CAPITOLO NONO IL DANNO PER LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO, LESIVO DELLA PERSONALITÀ DEL LAVORATORE. 9.1. Il rapporto di lavoro come “area a rischio” con riguardo alla lesione dei diritti della persona del lavoratore. L’implicazione della persona del lavoratore nella prestazione contrattuale. - 9.2. La disciplina legale delle conseguenze del licenziamento illegittimo. 9.3. La risarcibilita degli ulteriori danni subiti dal lavoratore. - 9.4. La risarcibilità dei danni ulteriori nella giurisprudenza. Il licenziamento ingiurioso ed il licenziamento lesivo della personalità del lavoratore. - 9.5. L’interpretazione giurisprudenziale che ritiene indispensabile la diffusione della notizia del recesso da parte del datore di lavoro ai fini della configurazione della fattispecie del licenziamento ingiurioso. - 9.6. Il licenziamento disciplinare “ingiurioso”. - 9.6.1. Il rapporto tra l’obbligo legale di contestazione dell’addebito disciplinare e di motivazione del recesso del datore di lavoro e la fattispecie del licenziamento ingiurioso. - 9.7. Il licenziamento lesivo della dignità del lavoratore. 9.8. La congiunta applicazione dell’art. 2043 c. c. e delle norme costituzionali poste a tutela della persona e del lavoratore. - 9.9. L’orientamento giurisprudenziale che riconduce la risarcibilità dei danni ulteriori al modello della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. - 9.10. La natura dei danni risarcibili in caso di licenziamento lesivo della personalità del lavoratore. - 9.11. Il danno derivante dalla lesione della dignità del lavoratore. - 9.11.1. Il pregiudizio alla dignità del lavoratore come danno esistenziale. 9.12. I diversi profili del danno esistenziale da licenziamento lesivo della personalità del lavoratore. - 9.12.1. Funzione sistematica ed evolutiva della figura del danno esistenziale. - 9.13. La prova del danno esistenziale da licenziamento illegittimo. La quantificazione del risarcimento. - 9.14. Riferimenti giurisprudenziali espressi al danno esistenziale in materia di rapporto di lavoro subordinato. - 9.15. Le resistenze all’evoluzione del sistema risarcitorio: la sentenza del Tribunale di Ferrara data 10.11.1996. - 9.16. L’orientamento interpretativo finalizzato a tutelare la dignità del lavoratore mediante l’estensione dei danni risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c. c. La sentenza della Pretura di Bologna in data 20.11.1990. - 9.16.1. Il collegamento tra il recente orientamento della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno non patrimoniale e la sentenza della Pretura di Bologna in data 20.11.1990. - 9.17. Ulteriori danni risarcibili in caso di licenziamento lesivo del lavoratore. Il danno biologico, morale e patrimoniale. - 9.18. Conclusioni. 2 9.1. Il rapporto di lavoro come “area a rischio” con riguardo alla lesione dei diritti della persona del lavoratore. L’implicazione della persona del lavoratore nella prestazione contrattuale. Bibliografia Cester 2000. Quella del rapporto di lavoro subordinato costituisce, a causa dell’implicazione del lavoratore nella prestazione contrattuale (Cester 2000, 493), un’area al cui interno possono verificarsi gravi lesioni dei diritti della persona. E’ stato in tal senso acutamente osservato che non si scopre certo una cosa nuova se si afferma che il rapporto di lavoro costituisce uno dei terreni privilegiati nei quali si possono vagliare e misurare le nuove opportunità di tutela della persona che siano in grado di superare, o quanto meno di adattare gli strumenti protetttvi offerti dalle tecniche tradizionali. Ed invero, il rapporto di lavoro è caratterizzato, per sua natura e a differenza della generalità degli altri rapporti interprivati, dalla implicazione della persona del lavoratore debitore nel rapporto, nel senso che il rapporto e la sua esecuzione, prima e ancor più che all'avere, attengono all'essere del lavoratore medesimo, perchè l'attività lavorativa, come attività di adempimento, non sembra scindibile dalla persona e la persona ne risulta direttamente coinvolta. La peculiarità che sotto questo profilo caratterizza il rapporto di lavoro deriva, infatti, dalla circostanza che il lavoratore, con la sua persona, viene inserito in un organismo da altri predisposto e viene assoggettato ad un potere - che non è solo di fatto, ma anche giuridico - di direzione e di organizzazione necessariamente incidente sulla persona. Questo assoggettamento, ancorchè circoscritto, secondo la lettura tradizionale, ad un profilo meramente tecnico funzionale, vale tuttavia a caratterizzare in modo specifico il rapporto di lavoro, perchè, se anche altri rapporti ben possono avere ad oggetto un'attività «lavorativa » personale, questa si realizza sulla base di un'autonoma organizzazione del debitore della prestazione, mentre solo nel primo l'elemento personale «è inserito in una situazione capovolta per effetto dell'assenza radicale di autonomia nella sfera personale dell'obbligato » (…). Dunque, il rapporto di lavoro, in ragione del contatto sociale che necessariamente instaura, è rapporto ad alto rischio di pregiudizio per i valori e i beni collegati alla persona e in questa riflessi. Un pregiudizio, si può aggiungere, che sarebbe riduttivo limitare ai casi più, eclatanti - spesso ancora oggetto di cronache giornalistiche - nei quali il lavoro è prestato in situazioni largamente al di sotto delle condizioni minime accettabili quanto a sicurezza, ad estensione temporale o a remunerazione, e che molto più' spesso si radica nella, e deriva dalla, vita “quotidiana” del rapporto, dalle relazioni interpersonali non solo con il datore di lavoro o con i superiori, ma anche con gli stessi compagni di lavoro. Difficoltà ambientali, contrasti di vario tipo, sofferenze e mortificazioni piccole e grandi, vessazioni, situazioni di disagio e talora di vera e propria intollerabilità: il microcosmo delle relazioni di lavoro sembra addirittura paradigmatico per la redazione di un catalogo dei pregiudizi alla persona (Cester 2000, 493). 2 3 Ciò premesso, si tratta di esaminare quali pregiudizi di natura personale possono derivare da un licenziamento intimato in contrasto con la disciplina legale di tale istituto, ed in particolare di verificare se e come l’ordinamento giuridico tuteli il lavoratore in relazione ai conseguenti profili dannosi di natura non patrimoniale. 9.2. La disciplina legale delle conseguenze del licenziamento illegittimo. Legislazione l. 20.5.1970, n. 300 - l. 15.7.1966, n. 604 - l. 11.5.1990, n. 108. Sono ben note le conseguenze che l’ordinamento prevede direttamente per la fattispecie del licenziamento illegittimo. Nel caso di imprese che occupino più di quindici dipendenti nella stessa unità produttiva - od anche in più unità produttive diverse, se queste si trovano nello stesso comune -, il dipendente illegittimamente licenziato – cioè in mancanza di giusta causa o giustificato motivo - ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro - c. d. tutela reale – (art. 18, 1° co., l. 20.5.1970, n. 300), e di ottenere un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione; in ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto (art. 18, 4° co., l. 20.5.1970, n. 300). Il lavoratore, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, può optare, in luogo della riassunzione, per la corresponsione di un’indennità pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto (art. 18, 5° co., l. 20.5.1970, n. 300). Nel caso in cui non raggiunga i limiti occupazionali rilevanti ai fini dell’applicazione della tutela reale, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell’art. 8, l. 15.7.1966, n. 604, a riassumere il lavoratore illegittimamente licenziato, oppure a corrispondergli un’indennità variabile da un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto - c. d. “tutela obbligatoria” -. Si deve però ricordare che un licenziamento discriminatorio - cioè determinato, come previsto dall’art. 4, l. 604 / 1966, da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione ad attività sindacali - è comunque nullo, e comporta le conseguenze di cui all’art. 18, l. 300 / 1970, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (art. 3, l. 11.5.1990, n. 108). 3 4 9.3. La risarcibilita degli ulteriori danni subiti dal lavoratore. Bibliografia Parpaglioni 2001 – Cester 2000. E’ necessario verificare se un licenziamento illegittimo possa dar luogo ad ulteriori conseguenze, ed in particolare se il datore di lavoro possa essere condannato al risarcimento dei danni non patrimoniali eventualmente subiti dal lavoratore. La possibilità di addivenire al risarcimento di danni ulteriori, rispetto a quelli di natura patrimoniale (Cass. 10.3.1998 n. 2630, MGC, 1998, 551) previsti dalla legislazione speciale, ha formato oggetto di estese discussioni in dottrina. Secondo un’opinione, infatti, la ricordata disciplina legislativa esaurirebbe tutti i danni subiti dal lavoratore in conseguenza del licenziamento illegittimo. Come ricordato da un’autrice, la tesi negativa si è fondata in particolare sulla considerazione che il legislatore avrebbe introdotto, specie con riferimento al regime di stabilità obbligatoria, una forfettizazione del danno risarcibile, o comunque delle conseguenze del licenziamento illegittimo (Parpaglioni 2001, 2141). E’ stato così osservato che in effetti, il danno da perdita del posto (leggibile nel sistema della stabilità obbligatoria e nell’indennità di cui alla legge n. 604 / 66) appare realmente forfettizzato, nel senso che quell’indennità rappresenta il prezzo che il datore di lavoro deve pagare per l’estinzione del rapporto e la rottura di ogni vincolo con il lavoratore. La situazione successiva, il dopo, restano assorbiti e non hanno autonomia rispetto al venir meno del rapporto: il datore di lavoro, pagando un certo prezzo (tutt’altro che elevato) acquisisce il diritto di privare il lavoratore anche delle utilità “vitali” connesse al rapporto (Cester 2000, 502). E’ stato, però, evidenziato in dottrina e giurisprudenza che il risarcimento del danno ulteriore deve essere riconosciuto allorché il licenziamento, oltre ad essere illegittimo, risulti essere caratterizzato da un elemento aggiuntivo, cioè quello di essere lesivo della personalità del lavoratore. E’ stato sottolineato dallo stesso autore citato: come noto, la soluzione è ormai pacifica in senso positivo, dovendosi perciò ammettere l’autonoma risarciblità dei danni ulteriori, come quelli derivanti dallo sfratto subito dal lavoratore che a seguito del licenziamento non abbia più alcuna risorsa economica o quelli del costo di un mutuo che egli abbia dovuto accendere per fronteggiare necessità vitali non differibili (…). Pacifica, per altro verso, è anche la possibilità di risarcimento di danni non patrimoniali alla persona, che siano conseguenti al licenziamento in sé, per le modalità con le quali questo è stato intimato e che siano tali da provocare conseguenze negative alla dignità, all’onore, all’immagine e alla rispettabilità del soggetto (Cester 2000, 500). 4 5 Quindi, ai fini della risarcibilità dell’ulteriore danno subito dal lavoratore, si deve distinguere tra licenziamento illegittimo, cioè semplicemente carente dei requisiti previsti dalla legge, e licenziamento lesivo della personalità del lavoratore, come tale caratterizzato da ulteriori profili di antigiuridicità. E’ stato in proposito giustamente osservato che il carattere di ingiuriosità del licenziamento non si identifica, né va confuso con la mancanza di giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma secondo i principi generali dettati dall’art. 2697 c. c. va rigorosamente provato da chi l’alleghi come causa del lamentato pregiudizio. Al fine della sua dimostrazione si è anche ammesso il ricorso a presunzioni semplici (Cass. n. 1219 del 1994) e si è precisato che può ritenersi illecito secondo i principi generali, e quindi tale da legittimare il risarcimento di ulteriori danni, l’aver addotto a motivo del licenziamento un fatto offensivo del dipendente poi rilevatosi insussistente (Cass. 3 giugno 1991 n. 6265). La giurisprudenza, partendo dal riconoscimento del risarcimento del licenziamento ingiurioso, oggi ammette la risarcibilità del danno ulteriore in generale, qualora il provvedimento espulsivo si è concretizzato in un comportamento lesivo della personalità del lavoratore. Accertata, quindi, l’illegittimità del licenziamento, il danno non patrimoniale è risarcibile nei casi in cui il provvedimento espulsivo, per la forma e le modalità della sua adozione e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano, rappresenti un atto ingiurioso (cfr. Cass. 1.7.1997, n. 5850), con la conseguenza che tale voce risarcitoria non può ritenersi ex se compresa nel danno risarcibile a norma dell’art. 18 St. Lav. (…). Per quanto riguarda poi la natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità per il danno causato dall’illegittimo licenziamento, dottrina e giurisprudenza hanno concluso col riconoscergli natura extracontrattuale (Parpaglioni 2001, 2145). 9.4. La risarcibilità dei danni ulteriori nella giurisprudenza. Il licenziamento ingiurioso ed il licenziamento lesivo della personalità del lavoratore. Come già accennato, ai fini della risarcibilità di danni ulteriori a favore del lavoratore illegittimamente licenziato, rispetto a quelli forfettariamente previsti dalla legislazione speciale, non è sufficiente la mancanza di giustificazione del recesso del datore di lavoro. La giurisprudenza ha infatti a tale fine richiesto un quid pluris, al quale ha fatto spesso riferimento utilizzando il concetto di “licenziamento ingiurioso”. E’ stato ritenuto che, per la sussistenza del carattere ingiurioso del licenziamento, non è sufficiente il difetto di giustificazione dello stesso, essendo invece necessaria la dimostrazione da parte del lavoratore ai sensi dell’art. 2697 c. c. che, per la forma della sua intimazione o per altre ragioni, il licenziamento gli ha causato effetti lesivi sul piano sociale 5 6 o morale (Pret. Milano 31.5.1999, OGL, 1999, I, 465). Ha in tal senso affermato la Corte di cassazione che il carattere "ingiurioso" del licenziamento, infatti, non si identifica nè con il difetto di giustificazione, nè con la mera comunicazione o la previa contestazione dei motivi (di cui il datore di lavoro, peraltro, è onerato), ma - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze 6265-91, 6375-87, 3208-84, 28-80, 5713-79, 379276, 3104-72, 1451-71, 1091-66, 2749-62) - postula la dimostrazione (anche mediante presunzioni semplici (v. Cass. 5317-79, cit.), da parte del prestatore (in base alle regole generali, di cui all'art. 2697 c.c., sulla ripartizione dell'onere della prova), che il licenziamento - per le forme usate od altre peculiarità - abbia cagionato al prestatore un danno ingiusto (lesivo, cioè, dell'onere, del decoro o di altro bene giuridico) - che ecceda, tuttavia, le "normali" conseguenze pregiudizievoli di qualsiasi licenziamento (anche ingiustificato) - ed abbia, perciò, cagionato un danno risarcibile (Cass. 7.2.1994, n. 1219, OGL, 1994, 863). Già in precedenza la Suprema Corte, con riferimento al licenziamento di un dirigente, aveva affermato il principio, secondo cui il licenziamento di un dirigente (non soggetto, oltre tutto, alla normativa di cui alle leggi n. 604 del 1966 e n.300 del 1970) non costituisce, di per sè, un fatto doloso e colposo produttivo di danno ingiusto per il lavoratore. Affinché il recesso del datore di lavoro possa dar luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto comune (art.2043 e segg. cod. civ.), deve concretarsi - per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano - in un atto "ingiurioso", cioè lesivo della dignità e dell'onore del lavoratore licenziato (v. in tal senso, da ultimo, Cass. 24-5-84 n. 3208). Il carattere ingiurioso del licenziamento non si identifica nè va confuso con la mancanza di giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma va rigorosamente provato da chi l'alleghi come causa del lamentato pregiudizio (di cui va parimenti dimostrato sia l'an che il quantum), secondo i principi generali dettati dall'art. 2697 cod. civ (Cass. 22.7.1987, n. 6375, MGC, 1987). Quindi, l’espressione “licenziamento ingiurioso” è stata utilizzata non solo per indicare la fattispecie specifica in cui la forma del recesso del datore di lavoro sia - per le espressioni usate - di per sé offensiva, ma anche, in senso lato, come equivalente di licenziamento, per qualsiasi ragione, lesivo della personalità del lavoratore (Pret. Milano 31.5.1999, OGL, 1999, I, 465). In tale ultima accezione, l’aggettivo “ingiurioso” non si riferisce alla forma, ma all’effetto del recesso datoriale, cioè alla compromissione dell’onore e della dignità del lavoratore. Sotto questo secondo profilo, è stato ritenuto ingiurioso il licenziamento che leda la dignità e l’onore del lavoratore (Cass. 22.7.1987, n. 6375, MGC, 1987; Cass. 29.4.1981, n. 2637, OGL, 1981, 750), arrecandogli in tal modo un pregiudizio sul piano morale e sociale (Pret. Milano 31.5.1999, OGL, 1999, I, 465). 6 7 9.5. L’interpretazione giurisprudenziale che ritiene indispensabile la diffusione della notizia del recesso da parte del datore di lavoro ai fini della configurazione della fattispecie del licenziamento ingiurioso. Bibliografia Parpaglioni 2001. In giurisprudenza è stata attribuita grande rilevanza anche alla “pubblicità” e diffusione che il datore di lavoro abbia dato del recesso (Cass. 29.4.1981, n. 2637, OGL, 1981, 750). Tale elemento è stato talvolta ritenuto indispensabile per la configurazione della fattispecie del c. d. “risarcimento ingiurioso”, come sottolineato da un’autrice, la quale ha rilevato che il riconoscimento della risarcibilità del licenziamento ingiurioso ha rappresentato il primo passo verso la più generale risarcibilità del danno non patrimoniale causato dall’illegittimo licenziamento. Il licenziamento ingiurioso consiste in quell’atto di recesso che, per la volgarità o offensività del linguaggio adoperato nell’indicazione dei motivi e per la pubblicizzazione dei motivi stessi, ha causato un danno alla dignità del lavoratore licenziato. Elemento fondamentale dell’ingiuriosità del licenziamento è la pubblicità data all’atto contenente le espressioni ingiuriose. Senza la divulgazione dei motivi infamanti del licenziamento, anche solo nell’ambiente produttivo dove si esplica la professionalità del lavoratore, non è possibile configurare l’ingiuriosità dello stesso. Un ulteriore passo è stato compiuto dalla giurisprudenza, attraverso il riconoscimento dell’ingiuriosità del licenziamento, anche qualora i motivi del recesso siano non rispondenti a verità, indipendentemente quindi, dalle espressioni utilizzate (Parpaglioni 2001, 2122). E’ stato in tal senso affermato in giurisprudenza che il licenziamento ingiurioso è quello che viene propalato – senza plausibile ragione – anche al di fuori dell’impresa e con caratteristiche di sistematica denigrazione, tali da determinare un concreta diminuzione del valore del dipendente (Trib. Milano 23.5.1995, OGL, 1998, I, 709). L’importanza della diffusione della notizia da parte del datore di lavoro emerge da un’altra pronuncia della Pretura di Milano, la quale ha in primo luogo precisato che l’ingiuriosità del licenziamento può essere determinata dall’offensività intrinseca della forma utilizzata, oppure dalla circostanza che i fatti indicati a motivo di licenziamento non corrispondano a verità e che questa alterazione della verità sia oggettivamente o soggettivamente ingiuriosa. Viene però sottolineato che, in entrambi i casi, è necessario che il datore di lavoro diffonda la notizia del licenziamento nella sua forma e nei suoi motivi ingiuriosi anche solo nell’ambiente produttivo, dove è 7 8 destinata ad esplicarsi la professionalità del lavoratore (Pret. Milano 25.8.1982, OGL, 1982, 336). Non viene così ravvisata l’ipotesi del licenziamento ingiurioso nel caso in cui sia stato lo stesso lavoratore a diffondere la notizia del licenziamento (Pret. Milano 25.8.1982, OGL, 1982, 336). 9.6. Il licenziamento disciplinare “ingiurioso”. Si deve indagare se l’ingiuriosità del licenziamento possa derivare dall’addebito al lavoratore di un fatto lesivo della sua dignità, il quale risulti invece infondato. E’ stato sotto questo profilo ritenuto che l’intimazione di un licenziamento disciplinare, senza approfondimento dei fatti e senza tenere conto delle giustificazioni del lavoratore, non ne comporta automaticamente il carattere ingiurioso (Pret. Milano 11.4.1997, OGL, 1997, 435). Più precisamente è stato ritenuto che dalla constatazione che il datore di lavoro ha intimato il licenziamento disciplinare senza procedere preventivamente ad alcun approfondimento dei fatti e, anche dopo le giustificazioni rese dal lavoratore, sulla base di una acritica accettazione della versione fornita dal superiore gerarchico dell'incolpato, non può dedursi il carattere ingiurioso del licenziamento, sempre che lo stesso non appaia altrimenti ispirato dall'intenzione di nuocere o colpire l'immagine del lavoratore. Il danno quindi per l'illegittimità del licenziamento è semplicemente quello coperto dalla l. n. 108 del 1990 (Pret. Milano 11.4.1997, OGL, 1997, 435). La Suprema corte ha, però, deciso che il licenziamento disciplinare illegittimo può dar luogo alla risarcibilità di danni patrimoniali e non patrimoniali ulteriori. E’ stato in tal senso deciso: invero il licenziamento disciplinare, comportando l’addebito di gravi mancanze disciplinari può integrare la fattispecie del licenziamento ingiurioso, lesivo del diritto all’onore del lavoratore. Inoltre la conoscenza del motivo di licenziamento nell’ambiente di lavoro può determinare gravi difficoltà occupazionali per il lavoratore con evidente danno patrimoniale. Per questi danni, dei quali il datore di lavoro sarebbe tenuto a rispondere se fossero l’effetto della mancata osservanza delle garanzie procedimentali, tuttavia nel caso in esame non vi è stata domanda dello Zorzi (Cass. 8.9.1995, n. 9492, GC, 1996, I, 101; RCDL, 1996, 548). E’ stato, peraltro, affermato che la fattispecie del licenziamento ingiurioso può essere integrata anche nel caso in cui il datore di lavoro abbia licenziato il dipendente, addebitandogli un fatto offensivo della sua dignità, qualora esso si sia poi rilevato insussistente, oppure non provato (Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 476). Il Pretore ha così deciso che 8 9 il licenziamento può però ritenersi ugualmente ingiurioso, ma non certo per il fatto che, in un modulo inviato all’Inps oltre un anno dopo, esso era stato impropriamente definito come avvenuto per giusta causa perché c’è stata subito dopo la precisazione della lettera del 13 luglio 1995. L’ingiuriosità deriva invece dal fatto che era stato dedotto oltre al motivo oggettivo rappresentato dalla necessità di ridurre i costi, anche il motivo soggettivo consistente nell’incapacità di adempiere alle funzioni per le quali il dirigente era stato assunto. La motivazione, se insussistente, è offensiva della dignità del lavoratore, intesa come consapevolezza del proprio valore come persona e della propria professionalità, ed è idonea a lederne anche la reputazione costituendo un rilevante ostacolo per il reperimento di un’altra occupazione. Se decide di addurre una motivazione di questo tipo, il datore di lavoro deve poi darne la dimostrazione e in caso di sua mancanza le conseguenze non possono essere solo quelle del licenziamento ingiustificato. L’incapacità addotta, non essendo stata dimostrata, deve ritenersi come inesistente, con la conseguenza che il lavoratore è esonerato dall’onere di dimostrare il contrario (Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 476). 9.6.1. Il rapporto tra l’obbligo legale di contestazione dell’addebito disciplinare e di motivazione del recesso del datore di lavoro e la fattispecie del licenziamento ingiurioso. Legislazione c.p. 594, 595 - l. 15.7.1966, n. 604. Bibliografia Mannaccio 1996. Viene però evidenziato dalla dottrina (Mannaccio 1996, 479) il contrasto tra l’esistenza dell’obbligo legale di motivazione del licenziamento – previsto dall’art. 2, l. 15.7.1966, n. 604 - e la possibilità che proprio dall’adempimento dello stesso possa trarre origine un’ipotesi di responsabilità in capo al soggetto onerato, che, a ben vedere, può peraltro travalicare l’ambito civilistico per sfociare in fattispecie aventi rilevanza penale, quali l’ingiuria (art. 594 c. p.) o la diffamazione (art. 595 c. p.). Premesso che tale problema non si manifesta nelle ipotesi in cui alla base del licenziamento vengano poste ragioni attinenti all’organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro - giustificato motivo oggettivo -, ci si deve domandare quando il recesso datoriale per giusta causa o giustificato motivo soggettivo determini la qualificazione dello stesso come ingiurioso. E’ stato in proposito osservato che l’indagine sul genus licenziamento ingiurioso si restringe dunque al solo campo dei motivi soggettivi del licenziamento e cioè dei motivi che hanno riguardo al soggetto del dipendente: negligenza o scarsa diligenza, insubordinazione, violazione di regolamenti aziendali, commissione addirittura di azioni moralmente e/o giuridicamente riprovevoli. In misura più o meno intensa tutta l’area della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo determina una situazione di offesa della persona del dipendente che – in 9 10 misura più o meno intensa – viene denigrata nella sua integrale o complessa situazione di onorabilità sia dalle accuse minori di negligenza, imperizia, disattenzione, scarso impegno lavorativo e simili sia – e ovviamente in misura più grave – da quelle maggiori di commissione di reati o di fatti moralmente riprovevoli. Si entra – con queste argomentazioni preliminari – nel vivo dell’argomento. In che misura l’indicazione – necessaria – della causa soggettiva di licenziamento fa divenire quest’ultimo un licenziamento ingiurioso? (Mannaccio 1996, 480). Tale autore ritiene che la semplice insussistenza – oppure la mancata dimostrazione – del fatto addebitato al lavoratore come motivo di licenziamento, non possa dare origine alla fattispecie del licenziamento ingiurioso, ma solo a quella del licenziamento ingiustificato, con la conseguenza che il lavoratore avrà diritto esclusivamente alle indennità previste dalla legislazione speciale, ma non al risarcimento degli ulteriori danni. E’ stato in tal senso rilevato: al termine di questa contraddittoria ricostruzione – correttissima all’inizio e meno corretta a metà strada – viene affermato il diverso e inaccettabile principio che l’inesistenza del motivo addotto equivale a licenziamento ingiurioso laddove – all’evidenza – l’inesistenza del motivo addotto è solo e semplice causa di licenziamento senza ragione cui consegue – a seconda del quadro normativo o contrattuale di riferimento – la tutela dell’art. 18 Stat. Lav. (che è comprensiva di tutto il danno) o la tutela convenzionale dell’indennità per licenziamento ingiustificato, anch’essa comprensiva di tutto il danno. Null’altro (Mannaccio 1996, 481). L’autore considera, pertanto, ingiurioso solo il licenziamento caratterizzato, oltre che dalla oggettiva denigratorietà della contestazione disciplinare, anche dall’abnormità della stessa rispetto allo scopo per cui essa è prevista dalla legge, cioè quello di consentire il controllo sull’esistenza del giustificato motivo di licenziamento. Tale autore afferma: tutti questi rilievi mi portano a ritenere che la ingiuriosità del licenziamento non sta tanto nel contenuto oggettivamente offensivo del fatto addebitato (che è condizione necessaria ma non sufficiente) quanto nelle modalità lesive della sua attuazione. Dice la Cassazione che è ingiurioso quel licenziamento che per le modalità con le quali è attuato risulti lesivo dell’onore e della personalità morale del lavoratore. Insomma quando l’ordinaria e necessaria contestazione dell’addebito (al dipendente) si accompagna a superflue e ulteriori comunicazioni esterne; quando la contestazione essenziale sia accompagnata da particolari superflui e inutilmente screditanti, quando le modalità di contestazione siano – per forma e tempi – tali da andare oltre l’effetto proprio del recesso e tendano a produrre un danno ulteriore (come ad esempio quello di rendere difficile un’altra occupazione) ecco che ci troviamo di fronte ad un licenziamento ingiurioso che – si badi bene – può convivere con il licenziamento giustificato e cioè un licenziamento fondato su un motivo legittimo e come tale idoneo a provocare la cessazione definitiva del rapporto di lavoro. E’ in sostanza l’uso distorto e abnorme del 10 11 mezzo tecnico legittimo di contestazione (comunicazione dei motivi di recesso) a definire il licenziamento come ingiurioso là dove una certa denigrazione oggettiva sia rinvenibile nel motivo comunicato (Mannaccio 1996, 481). Questa tesi contiene certamente un elemento di verità: per essere ingiurioso, il licenziamento motivato mediante l’addebito al lavoratore di un fatto non vero, deve essere caratterizzato dalla presenza di un quid pluris rispetto alla semplice insussistenza del fatto contestato. Cercando di individuare i principi generali sottostanti a tale conclusione, si può affermare che il licenziamento disciplinare può essere “ingiurioso” se, oltre alla falsità del fatto denigratorio addebitato al lavoratore, ricorra il dolo, o la colpa grave, del datore di lavoro, che sono presenti allorquando il medesimo sia consapevole di tale falsità, oppure la ignori per la mancata adozione della necessaria diligenza nella verifica dei fatti. Si deve ritenere che in tale ipotesi il licenziamento non sia solo soggettivamente ingiustificato, ma anche lesivo dell’onore e della dignità del lavoratore. E’ sufficiente pensare all’ipotesi – non del tutto infrequente -, in cui il datore di lavoro, al fine di licenziare un proprio dipendente, lo accusi di aver perpetrato un furto a danno dell’azienda, essendo però ben consapevole che il medesimo non lo ha commesso. Applicando il criterio dell’abnormità della contestazione disciplinare rispetto al suo scopo giuridico, si deve ritenere che anche l’addebito al lavoratore di un fatto vero possa dar luogo ad un licenziamento ingiurioso, quando il recesso del datore di lavoro sia caratterizzato da elementi non riconducibili alla funzione di tale atto: si può, ad esempio, pensare all’inutile diffusione della notizia, o comunque ad ogni condotta volta a nuocere al lavoratore. 9.7. Il licenziamento lesivo della dignità del lavoratore. Legislazione l. 20.5.1970, n. 300 - l. 11.5.1990, n. 108. Bibliografia Parpaglioni 2001. Il concetto di “licenziamento ingiurioso” è stato, quindi, interpretato estensivamente dalla giurisprudenza, fino a ricomprendere le ipotesi in cui il recesso datoriale sia comunque - anche a prescindere dall’offensività della forma utilizzata - lesivo della personalità del lavoratore (Cass. 7.2.1994, n. 1219, OGL, 1994, 863; Parpaglioni 2001, 2145). 11 12 Risulta, peraltro, assai opportuno ricondurre ad unità le diverse fattispecie che possono originare in capo al datore di lavoro l’obbligo di risarcire al lavoratore illegittimamente licenziato gli eventuali danni ulteriori rispetto a quelli forfettariamente previsti dalla legislazione speciale. Ciò potrà avvenire solo spostando l’attenzione sul piano degli effetti della condotta lesiva: sotto il profilo del danno non patrimoniale, si tratterà allora di verificare se il licenziamento ha leso diritti della personalità del lavoratore. Assai interessante in questo senso è stata una sentenza della Pretura di Ferrara, che ha ritenuto direttamente risarcibile il danno alla dignità del lavoratore, a prescindere dall’esistenza di un’effettiva diminuzione patrimoniale o di un danno morale (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Tale pronuncia ha così considerato risarcibile la lesione della dignità umana di una lavoratrice - impiegata in uno studio notarile -, determinata da un licenziamento disciplinare non rispettoso del procedimento previsto dall’art. 7, l. n. 300 / 1970, intimatole a fronte della sua assenza ingiustificata dal lavoro, peraltro causata da un evento del tutto tragico, cioè il ricovero ospedaliero ed il successivo decesso del suo unico figlio (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Il giudice ha stigmatizzato il comportamento del datore di lavoro, rilevando che l’analisi complessiva della vertenza, alla luce di questi principi, evidenzia la grave lesione del diritto primario ed assoluto della lavoratrice al rispetto della propria dignità umana, come può desumersi dalle modalità con le quali è stato irrogato il provvedimento, dal tempo in cui è stato deciso, a circa venti giorni di distanza dal decesso dell’unico figlio, dalla mancanza addebitata che traeva la sua giustificazione proprio nella assenza dal lavoro che da quel tragico evento era dipesa, dal tentativo da parte del convenuto di mascherare le reali motivazioni della sua scelta di recedere dal rapporto e dalla diffusione, presso gli altri dipendenti dello studio, della notizia che l’interessata sarebbe stata disposta ad accettare una risoluzione consensuale del rapporto o, comunque, a dimettersi (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Quindi, il Pretore ha ritenuto tale licenziamento come lesivo della personalità della ricorrente in considerazione del momento e del modo in cui il medesimo è intervenuto. Sono però stati ritenuti in quest’ottica rilevanti anche due ulteriori comportamenti del datore di lavoro: l’aver proceduto al licenziamento dopo avere tenuto un comportamento conciliante, acconsentendo in pratica alle assenze della sua dipendente, e l’avere diffuso notizie false in ordine alla pretesa volontà di quest’ultima di terminare consensualmente il rapporto di lavoro. E’ stato così rilevato che: 12 13 in sostanza la decisione del convenuto di procedere al licenziamento per il protrarsi della assenza dal lavoro, assunta dallo stesso in modo imprevisto ed inaspettato, dopo aver mostrato una condotta rassicurante e comprensiva e senza l’osservanza di quanto avrebbe richiesto il rispetto del dovere di buona fede e di correttezza nella esecuzione dl contratto, ha finito per offender gravemente la personalità della lavoratrice, proprio perché il dott. Minarelli ha inteso colpevolizzare in modo ingiusto e punire con la più grave delle sanzioni disciplinari, senza peraltro neppure rispettare il diritto di difesa, la condotta dell’impiegata in un momento per questa particolarmente tragico e difficile, del tutto trascurando quei minimi doveri di solidarietà che impongono, quanto meno, di non aggravare le difficoltà di un soggetto già affranto per la irreparabile perdita subita. Si può fondatamente sostenere che quel licenziamento, intimato in quel momento ed in quel modo, ha profondamente ferito la dignità umana della ricorrente: rappresentando infatti, la dimostrazione che, per il suo datore di lavoro, nei confronti del quale ella nutriva incondizionata fiducia, tanto da far pieno affidamento sugli accordi raggiunti senza neppure lontanamente sospettare che in un momento del genere avrebbe potuto essere disposta una qualunque forma di provvedimento sanzionatorio, le astratte esigenze organizzative dello studio professionale e una nozione al pari astratta e formale della disciplina, dovevano in ogni modo prevalere sul vincolo di solidarietà umana che si era formato nei lunghi anni di stretta collaborazione. Ma la lesione della personalità della lavoratrice emerge altresì dal tentativo di accreditare, anche nel corso del giudizio, l’ipotesi che la ricorrente avrebbe manifestato la volontà di non riprendere più il lavoro, per di più utilizzando per tale scopo delle informazioni solo indirettamente raccolte. Il fatto stesso di aver voluto attribuire rilevanza a frasi del genere pronunciate nella immediatezza del decesso del figlio della lavoratrice, senza neppure aver sentito il bisogno di trattare personalmente l’argomento con l’interessata, con il marito o con la sorella, rappresenta una mancanza di rispetto verso il dolore della donna ed una violazione dei principi minimi che reggono la convivenza civile (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Il comportamento del notaio è stato, quindi, considerato, sotto tutti questi aspetti, lesivo della personalità della lavoratrice, e, pertanto, inquadrabile nella categoria del “licenziamento offensivo”. Il Pretore ha ritenuto che possa considerarsi tale il recesso datoriale che per la forma o le modalità del suo esercizio, per le conseguenze morali o sociali che ne derivino, per le espressioni contenute nell’atto di recesso, ovvero nella lettera di contestazione, ove queste siano state richiamate nella successiva lettera di licenziamento, leda la personalità morale del lavoratore (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Questa fattispecie è stata distinta da quella del licenziamento semplicemente illegittimo che, in quanto tale, esaurisce i propri effetti all’interno della disciplina prevista dalle leggi n. 300 / 1970 e n. 108/1990. La sentenza ha, infatti, rilevato che il danno da licenziamento offensivo non deve essere confuso con il danno da licenziamento illegittimo, dal momento che il danno risarcibile, secondo la previsione della disciplina garantista delle ll. n. 300/70 e 108/90, non comprende il pregiudizio extra – patrimoniale , che può essere risarcito solo qualora il recesso possa essere configurato 13 14 alla stregua di un illecito secondo i principi generali (artt. 2043, 2056, 1223, 1226 e 1227 c. c.), come avviene nel caso in cui il fatto contestato (e rilevatosi insussistente) come giusta causa sia idoneo a qualificare l’atto come offensivo (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). E’ da evidenziare, quindi, – e tale profilo ha un’indubbia rilevanza sistematica – che è stata proprio la rilevazione di una concorrente responsabilità aquiliana del datore di lavoro ad indurre il Pretore a riconoscere alla lavoratrice il risarcimento di danni ulteriori, rispetto a quelli normalmente discendenti - in conformità alle previsioni delle leggi speciali - dall’interruzione del rapporto di lavoro. E’ stato in questo senso sotttolineato: come è noto l’ordinamento riconosce, attraverso una consolidata interpretazione giurisprudenziale, l’esistenza di ipotesi di licenziamento nelle quali la responsabilità del datore di lavoro è anche di natura extra – contrattuale, quando si verificano dei danni che vanno oltre a quelli normalmente derivanti dall’interruzione del rapporto di lavoro (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). 9.8. La congiunta applicazione dell’art. 2043 c. c. e delle norme costituzionali poste a tutela della persona e del lavoratore. Legislazione Cost. 32, 41 – c.c. 2043. La sentenza ferrarese riconosce tutela risarcitoria alla lesione della dignità umana del lavoratore, estendendo a tale diritto l’insegnamento della celebre sentenza della Corte costituzionale n. 184 / 1986, che aveva posto il principio secondo cui il pregiudizio all’integrità psicofisica deve essere risarcito ai sensi del combinato disposto degli artt. 2043 c. c. e 32 Cost. Secondo il Pretore di Ferrara il diritto alla salute rappresenta solo uno dei molteplici aspetti in relazione ai quali viene tutelata la persona umana; pertanto, protezione analoga deve essere assicurata agli altri diritti della personalità, in ugual modo e misura riconosciuti dalla Costituzione. E’ stato così rilevato che in tale nuova prospettiva, procedendo lunga la strada aperta dalla sentenza della C. cost. 14 luglio 1986, n. 184, deve essere riesaminata la questione dedotta in giudizio, osservando che il diritto alla salute, sancito dall’art. 32, primo comma della Costituzione, rappresenta soltanto una delle proiezioni attraverso le quali nella legge fondamentale si è inteso fornire piena ed assoluta tutela alla persona umana in quanto tale considerata, quale valore primario ed essenziale. Non è difficile rinvenire in numerose norme della Costituzione un riferimento espresso al “bene uomo in quanto tale”, procedendo dall’art. 14 15 2, secondo il quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” e dall’art. 3, primo comma, secondo il quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale” fino ad arrivare a tutte le altre norme, in tema di libertà personale, di inviolabilità del domicilio, della libertà di spostamento, della libertà di culto, del diritto alla salute, le quali hanno la finalità essenziale di tutelare le specifiche espressioni dei diritti inviolabili dell’individuo sia nel rapporto con lo Stato sia nel rapporto con altri soggetti. Ma la Costituzione stessa, nel sancire il diritto al lavoro (art. 4), ha anche espressamente voluto estendere i principi di solidarietà sociale anche all’uomo – lavoratore, superando al tradizionale impostazione liberistica, secondo la quale i rapporti economici rimanevano riservati alla sfera dell’autonomia privata. In conseguenza numerose norme (art. 35 ss. Cost.) sono state dettate allo scopo di tutelare il lavoro in tutte le sue espressioni, di garantire il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, di riconoscere il diritto alla previdenza e alla assistenza sociale. In tale contesto il costituente, nel riconoscere la libertà della iniziativa economica privata, ha voluto non a caso ribadire che la stessa non poteva svolgersi in modo da recare danno “alla dignità umana” (art. 41, secondo comma, Cost.) (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Quindi, il giudice ha osservato che in altri termini il rispetto della persona umana e della dignità dell’uomo è espressamente riconosciuto dalla Costituzione come un diritto assoluto, operante anche nell’ambito del rapporto di lavoro (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). E’ proprio la lesione di questo diritto espressamente previsto dalla Costituzione che integra gli estremi per l’applicazione dell’art. 2043 c. c., come è stato rilevato dal Pretore, secondo il quale il riconoscimento della natura precettiva al principio enunciato dal secondo comma dell’art. 41 Cost., proprio in ragione dell’enunciazione di un diritto soggettivo primario ed assoluto, porta a ravvisare nella specie l’esistenza di un danno risarcibile ex art. 2043 c. c. conseguente ad un comportamento illecito da parte del datore di lavoro realizzato mediante l’intimato licenziamento (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). 9.9. L’orientamento giurisprudenziale che riconduce la risarcibilità dei danni ulteriori al modello della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Legislazione 1218. 2043. Si deve, inoltre, ricordare che una sentenza della Pretura dell’Aquila, in un caso di illegittimo licenziamento di un pubblico dipendente – che era 15 16 stato poi annullato dal giudice amministrativo -, ha adottato sic et simpliciter gli schemi consueti della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318). E’ da precisare che tale pronuncia ha riconosciuto al ricorrente il risarcimento del danno biologico, inteso peraltro estensivamente sino a ricomprendere anche il pregiudizio – determinato, in particolare, dalla perdita della retribuzione -, consistente nell’impossibilità di far fronte alle quotidiane esigenze di vita, con grave peggioramento della qualità della vita personale e familiare (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318). In tale caso, il Pretore, esclusa la legittimità del licenziamento, ha provveduto a condannare il datore di lavoro al risarcimento dei danni, elidendo completamente il requisito - richiesto in generale da dottrina e giurisprudenza – dell’ingiuriosità o, meglio, lesività del recesso del datore di lavoro, intese come quid pluris rispetto alla semplice mancanza di giustificazione dello stesso. In quest’ottica, il giudice, spostando l’indagine sull’aspetto soggettivo della condotta datoriale, ha così deciso: sotto tale profilo reputa il giudicante che dalle lettura delle indicate sentenze – cioè le sentenze dei giudici amministrativi, che avevano ritenuto illegittimo il licenziamento – possa ricavarsi il convincimento della sussistenza della colpa, necessaria per l’integrazione dell’illecito; i giudici amministrativi avevano, infatti, qualificato le contestazioni mosse al Verini come generiche, insufficienti a configurare una responsabilità del Verini nel disservizio dell’ufficio (che aveva dato causa alla destituzione) ed avevano affermato che in base agli atti che avevano sostanziato il provvedimento di destituzione era da escludere che le deficienze rilevate potessero essere attribuite al Verini o quantomeno al solo Verini. Non è chi non veda come ciò integri l’elemento della colpa nell’adozione dell’atto indicato (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318). La sentenza trae, quindi, le coerenti conseguenze di tale impostazione, decidendo che tutta la tematica del danno biologico e del risarcimento del danno non patrimoniale è venuta in rilievo e si è affinata esclusivamente in relazione al risarcimento da fatto illecito, ex art. 2043 c. c. A ben guardare non vi sono però ragioni che escludano la configurabilità del medesimo discorso in termini di responsabilità contrattuale; laddove, cioè a causare il danno più sopra indicato sia, non il fatto illecito, bensì l’inadempimento. E’ immediato il riferimento, ancor più che alla disciplina generale di cui agli art. 1218 ss. c. c., all’art. 18 l. 300 / 70, in cui si prescrive l’obbligo al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento illegittimo. Proprio la giurisprudenza formatasi in riferimento a tale norma ha parlato di danno all’immagine, danno alla professionalità per la forzata inattività, svantaggi per la vita di relazione; tali danni pacificamente si sommano, o meglio possono sommarsi, al risarcimento per la perdita della retribuzione reintegrabile con le retribuzioni maturate (…). Tornando alle conclusioni più sopra indicate sussiste, dunque, un danno e sussiste l’obbligo giuridico di risarcirlo. Appare, del 16 17 resto, un dato oramai acquisito la configurabilità del concorso del doppio titolo di responsabilità (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318). Tale impostazione appare condivisibile. E’ ovvio, infatti, che la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del datore di lavoro non può sottrarsi, pena l’illegittimità costituzionale di un’eventuale contraria disciplina, agli schemi generali previsti dall’ordinamento giuridico. La forfettizzazione del risarcimento prevista dalla legislazione speciale è finalizzata al ristoro del mero pregiudizio derivante dall’illegittima perdita del posto di lavoro e non esclude la risarcibilità degli ulteriori pregiudizi, che il lavoratore riesca a dimostrare di avere subito. Ancora una volta risulta confermata la correttezza dell’impostazione che fa riferimento agli effetti del licenziamento illegittimo: nell’ipotesi in cui sia accertata l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale ulteriore, il datore di lavoro potrà essere chiamato a rispondere dello stesso, se ricorrano i presupposti generali previsti dall’ordinamento giuridico, secondo i consueti canoni della responsabilità aquiliana o contrattuale. Tale conclusione è peraltro assolutamente armonica con i più recenti sviluppi del sistema del risarcimento del danno alla persona, che hanno condotto alla comparsa ed al consolidamento della figura del danno esistenziale, categoria che è retta dalle ordinarie norme di responsabilità civile. 9.10. La natura dei danni risarcibili in caso di licenziamento lesivo della personalità del lavoratore. E’ necessario verificare quali siano gli ulteriori pregiudizi che debbono essere risarciti dal datore di lavoro in caso di licenziamento lesivo della personalità e della dignità del lavoratore. Deve in proposito essere ricordata la già citata sentenza della Pretura dell’Aquila, che descrive minuziosamente i riflessi pregiudizievoli subiti dal lavoratore licenziato, osservando che vi è in atti la prova della sussistenza di tali tipi di danno. Attraverso la documentazione esibita è possibile ricostruire il tipo di vita, condotto dal ricorrente e dalla sua famiglia, che ha caratterizzato il periodo relativo alla destituzione – licenziamento. Dall'esame di tale documentazione emerge un quadro piuttosto penoso in cui la famiglia del Verini ed il Verini stesso hanno vissuto: da un lato in condizioni di per sè inadeguate, abitazione umida, priva di riscaldamento, ecc., dall'altro in modo tale da non poter far fronte sia alle normali difficoltà della vita, sia alle difficoltà riconducibili in 17 18 modo diretto alla mancanza di una fonte di sostentamento (si pensi agli ovvi problemi di alimentazione e abbigliamento). Da qui la necessità di far ricorso all'aiuto dei parenti, ma anche al credito delle banche, al fine di limitare il danno. Tutto ciò ha inciso gravemente da un lato sulla vita della famiglia Verini, ma dall'altro vistosamente sull'equilibrio psicofisico del ricorrente, il quale tutto ad un tratto si vedeva incapace di offrire ai propri congiunti anche il minimo necessario per far fronte alle esigenze primarie. Da qui la diagnosi ed i certificati medici in cui al ricorrente viene attribuito l'esaurimento nervoso. Le molte difficoltà incontrate dai familiari e documentate in atti (certificati medici dei figli, ecc.), incidevano sul suo equilibrio, non potendo ad esse fare adeguatamente fronte con le necessarie disponibilità economiche. In ciò certamente rileva l'esposizione in ricorso relativa allo stress ed al disagio dei familiari del ricorrente; reputa, infatti, il giudicante, non senza qualche perplessità, che non sia ipotizzabile l'azione, in capo al ricorrente, per gli obblighi che egli abbia eventualmente assunto nei confronti dei familiari, i quali restano estranei alla vicenda de qua. Non può il Verini agire per il danno da essi subito. Solo dunque nel senso più sopra indicato assume rilevanza il disagio dei familiari. Sussiste dunque un danno astrattamente risarcibile in quanto lesione di un diritto soggettivo (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI; 1993, 319). Si tratta, quindi, di tutta una serie di conseguenze negative sulla vita del lavoratore - e della sua famiglia -, derivanti dalla perdita della propria fonte di sostentamento, che avrebbero anche determinato una lesione della sua integrità psicofisica - esaurimento nervoso -. La sentenza in esame ritiene che tali pregiudizi debbano essere inquadrati in un concetto allargato di danno biologico, definibile come danno esistenziale. Il Pretore ha così rilevato che in sostanza il Verini ha esposto che in ragione della privazione delle retribuzioni, fonte di sostentamento per sé e per la sua famiglia, è stato costretto ad un regime di vita particolarmente gravoso, di mero sostentamento, pregiudizievole per l‘integrità psicofisica e per l’equilibrio esistenziale, tale da recare un grave pregiudizio a lui ed alla sua famiglia. Tale danno non può essere qualificato come danno morale ed in ciò appare inesatta la qualificazione giuridica operata in ricorso. A ragione parte resistente osserva che il danno morale è risarcibile solo negli specifici casi determinati dalla legge, così come stabilito dall’art. 2059 c. c. (ad es. danni da reato). Viene in rilievo, però, a tale proposito, oltre all’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale sui temi della risarcibilità del danno non patrimoniale – ovvero sul concetto di danno patrimoniale – la sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 1986 (Foro. It., 1986, I, 2053); in seguito a tale sentenza può oggi considerarsi acquisito come solo il danno morale in senso stretto, inteso come pretium doloris, non sia risarcibile – se non nei casi determinati dalla legge – così rientrando nella previsione dell’art. 2059 citato. Vi è altresì tutta una serie di danni non direttamente patrimoniali, i quali, non rientrando nell’indicata limitazione, appaiono pacificamente risarcibili, ove effettivamente sussistenti. Fra essi l’ormai famosissimo danno biologico nelle sue accezioni più o meno ampie a seconda che si faccia o meno riferimento alla lesione dell’integrità fisica ovvero 18 19 anche all’integrità psichica ed all’equilibrio dell’individuo. A ben guardare, competendo al giudice la qualificazione giuridica del fatto, il danno prospettato dal Verini appare rientrare in tale categoria da ultimo indicata ovvero in una sorta di ampia accezione del danno biologico, qualificabile come danno esistenziale (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 319). Quindi, il Pretore riconosce il ristoro della situazione di esaurimento nervoso e di stress esistenziale subiti dal lavoratore. Dai dati ricavabili dalla sentenza, emerge una mancanza di chiarezza concettuale riguardo alla natura delle categorie risarcitorie richiamate, che è, peraltro, assolutamente comprensibile, considerato che tale provvedimento si colloca storicamente in una fase embrionale dello sviluppo del sistema del risarcimento del danno alla persona, nella quale, pur iniziandosi ad avvertire l’esigenza di estendere la tutela della persona al di là del danno prettamente fisico, non esistevano ancora gli strumenti concettuali a tale fine necessari. A causa di tale limite, la sentenza in esame si inserisce, quindi, nel filone giurisprudenziale che ha esteso i confini della categoria del danno biologico, al fine di garantire il risarcimento di pregiudizi di natura non patrimoniale, non concretizzatesi in realtà in una compromissione dell’integrità psicofisica della vittima – c. d. “somatizzazione della tutela della persona” -. Proprio per questa ragione, risulta notevole il richiamo operato dal giudice al concetto di danno esistenziale: il pregiudizio subito dal lavoratore – e di riflesso dalla sua famiglia – consiste, infatti, principalmente in un’alterazione peggiorativa della vita quotidiana, dovuta al venir meno delle risorse economiche necessarie, cioè in quella compromissione delle attività realizzatrici della persona che rappresenta l’essenza della categoria del “danno esistenziale”, così come recentemente ricostruita da dottrina e giurisprudenza. I riferimenti esistenzialisti di tale sentenza sono pertanto frutto di una corretta – seppur parziale - intuizione della reale natura del pregiudizio subito dal ricorrente. Risulta però del tutto assente l’elaborazione concettuale di tale – al tempo sconosciuta – categoria, che sarà invece frutto della dottrina e giurisprudenza successive. La confusione concettuale in cui è incorso il Pretore ha anche determinato evidenti errori nella valutazione delle prove. La dimostrazione del danno biologico – esaurimento nervoso – avrebbe dovuto essere fornita mediante una perizia medico legale, mentre il giudice ha ritenuto sussistente tale patologia sulla base dei soli certificati medici prodotti dal ricorrente. 19 20 Le stesse perplessità valgono anche in ordine all’accertamento del nesso causale, in relazione al quale il Pretore ha ritenuto che conseguenza quasi implicita nelle considerazioni più sopra indicate è la sussistenza del nesso causale tra la lesione al diritto all'integrità esistenziale e biologica e più in generale del diritto alla salute, nonchè del diritto patrimoniale leso dal ricorso al credito bancario ed il licenziamento-destituzione del ricorrente. Appare infatti adeguato ad un criterio di normalità sociale che l'esaurimento nervoso e lo stress indicato siano riconducibili alla causa-licenziamento. Ancor più se si pensa che in occasione della dimostrazione del danno emergente -quale è quello di cui si discute -la prova del nesso causale può essere pacificamente meno rigorosa ed agganciata al criterio di normalità più sopra citato (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 319). Il collegamento causale tra licenziamento e lesione dell’integrità psicofisica viene pertanto ritenuto sussistente in base ad un criterio presuntivo - quello della normalità sociale – mentre il suo accertamento avrebbe richiesto una precisa indagine medico legale, volta a verificare se effettivamente la patologia psichica possa essere connessa al recesso del datore di lavoro. I criteri adottati dal Pretore sarebbero invece probabilmente stati corretti se riferiti alla dimostrazione di un danno di natura esistenziale non biologica, il cui accertamento normalmente prescinde da qualsivoglia indagine medico – legale. Quindi, anche sotto questo profilo, l’imprecisione della sentenza deriva dalla – pur storicamente comprensibile – fedeltà alla categoria del danno biologico, dovendosi peraltro ritenere che si sarebbe potuto addivenire alla liquidazione dello stesso risarcimento, senza tenere in conto la pretesa lesione dell’integrità psicofisica, ma valutando invece i soli riflessi negativi del licenziamento sulla qualità della vita personale e familiare del ricorrente. Infatti, i profili più interessanti sono quelli relativi alle conseguenze dirette della perdita del posto di lavoro – e della relativa retribuzione - sulla vita della vittima, che risultano essere state dimostrate documentalmente: problemi nell’acquistare gli alimenti ed i capi di abbigliamento, nel riscaldare l’abitazione, ecc.; cioè, in poche parole, la grave difficoltà nel far fronte alle più elementari esigenze di vita. 9.11. Il danno derivante dalla lesione della dignità del lavoratore. Bibliografia Cendon e Ziviz 1995 - Tullini 1994. Non risulta, quindi, corretto l’utilizzo della categoria del danno biologico per garantire il risarcimento del pregiudizio derivante dalla 20 21 compromissione di diritti della personalità diversi da quello alla salute. E’ stato in proposito giustamente osservato: e’ forse più proficuo distinguere il problema della rilevanza della persona e della sua protezione giuridica dalla tematica del danno biologico, nella quale sembra oggi completamente assorbito. Altro è liquidare il danno alla salute e altro ancora è risarcire l’evento lesivo dei c. d. diritti della personalità. Contro la tentazione di attribuire al danno biologico il significato di una clausola generale di risarcibilità, trasponendo nella più ampia dimensione della persona umana la nozione eterogenea e omnicomprensiva applicata alla lesione dell’integrità psicofisica (Tullini 1994, II, 571). Sotto questo profilo è da segnalare una sentenza della Pretura di Parma, che ha riconosciuto il risarcimento del pregiudizio derivante dalla compromissione della dignità del lavoratore, chiarendo con precisione la differenza tra questo tipo di pregiudizio ed il danno biologico (Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 478). Il Pretore, infatti, ha così respinto la domanda di risarcimento del danno biologico: per comodità di esposizione si può ora trattare della richiesta di risarcimento conseguente alla malattia psichica addotta. Il consulente tecnico d’ufficio, professionista apprezzato e di indiscusso prestigio, rispondendo ai quesiti con una relazione precisa, dettagliata e documentata, ha escluso l’esistenza di una malattia psichica apprezzabile all’epoca dell’indagine di consulenza; pur dichiarando di non avere motivi per mettere in discussione la diagnosi di depressione, e pur prendendo atto che Mazza dal dicembre 1993 al gennaio 1995 è stato curato ambulatorialmente per una “sindrome depressiva”, ha negato la possibilità di affermare esistente un rapporto di causalità con i fatti di causa, secondo i consueti criteri diagnostici internazionalmente usati. La relazione è pienamente convincente e non c’è motivo alcuno per disattenderne le conclusioni; essa non è stata neppure specificamente contestata da un consulente di parte né le osservazioni fatte dal difensore possono indurre ad un rinnovo della perizia. Non è questa la sede per verificare se la malattia, benchè diagnosticata, sia stata effettivamente presente; è sufficiente ai fini del decidere l’accertamento della mancanza di prova del nesso di causalità con il licenziamento (Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 478). La sentenza ha, invece, riconosciuto al lavoratore il risarcimento del pregiudizio derivante dalla lesione della sua dignità, che è stato quindi evidentemente distinto dal danno biologico: l’ultima richiesta riguarda il risarcimento di un danno ulteriore, oltre quello patrimoniale, come conseguenza del licenziamento ingiurioso. La giurisprudenza più autorevole (Cass. 22 luglio 1987 n. 6375) ritiene che il licenziamento di un dirigente (…) per dar luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto comune (art. 2043 ss. c. c.) deve concretarsi, per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivino, in un atto ingiurioso, cioè lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato. Tale carattere di ingiuriosità del licenziamento non s’identifica né va confuso con la mancanza di giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma, 21 22 secondo i principi generai dettati dall’art. 2697 c. c., va rigorosamente provato da chi l’allega come causa del lamentato pregiudizio. Al fine della sua dimostrazione si è anche ammesso il ricorso a presunzioni semplici (Cass. 7 febbraio 1994 n. 1219) e si è precisato che può ritenersi illecito secondo i principi generali, e quindi tale da legittimare il risarcimento di ulteriori danni, l’averre addotto a motivo del licenziamento un fatto offensivo del dipendente poi rilevatosi insussistente (Cass. 3 giugno 1991 n. 6265). Un danno ulteriore può esserci anche per la maggiore difficoltà per reperire una nova occupazione, conseguenti alle modalità oltraggiose in cui è avvenuto il licenziamento, così come può consistere, anche a prescindere dall’insorgenza di una malattia, nella sola offesa alla dignità umana del lavoratore, dovendosi ritenere come diritto assoluto, operante anche nell’ambito del rapporto di lavoro, quello al rispetto della persona ed ella sua dignità (v. Pret. Ferrara, 25 novembre 1993, in Riv. It.dir. lav., 1994, II, 555; Pret. Bologna 20 novembre 1990, ivi 1991, II, 462) (Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 478). La sentenza in esame ha, peraltro, definito con precisione il concetto di dignità del lavoratore, intendendo la stessa come consapevolezza del proprio valore come persona e della propria professionalità (Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 478). Neppure la già citata sentenza del Pretore di Ferrara (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74) si è rifugiata negli schemi interpretativi, al tempo dominanti, volti a ricondurre il danno subito dal lavoratore, vittima di un licenziamento lesivo, alla categoria del danno biologico. Il giudice si è, invece, sforzato di individuare - in modo giuridicamente più preciso e corretto - la reale natura del pregiudizio subito dalla ricorrente, che in realtà non risulta riconducibile alla categoria del danno alla salute, in quanto non era stata dedotta una compromissione dell’integrità psico – fisica di quest’ultima. Sotto questo profilo, è stata sottolineata positivamente la creatività della pronuncia, che ha evitato di rifarsi impropriamente alla categoria del danno biologico, essendo da salutare invece positivamente l’avvento di impostazioni tese a ricercare - per il risarcimento del danno alla persona un assetto concettuale e disciplinare improntato a concetti più ampi rispetto a quelli propri di tale categoria (Cendon e Ziviz 1995, 77). In particolare è stato sottolineato: va detto subito come tale indicazione presenti tuttavia, nella sentenza ferrarese, tratti di notevole originalità. Vediamo, in particolare, come il Pretore non indulga affatto nella tentazione (avvertibile, in quest’ultimo periodo, presso tante corti del nostro paese) di incardinare a ogni costo la soluzione aquiliana sul terreno della lesione dell’integrità psicofisica. Non vi è cioè, da parte sua, il tentativo di ravvisare nel comportamento illecito dell’agente la causa di un disagio psicologico, a carico della vittima - al fine di poter qualificare il turbamento medesimo come un autentico pregiudizio di carattere psichico (lesivo della salute, e risarcibile nella veste di danno biologico). Il riferimento al danno alla salute rappresenta piuttosto, per la Pretura ferrarese, uno 22 23 spunto utile ad avviare riflessioni d’ordine più vasto (Cendon e Ziviz 1995, 76). Il Pretore ha, quindi, ritenuto risarcibile la lesione di un diritto della personalità diverso da quello della salute, rilevando che l’analisi complessiva della vertenza, alla luce di questi principi, evidenzia la grave lesione del diritto primario ed assoluto della lavoratrice al rispetto della propria dignità umana (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). 9.11.1. Il pregiudizio alla dignità del lavoratore come danno esistenziale. Bibliografia Cendon e Ziviz 1995. La Pretura di Ferrara ha ricostruito il pregiudizio alla dignità del lavoratore nei termini del danno evento, ritenendo che alla luce di tali principi si può pervenire nel caso di specie ad identificare un danno evento, derivante dalla semplice violazione della dignità umana, direttamente risarcibile prescindendo da una effettiva diminuzione patrimoniale del soggetto leso o dalla esistenza di un danno morale che, come è noto, è risarcibile soltanto nell’ipotesi di commissione di un reato (art. 2059 c. c.) (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Tale pregiudizio, di natura non patrimoniale, rientra certamente nella categoria del danno esistenziale, come è stato rilevato da autorevole dottrina (Cendon e Ziviz 1995, 75). Pur ponendosi tali autori, in linea generale, in atteggiamento critico rispetto alla ricostruzione del danno evento recepita dalla pronuncia in esame, le riconoscono comunque alcuni meriti in relazione all’evoluzione del sistema del risarcimento dei danni alla persona. Essi osservano: conclusione del discorso? Sistemazioni definitive non sono agevoli da trovare; è indubbio però che, una risposta soddisfacente (per la vicenda in commento) andrebbe modulata lungo direttrici alquanto diverse da quelle sin qui esposte. Si tratterà di procedere, in primo luogo, all'individuazione di nuove prospettive risarcitorie -a fronte del perturbamento di valori personali dell'offeso. E si tratterà di affrontare, successivamente, i nodi peculiari che presenta un campo come quello dei rapporti di lavoro. Quanto al primo aspetto, non può non rimarcarsi la sostanziale inadeguatezza di ogni lettura tesa a risolvere la questione del risarcimento (per la compromissione delle partite non economiche) sul filo delle categorie oggi dominanti. Abbiamo già fatto cenno all’impossibilità di ricondurre la complessità di tali aspetti nell'ambito del danno biologico; nè, occorre aggiungere, soluzioni appaganti potrebbero 23 24 rinvenirsi all'interno dei moduli consueti. La via d’uscita non può consistere, allora, che nella ricerca di un chiarimento -franco e definitivo -circa la natura del pregiudizio da neutralizzare; e il punto di partenza trapela dalle righe stesse della sentenza ferrarese. Un attento esame delle argomentazioni del Pretore chiarisce, in effetti, come l'obiettivo sia quello di uno svincolamento (del piano risarcitorio) rispetto alla dimensione strettamente reddituaIe nella quale il danno alla persona è rimasto, per lunghi anni, confìnato. Ecco che la teoria del danno-evento può anch'essa prospettarsi, allora, non già come operazione di traslazione delle logiche penalistiche nel campo civile, bensì come strumento tecnico utile a sganciare il discorso dalle strettoie patrimonialistiche. Perché il soddisfacimento di simili esigenze avvenga tramite la teoria del danno – evento, è spiegabile, d’altro canto, attraverso un duplice ordine di rilievi. Il primo è costituito dall’ingombrante presenza, nel nostro codice civile, di un articolo come il 2059 – disposizione la cui rubrica fa chiaro riferimento, come si sa, ai danni «non patrimoniali». Non è difficile comprendere come la collocazione del presidio risarcitorio su un diverso terreno (quello dell'evento) diventi un espediente per sfuggire alle forche caudine poste dalla norma in questione. E a tali motivi di carattere tecnico, si aggiunge poi -osserviamo -il dato della scarsa capacità (riscontrabile non soltanto in capo ai giudici, ma più in generale alla dottrina) di cogliere un germe unitario per le varie conseguenze di ordine non patrimoniale, diverse dal dolore, che l'illecito è idoneo a determinare (Cendon e Ziviz 1995, 78). In quest’ottica, risulta quindi fondamentale l’inquadramento sistematico dei pregiudizi concretamente subiti dalla vittima, che, nel caso concreto, debbono essere qualificati come compromissione della sfera esistenziale di quest’ultima. Osservano in tal senso i predetti autori che una volta svelati gli obiettivi che la teoria de danno-evento nasconde, si tratterà di (puntare a) raggiungerli -allora -mediante una collocazione della misura aquiliana al livello dei riflessi pregiudizievoli patiti, concretamente, dalla vittima: in particolare, di quelle varie ripercussioni che non abbiano tenore patrimoniale, nè corrispondano alle sofferenze e ai vari patemi d'animo in cui il danno morale si identifica. Volendo trovare un denominatore comune per tale categoria, sono significative le indicazioni emergenti dal settore della salute. Lì l'attribuzione di una terza voce risarcitoria è venuta assumendo, sempre più, il carattere di ristoro per le attività non lucrative di fatto incrinate. In una prospettiva più generale si tratta, allora, di offrire riscontro ex lege Aquilia allo sconvolgimento di quegli aspetti che la Corte costituzionale indica come «attività realizzatrici della persona umana». Nel momento in cui l'illecito coinvolge tramiti del genere, ecco formarsi in capo all'offeso un pregiudizio d'ordine non patrimoniale, che si manifesta in un'alterazione (peggiorativa) dell'universo quotidiano. Anche per tale momento -diverso dal danno morale, in quanto atto a toccare non già l'orbita dei sentimenti, ma quella oggettiva delle estrinsecazioni individuali- dovrà riconoscersi un'adeguata riparazione, nel seno di un'autonoma voce sanzionatoria. La fattispecie in esame? Nell'applicare l'accennata logica alla vicenda ferrarese, va sottolineato -anzitutto -come il licenziamento sia destinato, per il suo carattere ingiurioso, ad assumere risalto quale illecito extra contrattuale. Il danno da ristorare atterrà, allora, alla compromissione della sfera esistenziale (del 24 25 lavoratore colpito dal torto), la quale assumerà autonoma rilevanza sul piano dell'id quod interest. Circa i profili del quantum respondeatur, il punto appare non già -come per nostro Pretore- quello di inseguire, se non addirittura inventare, canoni di valutazione più o meno estemporanei. Più semplicemente, si tratterà (per il giudice) di stilare un inventario delle singole traettorie d’ordine relazionale che il torto mostri di aver vulnerato, onde attribuire ad esse (motivatamente) un apprezzamento fondato sui parametri rispettosi delle peculiarietà di ciascuna (Cendon e Ziviz 1995, 79). 9.12. I diversi profili del danno esistenziale da licenziamento lesivo della personalità del lavoratore. La giurisprudenza ha ritenuto risarcibile la compromissione delle prerogative fondamentali del lavoratore come persona umana, quali l’onore e la dignità (Cass. 22.7.1987, n. 6375, MGC, 1987; Cass. 8.9.1995, n. 9492, GC, 1996, I, 101; Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 478; Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Sono stati considerati risarcibili, inoltre, i riflessi di natura non patrimoniale - unitariamente definibili come peggioramento della qualità della vita -, subiti dalla vittima a causa della perdita del posto di lavoro e della retribuzione: in particolare, l’impossibilità, o la difficoltà, di acquistare i generi alimentari, i capi d’abbigliamento, di sostenere le spese per il riscaldamento dell’abitazione, e tutte le ulteriori spese necessarie per condurre una vita dignitosa (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318). Si tratta di pregiudizi che rientrano pienamente nella categoria del danno esistenziale, così come ricostruita da dottrina e giurisprudenza (Cass. 7.6.2000, n. 7713, FI, 2000, I, 187): è evidente, infatti, che in tutti questi casi risultano comunque lese le attività realizzatrici della persona (Corte cost. n. 184 / 1986). Con riguardo al pregiudizio derivante dalla violazione della dignità e degli altri diritti fondamentali del lavoratore, occorre peraltro precisare che la lesione delle “attività realizzatrici” della persona può realizzarsi non solo nella forma della compromissione di determinate modalità di estrinsecazione della personalità umana – rilevanti sotto il profilo non reddituale -, ma anche in quella della violazione dei diritti fondamentali della persona, di cui le prime rappresentano la manifestazione nel mondo naturale. Ciò risulta chiaro se si analizzano i profili non patrimoniali, che sono stati considerati risarcibili dalla giurisprudenza. Allorchè viene tutelata la lesione di situazioni soggettive, come la dignità del lavoratore, si versa sul 25 26 piano del corredo dei diritti fondamentali che spettano alla vittima in quanto persona umana; nel caso in cui si risarciscono i riflessi negativi attinenti l’estrinsecazione quotidiana dell’esistenza del lavoratore, l’attenzione si rivolge più specificamente all’ambito del “fare” – o del “non fare” -. In entrambi i casi si è evidentemente all’interno della categoria del danno esistenziale: infatti, anche la lesione di un diritto fondamentale della persona concretizza un pregiudizio non solo alla sfera dell’”essere”, ma anche della dimensione “relazionale” tra questa ed il mondo. Tale relazione è evidentemente suscettibile di essere compromessa nel caso in cui vengano colpite situazioni come la dignità e l’onore, considerato che, a causa di ciò, la vittima non potrà più essere in grado di porsi in rapporto con il proprio ambiente secondo le medesime modalità antecedenti al fatto illecito. 9.12.1. Funzione sistematica ed evolutiva della figura del danno esistenziale. Bibliografia Tullini 1994. Come l’intero sistema del risarcimento dei danni alla persona, anche lo specifico settore del risarcimento dei pregiudizi derivanti dalla violazione del rapporto di lavoro si è evoluto da un’originaria ottica di carattere strettamente patrimonialistico ad un’impostazione attenta ai profili pregiudizievoli di natura non patrimoniale - prima solo di natura biologica, ora anche esistenziale -, nella prospettiva di un’integrale tutela della persona umana. E’ sufficiente in proposito ricordare che negli anni “60” la giurisprudenza riconosceva il risarcimento del danno da licenziamento ingiurioso solo allorché il pregiudizio “non si limiti alla sfera psichica, ma finisca per incidere in quella economica” e l’atto illecito “sia idoneo a condizionare negativamente la possibilità di esercitare con profitto una professione, o di riottenere, ove perduta, un’occupazione adeguata alla posizione sociale già raggiunta (Cass. 22.2.1966, n. 557, FI, 1966, I, 176, richiamata da Tullini 1994, 567). E’ proprio in questa prospettiva sistematica che emerge con evidenza l’importante funzione unificatrice della categoria del danno esistenziale, la quale consente di considerare unitariamente tutti i profili di pregiudizio non patrimoniale - diversi dal danno morale subiettivo - subiti dal lavoratore. Quindi, la figura del danno esistenziale consente di superare i 26 27 problemi derivanti dalla mancanza di una categoria generale di riferimento, alla quale ancorare la tutela dei diritti non patrimoniali del lavoratore, che sono stati rilevati da una dottrina, la quale ha osservato che questa lettura costituzionale della disposizione codicistica, anziché attivare un circolo virtuoso che allarghi l’area degli interessi rilevanti con il rinvio ai principi fondamentali, finisce per creare un duplice inconveniente. La mera esistenza di una norma specifica, che riconosca un bene o un interesse della persona meritevole di protezione, autorizza ad elaborare ogni volta un autonomo e distinto diritto soggettivo; viceversa, la mancanza di tale norma specifica potrebbe indurre ad escludere la risarcibilità del danno o l’ingiustizia della lesione di valori personali non espressamente previsti. Cade, cioè la possibilità di includere altri profili o componenti assiologiche della persona (che eventualmente emergano anche per effetto della dinamica storico – sociale) nell’ambito di rilevanza giuridica del valore in sé della persona umana. E’ del resto, l’inconveniente ben evidenziato dalla soluzione interpretativa accolta dal Pretore, allorchè accredita l’esistenza di un diritto primario e assoluto del lavoratore inerente alla natura precettiva dell’art. 41, secondo comma, Cost.: un diritto soggettivo che assume un contenuto – si direbbe – descrittivo e riassuntivo di altre norme costituzionali che contengono un riferimento esplicito al valore uomo (artt. 2 e 3), ma è al contempo aggiuntivo e autonomo rispetto a quelli. Si svela, così la tentazione della giurisprudenza e della dottrina, giuslavoristica degli ultimi anni di tradurre le strutture deontiche fondamentali (il cui contenuto si esaurisce spesso nell’enunciazione programmatica di un valore) in altrettanti diritti soggettivi, che si sommano al catalogo di quelli già noti, contribuendo alla moltiplicazione dei c. d. diritti della personalità. In particolare si segnala proprio l’uso allargato dell’art. 41, secondo comma, Cost. quale fonte di una pluralità di autonomi diritti – al rispetto della persona, alla dignità umana e/o sociale (intesa in senso assoluto e relativo: C. cost. n. 103/89), alla parità di trattamento – con esiti non sempre apprezzabili e persuasivi. Lo sforzo di diversificazione (o di frantumazione) dell’identità normativa della persona in profili specifici, in dipendenza dei vari contesti empirici, non giova peraltro ad una chiara concettualizzazione ed al rafforzamento delle istanze di tutela. Il diritto primario e assoluto alla dignità umana che si delinea in questa prospettiva pare coincidere e risolversi, da un lato, nell’autoaffermazione del valore in sé della persona, e dunque rinvia all’unitarietà della sua forma cognitiva e di rilevanza; dall’altro, anche quando assume un contenuto specifico attraverso lo schema strutturale del diritto soggettivo, non sembra in grado di distinguersi da altre posizioni soggettive già riconosciute ed egualmente protette (onore, immagine, professionalità, ecc.) (Tullini 1994, 564). E’, fondamentalmente, la mancanza di coerenza delle singole soluzioni giurisprudenziali, che risultano di per sé non riconducibili ad unità all’interno della logica del sistema, a determinare i vizi fondamentali rilevati dall’autrice, cioè la moltiplicazione giurisprudenziale delle figure dannose, la parziale sovrapposizione delle stesse ed il rischio di escludere, invece, la risarcibilità di valori personali non espressamente previsti dalla Costituzione. 27 28 La figura del danno esistenziale rappresenta, quindi, un’importante risposta a tali problemi, consentendo la medesima di superare la frammentazione del sistema risarcitorio e di eliminare gli inconvenienti segnalati. Essa, peraltro, si caratterizza sul piano delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’illecito, prescindendo invece dall’individuazione dei singoli fatti illeciti, che possono originare sul piano giuridico l’obbligo di risarcire il danno non patrimoniale subito dal lavoratore. La risarcibilità del danno dipende, in quest’ottica, dalla possibilità di inquadrare il pregiudizio in esame all’interno degli elementi strutturali della figura generale del danno esistenziale; non invece dall’individuazione da parte del giudice di nuove estemporanee figure di danno. In altre parole, i riflessi dannosi, concretizzantesi in una lesione delle attività realizzatrici della persona, saranno risarcibili in considerazione della loro intrinseca natura, corrispondente al contenuto della categoria generale in esame. 9.13. La prova del danno esistenziale da licenziamento illegittimo. La quantificazione del risarcimento. Bibliografia Cendon e Ziviz 1995. Solo l’inquadramento delle singole fattispecie all’interno delle categorie generali consente di individuare regole comuni, necessarie per affrontare in modo coerente le diverse questioni applicative. Come dimostrato dall’esperienza giurisprudenziale, non è altrimenti possibile pervenire a soluzioni tra loro non contraddittorie. Seguendo questa impostazione, la fattispecie dannosa sarà correttamente ricostruibile nella prospettiva consequenzialistica, con l’abbandono dello schema del danno evento, già seguito da alcune sentenze in materia (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, I, 70; Pret. Parma 13.11.1995, LG, 1996, 476). Il lavoratore dovrà, pertanto, dimostrare la sussistenza del danno e la ricollegabilità causale dello stesso al licenziamento, facendo ricorso a tutti i mezzi istruttori previsti dall’ordinamento. Anche sotto questo profilo risulteranno utilissime le osservazioni generali formulate in ordine alla prova del danno esistenziale, le quali hanno evidenziato le particolarità che questa può presentare, ad esempio, in relazione all’importante ruolo della prova per presunzioni e dei fatti notori, oppure per la possibilità di ricorrere al contributo peritale di esperti delle diverse arti e scienze. 28 29 Deve, peraltro, essere ribadito che la dimostrazione dell’esistenza del danno assumerà profili diversi in relazione ai vari aspetti che esso può assumere: quando si tratta di dimostrare la compromissione di diritti fondamentali della personalità della vittima, come l’onore o la dignità, il ruolo delle presunzioni e del “notorio” sarà della massima importanza, pur dovendosi ricordare che non si intende dire che viene risarcita la lesione in sé e non la perdita o diminuzione del valore leso, secondo gli schemi operativi della conseguenzialità giuridica, che, fissati dall’art. 1223 c. c., sono applicabili anche in tema di responsabilità aquiliana, giusto il rinvio a detta norma operato dall’art. 2056 c. c. Si intende solo dire che, provata la lesione della reputazione personale, ciò comporta la prova anche della riduzione o della perdita del relativo valore. In altri termini, non si contesta la distinzione ontologica tra lesione del valore e conseguenziale perdita o diminuzione della stessa, ma si assume solo che provata la prima risulta provata anche la seconda (Cass. 10.5.2001, n. 6507, RCP, 2001, 1177). In altre parole, una volta che risulti dimostrato, peraltro in base ai criteri generali della coscienza sociale, che una certa condotta è lesiva di un determinato diritto personale del lavoratore, l’esistenza del conseguente danno si deve presumere. Allorquando sia richiesto, invece, il risarcimento di altri profili del danno dotati di una maggiore tangibilità materiale – si pensi, ad esempio, al peggioramento della qualità della vita del lavoratore e della sua famiglia per la perdita della fonte di sostentamento (Pret. L’Aquila 10.5.1991, FI, 1993, 318) -, l’attore dovrà adempiere ad un onere probatorio più severo, fornendo, con i normali mezzi istruttori – documenti, prova testimoniale, ecc. –, la dimostrazione delle circostanze idonee a comprovare l’esistenza del danno. Con l’inquadramento del pregiudizio da licenziamento lesivo nella categoria del danno esistenziale, tutte le questioni relative alla ripartizione dell’onere della prova dovranno essere esaminate e decise secondo i principi propri di questa figura e non più, invece, secondo regole frammentarie ed incerte, elaborate caso per caso dalla giurisprudenza in relazione alle singole fattispecie concrete portate al suo esame. Analogo discorso vale per il profilo della quantificazione del danno. Sino ad oggi la giurisprudenza ha affrontato il problema con una certa superficialità, la quale ha prodotto soluzioni del tutto estemporanee e spesso non coerenti con le premesse dalle quali esse muovono. Sotto questo profilo, si deve osservare che sono stati adottati per la liquidazione del danno di natura non patrimoniale criteri di natura tipicamente economica, i quali non rispondono in alcun modo alla natura del pregiudizio in esame. Tipico esempio di tale tendenza giurisprudenziale è 29 30 rappresentato dalla già richiamata sentenza della Pretura di Ferrara, secondo la quale, per quanto concerne la quantificazione del danno alla dignità umana è necessario utilizzare criteri equitativi che, nella specie, appare opportuno ancorare, in assenza di diverse indicazioni, alla previsione della recente l. n. 108/90, atteso che il rapporto di lavoro sarebbe stato oggetto per il numero di dipendenti (inferiore a 15) dello studio professionale alla disciplina prevista da tale legge per i licenziamenti individuali (art. 2, secondo comma, l. n. 108/90). Considerando la ventennale anzianità di servizio della lavoratrice le modalità del fatto, appare equo stimare nella misura massima prevista da tale norma cioè in 10 mensilità della retribuzione lorda globale, l’entità del danno da risarcire. Poiché, come risulta dalla busta paga in atti, la retribuzione mensile ammonta a circa L. 2.000.000 al lordo degli oneri fiscali e previdenziali, tale danno deve essere quantificato in complessive L. 20.000.000 (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74). Tale soluzione non è evidentemente corretta. Infatti, seppur si deve concordare sulla necessità di ricorrere al criterio equitativo, non è accettabile che ai fini della sua concretizzazione e della determinazione della somma effettivamente dovuta al lavoratore danneggiato, si faccia riferimento ad un parametro di natura prettamente patrimoniale, quale quello della retribuzione del dipendente illegittimamente licenziato. Si deve, infatti, ritenere che questa applicazione analogica del criterio previsto dalla l. 108/90 non ha alcun fondamento, in quanto la lesione della personalità e della dignità del lavoratore rappresenta un pregiudizio di natura sostanzialmente diversa. Per arrivare alla formulazione di criteri rispondenti alla reale natura e portata del pregiudizio effettivamente subito dal lavoratore licenziato, sarà invece imprescindibile indagare quali siano stati i profili personali realmente lesi dal comportamento illecito del datore di lavoro. Stabilito ciò, occorrerà individuare un criterio idoneo a convertire tale compromissione in una somma di danaro. Ha in proposito osservato un’autorevole dottrina: circa i profili del quantum respondeatur, il punto appare non già -come per nostro Pretore- quello di inseguire, se non addirittura inventare, canoni di valutazione più o meno estemporanei. Più semplicemente, si tratterà (per il giudice) di stilare un inventario delle singole traettorie d’ordine relazionale che il torto mostri di aver vulnerato, onde attribuire ad esse (motivatamente) un apprezzamento fondato sui parametri rispettosi delle peculiarietà di ciascuna (Cendon e Ziviz 1995, 79). E’, peraltro, evidente che, una volta correttamente riportato il pregiudizio in esame nell’alveo della categoria del danno esistenziale, anche la risposta al problema della quantificazione del risarcimento dovrà 30 31 essere cercata nelle regole generali, caratterizzanti tale nuova figura della responsabilità civile. Ciò consentirà di trarre vantaggio dalle riflessioni di carattere generale maturate in relazione all’aspetto della quantificazione del danno esistenziale, evitando così di approdare a soluzioni superficiali, non rispondenti alla reale natura del danno da liquidare. 9.14. Riferimenti giurisprudenziali espressi al danno esistenziale in materia di rapporto di lavoro subordinato. Si deve, peraltro, ricordare che la giurisprudenza ha già espressamente richiamato la categoria del danno esistenziale in relazione al rapporto di lavoro subordinato. La Corte di cassazione ha in tal senso deciso: nessun dubbio che le violazioni del contratto potrebbero anche tradursi in lesione di diritti personali, originando sia responsabilità contrattuale (si veda l'art. 2087 c.c.), sia responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c. In particolare, l'inadempimento dell'obbligazione retributiva potrebbe ledere la dignità, come la mancata concessione delle ferie e di riposi potrebbero pregiudicare la salute e la vita di relazione in senso più comprensivo. Evidentemente, la pretesa al risarcimento di pregiudizi siffatti si colloca completamente fuori dall'area della corrispettività (retribuzione in senso ampio) del contratto e, con specifico riguardo al mancato godimento del riposo settimanale, non ha ad oggetto i maggiori compensi collegati alla particolare penosità del lavoro. 14. Tale danno, come osservato, può consistere nella lesione dell'integrità fisio-psichica, cioè nel danno alla salute o danno biologico in senso stretto, oppure in quello che più genericamente si designa come "danno esistenziale", al fine di coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (es. impedimenti alla serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno svolgimento della propria vita lavorativa). (…) Ciò non vale ad escludere il cd. "danno esistenziale" dall'ambito dei diritti inviolabili, poiché non è solo il bene della salute a ricevere una consacrazione costituzionale sulla base dell'art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell'uomo nell'ambito della famiglia o di altra comunità riceve considerazione costituzionale ai sensi degli art. 2 e 29 (Cass. 3.7.2001, n. 9009, RCP, 2001, 1177). Anche il Tribunale di Forlì, in un caso di mobbing, ha ritenuto risarcibile il danno esistenziale subito dal dipendente di una banca, osservando che sul punto oramai è acquisito, seppure recentemente, il concetto di danno esistenziale, o danno alla vita di relazione, che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria. Viene introdotto il concetto di personalità morale del lavoratore e al limite posto dall'art. 41 Cost. all'esercizio dell'iniziativa economica privata. È stato molto efficacemente detto 31 32 recentemente che la nuova categoria del danno esistenziale può aiutare superare le incertezze evocate dall'uso dell'aggettivo morale collocando più propriamente la previsione in un'ottica di immediata tutela dei valori della personalità che sono direttamente coinvolti dallo svolgimento dell'attività lavorativa (…). Non a caso il mobbing è stato definito violenza morale e non a caso il danno esistenziale appare particolarmente congeniale a tale situazione. È la qualità della vita del lavoratore. mobbizzato a risentire principalmente, con tutte le conseguenze anche nell’ambito familliare (si pensi al doppio mobbing del quale si è parlato m precedenza) (Trib. Forlì 15.3.2001, RCDL, 2001, 411). Si deve in proposito richiamare anche la recente sentenza del Tribunale di Pinerolo in materia di mobbing e dequalificazione professionale (Trib. Pinerolo 6.2.2003). E’ interessante osservare che è proprio tramite la figura del danno esistenziale che la giurisprudenza più recente ha garantito il ristoro di quei pregiudizi, che erano già stati considerati meritevoli di risarcimento dalle sentenze antecedenti, le quali però non erano state in grado di provvedere al loro inquadramento sistematico. Del resto, anche la struttura giuridica di tali più risalenti pronunce (si veda, ad esempio, la citata Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74), presenta molte similitudini con quelle che, recentemente, hanno utilizzato la nuova categoria del danno esistenziale: il dato comune è rappresentato dall’estensione della tutela della persona oltre all’ambito del diritto alla salute, mediante la considerazione del pari valore costituzionale delle ulteriori situazioni giuridiche rilevanti – onore, dignità, ecc. 9.15. Le resistenze all’evoluzione del sistema risarcitorio: la sentenza del Tribunale di Ferrara data 10.11.1996. E’ interessante osservare che, in grado di appello, il Tribunale di Ferrara ha riformato la già citata sentenza pretorile (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, 74), respingendo la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta dalla lavoratrice illegittimamente licenziata (Trib. Ferrara 10.11.1996, OGL, 1995, 451), in quanto la perizia medico legale psichiatrica esperita sulla ricorrente aveva escluso l’esistenza di una patologia psicofisica. E’ stato sotto questo profilo infatti osservato: si tratta di vedere se la stessa, a causa delle modalità del licenziamento, possa aver subito un danno ulteriore, danno che attiene alla sfera morale, tenuto conto del citato indirizzo giurisprudenziale condiviso da questo tribunale. Per accertare l’esistenza di un danno siffatto è stata ammessa ed espletata una consulenza medico – psichiatrica. L’indagine affidata ai due consulenti (un medico legale ed uno psichiatra) si incentrava 32 33 soprattutto sul fatto che le modalità del licenziamento potessero avere influito, aggravandolo, sullo stato psichico della signora Marzola conseguente alla morte del figlio. I due consulenti, dopo aver esaminato la perizianda, hanno stabilito che Tiziana Marzola, nonostante la sua sofferenza cagionata dal grave evento luttuoso occorsole e pur avendo subito delusione e preoccupazione a causa del licenziamento, ha prontamente superato quest’ultima, subendone un “peso morale” piuttosto modesto che non causò di per sé alcuna patologia e non ha avuto ulteriori strascichi e conseguenze (Trib. Ferrara 10.11.1995, OGL, 1996, 451). Il ragionamento del Tribunale è molto semplice: poiché non esiste una lesione dell’integrità psicofisica, non può sussistere alcun ulteriore danno risarcibile. La questione di fondo è quindi, a ben vedere, quella della scelta dei beni e dei diritti che si intendono tutelare. Al di là degli aspetti tecnico giuridici, è evidente che l’elemento fondamentale di distinzione tra le soluzioni adottate dalle due sentenze risiede nel fatto che il Pretore, al contrario del Tribunale, ritiene risarcibile la lesione della dignità e della personalità del lavoratore. E’, peraltro, evidente che la soluzione prospettata dal Tribunale di Ferrara riflette una concezione ormai sorpassata del sistema del risarcimento dei danni alla persona – cioè, ancora imperniata sulle tre categorie tradizionali del danno patrimoniale, del danno morale e del danno biologico -, e non tiene in considerazione i riflessi pregiudizievoli personali di diversa natura. Essa risulta, pertanto, assolutamente superata dai nuovi confini raggiunti dall’ordinamento in relazione alla tutela della persona e, quindi, del lavoratore. 9.16. L’orientamento interpretativo finalizzato a tutelare la dignità del lavoratore mediante l’estensione dei danni risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c. c. La sentenza della Pretura di Bologna in data 20.11.1990. Legislazione Cost. 41 - c.c. 2043, 2059 – c.p. 185. Bibliografia Parpaglionii 2001 – De Sanctis 1991. Si è, pertanto, visto che dottrina e giurisprudenza hanno oramai correttamente individuato nella categoria del danno esistenziale lo strumento per estendere la tutela della persona oltre l’aspetto strettamente biologico. Per completezza si ritiene opportuno dar conto di un risalente orientamento giurisprudenziale, che aveva perseguito lo stesso scopo tramite una differente strada giuridica. Ci si riferisce ad un caso – molto triste ed assai simile a quello oggetto della già esaminata sentenza della 33 34 Pretura di Ferrara (Pret. Ferrara 25.11.1993, NGCC, 1995, I, 70) – deciso dal Pretore di Bologna (Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445): un dipendente è stato licenziato in conseguenza delle sue assenze dal lavoro, dovute alla necessità di assistere il figlio, colpito da una malattia incurabile, che lo avrebbe poi condotto alla morte. Anche il giudice bolognese accorda a tale lavoratore il risarcimento del danno per la lesione della sua dignità umana, ma la soluzione prospettata diverge, sotto l’aspetto giuridico, da quella adottata dalla Pretura di Ferrara: non si addiviene, infatti, alla contestuale applicazione della clausola generale di responsabilità (art. 2043 c. c.) e di una o più norme costituzionali. La soluzione in esame, invece, persegue il medesimo risultato estendendo l’area di applicabilità dell’art. 2059 c. c. Il Pretore afferma, infatti, che l’art. 41, 2° co., della Costituzione - che vieta che l’iniziativa economica possa svolgersi in contrasto con la dignità umana – rappresenterebbe uno dei casi previsti dalla legge, nei quali l’art. 2059 c. c. consente il risarcimento del danno non patrimoniale. E’ stato in tal senso rilevato che il secondo comma dell’art. 41 della Costituzione, preclude, tra l’altro, all’iniziativa economica privata di svolgersi in modo da recare danno alla dignità umana. La disposizione è necessariamente precettiva poiché esprime senza riserva, la ferma tutela di un diritto primario. La norma è inoltre in posizione di fonte sovraordinata alla legge ordinaria e, per quanto concerne il codice civile vigente, cronologicamente successiva. Ne consegue, per quanto qui interessa, che l’unica lettura corretta dell’art. 2059 c. c. secondo cui il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge, è nel senso di ritenere che il danno di cui parla espressamente il 2° comma cit. dell’art. 41 Cost. sia decisamente risarcibile perché la legge di base dell’ordinamento effettua inequivocabile “determinazione” del relativo “caso” lesivo non patrimoniale. In altre parole: la riserva di legge del codice civile risulta sciolta dalla stessa Costituzione che apre la via ad una liquidazione di equità di un pregiudizio che potrebbe definirsi immateriale in analogia semantica rispetto al diritto leso. Questo consente di appagare istanze sociali che non trovano risposta per la vischiosità di strumenti pur disponibili e di comporre il conflitto logico tra l’affermazione costituzionale di un diritto essenziale e la contrapposta eccezione di totale impotenza operativa; ciò su un piano di coordinato equilibrio fra il più volte citato art. 41 della Costituzione (nell’alveo del precedente art. 2 della Carta) e le disposizioni del titolo IX del libro IV del codice civile; segnatamente, degli artt. 2043, 2056 (col richiamo, in particolare, dell’art. 1226) e 2059 cit. (Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445). Questa soluzione ha trovato sostegno, peraltro proprio in chiave anti esistenzialista, da una parte della dottrina, come è stato acutamente rilevato: 34 35 ma le critiche nei confronti del danno esistenziale si risolvono in realtà nel riproporre la ben nota teoria della estensione interpretativa dell’art. 2059 c. c. (Parpaglioni 2001, 2139). A favore dell’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 2059 c. c. – e contro la figura del danno esistenziale – è stato, infatti, osservato che non vi sono altre manifestazioni della persona umana (rapporti sociali, attività culturali, religiose e ludiche) che appaiano compromesse dal fatto illecito in esame. L’unico problema consiste, pertanto, nella possibilità che – al di fuori di conseguenze strettamente patrimoniali e dell’accertamento medico legale in ordine alla lesione dell’integrità psico-fisica – il lavoratore resti privo di tutela risarcitoria per difetto di un’ipotesi di reato, che consenta la liquidazione del danno morale ai sensi dell’art 2059 . c. c. Ma se la questione si riduce esclusivamente a ciò, in luogo dell’elaborazione di nuove categorie di danno, appare davvero preferibile l’estensione interpretativa ed applicativa dell’art. 2059 c. c., nel senso di considerare in ogni caso come “prevista dalla legge” la riparazione pecuniaria della lesione di diritti fondamentali – consacrati nella Carta Costituzionale – come l’onore, la reputazione ed il lavoro (Paladini, riportato da Parpaglioni, 2001, 2139). Tale soluzione non può essere condivisa. Preliminarmente, è quasi inutile sottolineare che non si può certo condividere la premessa da cui muove tale dottrina, secondo cui non potrebbero essere lesi dall’illecito diritti della persona diversi da quello alla salute: tale tesi è stata ormai “seppellita” dalla giurisprudenza, nonché dalla dottrina più evoluta. A prescindere da ciò, si deve evidenziare, dal punto di vista squisitamente tecnico giuridico, che l’art. 41, 2° co., Cost. – la cui natura direttamente precettiva non si intende di certo contestare -, si limita a stabilire che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con la dignità umana dei lavoratori, ma non prevede in alcun modo che, in caso di violazione di tale precetto, sorga in capo alla vittima il diritto ad ottenere il risarcimento dell’eventuale danno non patrimoniale subito. Quindi, non si può ritenere di essere in presenza di una di quelle fattispecie richiamate dall’art. 2059 c. c., nelle quali la legge prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale. Per comprendere ciò è sufficiente confrontare l’art. 41, 2° co., Cost. con l’art. 185 c. p. - che rappresenta la principale ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale, tra quelle indicate dall’art. 2059 c. c. -, il quale prevede espressamente che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui (art. 185, 2° co., c. p.). Si coglie, quindi, facilmente la differenza di struttura rispetto all’art. 41, 2° co., Cost. Quest’ultima norma si limita, infatti, a stabilire il 35 36 principio, secondo cui la libertà di iniziativa economica non deve calpestare la dignità dell’individuo, senza però prevedere espressamente al contrario dell’art. 185 c. p. -, che, in caso di sua violazione, la vittima abbia diritto al ristoro del danno non patrimoniale. Si deve poi osservare che la soluzione fondata sull’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 2059 c. c. manca di coerenza sistematica. Il danno derivante dalla lesione della dignità del lavoratore viene in tal modo considerato risarcibile tramite la mediazione di una categoria giuridica, quella del danno non patrimoniale, che, nell’interpretazione restrittiva di danno morale subiettivo, proposta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184 / 1986, risulta assolutamente inidonea a rappresentare la reale natura del pregiudizio subito dal lavoratore. Non si tratta, infatti, di risarcire l’afflizione psichica subita dal danneggiato, ma bensì la lesione di un valore proprio della sua persona, che si traduce in una diminutio della stessa, rilevante sotto il profilo esistenziale. La sentenza bolognese deve però essere valutata con riferimento alla sua collocazione temporale. E’ interessante, sotto questo profilo, osservare come, in sede di commento di tale decisione, la dottrina abbia a quel tempo osservato che certo si può fin d’ora affermare che la normativa codicistica, originariamente dettata, almeno prevalentemente, per la tutela di beni patrimoniali (così la stessa Corte costituzionale), dovrà essere necessariamente rivisitata alla luce del dettato costituzionale che attribuisce, invece, decisa preminenza ai valori personali (De Sanctis 1991, 449). Essa merita, pertanto, apprezzamento in quanto riconosce, comunque, la risarcibilità della lesione della dignità della persona, intesa come autocoscienza del singolo dei propri valori fondamentali come persona, quei valori, cioè che ne guidano le azioni e che si tendono a trasmettere agli altri con contegni adeguati (Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445). Ciò premesso, il Pretore ritiene, infatti, che, nel caso in esame, il licenziamento va qualificato per forma, contenuto, tempi e modalità, come irrimediabilmente e gravemente offensivo della “dignità” dell’interessato (Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445). Tale sentenza rappresenta, pertanto, un chiaro esempio delle difficoltà, già rilevate sul piano generale, che la giurisprudenza ha incontrato, allorquando, in conseguenza del successo della figura del danno biologico, ha sentito la necessità di assicurare il risarcimento di pregiudizi diversi ed 36 37 ulteriori rispetto a quello all'integrità psicofisica. Non avendo la possibilità di fare riferimento ad una categoria giuridica appropriata, le Corti hanno necessariamente tentato di forzare le categorie già riconosciute. 9.16.1. Il collegamento tra il recente orientamento della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno non patrimoniale e la sentenza della Pretura di Bologna in data 20.11.1990. Per completezza occorre, però, ricordare che la Corte di legittimità ha recentemente proposto una ricostruzione del sistema del risarcimento del danno non patrimoniale, che si avvicina molto a quella già enunciata dalla richiamata sentenza della Pretura di Bologna (Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445). Il presupposto di questo nuovo orientamento è il superamento del consolidato insegnamento, secondo cui il concetto di danno non ptatrimoniale di cui all’art. 2059 c. c. riguarderebbe solo il c. d. danno morale subiettivo, cioè la transeunte sofferenza psicofisica (Cass. 31.5.2003, n. 8827 e n. 8828, D&G, 2003, n. 24, 26). Ciò premesso, la Corte di cassazione ha affermato che il limite risarcitorio, rappresentato dalla riserva di legge prevista dall’art. 2059 c. c., non troverebbe applicazione nel caso in cui risultino lesi valori costituzionalmente garantiti della vittima. In quest’ottica è stato anche affermato che le singole norme della Carta fondamentale rappresenterebbero fattispecie legislative che integrerebbero la riserva di legge in esame. La Suprema corte ha in tal senso deciso: venendo ora alla questione cruciale del limite al quale l’art. 2059 del codice del 1942 assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p. (ma v. anche l’art. 89 c.p.c.), ritiene il Collegio che, venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. Una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti. Occorre considerare, infatti, che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto la riparazione mediante indennizzo (ove no sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi (v. Corte Cost., sent. n. 184/86, che si avvale tuttavia dell’argomento per ampliare l’ambito della tutela ex art. 2043 al danno non patrimoniale da lesione della integrità biopsichica; ma l’argomento si presta ad essere utilizzato anche per dare una interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 2059). D’altra parte, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non 37 38 patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale (Cass. 31.5.2003, n. 8828, D&G, 2003, n. 24, 26). 9.17. Ulteriori danni risarcibili in caso di licenziamento lesivo del lavoratore. Il danno biologico, morale e patrimoniale. Legislazione Cost. 32 - c.c. 2043 - c. p. 590, 594, 595 – l. 20.5.1970, n. 300. Bibliografia Cester 2000. Si è visto, quindi, che, con riguardo alla fattispecie del licenziamento lesivo, la tutela risarcitoria del lavoratore è stata correttamente estesa oltre all’ipotesi del vero e proprio pregiudizio alla salute. E’ stata così assicurata la risarcibilità del danno derivante dalla lesione di ulteriori valori della personalità del lavoratore, quali la dignità e l’onore. Si è anche criticato quell’orientamento interpretativo giuriprudenziale – peraltro, non limitato all’area del rapporto di lavoro subordinato – che ha utilizzato la categoria del danno biologico per assicurare invece la risarcibilità di pregiudizi di diversa natura, cioè non concretizzantesi in una vera e propria lesione dell’integrità psicofisica. Ciò, evidentemente, non significa però che il danno biologico derivante da licenziamento lesivo non debba essere risarcito qualora effettivamente sussistente. Quindi, nessuna novità rispetto a quanto acquisito dalla migliore giurisprudenza negli altri settori della responsabilità civile: il danno alla salute è risarcibile solo allorquando si verifichi una lesione dell’integrità psicofisica, che, in conformità dei principi generali, dovrà essere accertata mediante perizia medico legale. Correttamente, un orientamento giurisprudenziale ha perciò ritenuto che la risarcibilità di tale pregiudizio è subordinata alla prova dell'effettiva esistenza di una lesione psicofisica e della derivazione causale della stessa dal comportamento datoriale illegittimo. E’ stato in tal senso deciso che l'attribuzione di una somma a titolo di danno biologico è subordinata alla prova dell'esistenza di un aggravamento psico-fisico dello stato di salute e del nesso di causalità fra il comportamento datoriale illegittimo e tale aggravamento (Pret. Milano 15.4.1997, RCDL, 1998, 174). Con riguardo ad una fattispecie in cui il datore di lavoro, in seguito alla reintegrazione disposta dall’autorità giudiziaria, aveva affidato al lavoratore illegittimamente licenziato ed estromesso dall'attività lavorativa 38 39 mansioni non corrispondenti alla sua qualifica, causandogli in tal modo una grave sindrome da esaurimento nervoso, la Corte di cassazione ha ritenuto che il bene della salute costituisce, come tale, oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 cost.), sicché il risarcimento dovuto per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono solo sull'idoneità a produrre reddito, ma deve autonomamente comprendere il cosiddetto danno biologico, inteso come la menomazione dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua dimensione, che non si esaurisce nell'attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica (Cass. 24.1.1990, n. 411, OGL, 1991, 233). Più complesso è il problema del nesso causale: ci si deve infatti chiedere quando tale pregiudizio possa essere ricollegabile al licenziamento illegittimo. Sotto questo profilo, è stato ritenuto in giurisprudenza che per collegare con attendibile nesso di causalità umana (art. 2043 c.c.) il danno biologico al licenziamento occorre la prospettazione di fatti specificamente significativi (particolarità specifiche del recesso in termini di modalità e non la mera illegittimità dello stesso). A tal fine non è sufficiente esibire certificati medici che attestano stati di generica depressione, essendo il danno biologico - come danno al bene salute - un danno relativamente stabile, collegabile con relativa certezza ad un fatto illecito e non una qualsivoglia reazione emotiva (ancorchè rilevabile nella sfera psicosomatica) ad un evento negativo della vita (Trib. Milano 23.5.1995, OGL, 1998, I, 709). L’individuazione e la tutela del danno morale non presentano significative peculiarietà in relazione al rapporto di lavoro (Cester 2000, 497). Quindi, tale pregiudizio sarà risarcibile quando il licenziamento lesivo integri una fattispecie penalmente rilevante, ad esempio, quella delle lesioni personali (art. 590 c. p.), dell’ingiuria (art. 594 c. p.) o della diffamazione (art. 595 c. p.). La Pretura di Bologna ha così ritenuto che nella lettera di recesso inviata al Bolognesi, va ravvisato un comportamento criminoso dell’azienda sotto il profilo di una “ingiuria” in senso proprio il cui accertamento incidenter tantum in questa sede giustifica il ristoro della danno morale alla parte lesa (Pret. Bologna 20.11.1990, DPL, 1991, 445). Un’altra sentenza di merito ha ritenuto risarcibile il danno morale subito dalla dipendente - che si era dimessa per giusta causa - in conseguenza della lesione psichica alla medesima causata dall’insistente 39 40 corteggiamento e dalle molestie sessuali del datore di lavoro (Pret. Trento 22.2.1993, RIDL, 1994, II, 172; GC, 1994, I, 555). Occorre, peraltro, ricordare che, secondo il nuovo orientamento interpretativo recentemente proposto dalla Corte di cassazione (Cass. 31.5.2003, n. 8827 e n. 8828, D&G, 2003, n. 24, 26), ai fini della risarcibilità dei danni non patrimoniali di qualsivoglia natura, non è più necessaria la rilevanza penale dell’illecito, non trovando applicazione la riserva di legge preivsta dall’art. 2059 c. c. nel caso in cui risultino lesi diritti costituzionalmente garantiti della vittima. Un ultimo accenno al danno patrimoniale. Anche con riferimento a tale voce, deve essere riconosciuta la risarcibilità del danno ulteriore, rispetto a quello previsto dalla legislazione speciale. Ciò è stato espressamente riconosciuto dalla Suprema corte, la quale, anche con una recente pronuncia, ha affermato che ai sensi dell'art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300, il risarcimento del danno per il periodo intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo si identifica - quanto al danno eccedente le cinque mensilità dovute per legge - nelle retribuzioni non percepite, salvo che il dipendente provi di aver subito un danno maggiore (Cass. 16.3.2002, n. 3904, MGC, 2002, 471). Tale sentenza è, peraltro, conforme al precedente orientamento della stessa Suprema corte, la quale aveva già ritenuto che per il periodo anteriore alla sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro l'art. 18 l. n. 300 del 1970 riconosce il diritto al risarcimento del danno, che va commisurato alle retribuzioni perse, salva la allegazione e dimostrazione da parte del lavoratore di un danno ulteriore (Cass. 4.3.1998, n. 2379, MGC, 1998, 501). Con un’altra sentenza, la Corte di cassazione ha deciso che, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, in caso di licenziamento lesivo, deve essere garantito il risarcimento del danno alla professionalità – che può avere contenuto tanto patrimoniale che non patrimoniale – (Cass. 5.11.1997, n. 10855, RGL, 1998, II, 257). Si deve, peraltro, precisare che la risarcibilità dell’ulteriore danno patrimoniale subito dal lavoratore deve essere riconosciuta a prescindere dal regime di tutela – reale od obbligatorio - applicabile nel caso concreto: è evidente, infatti, che nessuna forza discriminante può in proposito essere riconosciuta al numero dei dipendenti impiegati dal datore di lavoro. Ciò che importa è che il danno ulteriore esista e che esso sia dimostrato dal lavoratore. Un tipico esempio di pregiudizio patrimoniale significativo sotto questo profilo potrebbe essere rappresentato dal danno derivante dalla 40 41 difficoltà del lavoratore a reperire una nuova occupazione in conseguenza della conoscenza del motivo del licenziamento nell'ambiente di lavoro (Cass. 8.9.1995, n. 9492, GC, 1996, I, 1996, 101; RCDL, 1996, 548). 9.18. Conclusioni. Il rapporto di lavoro subordinato costituisce, a causa dell’implicazione del lavoratore nella prestazione contrattuale, un’area al cui interno possono verificarsi gravi lesioni dei diritti della persona. Date determinate condizioni, un licenziamento illegittimo può, quindi, dare luogo a conseguenze – in particolare di natura risarcitoria – ulteriori rispetto a quelle discendenti dalla disciplina legale di tale istituto: ciò avviene nell’ipotesi in cui, oltre ad essere illegittimo, il licenziamento risulti - per qualunque ragione e non solo per la forma utilizzata dal datore di lavoro -, anche lesivo della personalità del lavoratore. Per effettuare tale giudizio è necessario spostare la propria attenzione sul piano degli effetti della condotta lesiva: si tratterà di verificare se il licenziamento abbia leso diritti della personalità del lavoratore. Particolarmente interessante risulta il modello giurisprudenziale che si fonda sull’applicazione congiunta dell’art. 2043 c. c. e delle norme costituzionali poste a tutela del lavoratore. Si è, però, evidenziato che la tutela risarcitoria del lavoratore per licenziamento lesivo della sua personalità deve necessariamente essere ricondotto agli schemi della responsabilità aquiliana e di quella contrattuale: pertanto, essa non potrà essere subordinata a condizioni diverse od ulteriori rispetto a quelle proprie dei modelli generali di responsabilità. Si è poi indagata la natura dei danni risarcibili in conseguenza del licenziamento lesivo della personalità del lavoratore. Sotto questo profilo, la giurisprudenza ha saputo faticosamente abbandonare l’originaria tendenza ad utilizzare la categoria del danno biologico per assicurare il risarcimento di conseguenze pregiudizievoli non concretizzantesi in una lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore. Si è, quindi, riconosciuta la risarcibilità di diversi diritti, quali, appunto, la dignità del lavoratore. Si è visto che il pregiudizio subito da quest’ultimo può facilmente consistere in una compromissione delle sue attività realizzatrici. Si tratta, allora, di un vero e proprio danno esistenziale, categoria che, anche in questo settore, può svolgere una funzione unificatrice e razionalizzatrice dell’universo risarcitorio. Tale figura consente di considerare unitariamente tutti i profili di pregiudizio non patrimoniale - diversi dal danno morale subiettivo subiti dal lavoratore e, pertanto, di superare i problemi derivanti dalla 41 42 mancanza di una categoria generale di riferimento, alla quale ancorare la tutela dei diritti non patrimoniali del lavoratore. Solo l’inquadramento delle singole fattispecie all’interno delle categorie generali consente di individuare regole comuni, necessarie per affrontare in modo coerente le diverse questioni applicative. Quindi, la classificazione nella categoria del danno esistenziale dei pregiudizi - da licenziamento lesivo - concretizzantisi in una compromissione delle attività realizzatrici della vittima permette di affrontare e decidere tutte le singole questioni concrete – in primis quelle relative alla ripartizione dell’onere della prova ed alla quantificazione del danno - secondo i principi propri di questa figura e non più, invece, in base a regole frammentarie ed incerte, elaborate caso per caso dalla giurisprudenza. 42 43 INDICE BIBLIOGRAFICO Cassano G. 2002 La prima giurisprudenza del danno esistenziale, La Tribuna, Piacenza. Cendon P. e Ziviz P. 1995 Lesione della dignità del lavoratore e risarcimento del danno, in NGCC, 1995, I, 75 – 81. Cendon P. e Ziviz P. (a cura di) 2000 Il danno esistenziale. Una nuova categoria della responsabilità civile, Giuffrè, Milano. Cendon P. 2001 Esistere e non esistere, in Cendon P. (a cura di) Trattato breve dei nuovi danni, 1 - 109, Cedam, Padova. Cendon P. (a cura di) 2001 Trattato breve dei nuovi danni, Cedam, Padova. Cendon P. e Ziviz P. 2003 Il risarcimento del danno esistenziale, Giuffrè, Milano. Cester Carlo 2000 Rapporto di lavoro, danno esistenziale e licenziamento, in Cendon P. e Ziviz P. (a cura di) Il danno esistenziale. Una nuova categoria della responsabilità civile, 491 – 503, Giuffrè, Milano. Cendon P. e Ziviz P. 1995 Lesione della dignità del lavoratore e risarcimento del danno, in NGCC, 1995, I, 75 – 81. 43 44 De Sanctis L. 1991 Risarcimento della dgnità offesa, in DPL, 1991, 448 – 449. Mannaccio 1996 Licenziamento ingiurioso e risarcimento del danno, in LNG, 1996, 479 – 481. Paladini M. 2001 La responsabilità civile da licenziamento ingiurioso, Cedam, Padova. Parpaglioni M. 2001 Il licenziamento illegittimo, in Cendon P. (a cura di) Trattato breve dei nuovi danni, 2119 - 2146, Cedam, Padova. Pellacani G. 1993 Il licenziamento ingiurioso, in DL, 1993, I, 229. Tullini P. 1995 Del licenziamento ingiurioso, del danno biologico e di altro, in RIDL, II, 562 – 573. 44