lavoro emerge da un’altra
pronuncia della Pretura di Milano, la quale ha in primo luogo precisato che
l’ingiuriosità del licenziamento può essere determinata dall’offensività
intrinseca della forma utilizzata, oppure dalla circostanza che i fatti
indicati a motivo di licenziamento non corrispondano a verità e che questa
alterazione della verità sia oggettivamente o soggettivamente ingiuriosa.
Viene però sottolineato che, in entrambi i casi, è necessario che il
datore di lavoro diffonda la notizia del licenziamento nella sua forma e nei
suoi motivi ingiuriosi anche solo nell’ambiente produttivo, dove è
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destinata ad esplicarsi la professionalità del lavoratore (Pret. Milano
25.8.1982, OGL, 1982, 336).
Non viene così ravvisata l’ipotesi del licenziamento ingiurioso nel
caso in cui sia stato lo stesso lavoratore a diffondere la notizia del
licenziamento (Pret. Milano 25.8.1982, OGL, 1982, 336).
9.6. Il licenziamento disciplinare “ingiurioso”.
Si deve indagare se l’ingiuriosità del licenziamento possa derivare
dall’addebito al lavoratore di un fatto lesivo della sua dignità, il quale
risulti invece infondato. E’ stato sotto questo profilo ritenuto che
l’intimazione di un licenziamento disciplinare, senza approfondimento dei
fatti e senza tenere conto delle giustificazioni del lavoratore, non ne
comporta automaticamente il carattere ingiurioso (Pret. Milano 11.4.1997,
OGL, 1997, 435). Più precisamente è stato ritenuto che
dalla constatazione che il datore di lavoro ha intimato il licenziamento disciplinare
senza procedere preventivamente ad alcun approfondimento dei fatti e, anche dopo le
giustificazioni rese dal lavoratore, sulla base di una acritica accettazione della versione
fornita dal superiore gerarchico dell'incolpato, non può dedursi il carattere ingiurioso del
licenziamento, sempre che lo stesso non appaia altrimenti ispirato dall'intenzione di
nuocere o colpire l'immagine del lavoratore. Il danno quindi per l'illegittimità del
licenziamento è semplicemente quello coperto dalla l. n. 108 del 1990
(Pret. Milano 11.4.1997, OGL, 1997, 435).
La Suprema corte ha, però, deciso che il licenziamento disciplinare
illegittimo può dar luogo alla risarcibilità di danni patrimoniali e non
patrimoniali ulteriori. E’ stato in tal senso deciso:
invero il licenziamento disciplinare, comportando l’addebito di gravi mancanze
disciplinari può integrare la fattispecie del licenziamento ingiurioso, lesivo del diritto
all’onore del lavoratore. Inoltre la conoscenza del motivo di licenziamento nell’ambiente
di lavoro può determinare gravi difficoltà occupazionali per il lavoratore con evidente
danno patrimoniale. Per questi danni, dei quali il datore di lavoro sarebbe tenuto a
rispondere se fossero l’effetto della mancata osservanza delle garanzie procedimentali,
tuttavia nel caso in esame non vi è stata domanda dello Zorzi
(Cass. 8.9.1995, n. 9492, GC, 1996, I, 101; RCDL, 1996, 548).
E’ stato, peraltro, affermato che la fattispecie del licenziamento
ingiurioso può essere integrata anche nel caso in cui il datore di lavoro
abbia licenziato il dipendente, addebitandogli un fatto offensivo della sua
dignità, qualora esso si sia poi rilevato insussistente, oppure non provato
(Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 476). Il Pretore ha così deciso che
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il licenziamento può però ritenersi ugualmente ingiurioso, ma non certo per il fatto
che, in un modulo inviato all’Inps oltre un anno dopo, esso era stato impropriamente
definito come avvenuto per giusta causa perché c’è stata subito dopo la precisazione della
lettera del 13 luglio 1995. L’ingiuriosità deriva invece dal fatto che era stato dedotto oltre
al motivo oggettivo rappresentato dalla necessità di ridurre i costi, anche il motivo
soggettivo consistente nell’incapacità di adempiere alle funzioni per le quali il dirigente
era stato assunto. La motivazione, se insussistente, è offensiva della dignità del
lavoratore, intesa come consapevolezza del proprio valore come persona e della propria
professionalità, ed è idonea a lederne anche la reputazione costituendo un rilevante
ostacolo per il reperimento di un’altra occupazione. Se decide di addurre una motivazione
di questo tipo, il datore di lavoro deve poi darne la dimostrazione e in caso di sua
mancanza le conseguenze non possono essere solo quelle del licenziamento ingiustificato.
L’incapacità addotta, non essendo stata dimostrata, deve ritenersi come inesistente, con la
conseguenza che il lavoratore è esonerato dall’onere di dimostrare il contrario
(Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 476).
9.6.1. Il rapporto tra l’obbligo legale di contestazione dell’addebito
disciplinare e di motivazione del recesso del datore di lavoro e la
fattispecie del licenziamento ingiurioso.
Legislazione c.p. 594, 595 - l. 15.7.1966, n. 604.
Bibliografia Mannaccio 1996.
Viene però evidenziato dalla dottrina (Mannaccio 1996, 479) il
contrasto tra l’esistenza dell’obbligo legale di motivazione del
licenziamento – previsto dall’art. 2, l. 15.7.1966, n. 604 - e la possibilità
che proprio dall’adempimento dello stesso possa trarre origine un’ipotesi
di responsabilità in capo al soggetto onerato, che, a ben vedere, può
peraltro travalicare l’ambito civilistico per sfociare in fattispecie aventi
rilevanza penale, quali l’ingiuria (art. 594 c. p.) o la diffamazione (art. 595
c. p.).
Premesso che tale problema non si manifesta nelle ipotesi in cui alla
base del licenziamento vengano poste ragioni attinenti all’organizzazione
imprenditoriale del datore di lavoro - giustificato motivo oggettivo -, ci si
deve domandare quando il recesso datoriale per giusta causa o giustificato
motivo soggettivo determini la qualificazione dello stesso come
ingiurioso. E’ stato in proposito osservato che
l’indagine sul genus licenziamento ingiurioso si restringe dunque al solo campo dei
motivi soggettivi del licenziamento e cioè dei motivi che hanno riguardo al soggetto del
dipendente: negligenza o scarsa diligenza, insubordinazione, violazione di regolamenti
aziendali, commissione addirittura di azioni moralmente e/o giuridicamente riprovevoli.
In misura più o meno intensa tutta l’area della giusta causa o del giustificato motivo
soggettivo determina una situazione di offesa della persona del dipendente che – in
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misura più o meno intensa – viene denigrata nella sua integrale o complessa situazione di
onorabilità sia dalle accuse minori di negligenza, imperizia, disattenzione, scarso impegno
lavorativo e simili sia – e ovviamente in misura più grave – da quelle maggiori di
commissione di reati o di fatti moralmente riprovevoli. Si entra – con queste
argomentazioni preliminari – nel vivo dell’argomento. In che misura l’indicazione –
necessaria – della causa soggettiva di licenziamento fa divenire quest’ultimo un
licenziamento ingiurioso?
(Mannaccio 1996, 480).
Tale autore ritiene che la semplice insussistenza – oppure la mancata
dimostrazione – del fatto addebitato al lavoratore come motivo di
licenziamento, non possa dare origine alla fattispecie del licenziamento
ingiurioso, ma solo a quella del licenziamento ingiustificato, con la
conseguenza che il lavoratore avrà diritto esclusivamente alle indennità
previste dalla legislazione speciale, ma non al risarcimento degli ulteriori
danni. E’ stato in tal senso rilevato:
al termine di questa contraddittoria ricostruzione – correttissima all’inizio e meno
corretta a metà strada – viene affermato il diverso e inaccettabile principio che
l’inesistenza del motivo addotto equivale a licenziamento ingiurioso laddove –
all’evidenza – l’inesistenza del motivo addotto è solo e semplice causa di licenziamento
senza ragione cui consegue – a seconda del quadro normativo o contrattuale di
riferimento – la tutela dell’art. 18 Stat. Lav. (che è comprensiva di tutto il danno) o la
tutela convenzionale dell’indennità per licenziamento ingiustificato, anch’essa
comprensiva di tutto il danno. Null’altro
(Mannaccio 1996, 481).
L’autore considera, pertanto, ingiurioso solo il licenziamento
caratterizzato, oltre che dalla oggettiva denigratorietà della contestazione
disciplinare, anche dall’abnormità della stessa rispetto allo scopo per cui
essa è prevista dalla legge, cioè quello di consentire il controllo
sull’esistenza del giustificato motivo di licenziamento. Tale autore
afferma:
tutti questi rilievi mi portano a ritenere che la ingiuriosità del licenziamento non sta
tanto nel contenuto oggettivamente offensivo del fatto addebitato (che è condizione
necessaria ma non sufficiente) quanto nelle modalità lesive della sua attuazione. Dice la
Cassazione che è ingiurioso quel licenziamento che per le modalità con le quali è attuato
risulti lesivo dell’onore e della personalità morale del lavoratore.
Insomma quando l’ordinaria e necessaria contestazione dell’addebito (al dipendente) si
accompagna a superflue e ulteriori comunicazioni esterne; quando la contestazione
essenziale sia accompagnata da particolari superflui e inutilmente screditanti, quando le
modalità di contestazione siano – per forma e tempi – tali da andare oltre l’effetto proprio
del recesso e tendano a produrre un danno ulteriore (come ad esempio quello di rendere
difficile un’altra occupazione) ecco che ci troviamo di fronte ad un licenziamento
ingiurioso che – si badi bene – può convivere con il licenziamento giustificato e cioè un
licenziamento fondato su un motivo legittimo e come tale idoneo a provocare la
cessazione definitiva del rapporto di lavoro. E’ in sostanza l’uso distorto e abnorme del
10
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mezzo tecnico legittimo di contestazione (comunicazione dei motivi di recesso) a definire
il licenziamento come ingiurioso là dove una certa denigrazione oggettiva sia rinvenibile
nel motivo comunicato
(Mannaccio 1996, 481).
Questa tesi contiene certamente un elemento di verità: per essere
ingiurioso, il licenziamento motivato mediante l’addebito al lavoratore di
un fatto non vero, deve essere caratterizzato dalla presenza di un quid
pluris rispetto alla semplice insussistenza del fatto contestato.
Cercando di individuare i principi generali sottostanti a tale
conclusione, si può affermare che il licenziamento disciplinare può essere
“ingiurioso” se, oltre alla falsità del fatto denigratorio addebitato al
lavoratore, ricorra il dolo, o la colpa grave, del datore di lavoro, che sono
presenti allorquando il medesimo sia consapevole di tale falsità, oppure la
ignori per la mancata adozione della necessaria diligenza nella verifica dei
fatti.
Si deve ritenere che in tale ipotesi il licenziamento non sia solo
soggettivamente ingiustificato, ma anche lesivo dell’onore e della dignità
del lavoratore. E’ sufficiente pensare all’ipotesi – non del tutto infrequente
-, in cui il datore di lavoro, al fine di licenziare un proprio dipendente, lo
accusi di aver perpetrato un furto a danno dell’azienda, essendo però ben
consapevole che il medesimo non lo ha commesso.
Applicando il criterio dell’abnormità della contestazione disciplinare
rispetto al suo scopo giuridico, si deve ritenere che anche l’addebito al
lavoratore di un fatto vero possa dar luogo ad un licenziamento ingiurioso,
quando il recesso del datore di lavoro sia caratterizzato da elementi non
riconducibili alla funzione di tale atto: si può, ad esempio, pensare
all’inutile diffusione della notizia, o comunque ad ogni condotta volta a
nuocere al lavoratore.
9.7. Il licenziamento lesivo della dignità del lavoratore.
Legislazione l. 20.5.1970, n. 300 - l. 11.5.1990, n. 108.
Bibliografia Parpaglioni 2001.
Il concetto di “licenziamento ingiurioso” è stato, quindi, interpretato
estensivamente dalla giurisprudenza, fino a ricomprendere le ipotesi in cui
il recesso datoriale sia comunque - anche a prescindere dall’offensività
della forma utilizzata - lesivo della personalità del lavoratore (Cass.
7.2.1994, n. 1219, OGL, 1994, 863; Parpaglioni 2001, 2145).
11
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Risulta, peraltro, assai opportuno ricondurre ad unità le diverse
fattispecie che possono originare in capo al datore di lavoro l’obbligo di
risarcire al lavoratore illegittimamente licenziato gli eventuali danni
ulteriori rispetto a quelli forfettariamente previsti dalla legislazione
speciale. Ciò potrà avvenire solo spostando l’attenzione sul piano degli
effetti della condotta lesiva: sotto il profilo del danno non patrimoniale, si
tratterà allora di verificare se il licenziamento ha leso diritti della
personalità del lavoratore.
Assai interessante in questo senso è stata una sentenza della Pretura di
Ferrara, che ha ritenuto direttamente risarcibile il danno alla dignità del
lavoratore, a prescindere dall’esistenza di un’effettiva diminuzione
patrimoniale o di un danno morale (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC,
1995, 74). Tale pronuncia ha così considerato risarcibile la lesione della
dignità umana di una lavoratrice - impiegata in uno studio notarile -,
determinata da un licenziamento disciplinare non rispettoso del
procedimento previsto dall’art. 7, l. n. 300 / 1970, intimatole a fronte della
sua assenza ingiustificata dal lavoro, peraltro causata da un evento del
tutto tragico, cioè il ricovero ospedaliero ed il successivo decesso del suo
unico figlio (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
Il giudice ha stigmatizzato il comportamento del datore di lavoro,
rilevando che
l’analisi complessiva della vertenza, alla luce di questi principi, evidenzia la grave
lesione del diritto primario ed assoluto della lavoratrice al rispetto della propria dignità
umana, come può desumersi dalle modalità con le quali è stato irrogato il provvedimento,
dal tempo in cui è stato deciso, a circa venti giorni di distanza dal decesso dell’unico
figlio, dalla mancanza addebitata che traeva la sua giustificazione proprio nella assenza
dal lavoro che da quel tragico evento era dipesa, dal tentativo da parte del convenuto di
mascherare le reali motivazioni della sua scelta di recedere dal rapporto e dalla
diffusione, presso gli altri dipendenti dello studio, della notizia che l’interessata sarebbe
stata disposta ad accettare una risoluzione consensuale del rapporto o, comunque, a
dimettersi
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
Quindi, il Pretore ha ritenuto tale licenziamento come lesivo della
personalità della ricorrente in considerazione del momento e del modo in
cui il medesimo è intervenuto. Sono però stati ritenuti in quest’ottica
rilevanti anche due ulteriori comportamenti del datore di lavoro: l’aver
proceduto al licenziamento dopo avere tenuto un comportamento
conciliante, acconsentendo in pratica alle assenze della sua dipendente, e
l’avere diffuso notizie false in ordine alla pretesa volontà di quest’ultima
di terminare consensualmente il rapporto di lavoro. E’ stato così rilevato
che:
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in sostanza la decisione del convenuto di procedere al licenziamento per il protrarsi
della assenza dal lavoro, assunta dallo stesso in modo imprevisto ed inaspettato, dopo
aver mostrato una condotta rassicurante e comprensiva e senza l’osservanza di quanto
avrebbe richiesto il rispetto del dovere di buona fede e di correttezza nella esecuzione dl
contratto, ha finito per offender gravemente la personalità della lavoratrice, proprio
perché il dott. Minarelli ha inteso colpevolizzare in modo ingiusto e punire con la più
grave delle sanzioni disciplinari, senza peraltro neppure rispettare il diritto di difesa, la
condotta dell’impiegata in un momento per questa particolarmente tragico e difficile, del
tutto trascurando quei minimi doveri di solidarietà che impongono, quanto meno, di non
aggravare le difficoltà di un soggetto già affranto per la irreparabile perdita subita. Si può
fondatamente sostenere che quel licenziamento, intimato in quel momento ed in quel
modo, ha profondamente ferito la dignità umana della ricorrente: rappresentando infatti,
la dimostrazione che, per il suo datore di lavoro, nei confronti del quale ella nutriva
incondizionata fiducia, tanto da far pieno affidamento sugli accordi raggiunti senza
neppure lontanamente sospettare che in un momento del genere avrebbe potuto essere
disposta una qualunque forma di provvedimento sanzionatorio, le astratte esigenze
organizzative dello studio professionale e una nozione al pari astratta e formale della
disciplina, dovevano in ogni modo prevalere sul vincolo di solidarietà umana che si era
formato nei lunghi anni di stretta collaborazione. Ma la lesione della personalità della
lavoratrice emerge altresì dal tentativo di accreditare, anche nel corso del giudizio,
l’ipotesi che la ricorrente avrebbe manifestato la volontà di non riprendere più il lavoro,
per di più utilizzando per tale scopo delle informazioni solo indirettamente raccolte. Il
fatto stesso di aver voluto attribuire rilevanza a frasi del genere pronunciate nella
immediatezza del decesso del figlio della lavoratrice, senza neppure aver sentito il
bisogno di trattare personalmente l’argomento con l’interessata, con il marito o con la
sorella, rappresenta una mancanza di rispetto verso il dolore della donna ed una
violazione dei principi minimi che reggono la convivenza civile
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
Il comportamento del notaio è stato, quindi, considerato, sotto tutti
questi aspetti, lesivo della personalità della lavoratrice, e, pertanto,
inquadrabile nella categoria del “licenziamento offensivo”. Il Pretore ha
ritenuto che possa considerarsi tale il recesso datoriale
che per la forma o le modalità del suo esercizio, per le conseguenze morali o sociali
che ne derivino, per le espressioni contenute nell’atto di recesso, ovvero nella lettera di
contestazione, ove queste siano state richiamate nella successiva lettera di licenziamento,
leda la personalità morale del lavoratore
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
Questa fattispecie è stata distinta da quella del licenziamento
semplicemente illegittimo che, in quanto tale, esaurisce i propri effetti
all’interno della disciplina prevista dalle leggi n. 300 / 1970 e n. 108/1990.
La sentenza ha, infatti, rilevato che
il danno da licenziamento offensivo non deve essere confuso con il danno da
licenziamento illegittimo, dal momento che il danno risarcibile, secondo la previsione
della disciplina garantista delle ll. n. 300/70 e 108/90, non comprende il pregiudizio extra
– patrimoniale , che può essere risarcito solo qualora il recesso possa essere configurato
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alla stregua di un illecito secondo i principi generali (artt. 2043, 2056, 1223, 1226 e
1227 c. c.), come avviene nel caso in cui il fatto contestato (e rilevatosi insussistente)
come giusta causa sia idoneo a qualificare l’atto come offensivo
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
E’ da evidenziare, quindi, – e tale profilo ha un’indubbia rilevanza
sistematica – che è stata proprio la rilevazione di una concorrente
responsabilità aquiliana del datore di lavoro ad indurre il Pretore a
riconoscere alla lavoratrice il risarcimento di danni ulteriori, rispetto a
quelli normalmente discendenti - in conformità alle previsioni delle leggi
speciali - dall’interruzione del rapporto di lavoro. E’ stato in questo senso
sotttolineato:
come è noto l’ordinamento riconosce, attraverso una consolidata interpretazione
giurisprudenziale, l’esistenza di ipotesi di licenziamento nelle quali la responsabilità del
datore di lavoro è anche di natura extra – contrattuale, quando si verificano dei danni che
vanno oltre a quelli normalmente derivanti dall’interruzione del rapporto di lavoro
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
9.8. La congiunta applicazione dell’art. 2043 c. c. e delle norme
costituzionali poste a tutela della persona e del lavoratore.
Legislazione Cost. 32, 41 – c.c. 2043.
La sentenza ferrarese riconosce tutela risarcitoria alla lesione della
dignità umana del lavoratore, estendendo a tale diritto l’insegnamento
della celebre sentenza della Corte costituzionale n. 184 / 1986, che aveva
posto il principio secondo cui il pregiudizio all’integrità psicofisica deve
essere risarcito ai sensi del combinato disposto degli artt. 2043 c. c. e 32
Cost.
Secondo il Pretore di Ferrara il diritto alla salute rappresenta solo uno
dei molteplici aspetti in relazione ai quali viene tutelata la persona umana;
pertanto, protezione analoga deve essere assicurata agli altri diritti della
personalità, in ugual modo e misura riconosciuti dalla Costituzione. E’
stato così rilevato che
in tale nuova prospettiva, procedendo lunga la strada aperta dalla sentenza della C.
cost. 14 luglio 1986, n. 184, deve essere riesaminata la questione dedotta in giudizio,
osservando che il diritto alla salute, sancito dall’art. 32, primo comma della Costituzione,
rappresenta soltanto una delle proiezioni attraverso le quali nella legge fondamentale si è
inteso fornire piena ed assoluta tutela alla persona umana in quanto tale considerata, quale
valore primario ed essenziale. Non è difficile rinvenire in numerose norme della
Costituzione un riferimento espresso al “bene uomo in quanto tale”, procedendo dall’art.
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2, secondo il quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” e
dall’art. 3, primo comma, secondo il quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”
fino ad arrivare a tutte le altre norme, in tema di libertà personale, di inviolabilità del
domicilio, della libertà di spostamento, della libertà di culto, del diritto alla salute, le
quali hanno la finalità essenziale di tutelare le specifiche espressioni dei diritti inviolabili
dell’individuo sia nel rapporto con lo Stato sia nel rapporto con altri soggetti. Ma la
Costituzione stessa, nel sancire il diritto al lavoro (art. 4), ha anche espressamente voluto
estendere i principi di solidarietà sociale anche all’uomo – lavoratore, superando al
tradizionale impostazione liberistica, secondo la quale i rapporti economici rimanevano
riservati alla sfera dell’autonomia privata. In conseguenza numerose norme (art. 35 ss.
Cost.) sono state dettate allo scopo di tutelare il lavoro in tutte le sue espressioni, di
garantire il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed
in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, di riconoscere il
diritto alla previdenza e alla assistenza sociale. In tale contesto il costituente, nel
riconoscere la libertà della iniziativa economica privata, ha voluto non a caso ribadire
che la stessa non poteva svolgersi in modo da recare danno “alla dignità umana” (art. 41,
secondo comma, Cost.)
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
Quindi, il giudice ha osservato che
in altri termini il rispetto della persona umana e della dignità dell’uomo è
espressamente riconosciuto dalla Costituzione come un diritto assoluto, operante anche
nell’ambito del rapporto di lavoro
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
E’ proprio la lesione di questo diritto espressamente previsto dalla
Costituzione che integra gli estremi per l’applicazione dell’art. 2043 c. c.,
come è stato rilevato dal Pretore, secondo il quale
il riconoscimento della natura precettiva al principio enunciato dal secondo comma
dell’art. 41 Cost., proprio in ragione dell’enunciazione di un diritto soggettivo primario
ed assoluto, porta a ravvisare nella specie l’esistenza di un danno risarcibile ex art. 2043
c. c. conseguente ad un comportamento illecito da parte del datore di lavoro realizzato
mediante l’intimato licenziamento
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
9.9. L’orientamento giurisprudenziale che riconduce la risarcibilità
dei danni ulteriori al modello della responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale.
Legislazione 1218. 2043.
Si deve, inoltre, ricordare che una sentenza della Pretura dell’Aquila,
in un caso di illegittimo licenziamento di un pubblico dipendente – che era
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stato poi annullato dal giudice amministrativo -, ha adottato sic et
simpliciter gli schemi consueti della responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318).
E’ da precisare che tale pronuncia ha riconosciuto al ricorrente il
risarcimento del danno biologico, inteso peraltro estensivamente sino a
ricomprendere anche il pregiudizio – determinato, in particolare, dalla
perdita della retribuzione -, consistente nell’impossibilità di far fronte alle
quotidiane esigenze di vita, con grave peggioramento della qualità della
vita personale e familiare (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318). In tale
caso, il Pretore, esclusa la legittimità del licenziamento, ha provveduto a
condannare il datore di lavoro al risarcimento dei danni, elidendo
completamente il requisito - richiesto in generale da dottrina e
giurisprudenza – dell’ingiuriosità o, meglio, lesività del recesso del datore
di lavoro, intese come quid pluris rispetto alla semplice mancanza di
giustificazione dello stesso.
In quest’ottica, il giudice, spostando l’indagine sull’aspetto soggettivo
della condotta datoriale, ha così deciso:
sotto tale profilo reputa il giudicante che dalle lettura delle indicate sentenze – cioè
le sentenze dei giudici amministrativi, che avevano ritenuto illegittimo il licenziamento –
possa ricavarsi il convincimento della sussistenza della colpa, necessaria per
l’integrazione dell’illecito; i giudici amministrativi avevano, infatti, qualificato le
contestazioni mosse al Verini come generiche, insufficienti a configurare una
responsabilità del Verini nel disservizio dell’ufficio (che aveva dato causa alla
destituzione) ed avevano affermato che in base agli atti che avevano sostanziato il
provvedimento di destituzione era da escludere che le deficienze rilevate potessero essere
attribuite al Verini o quantomeno al solo Verini. Non è chi non veda come ciò integri
l’elemento della colpa nell’adozione dell’atto indicato
(Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318).
La sentenza trae, quindi, le coerenti conseguenze di tale impostazione,
decidendo che
tutta la tematica del danno biologico e del risarcimento del danno non patrimoniale è
venuta in rilievo e si è affinata esclusivamente in relazione al risarcimento da fatto
illecito, ex art. 2043 c. c. A ben guardare non vi sono però ragioni che escludano la
configurabilità del medesimo discorso in termini di responsabilità contrattuale; laddove,
cioè a causare il danno più sopra indicato sia, non il fatto illecito, bensì l’inadempimento.
E’ immediato il riferimento, ancor più che alla disciplina generale di cui agli art. 1218 ss.
c. c., all’art. 18 l. 300 / 70, in cui si prescrive l’obbligo al risarcimento del danno subito
dal lavoratore per il licenziamento illegittimo. Proprio la giurisprudenza formatasi in
riferimento a tale norma ha parlato di danno all’immagine, danno alla professionalità per
la forzata inattività, svantaggi per la vita di relazione; tali danni pacificamente si
sommano, o meglio possono sommarsi, al risarcimento per la perdita della retribuzione
reintegrabile con le retribuzioni maturate (…). Tornando alle conclusioni più sopra
indicate sussiste, dunque, un danno e sussiste l’obbligo giuridico di risarcirlo. Appare, del
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resto, un dato oramai acquisito la configurabilità del concorso del doppio titolo di
responsabilità
(Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318).
Tale impostazione appare condivisibile. E’ ovvio, infatti, che la
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del datore di lavoro non
può sottrarsi, pena l’illegittimità costituzionale di un’eventuale contraria
disciplina, agli schemi generali previsti dall’ordinamento giuridico. La
forfettizzazione del risarcimento prevista dalla legislazione speciale è
finalizzata al ristoro del mero pregiudizio derivante dall’illegittima perdita
del posto di lavoro e non esclude la risarcibilità degli ulteriori pregiudizi,
che il lavoratore riesca a dimostrare di avere subito.
Ancora una volta risulta confermata la correttezza dell’impostazione
che fa riferimento agli effetti del licenziamento illegittimo: nell’ipotesi in
cui sia accertata l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale o non
patrimoniale ulteriore, il datore di lavoro potrà essere chiamato a
rispondere dello stesso, se ricorrano i presupposti generali previsti
dall’ordinamento giuridico, secondo i consueti canoni della responsabilità
aquiliana o contrattuale.
Tale conclusione è peraltro assolutamente armonica con i più recenti
sviluppi del sistema del risarcimento del danno alla persona, che hanno
condotto alla comparsa ed al consolidamento della figura del danno
esistenziale, categoria che è retta dalle ordinarie norme di responsabilità
civile.
9.10. La natura dei danni risarcibili in caso di licenziamento lesivo
della personalità del lavoratore.
E’ necessario verificare quali siano gli ulteriori pregiudizi che
debbono essere risarciti dal datore di lavoro in caso di licenziamento
lesivo della personalità e della dignità del lavoratore.
Deve in proposito essere ricordata la già citata sentenza della Pretura
dell’Aquila, che descrive minuziosamente i riflessi pregiudizievoli subiti
dal lavoratore licenziato, osservando che
vi è in atti la prova della sussistenza di tali tipi di danno. Attraverso la
documentazione esibita è possibile ricostruire il tipo di vita, condotto dal ricorrente e
dalla sua famiglia, che ha caratterizzato il periodo relativo alla destituzione –
licenziamento. Dall'esame di tale documentazione emerge un quadro piuttosto penoso in
cui la famiglia del Verini ed il Verini stesso hanno vissuto: da un lato in condizioni di per
sè inadeguate, abitazione umida, priva di riscaldamento, ecc., dall'altro in modo tale da
non poter far fronte sia alle normali difficoltà della vita, sia alle difficoltà riconducibili in
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modo diretto alla mancanza di una fonte di sostentamento (si pensi agli ovvi problemi di
alimentazione e abbigliamento). Da qui la necessità di far ricorso all'aiuto dei parenti, ma
anche al credito delle banche, al fine di limitare il danno. Tutto ciò ha inciso gravemente
da un lato sulla vita della famiglia Verini, ma dall'altro vistosamente sull'equilibrio psicofisico del ricorrente, il quale tutto ad un tratto si vedeva incapace di offrire ai propri
congiunti anche il minimo necessario per far fronte alle esigenze primarie. Da qui la
diagnosi ed i certificati medici in cui al ricorrente viene attribuito l'esaurimento nervoso.
Le molte difficoltà incontrate dai familiari e documentate in atti (certificati medici dei
figli, ecc.), incidevano sul suo equilibrio, non potendo ad esse fare adeguatamente fronte
con le necessarie disponibilità economiche. In ciò certamente rileva l'esposizione in
ricorso relativa allo stress ed al disagio dei familiari del ricorrente; reputa, infatti, il
giudicante, non senza qualche perplessità, che non sia ipotizzabile l'azione, in capo al
ricorrente, per gli obblighi che egli abbia eventualmente assunto nei confronti dei
familiari, i quali restano estranei alla vicenda de qua. Non può il Verini agire per il danno
da essi subito. Solo dunque nel senso più sopra indicato assume rilevanza il disagio dei
familiari.
Sussiste dunque un danno astrattamente risarcibile in quanto lesione di un diritto
soggettivo
(Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI; 1993, 319).
Si tratta, quindi, di tutta una serie di conseguenze negative sulla vita
del lavoratore - e della sua famiglia -, derivanti dalla perdita della propria
fonte di sostentamento, che avrebbero anche determinato una lesione della
sua integrità psicofisica - esaurimento nervoso -. La sentenza in esame
ritiene che tali pregiudizi debbano essere inquadrati in un concetto
allargato di danno biologico, definibile come danno esistenziale. Il Pretore
ha così rilevato che
in sostanza il Verini ha esposto che in ragione della privazione delle retribuzioni,
fonte di sostentamento per sé e per la sua famiglia, è stato costretto ad un regime di vita
particolarmente gravoso, di mero sostentamento, pregiudizievole per l‘integrità
psicofisica e per l’equilibrio esistenziale, tale da recare un grave pregiudizio a lui ed alla
sua famiglia.
Tale danno non può essere qualificato come danno morale ed in ciò appare inesatta la
qualificazione giuridica operata in ricorso. A ragione parte resistente osserva che il danno
morale è risarcibile solo negli specifici casi determinati dalla legge, così come stabilito
dall’art. 2059 c. c. (ad es. danni da reato).
Viene in rilievo, però, a tale proposito, oltre all’ampio dibattito dottrinale e
giurisprudenziale sui temi della risarcibilità del danno non patrimoniale – ovvero sul
concetto di danno patrimoniale – la sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 1986
(Foro. It., 1986, I, 2053); in seguito a tale sentenza può oggi considerarsi acquisito come
solo il danno morale in senso stretto, inteso come pretium doloris, non sia risarcibile – se
non nei casi determinati dalla legge – così rientrando nella previsione dell’art. 2059
citato.
Vi è altresì tutta una serie di danni non direttamente patrimoniali, i quali, non rientrando
nell’indicata limitazione, appaiono pacificamente risarcibili, ove effettivamente
sussistenti. Fra essi l’ormai famosissimo danno biologico nelle sue accezioni più o meno
ampie a seconda che si faccia o meno riferimento alla lesione dell’integrità fisica ovvero
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anche all’integrità psichica ed all’equilibrio dell’individuo. A ben guardare, competendo
al giudice la qualificazione giuridica del fatto, il danno prospettato dal Verini appare
rientrare in tale categoria da ultimo indicata ovvero in una sorta di ampia accezione del
danno biologico, qualificabile come danno esistenziale
(Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 319).
Quindi, il Pretore riconosce il ristoro della situazione di esaurimento
nervoso e di stress esistenziale subiti dal lavoratore. Dai dati ricavabili
dalla sentenza, emerge una mancanza di chiarezza concettuale riguardo
alla natura delle categorie risarcitorie richiamate, che è, peraltro,
assolutamente comprensibile, considerato che tale provvedimento si
colloca storicamente in una fase embrionale dello sviluppo del sistema del
risarcimento del danno alla persona, nella quale, pur iniziandosi ad
avvertire l’esigenza di estendere la tutela della persona al di là del danno
prettamente fisico, non esistevano ancora gli strumenti concettuali a tale
fine necessari.
A causa di tale limite, la sentenza in esame si inserisce, quindi, nel
filone giurisprudenziale che ha esteso i confini della categoria del danno
biologico, al fine di garantire il risarcimento di pregiudizi di natura non
patrimoniale, non concretizzatesi in realtà in una compromissione
dell’integrità psicofisica della vittima – c. d. “somatizzazione della tutela
della persona” -.
Proprio per questa ragione, risulta notevole il richiamo operato dal
giudice al concetto di danno esistenziale: il pregiudizio subito dal
lavoratore – e di riflesso dalla sua famiglia – consiste, infatti,
principalmente in un’alterazione peggiorativa della vita quotidiana, dovuta
al venir meno delle risorse economiche necessarie, cioè in quella
compromissione delle attività realizzatrici della persona che rappresenta
l’essenza della categoria del “danno esistenziale”, così come recentemente
ricostruita da dottrina e giurisprudenza.
I riferimenti esistenzialisti di tale sentenza sono pertanto frutto di una
corretta – seppur parziale - intuizione della reale natura del pregiudizio
subito dal ricorrente. Risulta però del tutto assente l’elaborazione
concettuale di tale – al tempo sconosciuta – categoria, che sarà invece
frutto della dottrina e giurisprudenza successive.
La confusione concettuale in cui è incorso il Pretore ha anche
determinato evidenti errori nella valutazione delle prove. La dimostrazione
del danno biologico – esaurimento nervoso – avrebbe dovuto essere fornita
mediante una perizia medico legale, mentre il giudice ha ritenuto
sussistente tale patologia sulla base dei soli certificati medici prodotti dal
ricorrente.
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Le stesse perplessità valgono anche in ordine all’accertamento del
nesso causale, in relazione al quale il Pretore ha ritenuto che
conseguenza quasi implicita nelle considerazioni più sopra indicate è la sussistenza
del nesso causale tra la lesione al diritto all'integrità esistenziale e biologica e più in
generale del diritto alla salute, nonchè del diritto patrimoniale leso dal ricorso al credito
bancario ed il licenziamento-destituzione del ricorrente. Appare infatti adeguato ad un
criterio di normalità sociale che l'esaurimento nervoso e lo stress indicato siano
riconducibili alla causa-licenziamento. Ancor più se si pensa che in occasione della
dimostrazione del danno emergente -quale è quello di cui si discute -la prova del nesso
causale può essere pacificamente meno rigorosa ed agganciata al criterio di normalità più
sopra citato
(Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 319).
Il collegamento causale tra licenziamento e lesione dell’integrità
psicofisica viene pertanto ritenuto sussistente in base ad un criterio
presuntivo - quello della normalità sociale – mentre il suo accertamento
avrebbe richiesto una precisa indagine medico legale, volta a verificare se
effettivamente la patologia psichica possa essere connessa al recesso del
datore di lavoro. I criteri adottati dal Pretore sarebbero invece
probabilmente stati corretti se riferiti alla dimostrazione di un danno di
natura esistenziale non biologica, il cui accertamento normalmente
prescinde da qualsivoglia indagine medico – legale.
Quindi, anche sotto questo profilo, l’imprecisione della sentenza
deriva dalla – pur storicamente comprensibile – fedeltà alla categoria del
danno biologico, dovendosi peraltro ritenere che si sarebbe potuto
addivenire alla liquidazione dello stesso risarcimento, senza tenere in
conto la pretesa lesione dell’integrità psicofisica, ma valutando invece i
soli riflessi negativi del licenziamento sulla qualità della vita personale e
familiare del ricorrente. Infatti, i profili più interessanti sono quelli relativi
alle conseguenze dirette della perdita del posto di lavoro – e della relativa
retribuzione - sulla vita della vittima, che risultano essere state dimostrate
documentalmente: problemi nell’acquistare gli alimenti ed i capi di
abbigliamento, nel riscaldare l’abitazione, ecc.; cioè, in poche parole, la
grave difficoltà nel far fronte alle più elementari esigenze di vita.
9.11. Il danno derivante dalla lesione della dignità del lavoratore.
Bibliografia Cendon e Ziviz 1995 - Tullini 1994.
Non risulta, quindi, corretto l’utilizzo della categoria del danno
biologico per garantire il risarcimento del pregiudizio derivante dalla
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compromissione di diritti della personalità diversi da quello alla salute. E’
stato in proposito giustamente osservato:
e’ forse più proficuo distinguere il problema della rilevanza della persona e della sua
protezione giuridica dalla tematica del danno biologico, nella quale sembra oggi
completamente assorbito. Altro è liquidare il danno alla salute e altro ancora è risarcire
l’evento lesivo dei c. d. diritti della personalità. Contro la tentazione di attribuire al danno
biologico il significato di una clausola generale di risarcibilità, trasponendo nella più
ampia dimensione della persona umana la nozione eterogenea e omnicomprensiva
applicata alla lesione dell’integrità psicofisica
(Tullini 1994, II, 571).
Sotto questo profilo è da segnalare una sentenza della Pretura di
Parma, che ha riconosciuto il risarcimento del pregiudizio derivante dalla
compromissione della dignità del lavoratore, chiarendo con precisione la
differenza tra questo tipo di pregiudizio ed il danno biologico (Pret. Parma
13.11.1995, LG, 1996, 478). Il Pretore, infatti, ha così respinto la domanda
di risarcimento del danno biologico:
per comodità di esposizione si può ora trattare della richiesta di risarcimento
conseguente alla malattia psichica addotta. Il consulente tecnico d’ufficio, professionista
apprezzato e di indiscusso prestigio, rispondendo ai quesiti con una relazione precisa,
dettagliata e documentata, ha escluso l’esistenza di una malattia psichica apprezzabile
all’epoca dell’indagine di consulenza; pur dichiarando di non avere motivi per mettere in
discussione la diagnosi di depressione, e pur prendendo atto che Mazza dal dicembre
1993 al gennaio 1995 è stato curato ambulatorialmente per una “sindrome depressiva”, ha
negato la possibilità di affermare esistente un rapporto di causalità con i fatti di causa,
secondo i consueti criteri diagnostici internazionalmente usati. La relazione è pienamente
convincente e non c’è motivo alcuno per disattenderne le conclusioni; essa non è stata
neppure specificamente contestata da un consulente di parte né le osservazioni fatte dal
difensore possono indurre ad un rinnovo della perizia.
Non è questa la sede per verificare se la malattia, benchè diagnosticata, sia stata
effettivamente presente; è sufficiente ai fini del decidere l’accertamento della mancanza di
prova del nesso di causalità con il licenziamento
(Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 478).
La sentenza ha, invece, riconosciuto al lavoratore il risarcimento del
pregiudizio derivante dalla lesione della sua dignità, che è stato quindi
evidentemente distinto dal danno biologico:
l’ultima richiesta riguarda il risarcimento di un danno ulteriore, oltre quello
patrimoniale, come conseguenza del licenziamento ingiurioso. La giurisprudenza più
autorevole (Cass. 22 luglio 1987 n. 6375) ritiene che il licenziamento di un dirigente (…)
per dar luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto comune (art. 2043 ss. c. c.) deve
concretarsi, per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e
sociali che ne derivino, in un atto ingiurioso, cioè lesivo della dignità e dell’onore del
lavoratore licenziato. Tale carattere di ingiuriosità del licenziamento non s’identifica né
va confuso con la mancanza di giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma,
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secondo i principi generai dettati dall’art. 2697 c. c., va rigorosamente provato da chi
l’allega come causa del lamentato pregiudizio.
Al fine della sua dimostrazione si è anche ammesso il ricorso a presunzioni semplici
(Cass. 7 febbraio 1994 n. 1219) e si è precisato che può ritenersi illecito secondo i
principi generali, e quindi tale da legittimare il risarcimento di ulteriori danni, l’averre
addotto a motivo del licenziamento un fatto offensivo del dipendente poi rilevatosi
insussistente (Cass. 3 giugno 1991 n. 6265).
Un danno ulteriore può esserci anche per la maggiore difficoltà per reperire una nova
occupazione, conseguenti alle modalità oltraggiose in cui è avvenuto il licenziamento,
così come può consistere, anche a prescindere dall’insorgenza di una malattia, nella sola
offesa alla dignità umana del lavoratore, dovendosi ritenere come diritto assoluto,
operante anche nell’ambito del rapporto di lavoro, quello al rispetto della persona ed ella
sua dignità (v. Pret. Ferrara, 25 novembre 1993, in Riv. It.dir. lav., 1994, II, 555; Pret.
Bologna 20 novembre 1990, ivi 1991, II, 462)
(Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 478).
La sentenza in esame ha, peraltro, definito con precisione il concetto
di dignità del lavoratore, intendendo la stessa come consapevolezza del
proprio valore come persona e della propria professionalità (Pret. Parma
13.11.1995, LG, 1996, 478).
Neppure la già citata sentenza del Pretore di Ferrara (Pret. Ferrara
25.11.1993, NGCC, 1995, 74) si è rifugiata negli schemi interpretativi, al
tempo dominanti, volti a ricondurre il danno subito dal lavoratore, vittima
di un licenziamento lesivo, alla categoria del danno biologico. Il giudice si
è, invece, sforzato di individuare - in modo giuridicamente più preciso e
corretto - la reale natura del pregiudizio subito dalla ricorrente, che in
realtà non risulta riconducibile alla categoria del danno alla salute, in
quanto non era stata dedotta una compromissione dell’integrità psico –
fisica di quest’ultima.
Sotto questo profilo, è stata sottolineata positivamente la creatività
della pronuncia, che ha evitato di rifarsi impropriamente alla categoria del
danno biologico, essendo da salutare invece positivamente l’avvento di
impostazioni tese a ricercare - per il risarcimento del danno alla persona un assetto concettuale e disciplinare improntato a concetti più ampi
rispetto a quelli propri di tale categoria (Cendon e Ziviz 1995, 77). In
particolare è stato sottolineato:
va detto subito come tale indicazione presenti tuttavia, nella sentenza ferrarese, tratti
di notevole originalità. Vediamo, in particolare, come il Pretore non indulga affatto nella
tentazione (avvertibile, in quest’ultimo periodo, presso tante corti del nostro paese) di
incardinare a ogni costo la soluzione aquiliana sul terreno della lesione dell’integrità
psicofisica. Non vi è cioè, da parte sua, il tentativo di ravvisare nel comportamento
illecito dell’agente la causa di un disagio psicologico, a carico della vittima - al fine di
poter qualificare il turbamento medesimo come un autentico pregiudizio di carattere
psichico (lesivo della salute, e risarcibile nella veste di danno biologico).
Il riferimento al danno alla salute rappresenta piuttosto, per la Pretura ferrarese, uno
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spunto utile ad avviare riflessioni d’ordine più vasto
(Cendon e Ziviz 1995, 76).
Il Pretore ha, quindi, ritenuto risarcibile la lesione di un diritto della
personalità diverso da quello della salute, rilevando che
l’analisi complessiva della vertenza, alla luce di questi principi, evidenzia la grave
lesione del diritto primario ed assoluto della lavoratrice al rispetto della propria dignità
umana
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
9.11.1. Il pregiudizio alla dignità del lavoratore come danno
esistenziale.
Bibliografia Cendon e Ziviz 1995.
La Pretura di Ferrara ha ricostruito il pregiudizio alla dignità del
lavoratore nei termini del danno evento, ritenendo che
alla luce di tali principi si può pervenire nel caso di specie ad identificare un danno
evento, derivante dalla semplice violazione della dignità umana, direttamente risarcibile
prescindendo da una effettiva diminuzione patrimoniale del soggetto leso o dalla esistenza
di un danno morale che, come è noto, è risarcibile soltanto nell’ipotesi di commissione di
un reato (art. 2059 c. c.)
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
Tale pregiudizio, di natura non patrimoniale, rientra certamente nella
categoria del danno esistenziale, come è stato rilevato da autorevole
dottrina (Cendon e Ziviz 1995, 75). Pur ponendosi tali autori, in linea
generale, in atteggiamento critico rispetto alla ricostruzione del danno
evento recepita dalla pronuncia in esame, le riconoscono comunque alcuni
meriti in relazione all’evoluzione del sistema del risarcimento dei danni
alla persona. Essi osservano:
conclusione del discorso? Sistemazioni definitive non sono agevoli da trovare; è
indubbio però che, una risposta soddisfacente (per la vicenda in commento) andrebbe
modulata lungo direttrici alquanto diverse da quelle sin qui esposte. Si tratterà di
procedere, in primo luogo, all'individuazione di nuove prospettive risarcitorie -a fronte
del perturbamento di valori personali dell'offeso. E si tratterà di affrontare,
successivamente, i nodi peculiari che presenta un campo come quello dei rapporti di
lavoro.
Quanto al primo aspetto, non può non rimarcarsi la sostanziale inadeguatezza di ogni
lettura tesa a risolvere la questione del risarcimento (per la compromissione delle partite
non economiche) sul filo delle categorie oggi dominanti.
Abbiamo già fatto cenno all’impossibilità di ricondurre la complessità di tali aspetti
nell'ambito del danno biologico; nè, occorre aggiungere, soluzioni appaganti potrebbero
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rinvenirsi all'interno dei moduli consueti.
La via d’uscita non può consistere, allora, che nella ricerca di un chiarimento -franco e
definitivo -circa la natura del pregiudizio da neutralizzare; e il punto di partenza trapela
dalle righe stesse della sentenza ferrarese.
Un attento esame delle argomentazioni del Pretore chiarisce, in effetti, come l'obiettivo
sia quello di uno svincolamento (del piano risarcitorio) rispetto alla dimensione
strettamente reddituaIe nella quale il danno alla persona è rimasto, per lunghi anni,
confìnato. Ecco che la teoria del danno-evento può anch'essa prospettarsi, allora, non già
come operazione di traslazione delle logiche penalistiche nel campo civile, bensì come
strumento tecnico utile a sganciare il discorso dalle strettoie patrimonialistiche.
Perché il soddisfacimento di simili esigenze avvenga tramite la teoria del danno – evento,
è spiegabile, d’altro canto, attraverso un duplice ordine di rilievi. Il primo è costituito
dall’ingombrante presenza, nel nostro codice civile, di un articolo come il 2059 –
disposizione la cui rubrica fa chiaro riferimento, come si sa, ai danni «non patrimoniali».
Non è difficile comprendere come la collocazione del presidio risarcitorio su un diverso
terreno (quello dell'evento) diventi un espediente per sfuggire alle forche caudine poste
dalla norma in questione.
E a tali motivi di carattere tecnico, si aggiunge poi -osserviamo -il dato della scarsa
capacità (riscontrabile non soltanto in capo ai giudici, ma più in generale alla dottrina) di
cogliere un germe unitario per le varie conseguenze di ordine non patrimoniale, diverse
dal dolore, che l'illecito è idoneo a determinare
(Cendon e Ziviz 1995, 78).
In quest’ottica, risulta quindi fondamentale l’inquadramento
sistematico dei pregiudizi concretamente subiti dalla vittima, che, nel caso
concreto, debbono essere qualificati come compromissione della sfera
esistenziale di quest’ultima. Osservano in tal senso i predetti autori che
una volta svelati gli obiettivi che la teoria de danno-evento nasconde, si tratterà di
(puntare a) raggiungerli -allora -mediante una collocazione della misura aquiliana al
livello dei riflessi pregiudizievoli patiti, concretamente, dalla vittima: in particolare, di
quelle varie ripercussioni che non abbiano tenore patrimoniale, nè corrispondano alle
sofferenze e ai vari patemi d'animo in cui il danno morale si identifica.
Volendo trovare un denominatore comune per tale categoria, sono significative le
indicazioni emergenti dal settore della salute. Lì l'attribuzione di una terza voce
risarcitoria è venuta assumendo, sempre più, il carattere di ristoro per le attività non
lucrative di fatto incrinate. In una prospettiva più generale si tratta, allora, di offrire
riscontro ex lege Aquilia allo sconvolgimento di quegli aspetti che la Corte costituzionale
indica come «attività realizzatrici della persona umana».
Nel momento in cui l'illecito coinvolge tramiti del genere, ecco formarsi in capo all'offeso
un pregiudizio d'ordine non patrimoniale, che si manifesta in un'alterazione (peggiorativa)
dell'universo quotidiano. Anche per tale momento -diverso dal danno morale, in quanto
atto a toccare non già l'orbita dei sentimenti, ma quella oggettiva delle estrinsecazioni
individuali- dovrà riconoscersi un'adeguata riparazione, nel seno di un'autonoma voce
sanzionatoria.
La fattispecie in esame? Nell'applicare l'accennata logica alla vicenda ferrarese, va
sottolineato -anzitutto -come il licenziamento sia destinato, per il suo carattere ingiurioso,
ad assumere risalto quale illecito extra contrattuale.
Il danno da ristorare atterrà, allora, alla compromissione della sfera esistenziale (del
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lavoratore colpito dal torto), la quale assumerà autonoma rilevanza sul piano dell'id quod
interest.
Circa i profili del quantum respondeatur, il punto appare non già -come per nostro
Pretore- quello di inseguire, se non addirittura inventare, canoni di valutazione più o
meno estemporanei. Più semplicemente, si tratterà (per il giudice) di stilare un inventario
delle singole traettorie d’ordine relazionale che il torto mostri di aver vulnerato, onde
attribuire ad esse (motivatamente) un apprezzamento fondato sui parametri rispettosi delle
peculiarietà di ciascuna
(Cendon e Ziviz 1995, 79).
9.12. I diversi profili del danno esistenziale da licenziamento lesivo
della personalità del lavoratore.
La giurisprudenza ha ritenuto risarcibile la compromissione delle
prerogative fondamentali del lavoratore come persona umana, quali
l’onore e la dignità (Cass. 22.7.1987, n. 6375, MGC, 1987; Cass. 8.9.1995,
n. 9492, GC, 1996, I, 101; Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 478; Pret.
Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
Sono stati considerati risarcibili, inoltre, i riflessi di natura non
patrimoniale - unitariamente definibili come peggioramento della qualità
della vita -, subiti dalla vittima a causa della perdita del posto di lavoro e
della retribuzione: in particolare, l’impossibilità, o la difficoltà, di
acquistare i generi alimentari, i capi d’abbigliamento, di sostenere le spese
per il riscaldamento dell’abitazione, e tutte le ulteriori spese necessarie per
condurre una vita dignitosa (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318).
Si tratta di pregiudizi che rientrano pienamente nella categoria del
danno esistenziale, così come ricostruita da dottrina e giurisprudenza
(Cass. 7.6.2000, n. 7713, FI, 2000, I, 187): è evidente, infatti, che in tutti
questi casi risultano comunque lese le attività realizzatrici della persona
(Corte cost. n. 184 / 1986).
Con riguardo al pregiudizio derivante dalla violazione della dignità e
degli altri diritti fondamentali del lavoratore, occorre peraltro precisare che
la lesione delle “attività realizzatrici” della persona può realizzarsi non
solo nella forma della compromissione di determinate modalità di
estrinsecazione della personalità umana – rilevanti sotto il profilo non
reddituale -, ma anche in quella della violazione dei diritti fondamentali
della persona, di cui le prime rappresentano la manifestazione nel mondo
naturale.
Ciò risulta chiaro se si analizzano i profili non patrimoniali, che sono
stati considerati risarcibili dalla giurisprudenza. Allorchè viene tutelata la
lesione di situazioni soggettive, come la dignità del lavoratore, si versa sul
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piano del corredo dei diritti fondamentali che spettano alla vittima in
quanto persona umana; nel caso in cui si risarciscono i riflessi negativi
attinenti l’estrinsecazione quotidiana dell’esistenza del lavoratore,
l’attenzione si rivolge più specificamente all’ambito del “fare” – o del
“non fare” -. In entrambi i casi si è evidentemente all’interno della
categoria del danno esistenziale: infatti, anche la lesione di un diritto
fondamentale della persona concretizza un pregiudizio non solo alla sfera
dell’”essere”, ma anche della dimensione “relazionale” tra questa ed il
mondo.
Tale relazione è evidentemente suscettibile di essere compromessa nel
caso in cui vengano colpite situazioni come la dignità e l’onore,
considerato che, a causa di ciò, la vittima non potrà più essere in grado di
porsi in rapporto con il proprio ambiente secondo le medesime modalità
antecedenti al fatto illecito.
9.12.1. Funzione sistematica ed evolutiva della figura del danno
esistenziale.
Bibliografia Tullini 1994.
Come l’intero sistema del risarcimento dei danni alla persona, anche
lo specifico settore del risarcimento dei pregiudizi derivanti dalla
violazione del rapporto di lavoro si è evoluto da un’originaria ottica di
carattere strettamente patrimonialistico ad un’impostazione attenta ai
profili pregiudizievoli di natura non patrimoniale - prima solo di natura
biologica, ora anche esistenziale -, nella prospettiva di un’integrale tutela
della persona umana.
E’ sufficiente in proposito ricordare che negli anni “60” la
giurisprudenza riconosceva il risarcimento del danno da licenziamento
ingiurioso solo allorché
il pregiudizio “non si limiti alla sfera psichica, ma finisca per incidere in quella
economica” e l’atto illecito “sia idoneo a condizionare negativamente la possibilità di
esercitare con profitto una professione, o di riottenere, ove perduta, un’occupazione
adeguata alla posizione sociale già raggiunta
(Cass. 22.2.1966, n. 557, FI, 1966, I, 176, richiamata da Tullini 1994, 567).
E’ proprio in questa prospettiva sistematica che emerge con evidenza
l’importante funzione unificatrice della categoria del danno esistenziale, la
quale consente di considerare unitariamente tutti i profili di pregiudizio
non patrimoniale - diversi dal danno morale subiettivo - subiti dal
lavoratore. Quindi, la figura del danno esistenziale consente di superare i
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problemi derivanti dalla mancanza di una categoria generale di
riferimento, alla quale ancorare la tutela dei diritti non patrimoniali del
lavoratore, che sono stati rilevati da una dottrina, la quale ha osservato che
questa lettura costituzionale della disposizione codicistica, anziché attivare un
circolo virtuoso che allarghi l’area degli interessi rilevanti con il rinvio ai principi
fondamentali, finisce per creare un duplice inconveniente.
La mera esistenza di una norma specifica, che riconosca un bene o un interesse della
persona meritevole di protezione, autorizza ad elaborare ogni volta un autonomo e
distinto diritto soggettivo; viceversa, la mancanza di tale norma specifica potrebbe indurre
ad escludere la risarcibilità del danno o l’ingiustizia della lesione di valori personali non
espressamente previsti. Cade, cioè la possibilità di includere altri profili o componenti
assiologiche della persona (che eventualmente emergano anche per effetto della dinamica
storico – sociale) nell’ambito di rilevanza giuridica del valore in sé della persona umana.
E’ del resto, l’inconveniente ben evidenziato dalla soluzione interpretativa accolta dal
Pretore, allorchè accredita l’esistenza di un diritto primario e assoluto del lavoratore
inerente alla natura precettiva dell’art. 41, secondo comma, Cost.: un diritto soggettivo
che assume un contenuto – si direbbe – descrittivo e riassuntivo di altre norme
costituzionali che contengono un riferimento esplicito al valore uomo (artt. 2 e 3), ma è al
contempo aggiuntivo e autonomo rispetto a quelli. Si svela, così la tentazione della
giurisprudenza e della dottrina, giuslavoristica degli ultimi anni di tradurre le strutture
deontiche fondamentali (il cui contenuto si esaurisce spesso nell’enunciazione
programmatica di un valore) in altrettanti diritti soggettivi, che si sommano al catalogo di
quelli già noti, contribuendo alla moltiplicazione dei c. d. diritti della personalità. In
particolare si segnala proprio l’uso allargato dell’art. 41, secondo comma, Cost. quale
fonte di una pluralità di autonomi diritti – al rispetto della persona, alla dignità umana e/o
sociale (intesa in senso assoluto e relativo: C. cost. n. 103/89), alla parità di trattamento –
con esiti non sempre apprezzabili e persuasivi. Lo sforzo di diversificazione (o di
frantumazione) dell’identità normativa della persona in profili specifici, in dipendenza dei
vari contesti empirici, non giova peraltro ad una chiara concettualizzazione ed al
rafforzamento delle istanze di tutela. Il diritto primario e assoluto alla dignità umana che
si delinea in questa prospettiva pare coincidere e risolversi, da un lato,
nell’autoaffermazione del valore in sé della persona, e dunque rinvia all’unitarietà della
sua forma cognitiva e di rilevanza; dall’altro, anche quando assume un contenuto
specifico attraverso lo schema strutturale del diritto soggettivo, non sembra in grado di
distinguersi da altre posizioni soggettive già riconosciute ed egualmente protette (onore,
immagine, professionalità, ecc.)
(Tullini 1994, 564).
E’, fondamentalmente, la mancanza di coerenza delle singole
soluzioni giurisprudenziali, che risultano di per sé non riconducibili ad
unità all’interno della logica del sistema, a determinare i vizi fondamentali
rilevati dall’autrice, cioè la moltiplicazione giurisprudenziale delle figure
dannose, la parziale sovrapposizione delle stesse ed il rischio di escludere,
invece, la risarcibilità di valori personali non espressamente previsti dalla
Costituzione.
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La figura del danno esistenziale rappresenta, quindi, un’importante
risposta a tali problemi, consentendo la medesima di superare la
frammentazione del sistema risarcitorio e di eliminare gli inconvenienti
segnalati. Essa, peraltro, si caratterizza sul piano delle conseguenze
pregiudizievoli
derivanti
dall’illecito,
prescindendo
invece
dall’individuazione dei singoli fatti illeciti, che possono originare sul
piano giuridico l’obbligo di risarcire il danno non patrimoniale subito dal
lavoratore. La risarcibilità del danno dipende, in quest’ottica, dalla
possibilità di inquadrare il pregiudizio in esame all’interno degli elementi
strutturali della figura generale del danno esistenziale; non invece
dall’individuazione da parte del giudice di nuove estemporanee figure di
danno.
In altre parole, i riflessi dannosi, concretizzantesi in una lesione delle
attività realizzatrici della persona, saranno risarcibili in considerazione
della loro intrinseca natura, corrispondente al contenuto della categoria
generale in esame.
9.13. La prova del danno esistenziale da licenziamento illegittimo. La
quantificazione del risarcimento.
Bibliografia Cendon e Ziviz 1995.
Solo l’inquadramento delle singole fattispecie all’interno delle
categorie generali consente di individuare regole comuni, necessarie per
affrontare in modo coerente le diverse questioni applicative. Come
dimostrato dall’esperienza giurisprudenziale, non è altrimenti possibile
pervenire a soluzioni tra loro non contraddittorie.
Seguendo questa impostazione, la fattispecie dannosa sarà
correttamente ricostruibile nella prospettiva consequenzialistica, con
l’abbandono dello schema del danno evento, già seguito da alcune
sentenze in materia (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, I, 70; Pret.
Parma 13.11.1995, LG, 1996, 476).
Il lavoratore dovrà, pertanto, dimostrare la sussistenza del danno e la
ricollegabilità causale dello stesso al licenziamento, facendo ricorso a tutti
i mezzi istruttori previsti dall’ordinamento. Anche sotto questo profilo
risulteranno utilissime le osservazioni generali formulate in ordine alla
prova del danno esistenziale, le quali hanno evidenziato le particolarità che
questa può presentare, ad esempio, in relazione all’importante ruolo della
prova per presunzioni e dei fatti notori, oppure per la possibilità di
ricorrere al contributo peritale di esperti delle diverse arti e scienze.
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Deve, peraltro, essere ribadito che la dimostrazione dell’esistenza del
danno assumerà profili diversi in relazione ai vari aspetti che esso può
assumere: quando si tratta di dimostrare la compromissione di diritti
fondamentali della personalità della vittima, come l’onore o la dignità, il
ruolo delle presunzioni e del “notorio” sarà della massima importanza, pur
dovendosi ricordare che
non si intende dire che viene risarcita la lesione in sé e non la perdita o diminuzione
del valore leso, secondo gli schemi operativi della conseguenzialità giuridica, che, fissati
dall’art. 1223 c. c., sono applicabili anche in tema di responsabilità aquiliana, giusto il
rinvio a detta norma operato dall’art. 2056 c. c. Si intende solo dire che, provata la
lesione della reputazione personale, ciò comporta la prova anche della riduzione o della
perdita del relativo valore. In altri termini, non si contesta la distinzione ontologica tra
lesione del valore e conseguenziale perdita o diminuzione della stessa, ma si assume solo
che provata la prima risulta provata anche la seconda
(Cass. 10.5.2001, n. 6507, RCP, 2001, 1177).
In altre parole, una volta che risulti dimostrato, peraltro in base ai
criteri generali della coscienza sociale, che una certa condotta è lesiva di
un determinato diritto personale del lavoratore, l’esistenza del conseguente
danno si deve presumere.
Allorquando sia richiesto, invece, il risarcimento di altri profili del
danno dotati di una maggiore tangibilità materiale – si pensi, ad esempio,
al peggioramento della qualità della vita del lavoratore e della sua famiglia
per la perdita della fonte di sostentamento (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI,
1993, 318) -, l’attore dovrà adempiere ad un onere probatorio più severo,
fornendo, con i normali mezzi istruttori – documenti, prova testimoniale,
ecc. –, la dimostrazione delle circostanze idonee a comprovare l’esistenza
del danno.
Con l’inquadramento del pregiudizio da licenziamento lesivo nella
categoria del danno esistenziale, tutte le questioni relative alla ripartizione
dell’onere della prova dovranno essere esaminate e decise secondo i
principi propri di questa figura e non più, invece, secondo regole
frammentarie ed incerte, elaborate caso per caso dalla giurisprudenza in
relazione alle singole fattispecie concrete portate al suo esame.
Analogo discorso vale per il profilo della quantificazione del danno.
Sino ad oggi la giurisprudenza ha affrontato il problema con una certa
superficialità, la quale ha prodotto soluzioni del tutto estemporanee e
spesso non coerenti con le premesse dalle quali esse muovono. Sotto
questo profilo, si deve osservare che sono stati adottati per la liquidazione
del danno di natura non patrimoniale criteri di natura tipicamente
economica, i quali non rispondono in alcun modo alla natura del
pregiudizio in esame. Tipico esempio di tale tendenza giurisprudenziale è
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rappresentato dalla già richiamata sentenza della Pretura di Ferrara,
secondo la quale,
per quanto concerne la quantificazione del danno alla dignità umana è necessario
utilizzare criteri equitativi che, nella specie, appare opportuno ancorare, in assenza di
diverse indicazioni, alla previsione della recente l. n. 108/90, atteso che il rapporto di
lavoro sarebbe stato oggetto per il numero di dipendenti (inferiore a 15) dello studio
professionale alla disciplina prevista da tale legge per i licenziamenti individuali (art. 2,
secondo comma, l. n. 108/90). Considerando la ventennale anzianità di servizio della
lavoratrice le modalità del fatto, appare equo stimare nella misura massima prevista da
tale norma cioè in 10 mensilità della retribuzione lorda globale, l’entità del danno da
risarcire. Poiché, come risulta dalla busta paga in atti, la retribuzione mensile ammonta a
circa L. 2.000.000 al lordo degli oneri fiscali e previdenziali, tale danno deve essere
quantificato in complessive L. 20.000.000
(Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74).
Tale soluzione non è evidentemente corretta. Infatti, seppur si deve
concordare sulla necessità di ricorrere al criterio equitativo, non è
accettabile che ai fini della sua concretizzazione e della determinazione
della somma effettivamente dovuta al lavoratore danneggiato, si faccia
riferimento ad un parametro di natura prettamente patrimoniale, quale
quello della retribuzione del dipendente illegittimamente licenziato. Si
deve, infatti, ritenere che questa applicazione analogica del criterio
previsto dalla l. 108/90 non ha alcun fondamento, in quanto la lesione
della personalità e della dignità del lavoratore rappresenta un pregiudizio
di natura sostanzialmente diversa.
Per arrivare alla formulazione di criteri rispondenti alla reale natura e
portata del pregiudizio effettivamente subito dal lavoratore licenziato, sarà
invece imprescindibile indagare quali siano stati i profili personali
realmente lesi dal comportamento illecito del datore di lavoro.
Stabilito ciò, occorrerà individuare un criterio idoneo a convertire tale
compromissione in una somma di danaro. Ha in proposito osservato
un’autorevole dottrina:
circa i profili del quantum respondeatur, il punto appare non già -come per nostro
Pretore- quello di inseguire, se non addirittura inventare, canoni di valutazione più o
meno estemporanei. Più semplicemente, si tratterà (per il giudice) di stilare un inventario
delle singole traettorie d’ordine relazionale che il torto mostri di aver vulnerato, onde
attribuire ad esse (motivatamente) un apprezzamento fondato sui parametri rispettosi delle
peculiarietà di ciascuna
(Cendon e Ziviz 1995, 79).
E’, peraltro, evidente che, una volta correttamente riportato il
pregiudizio in esame nell’alveo della categoria del danno esistenziale,
anche la risposta al problema della quantificazione del risarcimento dovrà
30
31
essere cercata nelle regole generali, caratterizzanti tale nuova figura della
responsabilità civile.
Ciò consentirà di trarre vantaggio dalle riflessioni di carattere generale
maturate in relazione all’aspetto della quantificazione del danno
esistenziale, evitando così di approdare a soluzioni superficiali, non
rispondenti alla reale natura del danno da liquidare.
9.14. Riferimenti giurisprudenziali espressi al danno esistenziale in
materia di rapporto di lavoro subordinato.
Si deve, peraltro, ricordare che la giurisprudenza ha già espressamente
richiamato la categoria del danno esistenziale in relazione al rapporto di
lavoro subordinato. La Corte di cassazione ha in tal senso deciso:
nessun dubbio che le violazioni del contratto potrebbero anche tradursi in lesione di
diritti personali, originando sia responsabilità contrattuale (si veda l'art. 2087 c.c.), sia
responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. In particolare, l'inadempimento dell'obbligazione
retributiva potrebbe ledere la dignità, come la mancata concessione delle ferie e di riposi
potrebbero pregiudicare la salute e la vita di relazione in senso più comprensivo.
Evidentemente, la pretesa al risarcimento di pregiudizi siffatti si colloca completamente
fuori dall'area della corrispettività (retribuzione in senso ampio) del contratto e, con
specifico riguardo al mancato godimento del riposo settimanale, non ha ad oggetto i
maggiori compensi collegati alla particolare penosità del lavoro.
14. Tale danno, come osservato, può consistere nella lesione dell'integrità fisio-psichica,
cioè nel danno alla salute o danno biologico in senso stretto, oppure in quello che più
genericamente si designa come "danno esistenziale", al fine di coprire tutte le
compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (es. impedimenti alla
serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere,
al sereno svolgimento della propria vita lavorativa).
(…) Ciò non vale ad escludere il cd. "danno esistenziale" dall'ambito dei diritti
inviolabili, poiché non è solo il bene della salute a ricevere una consacrazione
costituzionale sulla base dell'art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell'uomo
nell'ambito della famiglia o di altra comunità riceve considerazione costituzionale ai sensi
degli art. 2 e 29
(Cass. 3.7.2001, n. 9009, RCP, 2001, 1177).
Anche il Tribunale di Forlì, in un caso di mobbing, ha ritenuto
risarcibile il danno esistenziale subito dal dipendente di una banca,
osservando che
sul punto oramai è acquisito, seppure recentemente, il concetto di danno esistenziale,
o danno alla vita di relazione, che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito
nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione
risarcitoria.
Viene introdotto il concetto di personalità morale del lavoratore e al limite posto dall'art.
41 Cost. all'esercizio dell'iniziativa economica privata. È stato molto efficacemente detto
31
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recentemente che la nuova categoria del danno esistenziale può aiutare superare le
incertezze evocate dall'uso dell'aggettivo morale collocando più propriamente la
previsione in un'ottica di immediata tutela dei valori della personalità che sono
direttamente coinvolti dallo svolgimento dell'attività lavorativa (…).
Non a caso il mobbing è stato definito violenza morale e non a caso il danno esistenziale
appare particolarmente congeniale a tale situazione. È la qualità della vita del lavoratore.
mobbizzato a risentire principalmente, con tutte le conseguenze anche nell’ambito
familliare (si pensi al doppio mobbing del quale si è parlato m precedenza)
(Trib. Forlì 15.3.2001, RCDL, 2001, 411).
Si deve in proposito richiamare anche la recente sentenza del
Tribunale di Pinerolo in materia di mobbing e dequalificazione
professionale (Trib. Pinerolo 6.2.2003).
E’ interessante osservare che è proprio tramite la figura del danno
esistenziale che la giurisprudenza più recente ha garantito il ristoro di quei
pregiudizi, che erano già stati considerati meritevoli di risarcimento dalle
sentenze antecedenti, le quali però non erano state in grado di provvedere
al loro inquadramento sistematico. Del resto, anche la struttura giuridica di
tali più risalenti pronunce (si veda, ad esempio, la citata Pret. Ferrara
25.11.1993, NGCC, 1995, 74), presenta molte similitudini con quelle che,
recentemente, hanno utilizzato la nuova categoria del danno esistenziale: il
dato comune è rappresentato dall’estensione della tutela della persona oltre
all’ambito del diritto alla salute, mediante la considerazione del pari valore
costituzionale delle ulteriori situazioni giuridiche rilevanti – onore,
dignità, ecc.
9.15. Le resistenze all’evoluzione del sistema risarcitorio: la sentenza
del Tribunale di Ferrara data 10.11.1996.
E’ interessante osservare che, in grado di appello, il Tribunale di
Ferrara ha riformato la già citata sentenza pretorile (Pret. Ferrara
25.11.1993, NGCC, 1995, 74), respingendo la domanda di risarcimento
del danno non patrimoniale proposta dalla lavoratrice illegittimamente
licenziata (Trib. Ferrara 10.11.1996, OGL, 1995, 451), in quanto la perizia
medico legale psichiatrica esperita sulla ricorrente aveva escluso
l’esistenza di una patologia psicofisica. E’ stato sotto questo profilo infatti
osservato:
si tratta di vedere se la stessa, a causa delle modalità del licenziamento, possa aver
subito un danno ulteriore, danno che attiene alla sfera morale, tenuto conto del citato
indirizzo giurisprudenziale condiviso da questo tribunale. Per accertare l’esistenza di un
danno siffatto è stata ammessa ed espletata una consulenza medico – psichiatrica.
L’indagine affidata ai due consulenti (un medico legale ed uno psichiatra) si incentrava
32
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soprattutto sul fatto che le modalità del licenziamento potessero avere influito,
aggravandolo, sullo stato psichico della signora Marzola conseguente alla morte del
figlio.
I due consulenti, dopo aver esaminato la perizianda, hanno stabilito che Tiziana Marzola,
nonostante la sua sofferenza cagionata dal grave evento luttuoso occorsole e pur avendo
subito delusione e preoccupazione a causa del licenziamento, ha prontamente superato
quest’ultima, subendone un “peso morale” piuttosto modesto che non causò di per sé
alcuna patologia e non ha avuto ulteriori strascichi e conseguenze
(Trib. Ferrara 10.11.1995, OGL, 1996, 451).
Il ragionamento del Tribunale è molto semplice: poiché non esiste una
lesione dell’integrità psicofisica, non può sussistere alcun ulteriore danno
risarcibile. La questione di fondo è quindi, a ben vedere, quella della scelta
dei beni e dei diritti che si intendono tutelare. Al di là degli aspetti tecnico
giuridici, è evidente che l’elemento fondamentale di distinzione tra le
soluzioni adottate dalle due sentenze risiede nel fatto che il Pretore, al
contrario del Tribunale, ritiene risarcibile la lesione della dignità e della
personalità del lavoratore.
E’, peraltro, evidente che la soluzione prospettata dal Tribunale di
Ferrara riflette una concezione ormai sorpassata del sistema del
risarcimento dei danni alla persona – cioè, ancora imperniata sulle tre
categorie tradizionali del danno patrimoniale, del danno morale e del
danno biologico -, e non tiene in considerazione i riflessi pregiudizievoli
personali di diversa natura. Essa risulta, pertanto, assolutamente superata
dai nuovi confini raggiunti dall’ordinamento in relazione alla tutela della
persona e, quindi, del lavoratore.
9.16. L’orientamento interpretativo finalizzato a tutelare la dignità del
lavoratore mediante l’estensione dei danni risarcibili ai sensi dell’art.
2059 c. c. La sentenza della Pretura di Bologna in data 20.11.1990.
Legislazione Cost. 41 - c.c. 2043, 2059 – c.p. 185.
Bibliografia Parpaglionii 2001 – De Sanctis 1991.
Si è, pertanto, visto che dottrina e giurisprudenza hanno oramai
correttamente individuato nella categoria del danno esistenziale lo
strumento per estendere la tutela della persona oltre l’aspetto strettamente
biologico.
Per completezza si ritiene opportuno dar conto di un risalente
orientamento giurisprudenziale, che aveva perseguito lo stesso scopo
tramite una differente strada giuridica. Ci si riferisce ad un caso – molto
triste ed assai simile a quello oggetto della già esaminata sentenza della
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Pretura di Ferrara (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, I, 70) – deciso
dal Pretore di Bologna (Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445): un
dipendente è stato licenziato in conseguenza delle sue assenze dal lavoro,
dovute alla necessità di assistere il figlio, colpito da una malattia
incurabile, che lo avrebbe poi condotto alla morte.
Anche il giudice bolognese accorda a tale lavoratore il risarcimento
del danno per la lesione della sua dignità umana, ma la soluzione
prospettata diverge, sotto l’aspetto giuridico, da quella adottata dalla
Pretura di Ferrara: non si addiviene, infatti, alla contestuale applicazione
della clausola generale di responsabilità (art. 2043 c. c.) e di una o più
norme costituzionali.
La soluzione in esame, invece, persegue il medesimo risultato
estendendo l’area di applicabilità dell’art. 2059 c. c. Il Pretore afferma,
infatti, che l’art. 41, 2° co., della Costituzione - che vieta che l’iniziativa
economica possa svolgersi in contrasto con la dignità umana –
rappresenterebbe uno dei casi previsti dalla legge, nei quali l’art. 2059 c. c.
consente il risarcimento del danno non patrimoniale. E’ stato in tal senso
rilevato che
il secondo comma dell’art. 41 della Costituzione, preclude, tra l’altro, all’iniziativa
economica privata di svolgersi in modo da recare danno alla dignità umana. La
disposizione è necessariamente precettiva poiché esprime senza riserva, la ferma tutela di
un diritto primario. La norma è inoltre in posizione di fonte sovraordinata alla legge
ordinaria e, per quanto concerne il codice civile vigente, cronologicamente successiva.
Ne consegue, per quanto qui interessa, che l’unica lettura corretta dell’art. 2059 c. c.
secondo cui il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla
legge, è nel senso di ritenere che il danno di cui parla espressamente il 2° comma cit.
dell’art. 41 Cost. sia decisamente risarcibile perché la legge di base dell’ordinamento
effettua inequivocabile “determinazione” del relativo “caso” lesivo non patrimoniale.
In altre parole: la riserva di legge del codice civile risulta sciolta dalla stessa Costituzione
che apre la via ad una liquidazione di equità di un pregiudizio che potrebbe definirsi
immateriale in analogia semantica rispetto al diritto leso. Questo consente di appagare
istanze sociali che non trovano risposta per la vischiosità di strumenti pur disponibili e di
comporre il conflitto logico tra l’affermazione costituzionale di un diritto essenziale e la
contrapposta eccezione di totale impotenza operativa; ciò su un piano di coordinato
equilibrio fra il più volte citato art. 41 della Costituzione (nell’alveo del precedente art. 2
della Carta) e le disposizioni del titolo IX del libro IV del codice civile; segnatamente,
degli artt. 2043, 2056 (col richiamo, in particolare, dell’art. 1226) e 2059 cit.
(Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445).
Questa soluzione ha trovato sostegno, peraltro proprio in chiave anti esistenzialista, da una parte della dottrina, come è stato acutamente
rilevato:
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ma le critiche nei confronti del danno esistenziale si risolvono in realtà nel
riproporre la ben nota teoria della estensione interpretativa dell’art. 2059 c. c.
(Parpaglioni 2001, 2139).
A favore dell’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 2059 c.
c. – e contro la figura del danno esistenziale – è stato, infatti, osservato che
non vi sono altre manifestazioni della persona umana (rapporti sociali, attività
culturali, religiose e ludiche) che appaiano compromesse dal fatto illecito in esame.
L’unico problema consiste, pertanto, nella possibilità che – al di fuori di conseguenze
strettamente patrimoniali e dell’accertamento medico legale in ordine alla lesione
dell’integrità psico-fisica – il lavoratore resti privo di tutela risarcitoria per difetto di
un’ipotesi di reato, che consenta la liquidazione del danno morale ai sensi dell’art 2059 .
c. c. Ma se la questione si riduce esclusivamente a ciò, in luogo dell’elaborazione di
nuove categorie di danno, appare davvero preferibile l’estensione interpretativa ed
applicativa dell’art. 2059 c. c., nel senso di considerare in ogni caso come “prevista dalla
legge” la riparazione pecuniaria della lesione di diritti fondamentali – consacrati nella
Carta Costituzionale – come l’onore, la reputazione ed il lavoro
(Paladini, riportato da Parpaglioni, 2001, 2139).
Tale soluzione non può essere condivisa. Preliminarmente, è quasi
inutile sottolineare che non si può certo condividere la premessa da cui
muove tale dottrina, secondo cui non potrebbero essere lesi dall’illecito
diritti della persona diversi da quello alla salute: tale tesi è stata ormai
“seppellita” dalla giurisprudenza, nonché dalla dottrina più evoluta.
A prescindere da ciò, si deve evidenziare, dal punto di vista
squisitamente tecnico giuridico, che l’art. 41, 2° co., Cost. – la cui natura
direttamente precettiva non si intende di certo contestare -, si limita a
stabilire che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con la
dignità umana dei lavoratori, ma non prevede in alcun modo che, in caso
di violazione di tale precetto, sorga in capo alla vittima il diritto ad
ottenere il risarcimento dell’eventuale danno non patrimoniale subito.
Quindi, non si può ritenere di essere in presenza di una di quelle
fattispecie richiamate dall’art. 2059 c. c., nelle quali la legge prevede la
risarcibilità del danno non patrimoniale. Per comprendere ciò è sufficiente
confrontare l’art. 41, 2° co., Cost. con l’art. 185 c. p. - che rappresenta la
principale ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale, tra quelle
indicate dall’art. 2059 c. c. -, il quale prevede espressamente che
ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga
al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono
rispondere per il fatto di lui
(art. 185, 2° co., c. p.).
Si coglie, quindi, facilmente la differenza di struttura rispetto all’art.
41, 2° co., Cost. Quest’ultima norma si limita, infatti, a stabilire il
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principio, secondo cui la libertà di iniziativa economica non deve
calpestare la dignità dell’individuo, senza però prevedere espressamente al contrario dell’art. 185 c. p. -, che, in caso di sua violazione, la vittima
abbia diritto al ristoro del danno non patrimoniale.
Si deve poi osservare che la soluzione fondata sull’estensione
dell’ambito di applicazione dell’art. 2059 c. c. manca di coerenza
sistematica. Il danno derivante dalla lesione della dignità del lavoratore
viene in tal modo considerato risarcibile tramite la mediazione di una
categoria giuridica, quella del danno non patrimoniale, che,
nell’interpretazione restrittiva di danno morale subiettivo, proposta dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 184 / 1986, risulta assolutamente
inidonea a rappresentare la reale natura del pregiudizio subito dal
lavoratore. Non si tratta, infatti, di risarcire l’afflizione psichica subita dal
danneggiato, ma bensì la lesione di un valore proprio della sua persona,
che si traduce in una diminutio della stessa, rilevante sotto il profilo
esistenziale.
La sentenza bolognese deve però essere valutata con riferimento alla
sua collocazione temporale. E’ interessante, sotto questo profilo, osservare
come, in sede di commento di tale decisione, la dottrina abbia a quel
tempo osservato che
certo si può fin d’ora affermare che la normativa codicistica, originariamente dettata,
almeno prevalentemente, per la tutela di beni patrimoniali (così la stessa Corte
costituzionale), dovrà essere necessariamente rivisitata alla luce del dettato costituzionale
che attribuisce, invece, decisa preminenza ai valori personali
(De Sanctis 1991, 449).
Essa merita, pertanto, apprezzamento in quanto riconosce, comunque,
la risarcibilità della lesione della dignità della persona, intesa come
autocoscienza del singolo dei propri valori fondamentali come persona, quei valori,
cioè che ne guidano le azioni e che si tendono a trasmettere agli altri con contegni
adeguati
(Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445).
Ciò premesso, il Pretore ritiene, infatti, che, nel caso in esame,
il licenziamento va qualificato per forma, contenuto, tempi e modalità, come
irrimediabilmente e gravemente offensivo della “dignità” dell’interessato
(Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445).
Tale sentenza rappresenta, pertanto, un chiaro esempio delle difficoltà,
già rilevate sul piano generale, che la giurisprudenza ha incontrato,
allorquando, in conseguenza del successo della figura del danno biologico,
ha sentito la necessità di assicurare il risarcimento di pregiudizi diversi ed
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ulteriori rispetto a quello all'integrità psicofisica. Non avendo la possibilità
di fare riferimento ad una categoria giuridica appropriata, le Corti hanno
necessariamente tentato di forzare le categorie già riconosciute.
9.16.1. Il collegamento tra il recente orientamento della Corte di
cassazione in materia di risarcimento del danno non patrimoniale e la
sentenza della Pretura di Bologna in data 20.11.1990.
Per completezza occorre, però, ricordare che la Corte di legittimità ha
recentemente proposto una ricostruzione del sistema del risarcimento del
danno non patrimoniale, che si avvicina molto a quella già enunciata dalla
richiamata sentenza della Pretura di Bologna (Pret. Bologna 20.11.1990,
DPL, 1991, 445).
Il presupposto di questo nuovo orientamento è il superamento del
consolidato insegnamento, secondo cui il concetto di danno non
ptatrimoniale di cui all’art. 2059 c. c. riguarderebbe solo il c. d. danno
morale subiettivo, cioè la transeunte sofferenza psicofisica (Cass.
31.5.2003, n. 8827 e n. 8828, D&G, 2003, n. 24, 26).
Ciò premesso, la Corte di cassazione ha affermato che il limite
risarcitorio, rappresentato dalla riserva di legge prevista dall’art. 2059 c. c.,
non troverebbe applicazione nel caso in cui risultino lesi valori
costituzionalmente garantiti della vittima. In quest’ottica è stato anche
affermato che le singole norme della Carta fondamentale
rappresenterebbero fattispecie legislative che integrerebbero la riserva di
legge in esame. La Suprema corte ha in tal senso deciso:
venendo ora alla questione cruciale del limite al quale l’art. 2059 del codice del
1942 assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di legge,
originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p. (ma v. anche l’art. 89 c.p.c.), ritiene il
Collegio che, venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve
escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al
limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. Una lettura della norma
costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha
riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti. Occorre considerare, infatti,
che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto la
riparazione mediante indennizzo (ove no sia praticabile quella in forma specifica)
costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a
specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi (v. Corte Cost.,
sent. n. 184/86, che si avvale tuttavia dell’argomento per ampliare l’ambito della tutela ex
art. 2043 al danno non patrimoniale da lesione della integrità biopsichica; ma l’argomento
si presta ad essere utilizzato anche per dare una interpretazione conforme a Costituzione
dell’art. 2059).
D’altra parte, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non
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patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche
alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione
dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma
necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla
legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale
(Cass. 31.5.2003, n. 8828, D&G, 2003, n. 24, 26).
9.17. Ulteriori danni risarcibili in caso di licenziamento lesivo del
lavoratore. Il danno biologico, morale e patrimoniale.
Legislazione Cost. 32 - c.c. 2043 - c. p. 590, 594, 595 – l. 20.5.1970, n. 300.
Bibliografia Cester 2000.
Si è visto, quindi, che, con riguardo alla fattispecie del licenziamento
lesivo, la tutela risarcitoria del lavoratore è stata correttamente estesa oltre
all’ipotesi del vero e proprio pregiudizio alla salute. E’ stata così assicurata
la risarcibilità del danno derivante dalla lesione di ulteriori valori della
personalità del lavoratore, quali la dignità e l’onore.
Si è anche criticato quell’orientamento interpretativo giuriprudenziale
– peraltro, non limitato all’area del rapporto di lavoro subordinato – che ha
utilizzato la categoria del danno biologico per assicurare invece la
risarcibilità di pregiudizi di diversa natura, cioè non concretizzantesi in
una vera e propria lesione dell’integrità psicofisica.
Ciò, evidentemente, non significa però che il danno biologico
derivante da licenziamento lesivo non debba essere risarcito qualora
effettivamente sussistente. Quindi, nessuna novità rispetto a quanto
acquisito dalla migliore giurisprudenza negli altri settori della
responsabilità civile: il danno alla salute è risarcibile solo allorquando si
verifichi una lesione dell’integrità psicofisica, che, in conformità dei
principi generali, dovrà essere accertata mediante perizia medico legale.
Correttamente, un orientamento giurisprudenziale ha perciò ritenuto
che la risarcibilità di tale pregiudizio è subordinata alla prova dell'effettiva
esistenza di una lesione psicofisica e della derivazione causale della stessa
dal comportamento datoriale illegittimo. E’ stato in tal senso deciso che
l'attribuzione di una somma a titolo di danno biologico è subordinata alla prova
dell'esistenza di un aggravamento psico-fisico dello stato di salute e del nesso di causalità
fra il comportamento datoriale illegittimo e tale aggravamento
(Pret. Milano 15.4.1997, RCDL, 1998, 174).
Con riguardo ad una fattispecie in cui il datore di lavoro, in seguito
alla reintegrazione disposta dall’autorità giudiziaria, aveva affidato al
lavoratore illegittimamente licenziato ed estromesso dall'attività lavorativa
38
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mansioni non corrispondenti alla sua qualifica, causandogli in tal modo
una grave sindrome da esaurimento nervoso, la Corte di cassazione ha
ritenuto che
il bene della salute costituisce, come tale, oggetto di autonomo diritto primario
assoluto (art. 32 cost.), sicché il risarcimento dovuto per la sua lesione non può essere
limitato alle conseguenze che incidono solo sull'idoneità a produrre reddito, ma deve
autonomamente comprendere il cosiddetto danno biologico, inteso come la menomazione
dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul
valore uomo in tutta la sua dimensione, che non si esaurisce nell'attitudine a produrre
ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo
ambiente di vita ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale,
culturale ed estetica
(Cass. 24.1.1990, n. 411, OGL, 1991, 233).
Più complesso è il problema del nesso causale: ci si deve infatti
chiedere quando tale pregiudizio possa essere ricollegabile al
licenziamento illegittimo. Sotto questo profilo, è stato ritenuto in
giurisprudenza che
per collegare con attendibile nesso di causalità umana (art. 2043 c.c.) il danno
biologico al licenziamento occorre la prospettazione di fatti specificamente significativi
(particolarità specifiche del recesso in termini di modalità e non la mera illegittimità dello
stesso). A tal fine non è sufficiente esibire certificati medici che attestano stati di generica
depressione, essendo il danno biologico - come danno al bene salute - un danno
relativamente stabile, collegabile con relativa certezza ad un fatto illecito e non una
qualsivoglia reazione emotiva (ancorchè rilevabile nella sfera psicosomatica) ad un
evento negativo della vita
(Trib. Milano 23.5.1995, OGL, 1998, I, 709).
L’individuazione e la tutela del danno morale non presentano
significative peculiarietà in relazione al rapporto di lavoro (Cester 2000,
497). Quindi, tale pregiudizio sarà risarcibile quando il licenziamento
lesivo integri una fattispecie penalmente rilevante, ad esempio, quella
delle lesioni personali (art. 590 c. p.), dell’ingiuria (art. 594 c. p.) o della
diffamazione (art. 595 c. p.). La Pretura di Bologna ha così ritenuto che
nella lettera di recesso inviata al Bolognesi, va ravvisato un comportamento
criminoso dell’azienda sotto il profilo di una “ingiuria” in senso proprio il cui
accertamento incidenter tantum in questa sede giustifica il ristoro della danno morale alla
parte lesa
(Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445).
Un’altra sentenza di merito ha ritenuto risarcibile il danno morale
subito dalla dipendente - che si era dimessa per giusta causa - in
conseguenza della lesione psichica alla medesima causata dall’insistente
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corteggiamento e dalle molestie sessuali del datore di lavoro (Pret. Trento
22.2.1993, RIDL, 1994, II, 172; GC, 1994, I, 555).
Occorre, peraltro, ricordare che, secondo il nuovo orientamento
interpretativo recentemente proposto dalla Corte di cassazione (Cass.
31.5.2003, n. 8827 e n. 8828, D&G, 2003, n. 24, 26), ai fini della
risarcibilità dei danni non patrimoniali di qualsivoglia natura, non è più
necessaria la rilevanza penale dell’illecito, non trovando applicazione la
riserva di legge preivsta dall’art. 2059 c. c. nel caso in cui risultino lesi
diritti costituzionalmente garantiti della vittima.
Un ultimo accenno al danno patrimoniale. Anche con riferimento a
tale voce, deve essere riconosciuta la risarcibilità del danno ulteriore,
rispetto a quello previsto dalla legislazione speciale. Ciò è stato
espressamente riconosciuto dalla Suprema corte, la quale, anche con una
recente pronuncia, ha affermato che
ai sensi dell'art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300, il risarcimento del danno per il periodo
intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo
si identifica - quanto al danno eccedente le cinque mensilità dovute per legge - nelle
retribuzioni non percepite, salvo che il dipendente provi di aver subito un danno maggiore
(Cass. 16.3.2002, n. 3904, MGC, 2002, 471).
Tale sentenza è, peraltro, conforme al precedente orientamento della
stessa Suprema corte, la quale aveva già ritenuto che
per il periodo anteriore alla sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro l'art. 18 l.
n. 300 del 1970 riconosce il diritto al risarcimento del danno, che va commisurato alle
retribuzioni perse, salva la allegazione e dimostrazione da parte del lavoratore di un
danno ulteriore
(Cass. 4.3.1998, n. 2379, MGC, 1998, 501).
Con un’altra sentenza, la Corte di cassazione ha deciso che, oltre alla
reintegrazione nel posto di lavoro, in caso di licenziamento lesivo, deve
essere garantito il risarcimento del danno alla professionalità – che può
avere contenuto tanto patrimoniale che non patrimoniale – (Cass.
5.11.1997, n. 10855, RGL, 1998, II, 257).
Si deve, peraltro, precisare che la risarcibilità dell’ulteriore danno
patrimoniale subito dal lavoratore deve essere riconosciuta a prescindere
dal regime di tutela – reale od obbligatorio - applicabile nel caso concreto:
è evidente, infatti, che nessuna forza discriminante può in proposito essere
riconosciuta al numero dei dipendenti impiegati dal datore di lavoro. Ciò
che importa è che il danno ulteriore esista e che esso sia dimostrato dal
lavoratore.
Un tipico esempio di pregiudizio patrimoniale significativo sotto
questo profilo potrebbe essere rappresentato dal danno derivante dalla
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difficoltà del lavoratore a reperire una nuova occupazione in conseguenza
della conoscenza del motivo del licenziamento nell'ambiente di lavoro
(Cass. 8.9.1995, n. 9492, GC, 1996, I, 1996, 101; RCDL, 1996, 548).
9.18. Conclusioni.
Il rapporto di lavoro subordinato costituisce, a causa dell’implicazione
del lavoratore nella prestazione contrattuale, un’area al cui interno possono
verificarsi gravi lesioni dei diritti della persona.
Date determinate condizioni, un licenziamento illegittimo può, quindi,
dare luogo a conseguenze – in particolare di natura risarcitoria – ulteriori
rispetto a quelle discendenti dalla disciplina legale di tale istituto: ciò
avviene nell’ipotesi in cui, oltre ad essere illegittimo, il licenziamento
risulti - per qualunque ragione e non solo per la forma utilizzata dal datore
di lavoro -, anche lesivo della personalità del lavoratore. Per effettuare tale
giudizio è necessario spostare la propria attenzione sul piano degli effetti
della condotta lesiva: si tratterà di verificare se il licenziamento abbia leso
diritti della personalità del lavoratore.
Particolarmente interessante risulta il modello giurisprudenziale che si
fonda sull’applicazione congiunta dell’art. 2043 c. c. e delle norme
costituzionali poste a tutela del lavoratore. Si è, però, evidenziato che la
tutela risarcitoria del lavoratore per licenziamento lesivo della sua
personalità deve necessariamente essere ricondotto agli schemi della
responsabilità aquiliana e di quella contrattuale: pertanto, essa non potrà
essere subordinata a condizioni diverse od ulteriori rispetto a quelle
proprie dei modelli generali di responsabilità.
Si è poi indagata la natura dei danni risarcibili in conseguenza del
licenziamento lesivo della personalità del lavoratore. Sotto questo profilo,
la giurisprudenza ha saputo faticosamente abbandonare l’originaria
tendenza ad utilizzare la categoria del danno biologico per assicurare il
risarcimento di conseguenze pregiudizievoli non concretizzantesi in una
lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore. Si è, quindi, riconosciuta la
risarcibilità di diversi diritti, quali, appunto, la dignità del lavoratore. Si è
visto che il pregiudizio subito da quest’ultimo può facilmente consistere in
una compromissione delle sue attività realizzatrici. Si tratta, allora, di un
vero e proprio danno esistenziale, categoria che, anche in questo settore,
può svolgere una funzione unificatrice e razionalizzatrice dell’universo
risarcitorio. Tale figura consente di considerare unitariamente tutti i profili
di pregiudizio non patrimoniale - diversi dal danno morale subiettivo subiti dal lavoratore e, pertanto, di superare i problemi derivanti dalla
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mancanza di una categoria generale di riferimento, alla quale ancorare la
tutela dei diritti non patrimoniali del lavoratore.
Solo l’inquadramento delle singole fattispecie all’interno delle
categorie generali consente di individuare regole comuni, necessarie per
affrontare in modo coerente le diverse questioni applicative. Quindi, la
classificazione nella categoria del danno esistenziale dei pregiudizi - da
licenziamento lesivo - concretizzantisi in una compromissione delle
attività realizzatrici della vittima permette di affrontare e decidere tutte le
singole questioni concrete – in primis quelle relative alla ripartizione
dell’onere della prova ed alla quantificazione del danno - secondo i
principi propri di questa figura e non più, invece, in base a regole
frammentarie ed incerte, elaborate caso per caso dalla giurisprudenza.
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