Lezione 4 La domanda di lavoro e l`equilibrio del mercato del

Lezione 4
La domanda di lavoro e l'equilibrio del mercato del lavoro.
Nota. Per la comprensione di questa lezione è essenziale che vi siano chiare le due nozioni seguenti,
che avete già studiato nel corso di economia e che abbiamo già richiamato anche qui. Se non lo
sono, ripassatele oppure chiedete al docente di rispiegarvele.
a) Il valore marginale di una variabile che dipende da un'altra è quello attribuibile all'ultima unità
della variabile indipendente. Per esempio, il costo marginale del lavoro è il costo dell'ultima unità
di lavoro che si è aggiunta (si veda l'esercizio 1).
b) Se il valore medio è crescente, il valore marginale è superiore a quello medio; se è calante è
inferiore; e se è costante è eguale (si vedano gli esercizi 8 e 9).
Altra nota. I paragrafi 2-4 contengono una trattazione piuttosto tecnica, che può -anzi, dovrebbeinteressare gli studenti che intendono seguire un curriculum economico, ma non gli altri. Quindi
l'unica cosa che verrà chiesta all'esame su questi paragrafi è la parte in corsivo alla fine del par. 4.
Gli studenti con interesse per l'economia sono invitati però a studiare anche il resto.
1. Il modello-base. Abbiamo suggerito più sopra che dal punto di vista delle imprese il lavoro è
"solo" un fattore di produzione, e quindi la teoria della domanda di lavoro è sostanzialmente un
caso particolare della domanda dei fattori di produzione, che avete già studiato nel corso di
economia. Cominceremo accettando l'ipotesi di concorrenza perfetta, il che vuol dire
(a) che il prezzo del lavoro, il salario, è dato per l'impresa;
(b) che a quel prezzo l'impresa trova tutta l'offerta di lavoro che vuole;
(c) che il prezzo di vendita del prodotto dell'impresa è dato;
(d) che a quel prezzo l'impresa può vendere la quantità che vuole.
Abbiamo dato per assunto che la domanda di lavoro di un'impresa è funzione inversa del salario,
vale a dire che cala se aumenta il salario. Questa assunzione appare del tutto sensata. Nei paragrafi
2-4, tuttavia, vedremo una spiegazione di ciò un po' più rigorosa.
Il punto di partenza del discorso è che poiché il lavoro è un fattore di produzione, la sua domanda
dipende dall'equilibrio del produttore sul mercato dei beni. Ricorderete che da questo punto di vista
è importante distinguere fra breve periodo e lungo periodo; la differenza è che nel primo lo stock di
capitale è dato. Cominciamo dal breve periodo.
2. La domanda di lavoro dell'impresa nel breve periodo. Partiamo dalla figura 1; ricordiamo che assumiamo che lo
stock di capitale sia dato1.
Figura 1 - Funzioni di produzione del lavoro
1
Il grafico può più correttamente essere riferito a un dato tipo di lavoro, per esempio il lavoro non qualificato, o quello
manageriale, ecc. Per semplicità parliamo tuttavia di lavoro in genere.
1
Il grafico superiore individua la quantità di produzione in funzione della quantità di lavoro. Inizialmente, all'aumentare
della quantità di lavoro la produzione cresce sempre di più (per esempio perché se c'è un solo lavoratore, parte degli
impianti saranno inutilizzati, e all'arrivo del secondo la produzione più che raddoppia), quindi sempre di meno; alla fine
i lavoratori saranno talmente tanti che cominceranno a "pestarsi i piedi", e l'effetto sulla produzione sarà addirittura
negativo. Ciò si riflette nell'andamento della produttività marginale del lavoro nel grafico inferiore. Naturalmente, in
concorrenza perfetta il primo tratto ha scarsa rilevanza (si veda l'esercizio 1); escludendo questo tratto, possiamo allora
dire che la produttività marginale del lavoro, q', è calante, cioè che al crescere della quantità di lavoro la produzione
aumenta, ma per eguali aumenti della quantità di lavoro aumenta sempre di meno, finché in corrispondenza del
massimo della funzione del primo grafico non smette di aumentare. Questa produttività marginale spesso viene indicata
con mpp (marginal physical product). Moltiplichiamo ora i valori di q' (ovvero mpp) nella parte (b) per il prezzo del
prodotto, p, in modo da ottenere la funzione della produttività marginale in termini monetari, r, cioè una funzione del
ricavo marginale del lavoro, vale a dire del ricavo prodotto da un'unità aggiuntiva di lavoro.
3. seguito. Poiché p è fisso (siamo in concorrenza perfetta!) il grafico avrà lo stesso andamento del tratto rilevante del
grafico inferiore della figura 1. Lo vediamo nella figura 2.
Figura 2 - Derivazione della domanda di lavoro dell'impresa nel breve periodo.
Nella figura 2, la curva individua appunto il ricavo marginale del lavoro, mentre i segmenti tratteggiati individuano
diversi valori del costo marginale del lavoro, che altro non è che il salario unitario, w. Infatti, il salario è supposto dato
per l'impresa concorrenziale, e quindi il costo di un'unità aggiuntiva di lavoro (il costo marginale del lavoro) è pari a
quello di ciascuna delle unità precedenti. Sappiamo che se il ricavo marginale supera il costo marginale conviene
estendere l'impiego del fattore, dal momento che quell'unità rende più di quanto costa, e in caso contrario ridurla; quindi
l'intersezione fra il segmento corrispondente a un valore di w e la curva di r individua la quantità di L domandata per
quel valore di w. Come si vede, e come ovvio, ceteris paribus la domanda di lavoro cala al crescere di w.
Con un po' più di rigore, l'impresa domanda quella quantità di lavoro tale per cui il ricavo marginale del lavoro è
eguale a w, cioè quella quantità di lavoro per cui
w = mpp*p
dove w è il salario, p è il prezzo (dato) del prodotto e mpp è la produttività marginale in termini fisici del lavoro. Al
crescere di w, poiché p è dato la condizione si realizza se cresce mpp; e poiché mpp cresce se cala L, abbiamo che via
via che cresce w la condizione è rispettata se cala L.
In termini più semplici: se cala w cala il costo marginale del prodotto, e quindi converrà espandere la produzione, e
quindi assumere nuovo L.
4. Mercato dei beni non concorrenziale. Supponiamo ora che l'impresa operi ancora in un mercato del lavoro
concorrenziale, ma in un mercato dei beni monopolistico. Ricorderete che nel caso della concorrenza perfetta l'impresa
può vendere la quantità che vuole (la funzione di domanda è orizzontale), mentre nel caso del monopolio la funzione di
domanda è inclinata negativamente. Supponiamo per semplicità una relazione lineare, p = a - bQ. Il ricavo totale è pQ =
2
aQ - bQ2, il ricavo medio a-bQ (cioè, come ovvio il prezzo), e il ricavo marginale è a-2bQ. Il ricavo marginale è quindi,
come sappiamo, inferiore al prezzo; chiamiamolo r'.
Ora, la condizione di equilibrio che determina la domanda di lavoro è che il costo marginale del lavoro sia eguale al
ricavo marginale ad esso imputabile. Nel caso della concorrenza perfetta è quella che abbiamo visto: w = mpp*p. Nel
caso del monopolio essa sarà
w = mpp*r'.
[1]
Poiché r'<p, ceteris paribus la condizione si realizzerà a parità di w per un valore di mpp maggiore, e quindi per un
valore di L minore.
In altri termini: il monopolio domanda meno lavoro di un'impresa concorrenziale. Anche qui è utile fornire la
spiegazione "di buon senso" di ciò: il monopolio, sappiamo, produce meno di un'impresa concorrenziale, e vende a
prezzi maggiori. Ma se produce meno, avrà anche bisogno di meno lavoro. Poiché questo risultato è dovuto
all'inclinazione negativa della curva di domanda di beni fronteggiata dall'impresa, esso si avrà anche nel caso di
oligopolio e in quello di concorrenza monopolistica.
Rimane comunque confermato che al crescere di w si riduce L. Infatti, per la [1] devono crescere o mpp o r' (o una
combinazione di entrambe). mpp cresce se cala L, e r' cresce se cala Q, la quale a sua volta cala se cala L. Lo stesso si
verifica se il mercato del lavoro non è concorrenziale; la condizione di equilibrio per l'impresa infatti non muta, anche
se la determinazione di w è più complicata.
Quindi possiamo concludere che la domanda di lavoro dell'impresa è funzione calante del suo
prezzo (il salario), come tipico di qualsiasi mercato. Questo risultato è più solido di quello relativo
alla funzione di offerta, che nell'ultima lezione abbiamo visto essere più ambiguo. Tuttavia esso non
è garantito se si ragiona a livello macroeconomico; infatti, è possibile che un aumento
generalizzato dei salari possa avere effetti espansivi sull'intera economia tali da compensare il
maggior costo per le singole imprese (analogamente a quanto abbiamo visto nel par. 12 della
lezione 1). Su ciò torneremo.
5. La domanda di lavoro dell'impresa nel lungo periodo. Nel lungo periodo, l'impresa può
modificare la sua dotazione di capitale. Ma più capitale implica maggiore ricavo, e se il salario
continua a diminuire si occuperà più lavoro. Come risultato, e come dovrebbe essere intuitivo,
l'effetto di una variazione di w nel lungo periodo è più ampio di quello di breve periodo; ovvero, la
funzione di domanda di lungo periodo è più piatta, ovvero ancora più elastica di quella di breve
periodo. Graficamente, questo processo è illustrato dalla figura 3.
Supponiamo infatti che l'impresa sia in equilibrio (e perciò che produca una data quantità impiegando quella quantità
di capitale per cui la produttività marginale del capitale è eguale al suo prezzo e la produttività marginale del lavoro è
eguale a w). Supponiamo ora che w cali. In tal caso, aumenterà L, e poiché una maggiore quantità di lavoro viene
applicata allo stesso capitale, aumenterà la produttività (marginale) del capitale. Questo non aveva conseguenze nel
breve periodo, perché l'impresa non poteva modificare lo stock di capitale; qui però si, e l'impresa aumenterà quindi lo
stock di capitale. Ciò farà aumentare la produttività (marginale del lavoro), e quindi aumenterà ancora L, e così via.
Figura 3 - domanda di lavoro dell'impresa nel breve e nel lungo periodo
3
Inizialmente, il salario è w', e l'impresa acquista la quantità di lavoro L' (per cui la produttività marginale del lavoro in
termini monetari, mpp*p è pari a w). Ora w diminuisce fino a w”, e quindi l'impresa espanderà L fino a L". Ma
l'aumento di lavoro aumenta la produttività (marginale) del capitale, e quindi l'impresa acquisterà nuovo capitale. Ciò
aumenterà la produttività (marginale) del lavoro, e quindi in L" questa produttività sarà più alta che w. L'impresa allora
aumenterà ancora L, fino a giungere, alla fine del processo, a L"'.
Si noti che abbiamo implicitamente supposto che non vi siano vincoli dal lato della domanda; il che è perfettamente
sensato a livello di impresa concorrenziale, ma non a livello aggregato. Questo ci porta all'argomento successivo.
6. La domanda di lavoro aggregata. La domanda di lavoro aggregata non è la semplice somma
delle domande individuali: infatti, a livello di settore produttivo (ovvero di industria, come si usa
anche dire) non si può supporre che la domanda venga esercitata da un soggetto interamente pricetaker. Se w -per esempio- diminuisce, tutte le imprese aumenteranno l'occupazione, la produzione
aumenterà e il prezzo del bene diminuirà; questo effetto di ritorno non si aveva a livello di singola
impresa, dove il prezzo non reagiva a una variazione della produzione.
Possiamo intuire cosa succederà. Supponiamo appunto una diminuzione di w. Le imprese
aumenteranno la produzione e l'occupazione. Allora il prezzo del bene scenderà, e quindi anche la
produttività marginale del lavoro (che, ricordiamo, è mpp*p). Le imprese si troveranno in una situazione in cui pagano
un salario più alto della produttività (marginale) del lavoro ; come risultato, dovranno ridurre L. Quindi alla
fine l'aumento complessivo di L è minore di quello che avremmo sommando l'aumento di ciascuna
impresa concorrenziale. La domanda di lavoro aggregata è quindi meno elastica, ovvero più ripida,
di quella individuale, come illustrato nella figura 4.
Figura 4 - domanda di lavoro aggregata e individuale
Inizialmente un'impresa tipica è in equilibrio in x, con w=w'=r' e L=L'. w diminuisce, e l'impresa si sposta in y, con
w=w" e L=L". Ma poiché tutte le imprese fanno così, p diminuisce (e quindi anche r'=mpp*p. La funzione di r' si separa
da quella di w, e diventa la linea rossa. Come si vede, in corrispondenza di L" w [=w"] è maggiore di r'[=r"]). A parità
di w si domanderà meno lavoro; l'impresa dovrà dunque spostarsi in z, con L=L"' e w=r'. Sommando i valori di L per le
n imprese, abbiamo come domanda aggregata di L inizialmente nL', e alla fine non nL" ma nL"'. Abbiamo già osservato
come questo risultato fa sì che non sia possibile generalizzare all'intera economia gli effetti espansivi di una riduzione
del costo del lavoro che un imprenditore prevede per la sua impresa. Un corollario di quanto sopra è che un'impresa
tenderà tipicamente a sopravvalutare l'importanza di una riduzione di salario.
7. Il costo quasi-fisso del lavoro. Fin qui abbiamo supposto che il costo del lavoro sia solo w, e
quindi che esso sia assolutamente variabile. Nella realtà ci sono dei costi fissi del lavoro, che fanno
sì che (secondo la definizione di Oi, Labour as a quasi-fixed factor, Journal of Political Economy,
1962) il lavoro sia un fattore "quasi fisso".
Una parte dei costi del lavoro varia infatti con la quantità di lavoro, ma una parte no. Fra questi ci
sono:
4
a) I costi di turnover. Assumere e licenziare un lavoratore ha dei costi amministrativi e umani, che
non dipendono o dipendono solo in parte da quanto il lavoratore lavorerà o avrà lavorato;
b) La gestione della posizione del lavoratore entro l'impresa (tenuta della busta paga, gestione degli
accantonamenti, ecc.)
c) I contributi che dipendono dal numero di lavoratori e non dalla quantità di ore lavorate;
d) La parte di retribuzione propriamente fissa, che non dipende dal "timbrare il cartellino", se c'è; si
tratta una voce particolarmente rilevante per i quadri elevati, spesso sotto la veste di c.d. fringe
benefits, ma rientrano in questa categoria anche le ferie pagate, nella misura in cui non dipendono
dalle ore effettivamente lavorate;
e) I costi di addestramento;
f) I costi opportunità connessi alle assenze per malattie.
Come si vede, si tratta di un insieme piuttosto fluttuante, e di difficile quantificazione, ma
piuttosto rilevante. Alcuni studi hanno cercato di misurarne l'incidenza; il più noto, anche se
piuttosto vecchio, è quello di Hart e altri (1988), relativo ai paesi sviluppati più importanti.
L'incidenza era minima in Italia (15%) e massima nel Regno Unito (26%).
Dal punto di vista analitico, la condizione che individua la domanda di lavoro
r' (=mpp*p) = w
[2]
diventa, nel caso più semplice,
r' (=mpp*p) = w+Z
[3]
dove Z è il costo fisso connesso a un'unità di lavoro; e quindi la produttività marginale del lavoro deve essere maggiore
di w, come è logico: il valore della produzione deve pagare non solo i costi variabili del lavoro, ma anche quelli fissi.
Si ricava l'ovvia conclusione che a livello di impresa un'eventuale riduzione dei costi fissi del
lavoro, una rivendicazione molto sostenuta dalle organizzazioni imprenditoriali, determina un
aumento di occupazione.
Infatti, se confrontiamo la [2] con la [3], vediamo subito che, a parità di w, r' [ovvero mpp, in concorrenza] deve essere
più alto nel secondo caso, e quindi L deve essere più basso, dato che mpp è funzione inversa di L .
8. Costi fissi e domanda di lavoro. Quale è l'effetto della presenza di costi fissi di lavoro sulla sua
domanda?
a) Il principale è quello di rendere l'andamento dell'occupazione meno sensibile all'andamento
ciclico della produzione (figura 5). Infatti, l'imprenditore sarà riluttante a licenziare lavoratori nella
fase calante del ciclo perché ciò ha dei costi, e sarà riluttante ad assumerli nella fase crescente, per
lo stesso motivo. Inoltre, all'inizio della fase ascendente del ciclo l'imprenditore tenderà a non
assumere subito lavoro aggiuntivo, e si avrà quindi un'espansione del lavoro straordinario.
Figura 5 - Ciclo della produzione e ciclo dell'occupazione
5
b) La maggiore stabilità occupazionale del lavoro qualificato. Man mano che si approfondisce la
fase calante l'imprenditore licenzierà lavoratori in funzione inversa dei costi cui andrà incontro se e
quando dovrà riassumerli: questa è la spiegazione della maggiore insicurezza del lavoro non
qualificato rispetto a quello qualificato.
c) L'importanza dell'anzianità. I costi di sostituzione sono presenti anche se è il lavoratore a
licenziarsi. Quindi converrà all'imprenditore cercare di garantirsi contro l'abbandono dei lavoratori,
soprattutto di quelli più qualificati e quindi costosi. Un criterio largamente adottato è quello di
legare parte dei guadagni del lavoratore all'anzianità di servizio.
d) la rilevanza del lavoro straordinario: il ricorso al lavoro straordinario sarà tanto più elevato
quanto più alta è la componente fissa del costo del lavoro.
9. Seguito. Un'ultima considerazione. Come abbiamo visto, la condizione di equilibrio in presenza
di costi fissi implica che l'occupazione sarà minore di quella che si avrebbe se non ci fossero costi
fissi. Tuttavia, ciò non può portare automaticamente a concludere che sia giusto abolire i costi fissi
del lavoro, e nemmeno che sia efficiente: infatti, la loro trasformazione da costi fissi a costi variabili
costituirebbe comunque un aumento di w. Si tratta di una problematica molto interessante dal punto
di vista teorico e con notevole importanza pratica. Per esempio, gran parte del costo di
licenziamento è dovuto al fatto che il lavoratore deve essere tutelato per i periodi di transizione fra
un lavoro e l'altro. Se la retribuzione cessasse del tutto al momento del licenziamento, invece di
continuare con la cosiddetta "liquidazione" o con istituti analoghi, ceteris paribus il salario
dovrebbe essere sufficientemente elevato da consentire al lavoratore un'autoassicurazione; si è
dimostrato che ciò sarebbe più costoso per l'impresa, a parità di garanzie, a causa della maggiore
avversione al rischio del lavoratore rispetto all'impresa. Il discorso tuttavia è troppo complesso
perché possiamo proseguirlo qui in modo esauriente.
10. Salario e produttività del lavoro. Fin qui abbiamo supposto che r' (la produttività marginale
del lavoro in termini monetari) e w (il costo unitario del lavoro) siano indipendenti. Sia la teoria che
l'evidenza empirica suggeriscono che non è così; l'analisi che ne consegue è nota come teoria del
salario-efficienza. In pratica, si ammette (e si verifica) che normalmente al variare di w la
produttività marginale varia nella stessa direzione. Il motivo di ciò è triplice.
Da una parte, migliori salari corrispondono a una maggiore soddisfazione che si ricava dal lavoro,
e quindi a una disponibilità a lavorare di più e meglio. Nel caso più brutale di un'economia molto
povera, un salario più alto vuol dire potere disporre di più calorie; nelle economie più sviluppate il
meccanismo è più sottile, ma comunque intuibile (e bene espresso, nel caso contrario di una paga
troppo bassa, dal brutale slogan sindacale degli anni 50 "a salario di merda, lavoro di merda")2.
Dall'altra, l'aumento del costo del lavoro obbliga il management a migliorare l'efficienza in altri
settori. Questo è particolarmente vero nel caso di aumenti improvvisi, come può succedere nel caso
di un rinnovo contrattuale. Infine, salari più alti attireranno i lavoratori migliori, con effetti positivi
sulla produttività. L'effetto di tutto ciò è che la funzione di domanda di lavoro, sia aggregata che
individuale, è in genere meno elastica di quanto potrebbe essere suggerito dalla trattazione
precedente. In effetti, è stata proprio la verifica di questa bassa elasticità che ha indotto
all'elaborazione delle teorie discusse negli ultimi paragrafi.
2
Recenti studi sperimentali hanno dimostrato che considerazioni di fairness hanno una notevole rilevanza nei contratti
di lavoro. Il lavoratore che si considera "trattato bene" lavorerà sovente più e meglio, ceteris paribus, di uno che non si
consideri tale, e ciò può tradursi in un vantaggio per l'imprenditore. Di ciò ci occuperemo nella lezione 6.
6
La teoria del salario-efficienza ha altre implicazioni rilevanti, in particolare per quanto riguarda la
teoria della disoccupazione. Di essa ci occuperemo quindi ancora più avanti.
11. L'equilibrio del mercato del lavoro: premessa. Nelle lezioni precedenti e in questa abbiamo
studiato la determinazione della domanda e dell'offerta di lavoro. Mettendo insieme i risultati
raggiunti possiamo studiare la determinazione dell'equilibrio del mercato del lavoro, così come in
qualunque altro mercato; vale a dire, come l'interazione fra domanda e offerta determinano
simultaneamente la quantità di lavoro e il suo prezzo, cioè il salario unitario. Spesso nella
manualistica viene citata a questo punto la prima parte di una famosa frase di uno dei più importanti
economisti del ventesimo secolo, John Hicks ("Teoria del salario", 1932): "La teoria della
determinazione dei salari in un libero mercato è semplicemente un caso speciale della teoria
generale del valore. Il salario è il prezzo del lavoro; e quindi, in assenza di controlli, è determinato,
come tutti i prezzi, dalla domanda e dall'offerta".
Ma ha senso parlare di "mercato del lavoro" come di un mercato qualunque? Abbiamo già visto
nella prima lezione che non è così; e infatti la citazione di Hicks andrebbe correttamente completata
con quanto l'autore scrive subito dopo: "la domanda e l'offerta di lavoro, e l'interazione fra domanda
e offerta sul mercato del lavoro, hanno alcune peculiari proprietà che fanno sì che sia impossibile
applicare la teoria tradizionale senza ulteriori considerazioni"3.
Sono queste peculiarità che fanno sì che la "Economia del lavoro" sia una specifica sottodisciplina, e non solo una serie di casi. Nelle prossime lezioni studieremo alcune di queste
peculiarità; prima però, in questa lezione, imposteremo un modello tradizionale di equilibrio, che ci
servirà come riferimento.
12. Equilibrio dell'impresa in un mercato concorrenziale. In un mercato concorrenziale, l'offerta
di lavoro per l'impresa appare nel grafico w/L come una retta orizzontale (fig. 6).
Fig.6 - Mercato del lavoro concorrenziale
Infatti, la condizione di concorrenza indica che una singola impresa non può modificare il prezzo
tramite la sua domanda, e quindi che al salario corrente troverà tutta l'offerta di lavoro che vuole.
Questa condizione ricorda molto da vicino quella di prezzo dato per un'impresa in concorrenza, e la
sua logica è del tutto simile: la singola impresa è troppo piccola per alterare le condizioni di
mercato. A questo punto, per terminare il discorso iniziale sull'equilibrio del mercato del lavoro per
l'impresa, ci basta osservare che poiché la domanda di lavoro dell'impresa è inclinata
negativamente, l'incrocio fra la curva di domanda e la curva di offerta determina la domanda da
parte dell'impresa, mentre il salario è già dato. Nella figura 1, al salario esogeno w* l'impresa
acquisterà L* unità di lavoro.
13. Equilibrio aggregato. Gli economisti classici ritenevano che la curva di offerta di lavoro fosse
piatta anche nell'aggregato, a causa dell'esistenza del cosiddetto "esercito industriale di riserva",
3
Ripreso da D. Sapsford e Z. Tsannatos, The Economics of the Labour Market, 1993, p.155.
7
cioè di un eccesso ineliminabile di offerta di lavoro. Questa assunzione era nota con il solenne
nome di legge bronzea dei salari, a sottolineare la sua ineluttabilità. Vedremo una breve discussione
di tale legge nella lezione 8. Come dimostrano i tassi di disoccupazione correnti, nelle economie
sviluppate questa legge di solito non vale, quindi possiamo supporre che la curva di offerta
aggregata sia inclinata positivamente: se aumenta il salario, aumenta l'offerta di lavoro. Abbiamo
visto che ci sono delle controtendenze, ma che ha senso supporre che questo sia l'andamento
dell'offerta aggregata nel tratto rilevante della curva di offerta, cioè dove si può incontrare con la
curva di domanda. Il grafico che descrive l'equilibrio sarà allora semplicemente quello, molto
familiare e coerente con la prima parte della citazione di Hicks, della figura 7.
Figura 7: equilibrio aggregato sul mercato del lavoro.
14. Monopolio sul mercato del lavoro. Supponiamo ora che per qualche motivo i venditori di
lavoro godano di un qualche potere di limitare la concorrenza; per semplicità supponiamo che i
venditori di lavoro siano radunati in un monopolio. Come sapete -spero-, un monopolio vende meno
che un insieme di imprese in concorrenza, e a un costo maggiore. Nel grafico della figura 2 ciò vuol
dire che la curva di offerta si sposta verso sinistra, e si avrà equilibrio in corrispondenza di un
salario maggiore e di una occupazione minore. Lo stesso esito si ha se viene stabilito un salario
minimo superiore a quello di equilibrio (wm nella fig. 8).
In entrambi i casi si ha come risultato una riduzione dell'occupazione. Nel secondo viene infatti
creata una disoccupazione pari alla differenza fra quantità di lavoro effettivamente acquistata e
quantità che si offre a quel salario. Nella figura 8, questa disoccupazione è misurata dalla distanza
L'-L", ed è data da due componenti: i lavoratori che non sono più occupati a causa dell'aumento di
salario (L*-L") e quelli che a causa di tale aumento si offrono (mentre prima non lo facevano) e non
trovano impiego (L'-L*).
Nel caso di uno spostamento verso l'alto della curva di offerta, il mercato è apparentemente in
equilibrio, e quindi non c'è disoccupazione. In realtà, senza il monopolio dei lavoratori ci sarebbe
stata una maggiore offerta di lavoro, e al salario di monopolio questa offerta non può essere
pienamente soddisfatta. Si ha una disoccupazione nascosta, nel senso che ci sarebbero dei lavoratori
disposti a lavorare a un salario più basso, ma l'organizzazione monopolistica dell'offerta (qui viene
di solito chiamato in causa il sindacato, come vedremo) impedisce loro di portare questa offerta sul
mercato.
Va certamente a disonore della teoria economica classica che mentre si riconosce lo status di
disoccupati, sia pure nascosti, a questi lavoratori, non altrettanto viene fatto per i lavoratori espulsi
dal mercato del lavoro per un eventuale comportamento simmetrico delle imprese, che, organizzate
in monopsonio, cioè in un unico acquirente del lavoro, impongono un salario più basso di quello di
8
concorrenza, obbligando alcuni lavoratori a uscire dal mercato del lavoro. Di questi due casi
dobbiamo ora occuparci.
15. Il sindacato. Il caso del penultimo capoverso del paragrafo precedente è quello di lavoratori che
vorrebbero offrirsi a un certo salario, ma che possono farlo solo a un salario superiore. Poiché
fissare un salario minimo al disopra di quello di concorrenza è il compito primario di un sindacato,
questo risultato è il più tradizionale argomento usato per sostenere che l'attività dei sindacati
comporta un danno per l'economia: alterano le condizioni di concorrenza, e quindi riducono
l'occupazione.
Questo argomento, apparentemente ovvio, però è contrastato da altri. Li vedremo in dettaglio
nella lezione 7, dedicata appunto al sindacato. Ne anticiperemo però due in questa lezione, perché
riguardano direttamente il modello dell'equilibrio del mercato del lavoro.
Figura 8: effetto sull'occupazione di un salario minimo
16. Monopsonio sul mercato del lavoro. Il monopsonio è l'opposto del monopolio: si ha
monopsonio quando su un mercato c'è un solo acquirente, e analogamente si può parlare di
oligopsonio. Un'impresa monopsonistica è un'impresa che, per definizione come nella realtà,
influenza le condizioni dell'offerta aggregata grazie alla sua domanda; e quindi, a differenza
dell'impresa concorrenziale, fronteggia (nel tratto rilevante) una curva di offerta (in questo caso del
lavoro) inclinata positivamente. Il grafico del suo equilibrio è quindi quello della figura 7, e non
quello della figura 6, come del resto è ovvio se si considera che nel caso del monopsonio l'equilibrio
aggregato e quello dell'impresa coincidono.
Così come il monopolio produce meno e vende a un prezzo più alto di un insieme di imprese in
concorrenza, si dimostra che un monopsonio acquista di meno e a un prezzo più basso. Rispetto alla
funzione di domanda aggregata della figura 2 la funzione di domanda di un monopsonio (Dm) è
spostata a sinistra, e l'equilibrio si ha a un salario più basso e con un'occupazione minore (figura 9).
17. Monopsonio e disoccupazione. Anche in questo caso, quindi, si crea una perdita di
occupazione, misurata da L* - Lm. Questo risultato dipende essenzialmente dal fatto che il
monopsonio sfugge alla concorrenza per l'acquisto del fattore, e quindi si ottiene, in misura
crescente, in presenza non solo di un monopsonio perfetto, ma di un qualche grado di potere
monopsonistico, cioè dell'esistenza di accordi di non-concorrenza fra imprese sul mercato del
9
lavoro. Abbiamo già notato che sovente chi critica il potere di cartello dei sindacati per i suoi effetti
sull'occupazione dimentica di citare quello delle imprese, normalmente presente e operante anche se
in misura molto variabile da economia a economia e da periodo a periodo.
Figura 9: equilibrio del monopsonista.
Si noti che così come in un certo senso la disoccupazione "da sindacato" può venire
sopravvalutata sul piano statistico in quanto in parte è disoccupazione di lavoratori che al salario
"senza sindacato" non cercavano lavoro e quindi non risultavano disoccupati, quella da monopsonio
può essere sottovalutata in quanto la riduzione di w fa sì che ci siano dei lavoratori che ritirano la
loro offerta di lavoro, e quindi la differenza di occupazione rispetto alla concorrenza sarà maggiore
di quella che risulta dalle statistiche sulla disoccupazione; in effetti, nel nostro grafico il mercato
rimane in equilibrio anche dopo l'avvento del monopsonio, e quindi non si ha (apparentemente)
eccesso di offerta. La disoccupazione è nascosta, secondo l'ottica del lavoratore scoraggiato.
18. Equilibrio aggregato in un mercato imperfetto. Poiché anche la funzione di offerta di un
monopolista è spostata a sinistra rispetto a quella aggregata di concorrenza (un monopolista vende
meno e a un prezzo più alto), si potrebbe pensare che la contrapposizione di un sindacato a un
cartello di imprese possa ripristinare il salario di concorrenza, ma a prezzo di una ulteriore
riduzione dell'occupazione, come è facile dedurre introducendo nella figura 9 un'opportuna curva di
offerta spostata verso l'alto a causa dell'azione del sindacato. In realtà non è così: la presenza di un
sindacato in un mercato monopsonistico fa sì che aumenti anche l'occupazione, come abbiamo
anticipato più sopra. Questo risultato è importante, e anche controintuitivo; esso merita perciò una
dimostrazione, che però rinviamo alla lezione sul sindacato.
19. L'elasticità della domanda e dell'offerta di lavoro, e la sua rilevanza. La seconda delle
controtendenze di cui abbiamo parlato nel paragrafo 15 è la seguente. Se le funzioni di domanda e
offerta aggregate di lavoro sono rigide, gli effetti di comportamenti monopsonistici o monopolistici
sull'occupazione sono poco sensibili, mentre lo sono tanto di più quanto le funzioni sono elastiche,
come potete facilmente verificare tracciando gli opportuni grafici (si vedano gli esercizi). E' perciò
importante domandarsi se nella realtà tali funzioni sono elastiche o meno. In generale, non lo sono.
Entro margini abbastanza ampi, la gente non cambia lavoro a seguito di variazioni del salario, e non
decide di uscire dal mercato del lavoro -o di entrarvi- per piccole variazioni del salario offerto.
Analogamente, entro margini di variazione del salario abbastanza ampi l'impresa deciderà di
assumere un lavoratore se ne ha bisogno date le condizioni della domanda per il suo prodotto, e la
contrattazione salariale è successiva a tale scelta.
Ne consegue che gli effetti diretti sull'occupazione dell'esistenza di monopsoni e di sindacati sono
relativamente limitati. Ci si può domandare allora perché essi (soprattutto, come abbiamo visto, con
riferimento ai sindacati) sono giudicati così importanti.
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Una prima spiegazione, naturalmente, ha a che fare con il conflitto sulla distribuzione del reddito.
Ceteris paribus più salari vogliono dire meno profitti, almeno a livello di impresa. Chi ha interesse
a difendere i profitti ha bisogno di un argomento contro i sindacati accettabile dall'opinione
pubblica, come quello che la crescita dei salari riduce l'occupazione. Questo argomento ha avuto
una notevole importanza storica nei secoli XIX e XX, anche perché ha trovato un certo sostegno in
una scienza economica troppo propensa ad accettare acriticamente tanto la presenza quanto le virtù
della concorrenza perfetta. Oggi è meno difendibile, ma tuttora presente.
Esiste però un motivo più fondato, e cioè che gli effetti indiretti della crescita dei salari possono
essere rilevanti, soprattutto in un regime di elevata concorrenza internazionale, e tanto più se
l'impraticabilità della politica monetaria rende impossibile il loro riassorbimento mediante la
svalutazione e quindi l'inflazione. Questi effetti si manifestano soprattutto con una perdita di
competitività dovuta ai maggiori costi e con una riduzione delle risorse disponibili per gli
investimenti: entrambi questi effetti possono in effetti causare un aumento di disoccupazione. Ad
essi si contrappongono gli aumenti di domanda dovuti all'aumento dei salari e gli aumenti di
produttività dovuti alla sostituzione di lavoro con macchine, che però sono poco percepibili a livello
di singola impresa: l'economia nazionale diventa tecnologicamente più avanzata, ma nel breve
periodo, se l'investimento in macchinari è conseguenza dell'aumento del costo del lavoro, vuol dire
che l'impresa preferirebbe che tale costo non aumentasse.
L'effetto netto di tutto ciò è difficile da valutare. E' chiaro però che a questo punto stiamo uscendo
dal mondo astratto e rigoroso della microeconomia per entrare in quello più realistico e
approssimativo della macroeconomia,e quindi ci fermiamo qui.
20. La curva di Beveridge e la disoccupazione frizionale. La curva di Beveridge o curva
Unemployment-Vacancy (UV) è la rappresentazione grafica della relazione che esiste tipicamente
fra tasso di disoccupazione (U) e tasso di inevasione delle offerte di lavoro (o job vacancy rate, V).
Il primo sappiamo cosa è; il secondo è il rapporto fra numero di posti di lavoro (vacancies) offerti
che non vengono coperti entro un dato periodo di tempo, di solito un mese, e forze di lavoro. Esso è
quindi anche eguale al rapporto fra numero di disoccupati e numero di posti di lavoro offerti non
coperti. Generalmente viene raffigurata con U sull'asse orizzontale e V su quello verticale (come
nella figura 10)4.
Intuitivamente, e come risulta dall'analisi empirica (vedi figura 11), la curva ha pendenza
negativa: se i disoccupati sono tanti saranno poche le offerte di lavoro non accolte, e se sono pochi
saranno invece tante. Essa inoltre ha un andamento iperbolico: se il tasso di disoccupazione è molto
alto e cresce ancora il numero di offerte non accolte non potrà crescere che di poco, dato che è gia
vicina al suo minimo.
Che U sia eguale a 0 è impossibile: esisterà sempre una disoccupazione, detta frizionale, dovuta al
fatto che la produzione cambia continuamente, a causa di mutamenti nella tecnologia o nei gusti dei
consumatori, e per tanti altri motivi. Ci sarà sempre quindi una quota di lavoratori in transito da una
mansione a un'altra, senza che ciò corrisponda in realtà alla presenza di fattori di produzione
inutilizzati5. Consideriamo ora la retta di 45° che passa per l'origine. La sua intersezione con la
curva UV individua un punto in cui il tasso di disoccupazione è eguale a quello di inevasione delle
offerte di lavoro. Si può quindi assumere (approssimativamente, come normale nell'economia reale)
che quello sia il tasso di disoccupazione frizionale: il numero di disoccupati è pari a quello di posti
di lavoro offerti, e se i primi non vengono assunti nei secondi è presumibilmente perché non sono
4
La curva di Beveridge è stata chiamata così in onore di William Beveridge (1879-1963), il padre del welfare state
inglese; ma non è stata inventata da lui.
5
Anche se non esista una regola fissa, si può ritenere che la disoccupazione sia quasi solo frizionale quando è inferiore
al 3%.
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adatti, e il problema nasce dalla necessità di una loro riqualificazione, e non da un eccesso di
domanda di lavoro, come nel caso della disoccupazione non frizionale.
Ne segue che quando l'economia va bene, quindi la domanda di lavoro è inferiore all'offerta, ci
troveremo nella parte della curva UV al disopra della retta di 45°; e quando va male, e l'offerta è
inferiore alla domanda, nella parte al disotto di essa. La disoccupazione corrispondente
all'intersezione della curva di Beveridge con la retta di 45° potrebbe quindi essere considerata
quella "normale6", dato che al disopra e al disotto il mercato del lavoro non è in equilibrio. Si tratta
di un concetto meno ambiguo e anche più facilmente calcolabile di quello di tasso naturale di
disoccupazione, di cui diremo fra poco, e che viene tuttavia maggiormente considerato nella
letteratura, per ragioni teoriche (per me) non condivisibili, e di cui sarebbe troppo complicato
discutere.
Figura 10: la curva UV (o di Beveridge) e la retta di 45°.
Figura 11: la curva di Beveridge nella realtà (Unione Europea a 27)
6
Uso le virgolette per indicare che questo non è un termine tecnico.
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21. Il tasso naturale di disoccupazione e la curva di Phillips. La storia della teoria del tasso
naturale di disoccupazione (NRU, natural rate of unemployment) è interessante. Il concetto venne
elaborato negli anni sessanta del secolo scorso come spiegazione teorica di un dato empirico.
Questo dato era la graduale perdita di validità della curva di Phillips. La curva di Phillips è una
relazione empirica che lega il tasso di disoccupazione al tasso di crescita dei salari, o in un'altra
versione al tasso di crescita dei prezzi, a sua volta ritenuto funzione del tasso di crescita dei salari.
La cosa è plausibile: se la disoccupazione è bassa i lavoratori hanno un forte potere contrattuale, e
quindi otterranno aumenti salariali che a loro volta determineranno aumenti dei prezzi. Tanto più la
disoccupazione è elevata tanto più ridotti saranno gli aumenti salariali; oltre un certo livello, U*
nella figura 12, i salari diminuiranno, e con essi dovrebbero diminuire anche i prezzi.
Figura 12: la curva di Phillips
Fino ai primi anni 70 la curva corrispondeva piuttosto bene ai dati macroeconomici, anche se la
riduzione dei salari non ha praticamente mai prodotto una riduzione dei prezzi (vedi figura 13);
successivamente, come si è detto, cominciò a perdere validità.
Figura 13: la curva di Phillips negli USA
13
I teorici del NRU ritennero che la curva di Phillips non potesse essere stabile nel lungo periodo
(anche se in realtà la stima originale era appunto tale). Infatti, se i lavoratori essendo forti ottengono
aumenti salariali che poi vengono ridotti dall'inflazione, vorranno (e otterranno) aumenti via via
crescenti per compensare l'inflazione attesa. Alla lunga quindi l'economia non potrà scostarsi da
quello che sarebbe il normale equilibrio di mercato, e quindi con il tasso di disoccupazione indotto
dalla domanda e dall'offerta sul mercato del lavoro: il tasso naturale di disoccupazione, appunto.
La prima parte del ragionamento è probabilmente corretta, e contribuisce a spiegare la scomparsa
della curva (anche se altri fattori sono probabilmente stati più importanti). Il concetto di NRU è
stato invece sottoposto a molte critiche. Due sono sopratutto importanti (e io le condivido). La
prima è che il periodo di aggiustamento può essere abbastanza lungo perché in esso intervengano
modifiche nei mercati e nella tecnologia tali da modificare il livello di U che costituisce il NRU:
quindi non è vero che il NRU è fissato comunque indipendentemente da ciò che accade in
disequilibrio. Per esempio, nel periodo in cui i lavoratori sono forti i padroni possono essere indotti
a sostituire capitale a lavoro, il che avrà effetti strutturali sull'economia e quindi si potrà avere un
(eventuale) NRU diverso dal precedente. La seconda critica è che anche ammettendo che il NRU sia
abbastanza stabile da potere essere misurato, tale misurazione comporta problemi metodologici
pressoché insormontabili, e ciò fa sì che tale concetto (a differenza del tasso "giusto" individuato
dalla curva di Beveridge) sia di fatto privo di ogni utilità pratica7.
7
Per esempio, In un articolo del 1996 ("What We Know and Do Not Know About the NRU") O. Blanchard e L.F. Katz
scrivevano quanto segue: "Over the past three decades, a large amount of research has attempted to identify the
determinants of the NRU. [...] Economists do not have a good quantitative understanding of the determinants of the
NRU, either across time or across countries. "
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Esercizi
1. Perché la domanda di lavoro di equilibrio non può trovarsi nel tratto ascendente della produttività marginale del
lavoro?
2. Sia la produttività marginale del lavoro in termini fisici data da mpp = 20-L. w è pari a 10, e il prezzo del bene
venduto dall'impresa, p, è pari a 2. Quanto vale la domanda di lavoro?
3. Sia la funzione di produzione Q = q(L) Q = 100 + 10L - 5L2. Siano inoltre w = 12 e p = 3. Quanto L domanda
l'impresa?
4. Dato l'esercizio precedente, calcolate di quanto varia la domanda di lavoro se w cresce del 10%.
5. Supponiamo un'impresa monopolistica che operi con gli stessi dati dell'esercizio 3, vale a dire con w=12 e Q = 100 +
10L - 5L2; la funzione di domanda sia p = 4.042 -0.01Q, di modo che per p=3 Q valga 104.2, come nell'esercizio 3. Si
verifichi che l'impresa domanderà una quantità di L inferiore a 0.6, la quantità domandata nell'esercizio 3.
6. Quale è la differenza fra monopolio, oligopolio e concorrenza monopolistica?
7. Un'impresa artigianale ha un solo lavoratore, che produce un valore di 200 euro. Se ne assume un
secondo il valore del prodotto totale è di 380 e uro, se ne assume un terzo di 550, e se ne assume un
quarto di 710. Quale è il ricavo marginale dei quattro lavoratori? Più in generale, supponiamo che il
ricavo totale del lavoro di un'impresa sia dato da R = 5√L. Quale è il ricavo marginale del 10°
lavoratore? E quello del 26°?
8. Per un'impresa, il costo totale del lavoro è dato dalla scheda che segue:
Unità di lavoro 1 2 3 4 5
Costo totale 10 22 36 51 70
La funzione è crescente, costante o calante?
Il costo medio è crescente, costante o calante?
Il costo marginale è maggiore o minore di quello medio?
Si supponga ora che la scheda sia la seguente
Unità di lavoro 1 2 3 4 5
Costo totale 10 20 30 40 50
E si risponda alle stesse domande.
Si supponga infine che la scheda sia la seguente
Unità di lavoro 1 2 3 4 5
Costo totale 10 19 27 34 40
E si risponda alle stesse domande.
9. Immaginate di dovere spiegare intuitivamente a uno studente meno preparato il motivo della
relazione che intercorre fra valore marginale e valore medio, e fornite tale spiegazione.
10. La domanda di lavoro di un'impresa concorrenziale è data da L = 45/w. Quanto vale
l'occupazione se w = 6? Quanto deve valere w perché l'occupazione aumenti del 50% rispetto a tale
valore?
11. La domanda aggregata di lavoro è data da L = 100 - 8w, e l'offerta da L = -10 + 3w. Quanto vale
L in equilibrio? e w?
12. Con riferimento alla fig.8, cosa capita se il salario minimo è fissato al disotto del valore di
equilibrio? E se viene fissato un salario massimo al disotto di quello di equilibrio?
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13. Con riferimento ai dati dell'esercizio 11, supponete che il salario minimo sia fissato a un livello
superiore del 10% a quello di equilibrio. Quanti saranno i disoccupati? Quale sarà la riduzione di
occupazione rispetto al mercato senza vincoli?
14. Tracciate il grafico dell'equilibrio dell'esercizio 11. Supponete che i lavoratori assumano un
comportamento monopolistico. Come si modifica la curva di offerta? E quella di domanda? E
l'equilibrio?
15. Ancora con riferimento ai dati dell'esercizio 11, supponete che gli imprenditori assumano un
comportamento monopsonistico. Come si modifica la curva di domanda? E quella di offerta? E
l'equilibrio?
16. Con riferimento all'esercizio precedente, supponete che il comportamento monopsonistico si
manifesti con una riduzione del 10% dell'intercetta della funzione di domanda. Quali saranno i
nuovi valori di L e di w? Quanti saranno i disoccupati? Quale sarà la riduzione di occupazione
rispetto al mercato senza vincoli?
17. Sia la funzione del costo totale del lavoro pari a wL, quindi con L che non varia in funzione di
w. Si verifichi che il costo marginale e il costo medio del lavoro sono eguali. Si verifichi anche che
se w = a+bL, e quindi la funzione di offerta è inclinata positivamente, il costo marginale è superiore
a quello medio.
18. Sia la funzione di domanda di lavoro data da L = 100 - w, che scriviamo w = 100 - L, e quella di offerta da L = -20
+ 2w, che scriviamo w = 0.5L + 10. Si verifichi che l'equilibrio del monopsonista si ha per valori di w e di L inferiori a
quelli di concorrenza. Si verifichi anche che se si impone un salario minimo superiore del 10% a quello di concorrenza
sia w che L aumentano rispetto ai valori di equilibrio di monopsonio.
19. In un dato paese i posti di lavoro vacanti sono 43.000, i disoccupati sono 68.000 e la forza
lavoro è composta da 500.000 persone. L'anno dopo la forza lavoro passa a 480.000, i disoccupati a
65.000 e i posti vacanti a 41.000. Ci si è mossi verso l'alto o verso il basso lungo la curva di
Beveridge?
20. In un dato paese la curva di Phillips è interpolata dalla funzione P° = 66/U - 3, dove P° è il tasso
di inflazione e U quello di disoccupazione. Se U=24%, i prezzi saliranno o scenderanno?
Soluzioni
1. Perché essendo il prezzo del bene e quello del lavoro costanti, ed essendo l'impresa in grado di vendere la quantità di
prodotto che vuole (siamo in concorrenza perfetta) un aumento della quantità di lavoro porta necessariamente a
maggiori profitti.
2. Dobbiamo porre 2(20-L) = 10, da cui L = 15.
3. La funzione di mpp è mpp = 10 - 10L. L'impresa domanderà quella quantità di L per cui 3(10 - 10L) = 12, cioè 0.6, e
produrrà 104.2; mpp varrà 4.
5. La funzione di mpp è ancora 10-10L, mentre il ricavo marginale è la derivata del ricavo totale, cioè di 4.042Q0.01Q2, ed è quindi pari a 4.042-0.02Q. la produttività marginale in termini di valore sarà allora data da (1010L)(4.042-0.02Q). Poiché Q è una funzione di secondo grado di L, questa è una funzione di terzo grado di L. Per
evitare il complicato calcolo della soluzione di un'equazione di terzo grado, possiamo ragionare come segue.
Supponiamo che l'impresa si trovi nella stessa situazione di un'impresa di concorrenza, con L = 0.6 e quindi Q = 104.2,
come sappiamo dall'esercizio 3. Il ricavo marginale del lavoro, mpp*r', vale allora 7.832, che è inferiore a 12.
L'impresa deve quindi aumentare il valore di mpp*r'; per fare ciò deve ridurre il valore di L: così facendo aumenterà
mpp, e inoltre si ridurrà Q, e quindi aumenterà r'.
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Soluzioni
10. 7.5; 4.
11. 20; 10.
12. Niente nel primo caso. Nel secondo (piuttosto improbabile in un mercato concorrenziale, meno in uno oligo- o
monopsonistico) si creerà un eccesso di domanda che porterà probabilmente a un mercato nero del lavoro.
13. 11; 8.
14. La curva di offerta si sposta verso sinistra. L diminuisce, w cresce. D non si modifica.
15. La curva di domanda si sposta verso sinistra. Le w diminuiscono. La curva di offerta non si modifica.
16. 17.3, 9.1. Nessuno. 2.7.
17. Nel primo caso, il costo marginale è pari a d(wL)/dL = w, e quello medio a wL/L = w. Nel secondo il costo
marginale è pari a d[(a+bL)L]/dL = a+2bL, e quello medio a (a+bL)L/L = a+bL < a+2bL.
18. In concorrenza perfetta avremo eguaglianza fra domanda e offerta, e quindi w = 40 e L = 60. Nel caso del
monopsonio dovremo avere eguaglianza fra ricavo marginale e costo marginale, e quindi l'equilibrio sarà individuato
dall'incrocio fra la funzione di domanda e quella del costo marginale, dwL/dL = d[(0.5L+10)L]/dL = L +10. Avremo L
= 55 e w, individuato dalla funzione di offerta, = 37.5. Se il salario viene fissato a 44, il costo marginale è appunto 44 e
quindi la domanda sarà data da 100 -44 = 56 e il salario 0.5*56 + 10 = 38.
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