Il Presidente - Fondazione Cercare Ancora

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CONVEGNO
L’EUROPA REALE. QUINDICI TESI SUL RAPPORTO TRA IL CAPITALISMO
FINANZIARIO GLOBALE E LA DEMOCRAZIA.
ROMA, 24 – 26 OTTOBRE 2013
PALAZZO BALDASSINI
1) La scelta di indagare il rapporto che si sta costituendo tra il capitalismo finanziario
globale e la democrazia nell’Europa reale è già la scelta di un campo nella ricerca. Del resto
non verrà taciuta l’ipotesi di partenza con la quale si vuole intraprendere l’indagine, non
solo per correttezza metodologica, ma per poter dar luogo ad un confronto aperto e
trasparente e alla stessa possibilità che essa venga falsificata.
Il campo in cui la ricerca si iscrive si può definire sia in negativo che in positivo. In
negativo: esso si colloca fuori e contro la lettura del rapporto tra democrazia, economia e
società alimentata dall’ideologia dominante, avendo essa sconfitto tutte le altre.
Quest’ultima, dopo aver separato la questione democratica dalla natura della società, ha
potuto proporre una scissione tra i diritti individuali, considerati formalmente come
inalienabili, e i diritti sociali che, invece, dovrebbero farsi dipendenti dall’andamento
dell’economia della concorrenza e della competitività. Da qui, la predisposizione ad un
assetto post-democratico e al ritorno al primato delle élites in nome della governabilità. Si
potrebbe parlare di una costituzionalizzazione del neo-liberismo. In positivo: la ricerca
intende disvelare il rapporto distruttivo tra la natura specifica di questo capitalismo
finanziario e la democrazia, non negando l’esistenza di una relazione tra la democrazia, i
diritti e l’economia, bensì contestando in radice il carattere storicamente necessitato del
dominio di questo tipo di economia su quelli e mettendo di questo dominio in luce, al
contrario, il carattere soggettivo, fondato cioè su un determinato connotato assunto in
questa fase storica dai rapporti sociali e, dunque, rivelando la possibile reversibilità del
processo. Quel che si vorrebbe indicare come linea interpretativa è il rapporto ineliminabile
tra la qualità del modello economico-sociale della società considerata e la questione
democratica.
E’ questo, del resto, il lascito più consistente, e carico di futuro, del pensiero politico
che ha ispirato le costituzioni democratiche nate in Europa dopo la caduta dei regimi
nazifascisti e, in particolare, proprio di quella italiana. Nei padri costituenti è stata esplicita
l’esigenza storica di superare l’orizzonte delle pur grandi costituzioni liberali per approdare
a una concezione programmatica che delineasse un’idea di società aperta ma ispirata
all’eguaglianza, eguaglianza che deve essere perseguita dalla Repubblica (è il suo compito,
si veda l’art.3) attraverso una democrazia “progressiva” o, che dir si voglia “integrale”. Ciò
che fino ad allora non era mai entrato in una costituzione, l’economia, vi entra a vele
spiegate sovraordinata da un forte pensiero critico, tanto che il principio secondo il quale la
sovranità appartiene al popolo poggia, esso medesimo, su una repubblica a sua volta
fondata sul lavoro. Norberto Bobbio trasse la convinzione che la democrazia sarebbe
deperita se non avesse potuto connettersi alla democrazia economica.
2) Ma adesso, a quale economia dobbiamo riferirci, nella nostra indagine critica, se
non a quella forma specifica di capitalismo che si può chiamare “capitalismo finanziario
globale” (o, secondo la formula di Luciano Gallino, finanzcapitalismo)? Vorremmo con
questa delimitazione poter non affrontare un ordine di questioni più teorico e generale
quale quello, che ha attraversato un gigantesco dibattito in tutto il Novecento, sul
controverso rapporto tra il capitalismo e la democrazia, per tentare, invece, un approccio
più circoscritto ad una sua forma specifica, quella del nostro tempo, per come si manifesta
qui in Europa. Si può dire che il capitalismo sia, insieme, uno e molti. L’uno è quello che si
manifesta in ciò che è stato chiamato il suo arcano . I molti sono quelli che nella storia si
vengono costituendo, in forme diverse, nello spazio e nel tempo. Esse sono mutate, e
mutano, con il mutare della composizione del capitale, con il mutare della composizione
sociale del lavoro e con le culture del tempo (si pensi al tema dell’egemonia già per come
l’aveva individuato Antonio Gramsci). Per fare riferimento all’ultimo quarto di secolo, si
pensi solo a ciò che è avvenuto, in termini di mutazione di fondo, nel rapporto tra capitale
finanziario
e
capitale
produttivo
e
tra
accumulazione
privata
e
pubblica.
Contemporaneamente il mondo del lavoro è stato sconvolto in ogni sua componente,
mentre una gigantesca rivoluzione passiva ha investito il cosa, come, dove, per chi produrre.
Durante lo stesso periodo, nelle culture, il post-moderno, oggi già in crisi, ha travolto l’idea
del moderno, fino a mettere in discussione la possibilità stessa di accedere al reale,
considerandola una ricerca impossibile e, perciò, da sostituire con la percezione
individuale. Per altro, in tutti i grandi tornanti della storia moderna, il capitalismo è stato
indagato nel suo mutarsi, fino a richiedere la formazione di categorie interpretative per
decifrarne proprio il mutamento della natura (si pensi alla forza e alla fortuna di categorie
come l’imperialismo o il neo-capitalismo).
Tra i molti capitalismi, rispetto alla nostra indagine, il confronto tra due di questi
risulta particolarmente significativo perché rivela, nel passaggio da un ordinamento
all’altro, l’intervenuto rovesciamento delle relazioni tra l’economia, la democrazia e la
politica.
Secondo la tesi che qui viene proposta, in questo passaggio di fase storica, si produce
una mutazione nell’assetto generale della società nel quale si compie la demolizione dei
portatori sociali politici e istituzionali della democrazia. Si tratta del passaggio da quel
capitalismo che è stato chiamato fordista-taylorista-keynesiano al capitalismo finanziario
globale.
3) Nel primo ciclo si sono espressi in Occidente, e in particolare in Europa, ciò che
molti economisti chiamano i Trenta Anni gloriosi. Si può dire che in essi l’Europa è stata la
culla di un modello economico sociale e, in un certo senso, di una definita civiltà del lavoro.
L’economia mista ne è stata la base strutturale, in una combinazione, pure mutevole, tra
accumulazione privata e pubblica. Lo stato sociale e il contratto di lavoro ne sono stati gli
architravi. Già annunciati dalle costituzioni democratiche, essi si sono inverati in una
stagione di espansione progressiva della lotta di classe e, secondo la formula di Kelsen, del
suo farsi politica. Il compromesso democratico ne è stato l’esito duraturo, di medio periodo.
La sua costruzione, tormentata e aspra, ha transitato la società dalla ricostruzione postbellica al neo-capitalismo, nel quale si afferma un rapporto tra produzione e consumo
improntato alla produzione di serie per un consumo di massa. Nella sua fase espansiva la
dinamica democratica è esaltata dall’irrompere sulla scena di nuovi soggetti e nuove culture
che investono tutto l’Occidente e che le propongono una sfida sul futuro.
In Italia nasce ciò che viene giustamente definito il caso italiano. Esso non può essere
qui indagato, ma si può dire, rispetto all’economia della nostra ricerca, che in esso si
produce, nel conflitto sociale, il massimo dell’espansione conosciuta della democrazia, e
l’approssimarsi di un vero e proprio aut aut, come già allora autorevoli esponenti della
borghesia si impegnarono a indicare (si pensi per tutti alle relazioni del governatore della
Banca d’Italia, Guido Carli).
La crisi petrolifera del 1973, primo indicatore della finitezza del ciclo capitalistico in
atto, e la terribile combinazione tra, da un lato, le stragi di Stato e, dall’altro, l’insorgere del
terrorismo hanno intorbidito drammaticamente, l’una oggettivante, l’altra soggettivante, la
contesa. Resta il fatto che le domande e i fattori progressivi di cambiamento (la spinta verso
un nuovo modello di sviluppo e un diverso rapporto di potere tra le classi) escono in essa
sconfitti. La sconfitta del cambiamento diventa la base stessa della grande ristrutturazione.
4) La fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta ne scandiscono le tappe in una vera e
propria fase di transizione. La ristrutturazione economica si salda, in essa, con la vittoria
delle destre in Occidente. Quest’ultima ha un forte e marcato profilo economico e sociale. Le
analisi della Trilaterale sull’eccesso di domanda veicolato dalla democrazia rispetto alla
possibilità del sistema di farvi fronte hanno costituito una traccia durevole per l’invocata
“normalizzazione”. Su un terreno diverso, ma complementare, si è sviluppata in Italia la
scelta di liberare l’economia dai “lacci e lacciuoli” dell’intervento pubblico e della
contrattazione sindacale fino a diventare politica attiva e potenza d’azione della borghesia.
Le vittorie di Reagan, negli Usa, e della Thatcher, in Gran Bretagna, sono segnate da dure
parole d’ordine liberiste contro lo stato e la società e sono entrambe contrassegnate da
sconfitte strategiche imposte ai lavoratori in vere e proprie battaglie campali (contro i
controllori di volo per Reagan, contro i minatori per la Thatcher). In Italia non meno
cruciale è la conclusione alla Fiat della lotta dei 35 giorni e più tardi quella sulla scala
mobile. Si avvia così la rivincita dell’impresa capitalistica sul lavoro. Un intero edificio
sociale viene messo in discussione, in Occidente. A cambiare radicalmente i rapporti sociali
e politici interverrà, poi, alla fine degli anni Ottanta, il crollo dell’Urss e dei regimi dell’Est.
La sanzione storica del suo fallimento sospinge il mondo verso una sua nuova unificazione,
quella dei mercati. Né si tratta di un processo lineare, attraversato com’è da violente
contraddizioni. Esse risulteranno tanto forti da riproporre il ricorso alla guerra. Ma la
grande nave è salpata e va. La ristrutturazione, innescata sulla sconfitta sociale del
protagonista del ciclo capitalistico precedente, costituisce una delle materie prime della
globalizzazione capitalistica.
5) La globalizzazione è stata una rivoluzione capitalistica restauratrice. Essa ha
alimentato una cultura che ha dissolto la nozione di progresso in quella di innovazione e
sviluppo, occultando la regressione di civiltà che si stava generando, nell’assolutizzazione
del paradigma della modernizzazione. La sua visione apologetica è confluita in ciò che Le
Monde diplomatique ha definito pensiero unico, il senso comune di una rivoluzione passiva.
Il suo carattere capitalistico restauratore, a partire dai rapporti sociali, non può tuttavia
ridurre la consapevolezza della portata storica della rottura. Una vera e propria rivoluzione
scientifico-tecnica ha trasformato l’intero sistema dell’informazione, e con esso gli stessi
processi produttivi e il rapporto tra produzione di beni materiali e immateriali.
L’unificazione dei mercati mondiali e la mobilità vertiginosa dei capitali ha spezzato il
legame storico tra produzione e territorio, mentre i punti trainanti della crescita economica
e dell’industrializzazione dell’innovazione, invece che applicarsi ai punti alti prima
raggiunti dallo sviluppo capitalistico (e dai livelli di reddito e di conquiste sociali in esse
realizzate), si è dislocato nelle economie emergenti, restituendo al capitale, capace di
inseguire su scala mondiale l’acquisto della forza lavoro al suo più basso prezzo, una
capacità inedita di estrazione di pluslavoro e plusvalore. Inoltre la crisi, quando è
strutturale, mette il capitalismo di fronte ad un nuovo problema per l’accumulazione, nuovo
perché esso non può più essere risolto in continuità con il ciclo in corso. La vitalità del
capitalismo si dispiega allora nella individuazione di nuove basi all’accumulazione, esterne
a quelle finora conosciute. Il colonialismo è stato un fenomeno storico in cui si è manifestata
violentemente questa ricerca nel Novecento. Oggi il problema viene affrontato individuando
alcuni di questi nuovi territori. Così ci si propone la riappropriazione per l’accumulazione di
ciò che ad essa era stato sottratto precedentemente con la conquista del carattere pubblico
dello stato sociale e dei servizi. La loro attuale privatizzazione ha questa motivazione
principale. Per altro la messa al lavoro di capitale finanziario, per alimentare
esponenzialmente l’innovazione e arare i nuovi territori dello sviluppo, è stato così
imponente da determinare una crescita che raggiunge ora grandezze incomparabilmente
superiori a quella del totale delle merci in circolazione. L’organizzazione della produzione si
è venuta ristrutturando sulla base di una centralizzazione delle decisioni, senza la
concentrazione della produzione e dei lavoratori. Il mercato del lavoro ha subito, in alto,
una riorganizzazione su base planetaria e, in basso, su scala aziendale e di filiera. La
frammentazione del mercato del lavoro, la moltiplicazione delle tipologie lavorative, ha
dato luogo a un ventaglio che va da nuove forme di schiavitù alle forze nuove nate
all’interno dell’economia della conoscenza. In questo magma la precarietà ha definito
crescentemente la fisionomia del lavoro e della vita di lavoro di un tempo intero, quello del
capitalismo finanziario. E’ cominciato da qui il rovesciamento del conflitto di classe ora
praticato dall’impresa contro i lavoratori, mentre sul terreno istituzionale la nuova
formazione economico-sociale, nel rimodellare il ruolo degli stati, è venuta generando delle
sue proprie istituzioni, quelle più rispondenti al nuovo ciclo, il Fmi, la BM, l’OMC. Ma la
mutazione dell’assetto geo-politico del mondo è tuttora in corso e il sommovimento è
gigantesco. Sono sorti nuovi protagonisti sulle rovine del bipolarismo e sull’onda della
globalizzazione, i paesi del Bric. I conflitti per il controllo delle fonti energetiche, esse stesse
in cambiamento, come per quello dell’estrazione di materie pregiate sono all’ordine del
giorno, ma non sono i soli. Del resto le scelte dell’America di Bush di arrestarne il declino
con la guerra è fallito. La crisi dell’Occidente è ormai un topos da più di un secolo, ma ora
essa si manifesta su tutti gli aspetti dell’organizzazione della società, fino a interrogare il
senso dell’esistenza umana e della politica. L’Europa ne è diventata il ventre molle quando
si è disposta all’unificazione guidata dalla crescita della primazia dei mercati e dalla
decrescita della democrazia (e della sua caratteristica civiltà).
6) L’Europa di Maastricht già annunciava, con il primato della questione del debito e
del deficit sull’occupazione, e con quello delle politiche di bilancio su quelle riguardanti il
modello sociale, la sua collocazione subalterna e dipendente dal paradigma restauratore
che la globalizzazione capitalistica stava instaurando. Così il rovesciamento della lotta di
classe si espandeva raggiungendo gli assetti istituzionali e plasmando quelli che hanno
regolato questa unificazione europea. L’Europa il cui sovrano è costituito dalla moneta e dai
mercati ne è la manifestazione concreta.
L’occasione della crisi è stata messa a frutto dalle classi dirigenti per assestare un
colpo di maglio alle resistenze sociali e per strutturare potentemente l’intero edificio
controriformatore. Varrà la pena di ricordare appena che l’avvento della globalizzazione
capitalistica era stato accompagnato da una sorta di nuovo ballo excelsior, mentre veniva
vantato per la capacità di smentire tutte le teorie sulla crisi. Invece la crisi esplode assai
rapidamente e si configura come una delle più gravi dopo quella del 1929. Essa scoppia
come crisi finanziaria trainata dal debito privato negli Usa. La crisi finanziaria diventa,
immediatamente, economica e sociale. Dagli Usa essa diventa mondiale e investe
duramente l’Europa. Dal debito privato alle banche, dalle banche agli stati, ai debiti sovrani
degli stessi la crisi finanziaria ed economica fa il suo corso, che non è però socialmente
neutrale. Se le cause prime della crisi sono, in realtà, al fondo, le cause stesse del suo
precedente successo, cioè sono di natura strutturale, allora non si può non leggere la natura
sociale che conduce dal debito privato negli Usa alla centralità del debito pubblico in
Europa. Essa riguarda, in ultima analisi, il modello sociale europeo che diventa perciò il
centro della contesa, la posta in gioco della crisi.
7) Sospinti dalla difficoltà, e dall’incertezza delle risposte da dare ad esse, le classi
dirigenti europee individuano nello stato sociale la contraddizione che nol consente,
l’ingombro da rimuovere sulla via della riconquista di competitività delle merci europee nel
nuovo scenario. Le politiche di rigore servono allo scopo. Intendiamoci, questo esito della
crisi non sarebbe stato affatto scontato. L’occasione della crisi avrebbe potuto avere altri
protagonisti politici e sociali capaci di coglierla, se avessero avuto la capacità di riaprire,
nella crisi, il cantiere del cambiamento. La richiesta oggettiva di un intervento pubblico, a
partire da quelli di salvataggio di grandi assi strategici bancari e industriali; la falsificazione
della tesi neo-liberista sulla crisi e lo sviluppo; la maturità, in specie per l’Europa, della
questione inerente la qualità del modello di sviluppo; il venire alla luce del peso delle
diseguaglianze sociali nella formazione della crisi economica; l’instabilità crescente
dell’economia generata dalla sua finaziarizzazione, sono tutti fattori che avrebbero potuto
condurre ad un esito ben diverso da quello in atto. Ma qui emerge un problema altro
rispetto a quello strutturale, il problema capitale della soggettività, dunque della
democrazia, della politica e della sinistra in particolare in Europa, tema che verrà affrontato
partitamente. La frana, su questo lato della questione, ha concorso a determinare
l’andamento e la natura dei processi che hanno condotto alla costruzione di questa Europa
reale. Di essa è in atto ora il processo costituente, attraverso la produzione della sua
costituzione materiale. L’economia e la sua riorganizzazione ne sono la levatrice. La
centralità attribuita al debito pubblico si è venuta sostanziando di politiche economiche
sociali e finanziarie, da un lato, e dalla creazione di istituzioni ad esse funzionali, dall’altro,
sino alla realizzazione di mutamenti di fondo nelle stesse Costituzioni, come con
l’introduzione in esse del vincolo della parità di bilancio. Su queste politiche si è venuto
organizzando il governo reale dell’Europa reale. Il comitato governativo si è incarnato in ciò
che si è chiamata la Troika (il Fmi, la Commissione europea, la Bm), introiettando la guida
tedesca. I governi nazionali sono sempre più delle semplici articolazioni di questo assetto di
governo. L’integrazione ulteriore dell’Europa reale che si vuole adesso compiere è sotto il
segno della condizionalità. L’avanzamento del processo di integrazione è proponibile in
quanto e per quanto si realizzi, nelle politiche economiche nazionali, il dettato
dell’ortodossia monetaria e del mercato. La presa diretta dei processi economici di questa
specifica economia di mercato (il capitalismo finanziario) si proietta così fin sul sistema
istituzionale per fissare anche, in quella sfera, la sua vittoria ideologica e pratica, vittoria
che si esprime, nelle culture politiche, con l’accettazione dell’ineluttabilità delle scelte
statali e delle imprese e con l’avvento della società governata dalle élites.
8) La società post-democratica, a vocazione tecnocratica, nasce dentro la materialità
dei rapporti sociali. Lo svuotamento della sovranità popolare è, in primo luogo, il frutto del
suo risucchio in un modello socialmente regressivo. In esso la corrispondenza tra ciò che
accade nella dimensione macroeconomica e quel che accade nella dimensione
microeconomica è impressionante. Lo illustra nel modo più radicale il caso Fiat. Non si pone
lì solo, e già sarebbe enorme, un problema di diritti e di libertà sindacali; c’è molto di più. Il
modello di organizzazione del lavoro, scelto dall’azienda, il WCM in questa versione, tende a
negare ogni soggettività ai lavoratori sussumendoli in una macchina che pretende di negare
ogni contraddizione interna (a partire dalla negazione della diversità di interessi tra i
lavoratori e la proprietà) e ogni legittimità al conflitto sociale. L’azienda globale è
trasformata in una macchina da guerra della competizione che, in funzione di ciò, si
configura come un luogo senza diritti e senza riconoscimento delle soggettività, un luogo
senza alcuna dignità riconosciuta alla persona. Ovviamente non è il solo modello di impresa
presente sulla scena, ma ne costituisce un indicatore di tendenza. Il panorama del mondo
del lavoro emergente è complesso, frammentato e disarticolato. Tuttavia una tendenza
generale si può rintracciare nel suo generale impoverimento e nelle, pur variegate, forme di
alienazione che lo investono. Il taglio della spesa pubblica investe la condizione del pubblico
impiego e dei servizi. I lavoratori industriali sono diventati organicamente precari, o per
contratto e per condizione oggettiva. Persino nell’economia della conoscenza, nelle nuove
frontiere di lavori potenzialmente e anche già parzialmente creativi, le loro potenzialità
vengono negate dalle relazioni sociali (proprietà, norme, mercato) in cui sono imprigionate.
Così il cerchio dell’economia del capitalismo finanziario globale si chiude dall’alto in basso
espellendo da sé le soggettività critiche e, in conclusione, la democrazia. Così il capitalismo
finanziario globale costituisce l’Europa reale rivelando la sua incompatibilità con la
democrazia. Il vincolo esterno (la compatibilità con la competitività delle sue merci) che
essa impone ai popoli e ai paesi che la compongono schiaccia ogni vincolo interno (i bisogni
delle popolazioni) e con esso la democrazia in un processo di colonizzazione dei popoli.
9) Si è provato sin qui a descrivere la mutazione del rapporto tra l’economia (il farsi
del capitalismo finanziario globale) e la crisi della democrazia in Europa, proiettata dalla
riorganizzazione di quella in una fase post-democratica attraverso la demolizione e la
manomissione sistematica di quelli che ne erano stati i fattori costituenti e propulsivi. Si
rivelerebbe confermata anche per quella via una sostanziale incompatibilità tra il
capitalismo finanziario globale e la democrazia, che è la tesi guida della ricerca. Ora si tratta
di indagare il suo reciproco, cioè il movimento che è intervenuto all’interno dell’assetto
democratico e istituzionale e il suo rapporto con il mutarsi regressivo del modello
economico sociale europeo. La seconda tesi è che in esso ha preso corpo la malattia della
democrazia e la sua eutanasia sicché sarebbe ormai impossibile, per la stessa natura della
malattia, una ricostruzione della democrazia, dal suo interno, dall’interno del sistema
politico e della sua autonomia tanto presunta quanto di fatto pregiudicata. La salvezza
potrebbe, in questo caso, venire solo da ciò che sta fuori da questo recinto, dai barbari
capaci di essere senza barbarie. Il filosofo lo ha chiamato residuo per indicare non già una
marginalità, bensì ciò che non è sussunto e integrato nella macchina di un dato sistema
economico e del passivo consenso ad esso. Si può ormai parlare di una condizione comune
della democrazia nei diversi paesi d’Europa, specie se la si osserva dal versante del suo
sistema politico-istituzionale unitario, in particolare dopo il salto di qualità, realizzatosi
nella crisi, nella sovradeterminazione delle politiche dei diversi paesi dell’Unione.
Persistono, tuttavia, differenze rilevanti nel grado di tenuta e di credibilità dei differenti
sistemi politici nazionali. Si pensi alla diversità tra la stabilità dei sistemi politico
istituzionali tedesco e francese, da un lato, e, all’opposto, lo stato di collasso di quello
italiano. Eppure la tendenza prevalente, quella che si qualifica sul rapporto tra economia e
politica, è la stessa, malgrado questa macroscopica diversità.
10) L’Europa di oggi è un paradosso. Tanto la fase storica e il destino dei suoi popoli
ne richiederebbero un alto protagonismo nella costruzione di un’originale civiltà, come, per
esempio, quella dell’Europa delle traduzioni di cui parla Balibar , quanto essa si è venuta
costituendo persino tradendo la promessa delle origini, che ne avrebbe potuto fornire
qualche materiale. La fine della terribile tragedia della Seconda Guerra Mondiale e la
sconfitta del nazifascismo vedono affacciarsi l’orizzonte necessario della pace, di cui è figlia
la prospettiva della nuova Europa, e, con esso, quello dell’eguaglianza così come si afferma
nelle costituzioni democratiche che nascono in quella temperie. Il manifesto di Ventotene di
Ernesto Rossi e Altiero Spinelli è del 1941, ed è l’annuncio di una speranza nascente. Si può
dire che il sogno di quell’Europa però declina, invece che crescere, con la sua integrazione.
E’ un percorso non lineare, procede a salti e zigzagando; a volte si può pensare prenda un
altro corso, ma la sua reazione puramente adattativa alla globalizzazione capitalistica ne
fisserà lo sbocco. La dichiarazione di Schuman del 1950 sull’Europa di pace e la nascita della
CECA con la cooperazione dei sei paesi (vincitori e vinti) per il carbone e per l’acciaio è la
base sulla quale nascerà nel 1957 la CEE. Ci vorranno più di venti anni affinché venga eletto,
nel 1979, il primo Parlamento europeo. Ma sarà il trattato di Maastricht del 1992 a definire,
istituzionalmente, la natura sociale dell’Europa reale che sarà solo integrata da quelli
successivi di Nizza e di Lisbona. Il risultato non si misura, come avrebbero voluto i liberali,
in una buona economia pur in presenza di una cattivo assetto istituzionale, ma nel
soffocamento di ogni autonomia della politica e delle istituzioni divorate dalla sudditanza al
potere economico. L’assetto istituzionale di governo dell’Europa si è venuto costituendo in
un triangolo costituito dal Parlamento, dal Consiglio dell’Ue (il concerto dei capi di Stato e di
governo) e dalla Commissione europea. Nel processo decisionale si è manifestato, in tutta la
sua predominanza, il primato intergovernamentale a scapito del Parlamento e della
democrazia rappresentativa. In questo precario edificio, con tutto il suo deficit democratico,
ha preso corpo un istituto così forte da potersi sottrarre ad ogni controllo parlamentare e
da poter agire senza la guida di alcun governo, di alcuna istanza di democrazia
rappresentativa, la Bce. L’Euro nasce con una duplice paternità: una cultura economica,
quella monetarista, che coltiva il primato della stabilità monetaria e il perseguimento della
convenienza delle due nazioni forti, la Germania (che voleva rendere irreversibile
l’unificazione tedesca) e la Francia, che la voleva controllare. La Bce dell’Euro diventa il
pivot dell’intera costruzione europea di cui riassume non solo l’ispirazione delle sue
politiche concrete, ma una determinata idea dell’economia politica. Prima della crisi
economica era già manifesto, e pressoché generalmente riconosciuto, che l’Europa viveva in
un deficit di democrazia. La sua distanza dai popoli si era venuta accentuando tanto che
quando qualche suo trattato è stato sottoposto al giudizio del popolo, come nel caso del più
significativo tra essi, quello sul Trattato chiamato impropriamente costituzione, è potuto
accadere che esso sia stato clamorosamente sconfitto in paesi decisivi come la Francia. A
testimonianza della connessione tra assetto istituzionale e questione sociale sarà utile
ricordare che il voto del popolo francese è stato influenzato dal giudizio su una direttiva che
esprimeva tutta la filosofia dell’Europa del neoliberismo applicato al mercato del lavoro, la
direttiva Bolkestein.
11) Ma è nella crisi che si compie il passaggio di fase dall’Europa con un deficit
persistente di democrazia a un’Europa apertamente post-democratica e tendenzialmente
tecnocratica. I capisaldi entro i quali viene, in quest’ultima sua fase, costituendosi l’Europa
reale sono la parità di bilancio e il fiscal compact, cioè la trasformazione dei trattati di
Maastricht in legge di ferro della sua economia. Se il sovrano è chi decide dello stato di
eccezione (ed esso viene proclamato per l’Europa nella crisi economica), il nuovo sovrano è
conclamato. La troika al cui centro siede la Bce, ne assume la guida e il comando. Resiste ad
esso pressoché solo quello spazio che il diritto comunitario ha, in un percorso laterale,
salvaguardato e aperto al cittadino, in una sorta di secondo binario rispetto a quello
centrale dell’organizzazione sociale ed economica. Ma è a quest’ultima che viene affidato il
destino stesso dell’integrazione politica e istituzionale. Mario Draghi ha dato veste e dignità
teorica a questo processo con la nozione di condizionabilità. Alla pars destruens del
progressista modello sociale europeo del dopoguerra che è stata operata dalla
globalizzazione, si connette, durante la crisi, la pars costruens di un nuovo modello
economico-politico socialmente regressivo, quello dell’Europa reale. Dopo l’integrazione dei
mercati, anche quella degli stati avviene sotto lo stesso cielo. La cessione di sovranità degli
stati europei non avviene nei confronti di una dimensione sovranazionale europea
democratica, da popolo a popoli, bensì da un ordinamento erede di una tradizione
democratica, per quanto già in parte compromessa, ad un ordinamento la cui sovranità è
affidata alla fedeltà a dei parametri astratti dettati dall’economia capitalistica il cui
perseguimento è garantito da quel governo delle élites che si propone di esserne il custode.
L’idea guida è l'irreversibilità del modello economico sociale in costruzione attraverso un
assetto istituzionale neo-autoritario (oltreché mediante i rapporti sociali diretti tra le classi
ottenuti con il rovesciamento della lotta tra di esse).
Alcuni autorevoli studiosi si sono scostati da questa lettura dei processi istituzionali
mettendo in rilievo l’attenzione nei trattati europei alla dignità della persona, alla sua
autodeterminazione, e ai diritti ad essa connessi. Esso riguarda quel binario laterale a cui ci
siamo riferiti a proposito del diritto comunitario. Non si vuole qui negarne l’esistenza
quanto piuttosto rilevare, come ha sostenuto Castoriadis, che la dignità della persona è
inestricabilmente legata alla dignità nella società la quale consiste, in primo luogo, nella
possibilità di scelta tra modelli economico-sociali diversi, che proprio ciò l’Europa reale
nega, nel nucleo duro dei trattati come nella sua costituzione materiale.
12) Ma se questa è la realtà sovranazionale che acquista sovranità, qual è quella che la
cede, e qual è in essa lo stato della democrazia nella Repubblica? La specificità italiana è
quella di un sistema politico devastato con possibili sospensioni della democrazia anche in
passaggi politicamente significativi. La sua crisi è sottolineata da una degenerazione nella
quale la corruzione esplode e si espande come parte integrale del sistema stesso.
Essa, come a disegnare una propensione di lungo periodo della classe dirigente del
paese, emerge, quale questione politica, alla fine di ogni regime. Senza tornare sino al
fascismo, bastino qui i riferimenti alle diverse fasi della storia della Repubblica. Finisce così
la Prima Repubblica, quando la politica pensa di guadagnare potenza autonomizzandosi
dalla società e dalle ideologie, assolutizzando la contesa tra le forze politiche per la
conquista del governo. Cova, in quella temperie, una relazione tra affari e politica come
levatrice di forza propria di questa ultima e quale droga di un’economia in esaurimento di
futuro. Sarà un fallimento e sarà Tangentopoli. Ma il manto della corruzione avvolge anche
la crisi della Seconda Repubblica. Questa volta essa è determinata da una ragione quasi
opposta alla prima; non già un sogno di potenza ma la scomparsa, dalla scena pubblica,
della politica con l’esaurirsi della presa diretta sulla società da parte delle sue grandi forze
organizzate. La politica e le istituzioni democratiche vengono allora sopraffatte dai poteri e
dai processi economici che generano un arcipelago di grandi piccoli potentati, orizzontali e
verticali, che proliferano nel circuito economico-politico-istituzionale, all’ombra dei
governi. La dimensione del fenomeno corruttivo definisce il suo carattere politico. Si tratta
di un volume annuo doppio dell’ammontare di una intera legge di stabilità; a un quarto
dell’intero giro d’affari equivale l’ammontare delle tangenti che invade i centri dell’intero
sistema e ne decreta il collasso reale. Essa investe il ceto politico dirigente come
testimoniano le inchieste giudiziarie che mettono sotto accusa le direzioni delle principali
regioni del paese, ma si estende alla classe dirigente del capitalismo italiano e parla
inesorabilmente della natura di quest’ultimo. E se questo è lo stato degli assi strategici di
provenienza pubblica, la finanza privata offre di sé uno spaccato ancor più devastato e
devastante, da Montepaschi, a Fonsai alla Bpm. Il disastro etico del capitalismo italiano si
specchia nella questione morale squadernata dalla cattiva politica. L’intera Seconda
Repubblica ne è stata l’incubatrice con il declino della politica e lo svuotamento della
democrazia rappresentativa. Il revisionismo costituzionale non ha avuto in essa una parte
innocente. Dietro la richiesta di mutarne la seconda parte, essa ha accompagnato la messa
in discussione della sua impegnativa componente programmatica (la centralità del lavoro, il
perseguimento
dell’uguaglianza,
l’organizzazione
progressiva
e
conflittuale
della
democrazia). I due cardini della nuova strategia politico-istituzionale sono stati il
decisionismo e la governabilità (versus il valore del conflitto e versus la centralità del
parlamento). Giorgio Agamben ha chiamato appropriatamente “governamentalità” la
cultura politica che ha egemonizzato, e continua ad egemonizzare, l’Europa. Le assemblee
elettive sono state da essa soggiogate, in esse si è voluto vedere una patologia dispersiva
rispetto all’imperativo della decisione da prendere il più rapidamente possibile. In realtà si
è voluto colpire una cerniera interattiva tra le scelte dell’assemblea e il conflitto sociale (a
sua volta considerato come la patologia per eccellenza). Il deperimento dell’assemblea a
favore dell’esecutivo l’ha resa progressivamente impermeabile al conflitto sociale, mentre
immetteva quest’ultimo nel circuito dei poteri economici.
13) Si avverava l’intuizione di Antonio Gramsci secondo cui, durante le grandi crisi del
capitalismo, passano in secondo piano le istituzioni che dipendono dal suffragio universale,
come i parlamenti. Al contrario le circostanze rafforzano “la posizione relativa del potere
(civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e, in generale, di tutti gli organismi
relativamente indipendenti dall’opinione pubblica”. I ceti politici di governo, a loro volta, si
formano in nuovi percorsi, quelli delle porte girevoli, con il passaggio di funzioni di governo
dallo Stato ai consigli di amministrazione delle grandi multinazionali, istituti di credito e
finanziari. Si viene così formando un ceto politico dirigente, espressione della rivincita delle
élites, che negando la classica divisione della politica, quella che legittima la partecipazione
e la scelta popolare, cioè quella tra destra e sinistra, depoliticizza il regime istituzionale e
sostituisce la presunzione di competenza alla rappresentatività. Sono le basi di un moderno
cesarismo. La mutazione genetica dei partiti di massa e dei grandi sindacati, la rivoluzione
passiva che li ha investiti, sradicandoli dalla storia e dall’ideologia, dall’organizzazione del
conflitto e dalla dinamica sociale che li aveva resi protagonisti della storia sociale e politica
del paese, ha cambiato i connotati storici della società civile italiana e ha introiettato le
grandi organizzazioni, nelle loro risultanti di fondo, nel modello economico sociale in
costruzione e nella sua organizzazione istituzionale. Si è trattato, nella sinistra, di una vera e
propria mutazione genetica dei partiti e dei sindacati, tanto da poterla iscrivere nel più
vasto processo di fine del Novecento e di crisi storica del movimento operaio . Sulla
centralità del governo a scapito del parlamento, si è innestata la figura predominante del
capo di governo che, a sua volta ha trascinato il fenomeno del leaderismo, con la
sostituzione delle domande di partecipazione critica con la manifestazione di sostegno
gregario (e di identificazione passiva con il leader).
Ad accentuare la tendenza c’è stato anche l’insorgere di un fenomeno alimentato da
una grande rivoluzione tecnica e da una nuova cultura emerse a partire dagli anni Ottanta.
La rivoluzione tecnica è quella che ha investito le comunicazioni, attribuendo un crescente
dominio all’apparire sull’essere; la cultura del nuovo, che oggi tuttavia comincia ad entrare
in crisi, è quella post-modernista che ha destituito di fondamento la ricerca della verità, fino
a negare la possibilità di conoscenza del reale, pretendendo di sostituire ad essa il mondo
delle emozioni e del vissuto, fino all’assolutizzazione di un reinsorgente e invasivo
individualismo. Il versamento di queste culture sul sistema elettorale ha cambiato
radicalmente il campo di gioco della democrazia rappresentativa. Il sistema maggioritario,
costruito per una società politica bipolare, ha accentuato il declino dei partiti e affermato il
primato delle coalizioni di governo. Straripanti premi di maggioranza attribuiti a quella
vincitrice delle elezioni hanno cambiato la natura stessa del voto conducendola da una
scelta propriamente politica, com’era stata a lungo, fino al voto utile e, dunque, alla povertà
del male minore o al voto chiesto per avversione, invece che per opzione positiva.
L’imperativo di vincere le elezioni per conquistare il governo ha preso il posto dell’impegno
a guadagnare il consenso elettorale per affermare un’idea di società e, in questo senso, un
programma, una guida per l’agire. Il parlamento dei nominati, invece che degli eletti, la
riduzione del parlamento a cassa di risonanza dell’esecutivo (si veda il ricorso ordinario,
anche in presenza di una robusta maggioranza parlamentare, alla decretazione d’urgenza e
al voto di fiducia al governo nel varo dei provvedimenti), il suo degrado nella tenaglia tra la
percezione di massa della sua inutilità e, per conseguenza, dell’insopportabilità dei suoi
costi, sono le conclusioni patologiche ma prevedibili della controriforma politica operata
nella Seconda Repubblica. Questa devastazione del regime democratico ha fatto sì che la
cessione di sovranità verso la costruzione europea, pur avvenendo nella direzione di
un’entità a-democratica, non ha potuto trovare un’opposizione da parte della Repubblica
perché essa stessa è stata gravemente mutilata nella sua sovranità popolare e nel suo
assetto democratico fino a subire, da ultimo, persino una sospensione della democrazia
nella formazione del governo di fronte all’esplodere della crisi. Più in generale, lo stato di
eccezione deliberato da parte dell’Europa reale si estende ai paesi europei a loro volta
largamente privati dall’interno di una capacità di resistenza democratica.
14) In Italia, come più in generale in Europa, la connessione tra lo svuotamento della
democrazia rappresentativa si connette con la regressione imposta alla civiltà del lavoro e
al modello sociale del paese. Semmai qui si può rilevare una particolare radicalità del
fenomeno. Esso del resto è comprensibile se si pensa a ciò che è stato il caso italiano. Si è
trattato di un avanzato e dinamico compromesso sociale nel quale lo stato sociale, invece
che una costruzione realizzatasi dall’alto e per legge, come in altri paesi europei dalla
Germania alla Francia, è stato realizzato dal basso, a partire dalla società. Promosso dal
conflitto sociale e alimentato prevalentemente dalla contrattazione, il compromesso sociale
e democratico italiano è stato prevalentemente laborista. Prevalentemente, ma non solo. La
rottura del biennio ’68-’69 e gli anni Settanta sono andati ben oltre, nella costruzione di una
rivoluzione poi mancata. Anche la modernizzazione, che è diventata la traduzione reale
dell’intero ciclo, ha visto insorgere, al suo interno, domande di qualità portate da
protagonisti e da culture tanto forti da proseguire, sebbene carsicamente, il loro corso, nei
contesti sociali e politici i più diversi, fino ad arrivare vive sino ad oggi. Sono stati, in primo
luogo, le donne a mutare nel profondo la società civile. L’ambientalismo, a sua volta, ha
sottoposto a una critica durevole il rapporto tra la produzione e la natura, mentre le istanze
di comunità e di partecipazione sono cresciute fino a porsi in relazione critica con la
globalizzazione capitalistica, con il movimento altermondista, un movimento di scala
mondiale.
Per questa ragione, in Italia, la messa in discussione del modello sociale precedente ha
nell’attacco al lavoro e al contratto una particolare radicalità e concentrazione, sia delle
politiche statuali come in quelle aziendali. Tutti i campi vengono occupati da questa
offensiva, quelli materiali come quelli simbolici, quelli contrattuali come quelli istituzionali,
quelli culturali come quelli dell’informazione. L’obiettivo è duplice, per la nuova impresa
capitalistica, l’azienda globale: realizzare una vittoria sul campo così da ridurre il lavoro a
variabile dipendente dal mercato e conseguire una vittoria ideologica nella società civile per
trasformarla in senso comune. La linea della dinamica salariale, che va dalla metà degli anni
Settanta ad oggi è implacabile nel dare conto del rovesciamento del conflitto di classe e
della mutazione sociale e istituzionale che ha investito i suoi protagonisti, fino alla morte
del contratto e all’istituzionalizzazione del sindacato confederale. Un’ espropriazione di
democrazia e di partecipazione, ancor più violenta di quella che ha toccato il cittadino, è
toccata al lavoratore. Se, come ricordato, Norberto Bobbio aveva già intuito che la
democrazia si sarebbe afflosciata senza democrazia economica, ora siamo ben oltre. Nel
lavoro e nella società, il lavoratore, colpito nei diritti sociali, è privato di ogni possibilità di
esercizio democratico (non può decidere, né pronunciarsi con il voto, neppure sul suo
proprio contratto collettivo di lavoro). Così come, sul terreno politico, parte della
controriforma è consistita nella rottura del patto tra la sinistra e il popolo, così, sul terreno
sociale, essa passa per la rottura del patto tra i lavoratori e il sindacato che aveva
caratterizzato il ciclo della riforma sociale e dell’espansione democratica. Quel patto era
fondato sull’azione collettiva per il miglioramento, da un lato, delle condizioni dei lavoratori
e per il riconoscimento, dall’altro, del potere del sindacato. L’accettazione della
contrattazione in pejus, prima, e della sua sostituzione con la concertazione, poi, ha
vanificato il patto progressivo a cui è subentrata una istituzionalizzazione regressiva del
sindacato. Quando la reazione delle classi dirigenti europee alla crisi economica è
precipitata nella proclamazione dell’incompatibilità del suo modello sociale con la, per
altro, incerta uscita dalla crisi stessa, essa ha chiuso una tenaglia sulla questione sociale, che
ora è presa tra le morse della dominazione finanziaria, da un lato, e dalla destrutturazione
della democrazia, dall’altro. Se il sovrano è quello che decide dello stato di eccezione, il
sovrano in Europa si è costituito di fronte alla crisi economica e adesso occupa il centro dei
luoghi della decisione.
15) Il circuito che va dalla costruzione dell’Europa reale sovranazionale a quella nei
singoli paesi, il circuito che va dal costituirsi dell’Europa plasmata dal capitalismo
finanziario, al formarsi di un assetto istituzionale ad essa funzionale si configura come un
vero e proprio processo costituente dal quale viene però espulso, come inattuale, ogni
processo democratico. E’ la costruzione di un “recinto”
entro il quale i luoghi della
decisione e i processi decisionali dovrebbero essere messi al riparo da ogni influenza su di
essa della società e del conflitto. Il ritorno delle élites al comando si propone così di
immunizzarsi da quella vulnerabilità che il recente World Economic Forum di Davos ha
individuato in quella crisi di consenso sociale che colpisce la legittimità delle decisioni e
l’autorità di coloro che le prendono. La costruzione del recinto è la risposta anticipata alla
manifesta crisi di consenso popolare sia nei confronti di un modello sociale (quello in
costruzione) sia nei confronti della rappresentatività politico-istituzionale dei sistemi
politici. La costruzione del recinto è, dunque, il nucleo costituente dell’Europa reale allevata
dal capitalismo finanziario globale che rivela così la sua intrinseca attitudine neoautoritaria, la sua sostanziale incompatibilità con la democrazia.
Il terreno di ricerca del convegno è quello dell’indagine sul rapporto tra il capitalismo
finanziario globale e la democrazia. Esula perciò da essa la ricerca che ne dovrebbe seguire
anche qualora si verificasse la fondatezza della tesi proposta, della incompatibilità tra le
due. Tuttavia solo per indicarne una possibile traccia, essa, quando venisse affrontata,
dovrebbe, a partire dall’irrinunciabilità della democrazia, indagare le vie per la sua
ricostruzione in Europa o, che dir si voglia, della costruzione di un’Europa democratica,
quale alternativa di società all’Europa reale. Si delineerebbe la necessità storica di un
processo costituente di altra natura rispetto a quello in atto; un processo nascente nella
società reale e promosso fuori e contro il recinto. I barbari che non imbarbariscono, di cui
ha parlato Kostantinos Kavafis, ne dovrebbero essere i protagonisti. La costruzione della
coalizione sociale ne dovrebbe costituire il fondamento. I materiali per l’impresa non sono
inesistenti; sono confusi, incerti, contorti, ma esistono. Dal Mediterraneo è spirata un’aria di
rivolta che attraversa l’Europa, la sua trama è, a sua volta, mobile e carsica, eppure in essa
affiorano domande e pratiche di democrazia diretta, di autogoverno, di autorganizzazione e
di autogestione, affermazione di beni comuni e di attività umane extramercantili, lavori
partecipati e liberati, conflitti da cui emergono nuovi protagonisti sociali e nuovi elementi di
culture critiche. La nominiamo come aria di rivolta per indicare un fenomeno magmatico di
questo nostro tempo in latente opposizione al fenomeno della colonizzazione dei popoli e
delle persone che è l’opera dell’ultimo capitalismo in Europa. La rinascita democratica, se ci
sarà, nascerà dal farsi sospingere da quel vento.
( a cura di Fausto Bertinotti)
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