GIANNI COLZANI
Svolta missionaria della pastorale?
Riflessioni per una verifica
Il documento programmatico della Cei “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (2001)
prospettava alla Chiesa italiana un ripensamento globale della pastorale in chiave missionaria.
L'orientamento mantiene oggi intatta la sua validità, che appare sempre più viva alla consapevolezza
diffusa della nostre comunità. E tuttavia non sembra che ciò abbia prodotto concreti cambiamenti di
portata significativa.
L'articolo del teologo milanese don Gianni Colzani riprende il documento a tre anni di distanza,
proponendo elementi per una verifica, talora severa, e, soprattutto, alcuni spunti per una sua più decisa
ripresa: l'invito a costruire eucaristicamente la Chiesa, l'auspicio di esperienze di vita evangelica, una
persuasiva riattivazione del rapporto tra fede e cultura.
Nella seconda parte dell'articolo viene messa a fuoco la questione formativa, e in particolare la
domanda su quali comportamenti favoriscano e quali impediscano quell'ascolto del nostro tempo e
quella fedeltà alla trascendenza del vangelo che il documento indica come prioritari per porre basi
serie a un progetto missionario.
Il documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Orientamenti pastorali
dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, ha un chiaro intento missionario: «comunicare
il vangelo» - indicato come «compito fondamentale della Chiesa» (n. 32) - non è altro che
quell'«evangelizzare» che l'Evangelii Nuntiandi di Paolo VI indicava come la vocazione propria della
Chiesa (n. 14). Se mai, si può osservare che, mentre la terminologia di papa Montini metteva al centra la
forza santificante e liberante del vangelo, il lessico comunicare / comunicazione porta l'attenzione su
una realtà storica che, proprio riflettendo sulle concrete modalità della attuale comunicazione del
vangelo, illumina quella «chiamata alla conversione» e quella «eloquenza della santità» necessaria
perché la Chiesa italiana modifichi il suo assetto in termini missionari.
Da una parte questo comunicare è indicato come un «evento», cioè come il frutto della dinamica
salvifica della Parola: si tratta di far sì che «attraverso la preghiera liturgica, la parola del Signore
contenuta nelle Scritture si faccia evento, risuoni nella storia, susciti la trasformazione del cuore dei
credenti» (n. 32). Dall'altra è presentato come un «incontro»: va infatti condiviso «con tutti gli uomini e
le donne che sono alla ricerca di ragioni per vivere, di una pienezza di vita» (n. 32). L'evento salvifico e
l'incontro pastorale sono così i due cardini della concezione missionaria del documento; l'intreccio di
questi due atteggiamenti mira a conferire alla Chiesa un volto nuovo e una più chiara consapevolezza
dei suoi compiti. Solo allora si potrà dire che «la missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo
dell'impegno pastorale ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza» (n. 32).
Assumere la missione ad gentes come orizzonte e paradigma della cura pastorale non equivale a una
semplice dichiarazione di morte della pastorale per sostituirla in toto, nei suoi scopi e nei suoi metodi,
con la missio ad gentes. Si tratta invece di qualcosa di più complesso che, riconoscendo la svolta in atto
delle problematiche pastorali, postula un nuova comprensione della realtà e un nuovo spirito
nell’affrontarla: insomma, qualcosa di mezzo tra chi vorrebbe l'Italia terra di missione e chi vorrebbe un
semplice rilancio della pastorale. La «chiamata alla conversione» e la «eloquenza della santità» sembrerebbero un buon punto di partenza per elaborare questo nuovo paradigma 'missionario' della
pastorale ma, di fatto, non svolgono una grande funzione nel documento. Resta così il riconoscimento di
una nuova realtà che interpella la Chiesa e le sue forme senza che sia del tutto chiaro come rispondervi.
In questa luce, l'intero patrimonio conciliare e post-conciliare è come riassunto nella «urgenza di
rinnovare e approfondire la nostra collaborazione alla missione di Cristo. L'amore di Cristo ci spinge ad
annunciare la speranza a tutti i fratelli e le sorelle del nostro paese» (n. 8). L'intero documento è retto
dalla prospettiva di una Chiesa impegnata a modellarsi su Cristo: «Solo seguendo l'itinerario della
missione dell'Inviato (..) sarà possibile per la Chiesa assumere uno stile missionario conforme a quello
del Servo,di cui essa stessa è serva» (n. lO). Il senso di queste affermazioni è trasparente: posta al
servizio del suo Signore, la Chiesa deve viverne la missione e rispettarne l'ampiezza. L'orizzonte
pastorale proposto alla Chiesa italiana è quindi fissato attorno alla centralità di Cristo e della sua
missione.
Si comprende così la trasparente articolazione del documento. La prima parte - nn. 10-31 - è un invito a
tenere lo sguardo fisso sull'icona di Cristo, ripercorrendone la figura in ordine all'umanità: egli è
l’inviato del Padre, è il Salvatore in mezzo a noi, è il Risorto che vive per sempre. In questi termini,
Gesù è colui che viene continuamente nella nostra vita. La seconda parte - nn. 32-62 - introduce la
Chiesa; posta sul prolungamento dell' opera di Gesù, la sua missione risulta segnata da quello Spirito e
da quel vangelo che ne ripresentano l'evento salvifico.
Costituito da un ampio testo e da una stringata appendice pastorale, questo documento è nelle mani della
Chiesa italiana da diversi anni. A questo punto, diventa spontaneo domandarsi cosa abbia cambiato
nell'assetto della Chiesa italiana e quanto abbia contribuito a darle un volto missionario.
Verso un nuovo paradigma pastorale?
Già citata (nn. 32.46), l'affermazione del nuovo paradigma centrato sulla missione dice il disegno
pastorale dell'episcopato italiano; lungi dal viverlo in termini velleitari, l’episcopato si dice disposto
«anche a operare cambiamenti, qualora siano necessari, nella pastorale e nelle forme di
evangelizzazione, ad assumere nuove iniziative» (n. 32).
Il documento non manca di precisare concretamente l'impegno missionario perché non rimanga un
semplice atto di buona volontà; scrive che si tratta di «dare a tutta la vita quotidiana della Chiesa, anche
attraverso mutamenti nella pastorale, una chiara connotazione missionaria; fondare tale scelta su un
forte impegno in ordine alla qualità formativa, in senso spirituale, teologico, culturale, umano; favorire,
in definitiva, una più adeguata ed efficace comunicazione agli uomini, in mezzo ai quali viviamo, del
mistero del Dio vivente e vero, fonte di gioia e di speranza per l'umanità intera» (n. 44). Sono
affermazioni precise che indicano in una svolta pastorale, in una formazione ampia e seria e in una
comunicazione efficace le linee pedagogiche del documento.
Queste affermazioni, di sicuro importanti, hanno il pregio di delineare chiaramente la svolta missionaria
che si chiede alla Chiesa italiana ma non ho l'impressione che abbiano avuto nella nostra Chiesa
l'attenzione che meritano. Mi sembra che, per lo più, l'impianto pastorale delle diocesi stia muovendosi
verso un richiamo linguistico di formule missionarie e un'accentuazione di buona volontà. Dico
francamente che, per questa via, la continua ripetizione di formule missionarie non è automaticamente
produttiva; non si vede perché il semplice ribadire formule apostoliche e il richiedere maggior coerenza
e maggior impegno debba produrre oggi ciò che non ha ottenuto ieri. Con durezza, Barth scriveva che
questa insistenza linguistica, sotto il profilo dell'efficacia, ha la stessa incidenza di un rituale indiano di
danza della pioggia.
Ho l'impressione che la richiesta di una «conversione pastorale» (n. 46) stia producendo più un rilancio
della pastorale che una conversione alla missione. Lo stesso documento in qualche punto non sfugge a
questa critica: alcune sue affermazioni sembrano risolversi nel rilancio di una vita cristiana più che nella
scelta di un impianto missionario. Insistendo su una Chiesa di discepoli e di inviati, i nn. 63-64
ribadiscono che «per rinnovare il nostro apostolato, il nostro slancio missionario, che è servizio alla
missione dell'Inviato del Padre, dovremo perciò sempre essere i primi ad ascoltare assiduamente la
Parola di Dio, a lasciarci permeare dalla sua grazia, a convertirci instancabilmente» (n. 64).
Non ho l'ingenuità di ritenere che l'apostolato sia una somma di impegni e non, invece, la pienezza della
vita battesimale, ma sarebbero stati auspicabili anche un chiaro riconoscimento delle pigrizie e degli
errori precedenti e l'indicazione di precisi itinerari missionari. In assenza di ciò, temo che la meta
proposta non verrà affatto raggiunta. Come tante volte ha ricordato S. Dianich, all'origine dei nostri
problemi sta un blocco dell'evangelizzazione con la conseguente riduzione della pastorale alla gestione
ordinaria: una catechesi protetta e l'amministrazione dei sacramenti assorbono gran parte delle energie
della comunità mentre l'evangelizzazione o comunicazione della fede latitano. Le stesse occasioni di
incontro con i cristiani della soglia, in occasione di battesimi matrimoni o funerali, non produce una
ripresa di impegno apostolico. Nella vita cristiana abituale, l'annuncio del vangelo è stato delegato ad
alcuni incaricati mentre il cammino verso una maturità spirituale e apostolica è stato sostituito dall' etica
e dalla ricerca di un benessere psico-spirituale-terapeutico.
Rimettere al centro la Parola e le sue dinamiche è certo la strada da percorrere, ma il primato della
Parola non può risolversi in un invito all'ascolto e alla conversione soltanto ma deve comprendere il
discernimento delle situazioni, l'incontro e l'attenzione a tutti, anche a chi non crede, l'accoglienza e il
dialogo sincero con chi è in ricerca, il cammino con gli ultimi e, più concretamente, la testimonianza
della sobrietà e della castità, il valore del silenzio e della preghiera e il loro completamento nel servizio,
una riflessione sui gruppi e sulla loro funzione...
Ho allora provato a ricercare nello stesso documento le linee di impegno missionario. Proprio perché il
documento è migliore dell'uso che le nostre comunità stanno facendone, ha pure molti spunti
significativi per una sua più decisa ripresa in senso missionario. Passati inosservati, questi suggerimenti
vanno rilanciati con forza e questo rilancio deve vedere il movimento missionario in prima fila.
A me pare che il documento contenga almeno tre spunti fondamentali.
Verso una Chiesa eucaristica
Il primo è l'invito a costruire eucaristicamente la Chiesa.
Il n. 46 descrive la comunità eucaristica come l'insieme di coloro «che si riuniscono con assiduità nella
eucaristia domenicale e, in particolare, quanti collaborano regolarmente alla vita delle nostre
parrocchie». Per quanto non sia molto teologica, l'affermazione rimanda all'Eucaristia come alla
manifestazione, sacramentale ma reale, della ampiezza e della integralità dell' opera divina: lì si realizza
la massima unione del Verbo con l'umanità e lì i credenti trovano la radice della loro sapienza e della
loro forza di vita.
Per una comunità eucaristica, Cristo non è solo il Maestro ma è la vita; posta nel mondo come portatrice
di un nuovo modo di esistere, la Chiesa è opera di quel Redentore che a tutti i suoi discepoli dona quello
Spirito che li abilita a vivere da figli. Se il mondo ortodosso accentua il carattere della presenza - già
realizzata - del disegno divino nella Chiesa, il mondo cattolico ne ricava la capacità di vivere con e
come il proprio Signore, di vivere nell'ottica della sua missione. Sottolineando la dimensione personale
della Chiesa, comunione di credenti ancora in cammino, l’ascolto della Parola e la comunione
sacramentale generano una comunione di vita che si sviluppa fino alla testimonianza, fino alla
manifestazione di una dinamica missionaria che, attraverso la Chiesa, passa da Cristo alla società
umana.
Lungi dal considerarla un'indicazione teorica e generica, il testo ne fa una occasione preziosa di
discernimento e di riflessione: segnala infatti come fatto a cui prestare grande attenzione la
scissione tra comunità battesimale e comunità eucaristica. Poiché per comunità battesimale intende
coloro che si limitano «a qualche incontro più o meno sporadico, in occasioni particolari della vita o
rischiano di dimenticare il loro battesimo e vivono nella indifferenza religiosa» (n. 46), si può temere
che certe frequenze domenicali siano più l'anticamera della comunità battesimale che l'espressione di
quella eucaristica.
Logica vorrebbe che la serietà del problema comporti una sua valutazione e qualche indicazione
operativa. In realtà queste indicazioni mancano. Il n. 46 si limita a invitare ad «assumere seriamente e
responsabilmente» questi due livelli e nella Appendice per un’agenda pastorale, dove il tema ritorna ai
primi due punti delle Esigenze della missione, ci si limita a ricordare l'impegno di «mettere a fuoco, in
vario modo, la scelta di farla [la comunità eucaristica] diventare una reale comunità di discepoli» e di
chiarire «quali passi concreti si possono e si debbono compiere perché le nostre comunità cristiane si
facciano carico di tutti i battezzati». In altri termini, il problema è scaricato dai vescovi sui parroci e
sulle comunità. .
Non sono in grado di dire se sia stato compiuto qualche passo o tentata qualche esperienza a partire da
queste indicazioni; vorrei soltanto dire che abbiamo qui un aspetto di quel grande problema pastorale
che è la religiosità popolare. Le ragioni che spingono le persone a partecipare all'Eucaristia non sono
sempre quelle che noi supponiamo proprie di una vera comunità eucaristica. Prenderne atto esige di
potenziare la formazione catechistica e creare dei percorsi di prima evangelizzazione capaci di
incontrare le domande di senso che attraversano la nostra società; l'impressione, invece, è che la fatica
del momento porti a valorizzare la semplice presenza o la semplice domanda di sacramenti come
pressoché sufficiente per se stessa.
Ampliando lo sguardo ai non battezzati e a coloro che «hanno aderito ad altre religioni e ai non
battezzati presenti nelle nostre terre» (n. 46), il testo ricava una radiografia delle comunità che è segnata
da forme molto diverse di appartenenza e di riferimento; prenderne realisticamente atto rende prezioso il
suggerimento di una Chiesa «casa e scuola di comunione» (n. 65). Presa da Novo millennio ineunte 43,
questa affermazione è completata da ciò che proprio in quel testo si dice, cioè che «occorre promuovere
una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si
plasma l'uomo e il cristiano». Vivificata dalla Parola e dallo Spirito, l'Eucaristia è allora l'ambito
decisivo di un cammino di maturità cristiana: ci aiuta a leggere la storia come realtà in cui vibra il
mistero dell' amore del Padre e a operare per portare la vita a quel vertice che si dà nell' amore della
Pasqua.
Favorire esperienze di vita evangelica
Il secondo suggerimento chiede di favorire «esperienze di vita, personali e comunitarie, fortemente
ancorate al vangelo per dare un avvenire alla trasmissione della fede in un mondo in profondo cambiamento» (n. 45). Presentarle come atteggiamenti 'profetici' mi sembra non dica altro che il loro legame
con la Parola, almeno nella forma con cui Lumen Gentium 12 e 35 parlano di una Chiesa profetica.
Queste esperienze non sono precisate se non nel loro animo: esigono una «fede adulta», un «continuo
impegno di conversione», una «chiamata alla santità», una «dedizione assoluta» e una «adesione al vangelo» e, in quanto tali, sono il frutto della «accoglienza dello Spirito»vera radice della diversità cristiana
(n. 45).
Questo quadro sostanzialmente intraecclesiale, intende chiaramente prendere alcune distanze. Intende
anzitutto allontanarsi da una vita cristiana svalutata, raccolta sul minimo (non fare peccati mortali);
intende inoltre, a mio parere, separarsi anche da un radicalismo che si lascia alle spalle il cammino delle
comunità per contrapporsi a esse. Così come il testo le presenta, le esperienze autenticamente evangeliche sono il frutto di un cammino non individualistico ma comunitario, in grado di coinvolgere tutti in
modo intelligente e corresponsabile (n. 44).
Si intuisce il problema pastorale che il testo ha qui presente e cioè quello del rapporto tra esperienze
evangeliche forti e una vita cristiana mediamente abitudinaria. Non possiamo che rallegrarci del fiorire
di forme di vita cristiana dove l'amore per la parola si salda a un forte impegno di carità; non si può non
temere però che questa esperienza - assimilata a una nuova rinascita o a un nuovo battesimo o, comunque, a una scelta decisiva - sia così enfatizzata da non collocarsi nel cammino delle Chiese ma quasi in
antitesi a esse. Certamente, come ricorda Paolo, ognuno ha il proprio dono ma ogni dono va messo al
servizio della utilità comune (1 Cor 12,7). Solo allora interpella positivamente le comunità.
Per conto mio ritengo che non appartenga alla tradizione della Chiesa italiana una pastorale elitaria
(n.50); essa possiede ancora un sufficiente radicamento popolare da non giustificare l'abbandono di
questa tradizione. La stessa radicalità cristiana non è alternativa ma propositiva, non è contro qualcosa
ma a favore. Non mi sfugge che, proprio qui, emergono non poche difficoltà pastorali; non sfuggono
nemmeno al testo che sotto un unico titolo - «una rinnovata attenzione a tutti i battezzati» - raccoglie ai
nn. 56-62 un impressionante insieme di questioni.
L'intera questione è però vista in termini eccessivamente pastorali e poco missionari; il minimo perché
si possa continuare a parlare di spirito missionario, di paradigma missionario, è che la vita cristiana si
esprima nella sua realtà di sale e di lievito del cammino comune non solo della Chiesa ma anche della
intera comunità umana. Il testo parla di «ambienti di vita» e di «pastorale d'ambiente» (n.61), di
«rapporto con il territorio» (n.61) e di «situazioni di frontiera» (n.62), di «attenzione ai non praticanti» e
di «primo annuncio» (n.57) ma queste esortazioni si muovono in un quadro pastorale che non sembra
riconoscere che l'ampio investimento di questi anni nella catechesi e nella liturgia ha avuto risultati
alterni, globalmente meno soddisfacenti di quanto si aspettava.
Forse anche per questo vanno nascendo forme nuove. Se non mi sbaglio, va oggi emergendo una nuova
ricerca di Dio che, invece della strada delle grandi associazioni e dei grandi movimenti, sembra privilegiare il cammino di piccoli gruppi in ricerca, attenti alle dinamiche evangeliche e umane. La loro
presenza conferma la complessa articolazione tra comunione e appartenenza ecclesiale: la serietà della
scelta di Dio non corrisponde sempre a una altrettanto chiara scelta di Chiesa e di missione. Solo
configurando una Chiesa segnata da livelli diversi di appartenenza ecclesiale, si può sperare di
risvegliare a una fruttuosa testimonianza del vangelo chi vive in modo fragile e abitudinario una piena
appartenenza e si può offrire un percorso di completa integrazione nella vita e nella missione della
Chiesa a chi cerca Dio con sincerità.
Servire il regno animando la speranza
Il terzo spunto riassume quelle due attenzioni, contrapposte e complementari, che il testo indica nei nn.
34-35: l'ascolto della cultura del nostro mondo e la testimonianza della trascendenza del vangelo. Ne
viene un impegno complesso che presenta la comunicazione della fede come un «trasmettere la
differenza evangelica nella storia, un dare un' anima al mondo, perché l'umanità tutta possa
incamminarsi verso quel Regno per il quale è stata creata» (n. 35). Il passo indica come appartenga alla
Chiesa un certo umanesimo, anche se il vangelo è irriducibile a questo semplice orizzonte. L'incontro
del vangelo con le persone, con la loro cultura e la società in cui vivono, si trasforma in opportunità e
sfida e chiede di abbandonare il troppo facile lamento per intraprendere la strada ben più complessa
della propositività e del cammino comune.
La rottura tra fede e cultura è lo sfondo di un cammino pastorale volto però a riprendere la propositività
culturale della fede: «oggi più che mai i cristiani sono chiamati a essere partecipi della vita della città,
senza esenzioni, portando in essa una testimonianza ispirata dal Vangelo e costruendo con gli altri
uomini un mondo più abitabile» (n. 50). Ritroviamo qui gli accenti del progetto culturale orientato in
senso cristiano: l'impegno pastorale comprende così una «conversione culturale», un impegno cioè «per
ispirare la cultura e aprirla all'accoglienza di tutto ciò che è autenticamente umano» (n. 50). Si tratta di
un impegno che esige di «maturare una decisione coraggiosa a cambiare le cose» (n. 50) e una sinergia
tra parrocchie e movimenti, associazioni professionali e istituti culturali.
Ne viene una carrellata di temi e di problemi (nn. 56-62). Ciò che più importa mi sembra, però, lo
spirito di questo lavoro attento a fare della vita quotidiana e del contatto giornaliero nei luoghi di lavoro
e di vita sociale delle «occasioni di testimonianza e di comunicazione del Vangelo» (n. 58). Solo a
questo punto si può parlare di una comunità missionaria; se ne può parlare quando, con la sua vita,
comunica una proposta evangelica e un cammino spirituale attento alla condizione di coloro che
incontra. Ma è questa, oggi, la realtà delle nostre comunità italiane?
Globalmente parlando, si deve riconoscere che quello che si è sviluppato in questi primi anni del
progetto «Comunicare il vangelo» è più un rilancio di una onesta pastorale che un obiettivo spostamento del baricentro della vita cristiana personale e comunitaria verso forme missionarie. L'invito
per una conversione pastorale capace di imprimere un dinamismo missionario a tutta la pastorale e la
conclamata disponibilità a operare cambiamenti nella pastorale e nelle forme di evangelizzazione non ha
trovato seguito; questa inerzia poi non sembra avere significativamente inquietato nemmeno chi quel
progetto l'aveva pensato e voluto. Una Chiesa divoratrice di documenti ha accolto e accantonato anche
questo senza troppo strepito.
Gli orientamenti CEI: la formazione alla missione
In questo contesto di svolta verso la missione, dobbiamo chiederci quale sia stato finora e quale possa
essere in futuro il contributo del movimento missionario italiano; si tratta di mettere a fuoco in che
modo ha saputo accompagnare il cammino della Chiesa italiana perché questo progetto si realizzi o,
almeno, in che modo si proponga di farlo.
L'interrogativo non è retorico. È presente in molti l'impressione che gli istituti missionari italiani
abbiano sostanzialmente distaccato la propria sorte da quella della Chiesa italiana; la massiccia
internazionalizzazione degli istituti religiosi e missionari e la difficile contingenza del volontariato
internazionale ha impoverito di molto l'animazione missionaria. L'abitudine a riconoscere in questi
istituti gli agenti della diffusione della idea missionaria e della animazione missionaria della Chiesa si
trova, oggi, a dover fare i conti con il loro distacco senza che gli Uffici missionari diocesani, i seminari,
le parrocchie, le riviste e i programmi pastorali siano sempre preparati a questo passaggio di consegne.
Anche se da decenni la missiologia parla di una missione globale, di una missione nei sei continenti,
permane nel clero e nelle comunità un' abitudine a limitare la missione ad extra o ad gentes senza che la
dichiarata natura missionaria della Chiesa abbia modificato di molto le sensibilità.
In questo contesto è importante chiedersi quanto il movimento missionario italiano abbia accolto il
programma CEI e quanto si sia impegnato a realizzarlo. Ciò che mi pare decisivo è che la proposta
missionaria, tradizionalmente una proposta debole che faticava a proporre un'immagine
complessiva di Chiesa e di vita cristiana, si trova oggi alle prese con una proposta che porta
l'autorevole firma dell'episcopato. Ho già detto che non ho l'impressione che abbia prodotto grandi
cambiamenti ma qui si tratta di parlare del contributo degli Istituti missionari.
In una Chiesa che, per sua natura, è missionaria il dispiegarsi della propria forma avviene per la sua
interiore vitalità, per la presenza e la forza di quello Spirito e di quella Parola che aiutano a formarla
così come il suo Signore la vuole. In questo autodispiegarsi della missionarietà della Chiesa entrano
però anche ritardi, debolezze, fraintendimenti umani e culturali; in una parola, anche se la missione
poggia su Cristo e non sui cristiani, questi hanno però la capacità di offuscarla e di ritardarla.
Dobbiamo allora chiederci quali comportamenti favoriscano e quali impediscano quell'ascolto del nostro
tempo e quella fedeltà alla trascendenza del vangelo che il documento (n. 34) indica come prioritari per
un'autentica conversione pastorale, per. un vero discernimento evangelico, cioè per porre basi serie a un
progetto missionario. L'interrogarsi su questi temi sarà prezioso perché, nonostante l'ampio e organico
concetto di missione sostenuto, il testo ha una caduta di tensione proprio a questo livello: l'attenzione al
giorno del Signore e alla parrocchia, ai giovani e alla famiglia, ai cristiani e ai praticanti, sembra
rimandare più al riaffiorare di una pastorale tradizionale che all'inizio di percorsi nuovi.
Pur condividendo l'invito a guardare avanti, ad accogliere la missione e a lasciarsi plasmare da essa, a
evitare di limitarsi a gestire l'esistente, mi sembra onesto riconoscere che, almeno in questi anni, il programma Cei ha cambiato ben poco il volto delle nostre Chiese. La pastorale italiana ha continuato lungo
una linea teorico-pratica ripiegata su una concezione liturgico-celebrativa e catechistico-caritativa che
ha ben poco a che vedere con la comunità eucaristica e le esperienze di vita evangelica di cui abbiamo
parlato. Di conseguenza, la missione è spesso intesa come attenzione alle emergenze locali e alla
scristianizzazione più che come sensibilità all'orizzonte cattolico e al cammino universale del vangelo di
Gesù.
Rileggere cattolicamente la diocesanità
Per non limitarsi a deprecare questa situazione, conviene mettere a fuoco alcuni nodi e il primo mi
sembra il bisogno di una rilettura cattolica della diocesanità. Sullo sfondo della complessa relazione tra
la Chiesa universale e la Chiesa locale, così come sono delineate in Lumen Gentium (nn. 23 e 26) e in
Communionis Notio, la diocesanità dice il concreto configurarsi di una identità ecclesiale che sia frutto
delle sue modalità di cammino liturgico e spirituale, della sua regola di fede e della sua testimonianza di
vita, del suo dialogo con la cultura e con le istituzioni, del suo coraggio o delle sue paure. Le persone, le
scelte coraggiose o le occasioni perdute contribuiscono a delineare il volto di quella Chiesa che si radica
in una precisa porzione umana. Prendendo atto del valore ma anche dei limiti delle singole Chiese, la
teologia postconciliare ha introdotto la nozione di «Chiese regionali», valorizzando così i legami
ecclesiali che le Chiese sono andate costituendo tra loro nella storia. Questo dato, di un certo interesse
pratico, non ha cambiato il nostro problema.
Se sono le Chiese locali a rendere concreta e visibile la Chiesa universale, spetta a loro rendere
concreta e visibile anche la sua dimensione cattolica: questo comporta un impegno dei vescovi a
prendere sul serio quella sollecitudine per le Chiese che il concilio richiama, un impegno dei sacerdoti
ad accogliere la dimensione universale della loro ordinazione e un impegno dei credenti a vivere entro
l'orizzonte cattolico del Regno. In realtà le Chiese italiane faticano a vivere cattolicamente e a
considerare l'universalità come una componente normale della propria vita; la stessa partenza di
sacerdoti o di laici per il servizio di altre Chiese viene considerata espressione del cammino di alcune
persone o di alcuni gruppi più che come frutto del cammino apostolico di tutti.
Ne viene una effettiva distanza da quanto chiede il Concilio: «in virtù di questa cattolicità, le singole
parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, di maniera che il tutto e le singole parti si
accrescono con l'apporto di tutte, che sono in comunione le une con le altre e coi loro sforzi verso la
pienezza dell'unità» (LG 13). Oggi come oggi, la missionarietà della Chiesa italiana è a senso unico:
vi è un invio di persone e mezzi dall'Italia ad altri paesi ma non vi è ancora la disponibilità a
imparare da altre Chiese metodi di evangelizzazione, modalità di preghiera e di testimonianza,
riorganizzazioni dell'universo della fede. Potremmo accettare di imparare dalla Francia e dalla
Germania - ma cosa avrebbero mai da darci, oggi, che noi non abbiamo? - non si vede però alcuna
disponibilità a imparare dall'India, dal Cameroun o dal Brasile.
La necessità di una rilettura cattolica della diocesanità risulta particolarmente urgente di fronte al
disagio che, a volte, sacerdoti e laici mostrano nel vivere certe forme di pastorale che non rispondono a
ciò a cui si sentono chiamati o a ciò che intravvedono per una autentica testimonianza di vita evangelica
e potrebbe offrire uno spazio importante al complesso confronto tra diocesi e movimenti. Riportata alla
sua radice comunionale, la diocesanità appare fondata su Cristo come concreta via di adesione a Lui ma,
proprio per questo, si svela aperta al mondo intero e capace di fare del 'partire' e del 'farsi prossimo'
l'espressione matura di una vita di libertà e di amore.
Per la sua forza spirituale, questa cattolicità sa conferire significato e orientamento cristiano al contesto
di mondialità in cui ci troviamo a vivere: può renderlo, addirittura, 1'ambito della chiamata a una
particolare vocazione. La valorizzazione ecclesiale e pedagogica della multiformità dei carismi ha tutto
da guadagnare da questo mettersi a servizio di un orizzonte cattolico.
Recuperare la dimensione missionaria della spiritualità
Un secondo nodo va indicato nel recupero della dimensione missionaria della spiritualità. Trasversale a
ogni forma di spiritualità, la dimensione missionaria ricorda a tutti che non si può vivere dello Spirito di
Cristo se non mettendosi, con Lui e come Lui, al servizio dei fratelli e della comunità che li serve.
Questo impegno è particolarmente importante oggi. Il nostro tempo conosce una certa dicotomia tra
l'impegno e il servizio da una parte e la ricerca di interiorità e di silenzio dall' altra; espressione di una
certa immaturità spirituale, questa dicotomia è però facilmente riscontrabile in chi non ha raggiunto un'
autentica maturità evangelica. Da una parte l'attenzione ai bisogni umani di giustizia e di pace, di
rispetto dei diritti e di democrazia assorbe l'impegno di molti credenti e, per quanto possa essere la base
di una autentica spiritualità, non sempre lo diventa. Dall' altra, società che hanno in larga misura
soddisfatto i bisogni primari, vedono affermarsi al proprio interno una ricerca di senso e un bisogno di
Dio sempre più grande. Questa dicotomia va affrontata: si tratta di educare questi slanci perché
diventino obiettive espressioni di radicalità evangelica. Da una parte si tratta di aiutare a cogliere come
vi sia qualcosa di ancora più decisivo dei bisogni materiali: il bisogno di Dio; dall' altra si tratta di
inquietare una vita individualistica e consumistica per aprirla a forme di solidarietà umana e cristiana.
Questa spiritualità incarnata deve accettare di misurarsi con le attuali forme di psicologia sociale, con i
timori e le difese della nostra società; accettando come realistico punto di partenza il nostro tempo, si
tratta di elaborare percorsi educativi animati dalla carità evangelica. lo ho l'impressione che questa
coscienza e questa sensibilità sia presente in alcune espressioni del movimento missionario ma non in
tutti e che, anche in questi, sia il frutto della libera azione dello Spirito più che di una vera
programmazione pastorale. Ma, anche così, sappiamo almeno riconoscerli e valorizzarli al meglio?
Riaprire la frontiera tra la fede e l'umano
Abbiamo qui il livello forse più alto della sfida del nostro tempo. Poiché prevale una interpretazione
della vita legata a un benessere consumista, chiuso al soprannaturale e attraversato da sussulti di solidarietà, risulta evidente non solo la difficoltà di guardarsi attorno con spirito missionario ma anche la
necessità che la Chiesa si faccia carico della difesa e dell' affermazione della persona nella sua
integralità.
Questo implica un discernimento adeguato del nostro tempo. Nonostante lo si ripeta da molto tempo,
quasi come uno slogan, questo discernimento del nostro tempo è tutt'altro che facile e, soprattutto, quasi
mai ha quella valenza missionaria che sappia indicare alle Chiese il loro posto nel complesso intreccio
di una società globalizzata, multietnica e multireligiosa. Non si tratta solo di illuminare un percorso
breve che, dalla Parola, ricavi luce per la salute e la malattia, la vita familiare e giovanile; si tratta di
attrezzarsi per un confronto critico con i fatti culturali e per una ricerca dei segni del Regno dal punto di
vista di una vicinanza con gli ultimi. Solo allora saranno comprensibili nuove dinamiche missionarie,
lontane da ogni forma di eurocentrismo e autenticamente attente al rapporto della fede con l'umano.
Bisogna aggiungere che una simile prospettiva non è fatta solo di idee e di programmazioni ma della
capacità di dar vita a nuovi soggetti cristiani aperti alla missione, soggetti in grado di mostrare che il
potere e la ricchezza non sono graduazioni della dignità della persona ma sono per il suo servizio, che la
riuscita e il predominio non sono le conquiste più invidiabili della vita ma sono responsabilità al servizio
di tutti. Attenta alle persone, la missione influisce sulla verità, sulla struttura interiore e sul modo di
interpretare la vita, di giovani e professionisti, di sacerdoti e di coppie. A tutti ricorda che guardare
lontano nel nome del vangelo è tanto importante quanto preoccuparsi dei vicini.
Gianni Colzani, Rivista del Clero Italiano, maggio 2004