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ITALO SCIUTO
Cos’è la libertà? Una riflessione filosofica sulle declinazioni attuali
(“Villa Pace” di Gussago, 8 giugno 2008)
L’idea di libertà, oggi, è universalmente approvata (chi non difende il “valore” della
libertà?), ma in modo implicito, come se il suo significato fosse chiaro e univoco. In realtà, si tratta
di un concetto complesso e controverso, come dimostra in modo molto significativo la sua stessa
travagliatissima storia; che è bene tener presente, per capire il senso della situazione attuale. Oggi
non c’è infatti alcun accordo né sul significato né sulla definizione di libertà, che si offre pertanto
come un campo di lotte senza fine: esprime un concetto di cui non possiamo fare a meno, ma che
non possiamo afferrare con certezza e definitività. Mentre nel passato, in larga prevalenza, i filosofi
pensavano che la libertà umana fosse un fatto evidente, oggi molti negano questa evidenza e
affermano che, nel migliore dei casi, quello di libertà sia un concetto “essenzialmente contestabile”.
Eppure, non possiamo farne a meno. Per capirne il motivo, è bene ricordare brevemente i tratti
essenziali della sua storia.
In genere, a partire dal celebre testo di Benjamin Constant del 1819, si usa dire che nella
tradizione occidentale si distinguono due momenti fondamentali, che hanno dato luogo a due
modelli di libertà nettamente distinti: la libertà “politica” degli antichi e la libertà “civile” dei
moderni. A questi, dobbiamo aggiungere un terzo modello, che modifica per molti aspetti la libertà
dei moderni e che ci interessa direttamente: la difficile libertà dei contemporanei.
La libertà degli antichi si riferisce, innanzitutto, alla concezione greco-romana, secondo cui
la libertà viene intesa da una parte come opposto della schiavitù e nella opposizione tra Noi e gli
Altri (i “barbari”), dall’altra come capacità di partecipare alla vita della polis, da cui la definizione
di libertà “politica”. Gli antichi, perciò, concepivano la libertà come status di appartenenza, per cui
veramente libero non è tanto il singolo individuo quanto piuttosto l’organismo collettivo, la città. In
tale contesto, la libertà individuale consistente nel “fare ciò che si vuole” viene considerata in
termini negativi, essendo propria dei regimi “democratici” che disgregano la polis. Anche per il
mondo romano non è molto significativo parlare di libertà individuale, dato in questo senso è
veramente libero soltanto il pater familias. Gli antichi non ignorano, ovviamente, le libertà
individuali, ma per loro è decisiva la libertà pubblica, o politica: quella che alcuni individui possono
vivere nella polis e nella respublica.
Nel mondo ellenistico, la grande filosofia dello stoicismo riprende l’opposizione tra libero e
schiavo, ma in relazione all’intera umanità e non più soltanto alla polis, ora in crisi definitiva. Si
tratta della libertà del saggio, che si differenzia dallo schiavo in virtù della capacità di esercitare e
seguire la ragione pura, non condizionata dalle passioni. Quindi la libertà viene qui depoliticizzata e
intellettualizzata: libero, per esempio, è uno schiavo filosofo come Epitteto. Questa concezione si
trasferisce anche al cristianesimo, secondo cui è spiritualmente libero chi non si lascia condizionare
dalla schiavitù della legge (romana e/o giudaica). Tipico è Paolo che, insistendo sulla opposizione
spirituale tra libertà e schiavitù, conduce a pensare la libertà compatibile con qualsiasi forma di
autorità e perciò anche di asservimento individuale. Ma anche in Agostino, il grande “inventore”
della volontà e del libero arbitrio, la concezione di fondo sostanzialmente non cambia: la vera
libertà è sempre di ordine spirituale. In questo senso, il millennio del Medioevo non apporta novità
di rilievo, se non precisazioni terminologiche e concettuali significative. In particolare, quando
chiarisce la distinzione tra libertà in senso metafisico (libertas a necessitate o liberum arbitrium),
libertà in senso etico-religioso (libertas a peccato) e libertà in senso fisico (libertas a coactione). Si
tratta di precisazioni molto rilevanti, perché la prima figura si riferisce alla natura dell’uomo in
quanto tale, cioè in quanto è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, e quindi consente di dire
che l’uomo è per natura sempre libero, mentre le altre due forme si riferiscono a possibilità e a
compiti che l’uomo si può e deve prefiggere: consentono di pensare la libertà come liberazione,
secondo una prospettiva che, sia pure in termini secolarizzati, verrà ripresa in tutta la modernità.
La libertà dei moderni, a differenza di quella degli antichi, si costituisce in termini di
complessità e di conflitto. Presenta infatti modelli opposti, nel perseguimento di quella che abbiamo
definito libertà “civile” o “individuale” in opposizione a quella “politica” dell’antichità. Secondo
alcuni autori del primo costituirsi della modernità, infatti, la libertà degli individui può venire
conseguita solamente con l’aiuto delle leggi: a partire da Machiavelli, si può dire, nasce l’idea della
libertà garantita da leggi. Secondo un orientamento che inizia con Hobbes, invece, si afferma l’idea
della libertà in termini opposti, cioè come assenza di leggi. Libertà nello e libertà contro lo Stato. Si
tratta sempre di una difesa della libertà individuale, ma contro minacce diverse: nel primo caso la
minaccia proviene dagli altri individui, nel secondo dalla ingerenza dello Stato. In ogni caso, quindi,
si afferma una concezione liberale della libertà, intesa come estensione massima della capacità di
agire propria di ciascun individuo, da ottenere con una riduzione progressiva degli impedimenti
esterni al “fare ciò che si vuole”. Si potrebbe dire che, al di là delle differenze tra le due posizioni e
tra i molti grandi autori che le hanno sostenute (Locke, Montesquieu, Bentham, Rousseau, Kant,
Stuart Mill, Tocqueville, ecc.), in questa prospettiva si afferma una concezione negativa della
libertà; questa, infatti, consiste essenzialmente nel togliere impedimenti.
Nel Novecento, questa idea si è sempre più affermata, giungendo alla classica distinzione
formulata da Isaiah Berlin, molto discussa e contesta ma ormai ritenuta imprescindibile per ogni
discorso intorno alla libertà dei contemporanei: la distinzione tra libertà negativa e libertà positiva.
La libertà negativa si riferisce a «l’area entro cui una persona può agire senza essere ostacolata da
altri», la libertà positiva invece si riferisce al soggetto che agisce e risponde a domande come “da
chi sono governato?”, oppure “chi deve dire che cosa devo e che cosa non devo essere o fare?”.
Spesso, le due libertà vengono equivocate come, rispettivamente, libertà da e libertà di, ma queste
due espressioni esprimono in realtà solamente la libertà negativa e sono sempre coimplicate: per
esempio, la libertà di stampa implica la libertà dalla censura. Più esattamente, si dovrebbe dire che
le due libertà “di” e “da” specificano la libertà negativa e caratterizzano quindi la libertà di agire,
secondo uno schema triadico di questo tipo: il soggetto X è libero da un vincolo Y di fare una cosa
Z. La libertà positiva prima richiamata, invece, si riferisce piuttosto alla libertà di volere, cioè allude
alla capacità di autodeterminazione e di autonomia del soggetto.
Intese in questo senso, libertà negativa e libertà positiva, cioè rispettivamente libertà di agire
e libertà di volere, non sempre sono reciprocamente implicate. Tipico, per esempio, è il caso dello
“schiavo contento”, in cui si ha libertà positiva in assenza di libertà negativa: il suo volere è libero,
anche se il suo agire è costretto. Si può dire anche in questi termini: la libertà negativa è il campo
d’azione in cui si può esercitare la libertà positiva. Nel nostro tempo, la questione di fondo consiste
allora nel determinare fin dove sia possibile estendere questo campo d’azione, consiste cioè nel
garantire e giustificare la massima estensione ammissibile della libertà negativa, sulla quale si possa
esercitare la libertà positiva. Questo vuol dire che le due libertà vanno distinte ma non sono
separabili, dato che l’autodeterminazione della libertà positiva trova nei limiti della libertà negativa
il campo d’azione che la fa sussistere. Ma impone anche la questione di fondo: quale delle due
libertà è migliore, o vera, e quindi quale delle due deve prevalere? Si può giungere, infatti, anche al
conflitto tra le due libertà, perché l’estensione della libertà negativa è per sua natura illimitata e ogni
sua limitazione è contestabile, quindi si può trasformare in una negazione della libertà positiva. Si
pensi, per esempio, alla assolutizzazione del concetto di “libero mercato”.
In effetti, il rapporto tra le due libertà diventa insuperabilmente problematico, se non si
introducono giudizi di valore che valgano come misure oggettive cui conformarsi. La libertà
negativa, cioè la determinazione dei vincoli da cui liberarsi, è sempre discutibile e ci pone in una
situazione di “contestabilità essenziale” che non può mai venire del tutto rimossa. Allora, si tratta di
trovare uno stabile accordo intorno ai giudizi di valore, affinché possano venire riconosciuti e valere
universalmente. Questa è la grande sfida del nostro tempo, in quanto è caratterizzato dal pluralismo
dei valori, che sembra superabile sulla base del principio fondamentale secondo cui, come ha detto
bene Karl Jaspers, «noi diventiamo liberi solo in quanto l’altro diventa libero». Da ciò, in effetti, è
derivata la grande stagione della universale estensione dei diritti umani, che ci vede ancora
duramente impegnati non solo perché spesso questi diritti non vengono rispettati, ma anche e
soprattutto perché si tratta di stabilire chi è quell’altro la cui garanzia di libertà costituisce la mia.
Dopo lunghe e talvolta sanguinose lotte, che in varia misura durano ancora, nella figura di questo
altro si sono riconosciute le minoranze culturali e linguistiche, le donne, le differenze sessuali e
cosiddette razziali, ma rimangono ancora molto problematiche le figure che solo ultimamente sono
entrate nel cerchio della rilevanza morale, in particolare le soggettività non umane come gli animali
e l’ambiente.
Di fronte a questa complessità, è importante intervenire nei singoli casi, ma è ancor più
rilevante e anzi decisivo assumere principi e/o prospettive di fondo che consentano e fondino
giudizi universalizzabili. Tra questi princìpi, va innanzitutto affermato quello che mette in relazione
la nostra libertà con gli effetti del nostro agire e del nostro fare (effetti che, in virtù della decisiva
estensione del potere della tecnica, hanno enorme rilievo): il principio responsabilità, espresso in
un famoso libro di Hans Jonas che rimane punto di riferimento imprescindibile. In virtù di questo
principio, la estensione della libertà negativa non può giungere sino al punto da ritenere che sia
lecito, o addirittura doveroso fare tutto ciò che si può fare. Ma anche in questo modo le cose non
sono certo semplificate, perché rimangono pur sempre valide anche le istanze di un’etica della
convinzione o dell’intenzione, secondo la celebre distinzione operata da Max Weber, che ritiene
assolutamente validi e non negoziabili certi suoi valori prescindendo dalle conseguenze dell’agire
conforme a tali valori. Ci troviamo, ancora, nella complessità.
Ugualmente complessa è l’altra fondamentale distinzione che, a proposito della estensibilità
della libertà negativa, si è determinata negli ultimi decenni: la distinzione/opposizione tra liberali,
che mantenendo ferma la centralità del soggetto individuale come fondamentale e irrinunciabile
conquista della modernità, ribadiscono il primato della libertà negativa e la necessità di
massimizzarla, e comunitaristi, che vedono in tutto ciò il pericolo di cadere nel più spietato
individualismo, fonte primaria del disagio che caratterizza l’uomo della postmodernità, contro cui
fanno valere l’importanza del radicamento nelle tradizioni storiche e quindi nelle forme solide di
appartenenza e identità. D’altra parte, i liberali vedono in questo richiamo dei comunitaristi alle
radici e alle appartenenze il rischio di chiusura e asfissia culturale dei localismi, se non addirittura la
possibilità di ritorno a forme di xenofobia che possono preludere alle pratiche di razzismo e di
totalitarismo ben note alla tradizione occidentale. Si tratta perciò di trovare una via giusta tra queste
possibilità, ma anche il concetto di giustizia non è semplice ed esige adeguati aggiustamenti e
sintonizzazioni alla situazione attuale; è significativo, infatti, che uno dei libri di filosofia morale e
politica più influenti degli ultimi decenni sia dedicato, appunto, alla necessità di intendere la libertà
alla luce del concetto di giustizia come equità: Una teoria della giustizia di John Rawls. Ancora una
volta, grande complessità.
In conclusione, possiamo dire che nella riflessione attuale il concetto di libertà viene inteso
come una realtà complessa, che vive di un paradosso essenziale, cioè deve tenere insieme due
istanze incompatibili ma entrambe irrinunciabili. Da una parte, infatti, l’istanza negativa conduce a
intendere la libertà come toglimento di vincoli e regole, come lotta incessante contro uno stato di
cose consolidato fattualmente; dall’altra, proprio per questo motivo se non ci fossero vincoli e
regole la libertà sarebbe inconcepibile. Inoltre, il fatto che oggi la libertà sia ritenuta un concetto
“essenzialmente contestabile” non toglie che ad essa ci si riferisca sempre quando si vuole trovare
un criterio per valutare la bontà di ogni atto umano e, in particolare, nei discorsi giuridici, politici e
morali. Non si condivide più, come ovvia, la certezza antica circa l’evidenza della libertà umana,
tuttavia rimane pur sempre la convinzione che l’essere liberi costituisca una premessa
indispensabile per impiegare in modo sensato e giustificato giudizi di responsabilità in ambito non
solo giuridico, ma anche politico e morale. Rimane pur sempre la necessità di affermare la libertà.
Questo non toglie, naturalmente, ma anzi impone il dovere di osservare le eventuali
patologie della libertà (sia “negativa” che “positiva”), oggi evidenti soprattutto in relazione a due
ambiti della libertà “negativa” cui possiamo solo accennare, dato che la loro importanza esigerebbe
un ulteriore lungo discorso: la tecnicizzazione e la globalizzazione dell’esistenza umana. Per il
primo aspetto, il Prometeo scatenato della tecnica sembra condurci a una condizione tecnica
totalitaria, nella quale il mondo diventa una macchina di cui l’uomo, che pure l’ha creata, è
un’appendice sempre più irrilevante. Per il secondo aspetto, basti pensare alla libertà di
informazione, rilevantissima in tempo di relazioni globalizzate e decisiva per le sorti della
democrazia, ma fragilissima per le possibilità di controllo e manipolazione da parte dei poteri
economici e politici, come il caso italiano dimostra eloquentemente. D’altra parte, oggi esiste anche
una patologia della libertà “positiva” nella figura dell’individualismo, di cui si possono trovare le
premesse nell’inizio della modernità con il dubbio cartesiano e lo spaesamento pascaliano di fronte
all’infinito. Perso il senso dell’appartenenza medievale, l’uomo della modernità ha cercato
l’autodeterminazione e l’autonomia liberandosi progressivamente da vincoli economici, politici,
religiosi e psicologici, ma questa liberazione lo ha posto nella condizione di un radicale isolamento
dal tutto che accresce la sua alienazione. Da ciò le varie forme di fuga dalla libertà, soggettive e
collettive, di cui è stato così tragicamente ricco il Novecento. Ma anche questo tema esigerebbe un
ulteriore lungo discorso. Dobbiamo quindi accontentarci di ribadire che oggi, se si vuole parlare di
libertà, si deve parlare essenzialmente di liberazione: si deve intendere la libertà come liberazione,
cioè non come uno status originario da ricostituire ma come una realtà nuova che si può trovare
soltanto là dove dev’essere conquistata.
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