CONVEGNO L’EUROPA REALE. QUINDICI TESI SUL RAPPORTO TRA IL CAPITALISMO FINANZIARIO GLOBALE E LA DEMOCRAZIA. ROMA, 24 – 26 OTTOBRE 2013 PALAZZO BALDASSINI 1) La scelta di indagare il rapporto che si sta costituendo tra il capitalismo finanziario globale e la democrazia nell’Europa reale è già la scelta di un campo nella ricerca. Del resto non verrà taciuta l’ipotesi di partenza con la quale si vuole intraprendere l’indagine, non solo per correttezza metodologica, ma per poter dar luogo ad un confronto aperto e trasparente e alla stessa possibilità che essa venga falsificata. Il campo in cui la ricerca si iscrive si può definire sia in negativo che in positivo. In negativo: esso si colloca fuori e contro la lettura del rapporto tra democrazia, economia e società alimentata dall’ideologia dominante, avendo essa sconfitto tutte le altre. Quest’ultima, dopo aver separato la questione democratica dalla natura della società, ha potuto proporre una scissione tra i diritti individuali, considerati formalmente come inalienabili, e i diritti sociali che, invece, dovrebbero farsi dipendenti dall’andamento dell’economia della concorrenza e della competitività. Da qui, la predisposizione ad un assetto post-democratico e al ritorno al primato delle élites in nome della governabilità. Si potrebbe parlare di una costituzionalizzazione del neo-liberismo. In positivo: la ricerca intende disvelare il rapporto distruttivo tra la natura specifica di questo capitalismo finanziario e la democrazia, non negando l’esistenza di una relazione tra la democrazia, i diritti e l’economia, bensì contestando in radice il carattere storicamente necessitato del dominio di questo tipo di economia su quelli e mettendo di questo dominio in luce, al contrario, il carattere soggettivo, fondato cioè su un determinato connotato assunto in questa fase storica dai rapporti sociali e, dunque, rivelando la possibile reversibilità del processo. Quel che si vorrebbe indicare come linea interpretativa è il rapporto ineliminabile tra la qualità del modello economico-sociale della società considerata e la questione democratica. E’ questo, del resto, il lascito più consistente, e carico di futuro, del pensiero politico che ha ispirato le costituzioni democratiche nate in Europa dopo la caduta dei regimi nazifascisti e, in particolare, proprio di quella italiana. Nei padri costituenti è stata esplicita l’esigenza storica di superare l’orizzonte delle pur grandi costituzioni liberali per approdare a una concezione programmatica che delineasse un’idea di società aperta ma ispirata all’eguaglianza, eguaglianza che deve essere perseguita dalla Repubblica (è il suo compito, si veda l’art.3) attraverso una democrazia “progressiva” o, che dir si voglia “integrale”. Ciò che fino ad allora non era mai entrato in una costituzione, l’economia, vi entra a vele spiegate sovraordinata da un forte pensiero critico, tanto che il principio secondo il quale la sovranità appartiene al popolo poggia, esso medesimo, su una repubblica a sua volta fondata sul lavoro. Norberto Bobbio trasse la convinzione che la democrazia sarebbe deperita se non avesse potuto connettersi alla democrazia economica. 2) Ma adesso, a quale economia dobbiamo riferirci, nella nostra indagine critica, se non a quella forma specifica di capitalismo che si può chiamare “capitalismo finanziario globale” (o, secondo la formula di Luciano Gallino, finanzcapitalismo)? Vorremmo con questa delimitazione poter non affrontare un ordine di questioni più teorico e generale quale quello, che ha attraversato un gigantesco dibattito in tutto il Novecento, sul controverso rapporto tra il capitalismo e la democrazia, per tentare, invece, un approccio più circoscritto ad una sua forma specifica, quella del nostro tempo, per come si manifesta qui in Europa. Si può dire che il capitalismo sia, insieme, uno e molti. L’uno è quello che si manifesta in ciò che è stato chiamato il suo arcano . I molti sono quelli che nella storia si vengono costituendo, in forme diverse, nello spazio e nel tempo. Esse sono mutate, e mutano, con il mutare della composizione del capitale, con il mutare della composizione sociale del lavoro e con le culture del tempo (si pensi al tema dell’egemonia già per come l’aveva individuato Antonio Gramsci). Per fare riferimento all’ultimo quarto di secolo, si pensi solo a ciò che è avvenuto, in termini di mutazione di fondo, nel rapporto tra capitale finanziario e capitale produttivo e tra accumulazione privata e pubblica. Contemporaneamente il mondo del lavoro è stato sconvolto in ogni sua componente, mentre una gigantesca rivoluzione passiva ha investito il cosa, come, dove, per chi produrre. Durante lo stesso periodo, nelle culture, il post-moderno, oggi già in crisi, ha travolto l’idea del moderno, fino a mettere in discussione la possibilità stessa di accedere al reale, considerandola una ricerca impossibile e, perciò, da sostituire con la percezione individuale. Per altro, in tutti i grandi tornanti della storia moderna, il capitalismo è stato indagato nel suo mutarsi, fino a richiedere la formazione di categorie interpretative per decifrarne proprio il mutamento della natura (si pensi alla forza e alla fortuna di categorie come l’imperialismo o il neo-capitalismo). Tra i molti capitalismi, rispetto alla nostra indagine, il confronto tra due di questi risulta particolarmente significativo perché rivela, nel passaggio da un ordinamento all’altro, l’intervenuto rovesciamento delle relazioni tra l’economia, la democrazia e la politica. Secondo la tesi che qui viene proposta, in questo passaggio di fase storica, si produce una mutazione nell’assetto generale della società nel quale si compie la demolizione dei portatori sociali politici e istituzionali della democrazia. Si tratta del passaggio da quel capitalismo che è stato chiamato fordista-taylorista-keynesiano al capitalismo finanziario globale. 3) Nel primo ciclo si sono espressi in Occidente, e in particolare in Europa, ciò che molti economisti chiamano i Trenta Anni gloriosi. Si può dire che in essi l’Europa è stata la culla di un modello economico sociale e, in un certo senso, di una definita civiltà del lavoro. L’economia mista ne è stata la base strutturale, in una combinazione, pure mutevole, tra accumulazione privata e pubblica. Lo stato sociale e il contratto di lavoro ne sono stati gli architravi. Già annunciati dalle costituzioni democratiche, essi si sono inverati in una stagione di espansione progressiva della lotta di classe e, secondo la formula di Kelsen, del suo farsi politica. Il compromesso democratico ne è stato l’esito duraturo, di medio periodo. La sua costruzione, tormentata e aspra, ha transitato la società dalla ricostruzione postbellica al neo-capitalismo, nel quale si afferma un rapporto tra produzione e consumo improntato alla produzione di serie per un consumo di massa. Nella sua fase espansiva la dinamica democratica è esaltata dall’irrompere sulla scena di nuovi soggetti e nuove culture che investono tutto l’Occidente e che le propongono una sfida sul futuro. In Italia nasce ciò che viene giustamente definito il caso italiano. Esso non può essere qui indagato, ma si può dire, rispetto all’economia della nostra ricerca, che in esso si produce, nel conflitto sociale, il massimo dell’espansione conosciuta della democrazia, e l’approssimarsi di un vero e proprio aut aut, come già allora autorevoli esponenti della borghesia si impegnarono a indicare (si pensi per tutti alle relazioni del governatore della Banca d’Italia, Guido Carli). La crisi petrolifera del 1973, primo indicatore della finitezza del ciclo capitalistico in atto, e la terribile combinazione tra, da un lato, le stragi di Stato e, dall’altro, l’insorgere del terrorismo hanno intorbidito drammaticamente, l’una oggettivante, l’altra soggettivante, la contesa. Resta il fatto che le domande e i fattori progressivi di cambiamento (la spinta verso un nuovo modello di sviluppo e un diverso rapporto di potere tra le classi) escono in essa sconfitti. La sconfitta del cambiamento diventa la base stessa della grande ristrutturazione. 4) La fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta ne scandiscono le tappe in una vera e propria fase di transizione. La ristrutturazione economica si salda, in essa, con la vittoria delle destre in Occidente. Quest’ultima ha un forte e marcato profilo economico e sociale. Le analisi della Trilaterale sull’eccesso di domanda veicolato dalla democrazia rispetto alla possibilità del sistema di farvi fronte hanno costituito una traccia durevole per l’invocata “normalizzazione”. Su un terreno diverso, ma complementare, si è sviluppata in Italia la scelta di liberare l’economia dai “lacci e lacciuoli” dell’intervento pubblico e della contrattazione sindacale fino a diventare politica attiva e potenza d’azione della borghesia. Le vittorie di Reagan, negli Usa, e della Thatcher, in Gran Bretagna, sono segnate da dure parole d’ordine liberiste contro lo stato e la società e sono entrambe contrassegnate da sconfitte strategiche imposte ai lavoratori in vere e proprie battaglie campali (contro i controllori di volo per Reagan, contro i minatori per la Thatcher). In Italia non meno cruciale è la conclusione alla Fiat della lotta dei 35 giorni e più tardi quella sulla scala mobile. Si avvia così la rivincita dell’impresa capitalistica sul lavoro. Un intero edificio sociale viene messo in discussione, in Occidente. A cambiare radicalmente i rapporti sociali e politici interverrà, poi, alla fine degli anni Ottanta, il crollo dell’Urss e dei regimi dell’Est. La sanzione storica del suo fallimento sospinge il mondo verso una sua nuova unificazione, quella dei mercati. Né si tratta di un processo lineare, attraversato com’è da violente contraddizioni. Esse risulteranno tanto forti da riproporre il ricorso alla guerra. Ma la grande nave è salpata e va. La ristrutturazione, innescata sulla sconfitta sociale del protagonista del ciclo capitalistico precedente, costituisce una delle materie prime della globalizzazione capitalistica. 5) La globalizzazione è stata una rivoluzione capitalistica restauratrice. Essa ha alimentato una cultura che ha dissolto la nozione di progresso in quella di innovazione e sviluppo, occultando la regressione di civiltà che si stava generando, nell’assolutizzazione del paradigma della modernizzazione. La sua visione apologetica è confluita in ciò che Le Monde diplomatique ha definito pensiero unico, il senso comune di una rivoluzione passiva. Il suo carattere capitalistico restauratore, a partire dai rapporti sociali, non può tuttavia ridurre la consapevolezza della portata storica della rottura. Una vera e propria rivoluzione scientifico-tecnica ha trasformato l’intero sistema dell’informazione, e con esso gli stessi processi produttivi e il rapporto tra produzione di beni materiali e immateriali. L’unificazione dei mercati mondiali e la mobilità vertiginosa dei capitali ha spezzato il legame storico tra produzione e territorio, mentre i punti trainanti della crescita economica e dell’industrializzazione dell’innovazione, invece che applicarsi ai punti alti prima raggiunti dallo sviluppo capitalistico (e dai livelli di reddito e di conquiste sociali in esse realizzate), si è dislocato nelle economie emergenti, restituendo al capitale, capace di inseguire su scala mondiale l’acquisto della forza lavoro al suo più basso prezzo, una capacità inedita di estrazione di pluslavoro e plusvalore. Inoltre la crisi, quando è strutturale, mette il capitalismo di fronte ad un nuovo problema per l’accumulazione, nuovo perché esso non può più essere risolto in continuità con il ciclo in corso. La vitalità del capitalismo si dispiega allora nella individuazione di nuove basi all’accumulazione, esterne a quelle finora conosciute. Il colonialismo è stato un fenomeno storico in cui si è manifestata violentemente questa ricerca nel Novecento. Oggi il problema viene affrontato individuando alcuni di questi nuovi territori. Così ci si propone la riappropriazione per l’accumulazione di ciò che ad essa era stato sottratto precedentemente con la conquista del carattere pubblico dello stato sociale e dei servizi. La loro attuale privatizzazione ha questa motivazione principale. Per altro la messa al lavoro di capitale finanziario, per alimentare esponenzialmente l’innovazione e arare i nuovi territori dello sviluppo, è stato così imponente da determinare una crescita che raggiunge ora grandezze incomparabilmente superiori a quella del totale delle merci in circolazione. L’organizzazione della produzione si è venuta ristrutturando sulla base di una centralizzazione delle decisioni, senza la concentrazione della produzione e dei lavoratori. Il mercato del lavoro ha subito, in alto, una riorganizzazione su base planetaria e, in basso, su scala aziendale e di filiera. La frammentazione del mercato del lavoro, la moltiplicazione delle tipologie lavorative, ha dato luogo a un ventaglio che va da nuove forme di schiavitù alle forze nuove nate all’interno dell’economia della conoscenza. In questo magma la precarietà ha definito crescentemente la fisionomia del lavoro e della vita di lavoro di un tempo intero, quello del capitalismo finanziario. E’ cominciato da qui il rovesciamento del conflitto di classe ora praticato dall’impresa contro i lavoratori, mentre sul terreno istituzionale la nuova formazione economico-sociale, nel rimodellare il ruolo degli stati, è venuta generando delle sue proprie istituzioni, quelle più rispondenti al nuovo ciclo, il Fmi, la BM, l’OMC. Ma la mutazione dell’assetto geo-politico del mondo è tuttora in corso e il sommovimento è gigantesco. Sono sorti nuovi protagonisti sulle rovine del bipolarismo e sull’onda della globalizzazione, i paesi del Bric. I conflitti per il controllo delle fonti energetiche, esse stesse in cambiamento, come per quello dell’estrazione di materie pregiate sono all’ordine del giorno, ma non sono i soli. Del resto le scelte dell’America di Bush di arrestarne il declino con la guerra è fallito. La crisi dell’Occidente è ormai un topos da più di un secolo, ma ora essa si manifesta su tutti gli aspetti dell’organizzazione della società, fino a interrogare il senso dell’esistenza umana e della politica. L’Europa ne è diventata il ventre molle quando si è disposta all’unificazione guidata dalla crescita della primazia dei mercati e dalla decrescita della democrazia (e della sua caratteristica civiltà). 6) L’Europa di Maastricht già annunciava, con il primato della questione del debito e del deficit sull’occupazione, e con quello delle politiche di bilancio su quelle riguardanti il modello sociale, la sua collocazione subalterna e dipendente dal paradigma restauratore che la globalizzazione capitalistica stava instaurando. Così il rovesciamento della lotta di classe si espandeva raggiungendo gli assetti istituzionali e plasmando quelli che hanno regolato questa unificazione europea. L’Europa il cui sovrano è costituito dalla moneta e dai mercati ne è la manifestazione concreta. L’occasione della crisi è stata messa a frutto dalle classi dirigenti per assestare un colpo di maglio alle resistenze sociali e per strutturare potentemente l’intero edificio controriformatore. Varrà la pena di ricordare appena che l’avvento della globalizzazione capitalistica era stato accompagnato da una sorta di nuovo ballo excelsior, mentre veniva vantato per la capacità di smentire tutte le teorie sulla crisi. Invece la crisi esplode assai rapidamente e si configura come una delle più gravi dopo quella del 1929. Essa scoppia come crisi finanziaria trainata dal debito privato negli Usa. La crisi finanziaria diventa, immediatamente, economica e sociale. Dagli Usa essa diventa mondiale e investe duramente l’Europa. Dal debito privato alle banche, dalle banche agli stati, ai debiti sovrani degli stessi la crisi finanziaria ed economica fa il suo corso, che non è però socialmente neutrale. Se le cause prime della crisi sono, in realtà, al fondo, le cause stesse del suo precedente successo, cioè sono di natura strutturale, allora non si può non leggere la natura sociale che conduce dal debito privato negli Usa alla centralità del debito pubblico in Europa. Essa riguarda, in ultima analisi, il modello sociale europeo che diventa perciò il centro della contesa, la posta in gioco della crisi. 7) Sospinti dalla difficoltà, e dall’incertezza delle risposte da dare ad esse, le classi dirigenti europee individuano nello stato sociale la contraddizione che nol consente, l’ingombro da rimuovere sulla via della riconquista di competitività delle merci europee nel nuovo scenario. Le politiche di rigore servono allo scopo. Intendiamoci, questo esito della crisi non sarebbe stato affatto scontato. L’occasione della crisi avrebbe potuto avere altri protagonisti politici e sociali capaci di coglierla, se avessero avuto la capacità di riaprire, nella crisi, il cantiere del cambiamento. La richiesta oggettiva di un intervento pubblico, a partire da quelli di salvataggio di grandi assi strategici bancari e industriali; la falsificazione della tesi neo-liberista sulla crisi e lo sviluppo; la maturità, in specie per l’Europa, della questione inerente la qualità del modello di sviluppo; il venire alla luce del peso delle diseguaglianze sociali nella formazione della crisi economica; l’instabilità crescente dell’economia generata dalla sua finaziarizzazione, sono tutti fattori che avrebbero potuto condurre ad un esito ben diverso da quello in atto. Ma qui emerge un problema altro rispetto a quello strutturale, il problema capitale della soggettività, dunque della democrazia, della politica e della sinistra in particolare in Europa, tema che verrà affrontato partitamente. La frana, su questo lato della questione, ha concorso a determinare l’andamento e la natura dei processi che hanno condotto alla costruzione di questa Europa reale. Di essa è in atto ora il processo costituente, attraverso la produzione della sua costituzione materiale. L’economia e la sua riorganizzazione ne sono la levatrice. La centralità attribuita al debito pubblico si è venuta sostanziando di politiche economiche sociali e finanziarie, da un lato, e dalla creazione di istituzioni ad esse funzionali, dall’altro, sino alla realizzazione di mutamenti di fondo nelle stesse Costituzioni, come con l’introduzione in esse del vincolo della parità di bilancio. Su queste politiche si è venuto organizzando il governo reale dell’Europa reale. Il comitato governativo si è incarnato in ciò che si è chiamata la Troika (il Fmi, la Commissione europea, la Bm), introiettando la guida tedesca. I governi nazionali sono sempre più delle semplici articolazioni di questo assetto di governo. L’integrazione ulteriore dell’Europa reale che si vuole adesso compiere è sotto il segno della condizionalità. L’avanzamento del processo di integrazione è proponibile in quanto e per quanto si realizzi, nelle politiche economiche nazionali, il dettato dell’ortodossia monetaria e del mercato. La presa diretta dei processi economici di questa specifica economia di mercato (il capitalismo finanziario) si proietta così fin sul sistema istituzionale per fissare anche, in quella sfera, la sua vittoria ideologica e pratica, vittoria che si esprime, nelle culture politiche, con l’accettazione dell’ineluttabilità delle scelte statali e delle imprese e con l’avvento della società governata dalle élites. 8) La società post-democratica, a vocazione tecnocratica, nasce dentro la materialità dei rapporti sociali. Lo svuotamento della sovranità popolare è, in primo luogo, il frutto del suo risucchio in un modello socialmente regressivo. In esso la corrispondenza tra ciò che accade nella dimensione macroeconomica e quel che accade nella dimensione microeconomica è impressionante. Lo illustra nel modo più radicale il caso Fiat. Non si pone lì solo, e già sarebbe enorme, un problema di diritti e di libertà sindacali; c’è molto di più. Il modello di organizzazione del lavoro, scelto dall’azienda, il WCM in questa versione, tende a negare ogni soggettività ai lavoratori sussumendoli in una macchina che pretende di negare ogni contraddizione interna (a partire dalla negazione della diversità di interessi tra i lavoratori e la proprietà) e ogni legittimità al conflitto sociale. L’azienda globale è trasformata in una macchina da guerra della competizione che, in funzione di ciò, si configura come un luogo senza diritti e senza riconoscimento delle soggettività, un luogo senza alcuna dignità riconosciuta alla persona. Ovviamente non è il solo modello di impresa presente sulla scena, ma ne costituisce un indicatore di tendenza. Il panorama del mondo del lavoro emergente è complesso, frammentato e disarticolato. Tuttavia una tendenza generale si può rintracciare nel suo generale impoverimento e nelle, pur variegate, forme di alienazione che lo investono. Il taglio della spesa pubblica investe la condizione del pubblico impiego e dei servizi. I lavoratori industriali sono diventati organicamente precari, o per contratto e per condizione oggettiva. Persino nell’economia della conoscenza, nelle nuove frontiere di lavori potenzialmente e anche già parzialmente creativi, le loro potenzialità vengono negate dalle relazioni sociali (proprietà, norme, mercato) in cui sono imprigionate. Così il cerchio dell’economia del capitalismo finanziario globale si chiude dall’alto in basso espellendo da sé le soggettività critiche e, in conclusione, la democrazia. Così il capitalismo finanziario globale costituisce l’Europa reale rivelando la sua incompatibilità con la democrazia. Il vincolo esterno (la compatibilità con la competitività delle sue merci) che essa impone ai popoli e ai paesi che la compongono schiaccia ogni vincolo interno (i bisogni delle popolazioni) e con esso la democrazia in un processo di colonizzazione dei popoli. 9) Si è provato sin qui a descrivere la mutazione del rapporto tra l’economia (il farsi del capitalismo finanziario globale) e la crisi della democrazia in Europa, proiettata dalla riorganizzazione di quella in una fase post-democratica attraverso la demolizione e la manomissione sistematica di quelli che ne erano stati i fattori costituenti e propulsivi. Si rivelerebbe confermata anche per quella via una sostanziale incompatibilità tra il capitalismo finanziario globale e la democrazia, che è la tesi guida della ricerca. Ora si tratta di indagare il suo reciproco, cioè il movimento che è intervenuto all’interno dell’assetto democratico e istituzionale e il suo rapporto con il mutarsi regressivo del modello economico sociale europeo. La seconda tesi è che in esso ha preso corpo la malattia della democrazia e la sua eutanasia sicché sarebbe ormai impossibile, per la stessa natura della malattia, una ricostruzione della democrazia, dal suo interno, dall’interno del sistema politico e della sua autonomia tanto presunta quanto di fatto pregiudicata. La salvezza potrebbe, in questo caso, venire solo da ciò che sta fuori da questo recinto, dai barbari capaci di essere senza barbarie. Il filosofo lo ha chiamato residuo per indicare non già una marginalità, bensì ciò che non è sussunto e integrato nella macchina di un dato sistema economico e del passivo consenso ad esso. Si può ormai parlare di una condizione comune della democrazia nei diversi paesi d’Europa, specie se la si osserva dal versante del suo sistema politico-istituzionale unitario, in particolare dopo il salto di qualità, realizzatosi nella crisi, nella sovradeterminazione delle politiche dei diversi paesi dell’Unione. Persistono, tuttavia, differenze rilevanti nel grado di tenuta e di credibilità dei differenti sistemi politici nazionali. Si pensi alla diversità tra la stabilità dei sistemi politico istituzionali tedesco e francese, da un lato, e, all’opposto, lo stato di collasso di quello italiano. Eppure la tendenza prevalente, quella che si qualifica sul rapporto tra economia e politica, è la stessa, malgrado questa macroscopica diversità. 10) L’Europa di oggi è un paradosso. Tanto la fase storica e il destino dei suoi popoli ne richiederebbero un alto protagonismo nella costruzione di un’originale civiltà, come, per esempio, quella dell’Europa delle traduzioni di cui parla Balibar , quanto essa si è venuta costituendo persino tradendo la promessa delle origini, che ne avrebbe potuto fornire qualche materiale. La fine della terribile tragedia della Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta del nazifascismo vedono affacciarsi l’orizzonte necessario della pace, di cui è figlia la prospettiva della nuova Europa, e, con esso, quello dell’eguaglianza così come si afferma nelle costituzioni democratiche che nascono in quella temperie. Il manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli è del 1941, ed è l’annuncio di una speranza nascente. Si può dire che il sogno di quell’Europa però declina, invece che crescere, con la sua integrazione. E’ un percorso non lineare, procede a salti e zigzagando; a volte si può pensare prenda un altro corso, ma la sua reazione puramente adattativa alla globalizzazione capitalistica ne fisserà lo sbocco. La dichiarazione di Schuman del 1950 sull’Europa di pace e la nascita della CECA con la cooperazione dei sei paesi (vincitori e vinti) per il carbone e per l’acciaio è la base sulla quale nascerà nel 1957 la CEE. Ci vorranno più di venti anni affinché venga eletto, nel 1979, il primo Parlamento europeo. Ma sarà il trattato di Maastricht del 1992 a definire, istituzionalmente, la natura sociale dell’Europa reale che sarà solo integrata da quelli successivi di Nizza e di Lisbona. Il risultato non si misura, come avrebbero voluto i liberali, in una buona economia pur in presenza di una cattivo assetto istituzionale, ma nel soffocamento di ogni autonomia della politica e delle istituzioni divorate dalla sudditanza al potere economico. L’assetto istituzionale di governo dell’Europa si è venuto costituendo in un triangolo costituito dal Parlamento, dal Consiglio dell’Ue (il concerto dei capi di Stato e di governo) e dalla Commissione europea. Nel processo decisionale si è manifestato, in tutta la sua predominanza, il primato intergovernamentale a scapito del Parlamento e della democrazia rappresentativa. In questo precario edificio, con tutto il suo deficit democratico, ha preso corpo un istituto così forte da potersi sottrarre ad ogni controllo parlamentare e da poter agire senza la guida di alcun governo, di alcuna istanza di democrazia rappresentativa, la Bce. L’Euro nasce con una duplice paternità: una cultura economica, quella monetarista, che coltiva il primato della stabilità monetaria e il perseguimento della convenienza delle due nazioni forti, la Germania (che voleva rendere irreversibile l’unificazione tedesca) e la Francia, che la voleva controllare. La Bce dell’Euro diventa il pivot dell’intera costruzione europea di cui riassume non solo l’ispirazione delle sue politiche concrete, ma una determinata idea dell’economia politica. Prima della crisi economica era già manifesto, e pressoché generalmente riconosciuto, che l’Europa viveva in un deficit di democrazia. La sua distanza dai popoli si era venuta accentuando tanto che quando qualche suo trattato è stato sottoposto al giudizio del popolo, come nel caso del più significativo tra essi, quello sul Trattato chiamato impropriamente costituzione, è potuto accadere che esso sia stato clamorosamente sconfitto in paesi decisivi come la Francia. A testimonianza della connessione tra assetto istituzionale e questione sociale sarà utile ricordare che il voto del popolo francese è stato influenzato dal giudizio su una direttiva che esprimeva tutta la filosofia dell’Europa del neoliberismo applicato al mercato del lavoro, la direttiva Bolkestein. 11) Ma è nella crisi che si compie il passaggio di fase dall’Europa con un deficit persistente di democrazia a un’Europa apertamente post-democratica e tendenzialmente tecnocratica. I capisaldi entro i quali viene, in quest’ultima sua fase, costituendosi l’Europa reale sono la parità di bilancio e il fiscal compact, cioè la trasformazione dei trattati di Maastricht in legge di ferro della sua economia. Se il sovrano è chi decide dello stato di eccezione (ed esso viene proclamato per l’Europa nella crisi economica), il nuovo sovrano è conclamato. La troika al cui centro siede la Bce, ne assume la guida e il comando. Resiste ad esso pressoché solo quello spazio che il diritto comunitario ha, in un percorso laterale, salvaguardato e aperto al cittadino, in una sorta di secondo binario rispetto a quello centrale dell’organizzazione sociale ed economica. Ma è a quest’ultima che viene affidato il destino stesso dell’integrazione politica e istituzionale. Mario Draghi ha dato veste e dignità teorica a questo processo con la nozione di condizionabilità. Alla pars destruens del progressista modello sociale europeo del dopoguerra che è stata operata dalla globalizzazione, si connette, durante la crisi, la pars costruens di un nuovo modello economico-politico socialmente regressivo, quello dell’Europa reale. Dopo l’integrazione dei mercati, anche quella degli stati avviene sotto lo stesso cielo. La cessione di sovranità degli stati europei non avviene nei confronti di una dimensione sovranazionale europea democratica, da popolo a popoli, bensì da un ordinamento erede di una tradizione democratica, per quanto già in parte compromessa, ad un ordinamento la cui sovranità è affidata alla fedeltà a dei parametri astratti dettati dall’economia capitalistica il cui perseguimento è garantito da quel governo delle élites che si propone di esserne il custode. L’idea guida è l'irreversibilità del modello economico sociale in costruzione attraverso un assetto istituzionale neo-autoritario (oltreché mediante i rapporti sociali diretti tra le classi ottenuti con il rovesciamento della lotta tra di esse). Alcuni autorevoli studiosi si sono scostati da questa lettura dei processi istituzionali mettendo in rilievo l’attenzione nei trattati europei alla dignità della persona, alla sua autodeterminazione, e ai diritti ad essa connessi. Esso riguarda quel binario laterale a cui ci siamo riferiti a proposito del diritto comunitario. Non si vuole qui negarne l’esistenza quanto piuttosto rilevare, come ha sostenuto Castoriadis, che la dignità della persona è inestricabilmente legata alla dignità nella società la quale consiste, in primo luogo, nella possibilità di scelta tra modelli economico-sociali diversi, che proprio ciò l’Europa reale nega, nel nucleo duro dei trattati come nella sua costituzione materiale. 12) Ma se questa è la realtà sovranazionale che acquista sovranità, qual è quella che la cede, e qual è in essa lo stato della democrazia nella Repubblica? La specificità italiana è quella di un sistema politico devastato con possibili sospensioni della democrazia anche in passaggi politicamente significativi. La sua crisi è sottolineata da una degenerazione nella quale la corruzione esplode e si espande come parte integrale del sistema stesso. Essa, come a disegnare una propensione di lungo periodo della classe dirigente del paese, emerge, quale questione politica, alla fine di ogni regime. Senza tornare sino al fascismo, bastino qui i riferimenti alle diverse fasi della storia della Repubblica. Finisce così la Prima Repubblica, quando la politica pensa di guadagnare potenza autonomizzandosi dalla società e dalle ideologie, assolutizzando la contesa tra le forze politiche per la conquista del governo. Cova, in quella temperie, una relazione tra affari e politica come levatrice di forza propria di questa ultima e quale droga di un’economia in esaurimento di futuro. Sarà un fallimento e sarà Tangentopoli. Ma il manto della corruzione avvolge anche la crisi della Seconda Repubblica. Questa volta essa è determinata da una ragione quasi opposta alla prima; non già un sogno di potenza ma la scomparsa, dalla scena pubblica, della politica con l’esaurirsi della presa diretta sulla società da parte delle sue grandi forze organizzate. La politica e le istituzioni democratiche vengono allora sopraffatte dai poteri e dai processi economici che generano un arcipelago di grandi piccoli potentati, orizzontali e verticali, che proliferano nel circuito economico-politico-istituzionale, all’ombra dei governi. La dimensione del fenomeno corruttivo definisce il suo carattere politico. Si tratta di un volume annuo doppio dell’ammontare di una intera legge di stabilità; a un quarto dell’intero giro d’affari equivale l’ammontare delle tangenti che invade i centri dell’intero sistema e ne decreta il collasso reale. Essa investe il ceto politico dirigente come testimoniano le inchieste giudiziarie che mettono sotto accusa le direzioni delle principali regioni del paese, ma si estende alla classe dirigente del capitalismo italiano e parla inesorabilmente della natura di quest’ultimo. E se questo è lo stato degli assi strategici di provenienza pubblica, la finanza privata offre di sé uno spaccato ancor più devastato e devastante, da Montepaschi, a Fonsai alla Bpm. Il disastro etico del capitalismo italiano si specchia nella questione morale squadernata dalla cattiva politica. L’intera Seconda Repubblica ne è stata l’incubatrice con il declino della politica e lo svuotamento della democrazia rappresentativa. Il revisionismo costituzionale non ha avuto in essa una parte innocente. Dietro la richiesta di mutarne la seconda parte, essa ha accompagnato la messa in discussione della sua impegnativa componente programmatica (la centralità del lavoro, il perseguimento dell’uguaglianza, l’organizzazione progressiva e conflittuale della democrazia). I due cardini della nuova strategia politico-istituzionale sono stati il decisionismo e la governabilità (versus il valore del conflitto e versus la centralità del parlamento). Giorgio Agamben ha chiamato appropriatamente “governamentalità” la cultura politica che ha egemonizzato, e continua ad egemonizzare, l’Europa. Le assemblee elettive sono state da essa soggiogate, in esse si è voluto vedere una patologia dispersiva rispetto all’imperativo della decisione da prendere il più rapidamente possibile. In realtà si è voluto colpire una cerniera interattiva tra le scelte dell’assemblea e il conflitto sociale (a sua volta considerato come la patologia per eccellenza). Il deperimento dell’assemblea a favore dell’esecutivo l’ha resa progressivamente impermeabile al conflitto sociale, mentre immetteva quest’ultimo nel circuito dei poteri economici. 13) Si avverava l’intuizione di Antonio Gramsci secondo cui, durante le grandi crisi del capitalismo, passano in secondo piano le istituzioni che dipendono dal suffragio universale, come i parlamenti. Al contrario le circostanze rafforzano “la posizione relativa del potere (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e, in generale, di tutti gli organismi relativamente indipendenti dall’opinione pubblica”. I ceti politici di governo, a loro volta, si formano in nuovi percorsi, quelli delle porte girevoli, con il passaggio di funzioni di governo dallo Stato ai consigli di amministrazione delle grandi multinazionali, istituti di credito e finanziari. Si viene così formando un ceto politico dirigente, espressione della rivincita delle élites, che negando la classica divisione della politica, quella che legittima la partecipazione e la scelta popolare, cioè quella tra destra e sinistra, depoliticizza il regime istituzionale e sostituisce la presunzione di competenza alla rappresentatività. Sono le basi di un moderno cesarismo. La mutazione genetica dei partiti di massa e dei grandi sindacati, la rivoluzione passiva che li ha investiti, sradicandoli dalla storia e dall’ideologia, dall’organizzazione del conflitto e dalla dinamica sociale che li aveva resi protagonisti della storia sociale e politica del paese, ha cambiato i connotati storici della società civile italiana e ha introiettato le grandi organizzazioni, nelle loro risultanti di fondo, nel modello economico sociale in costruzione e nella sua organizzazione istituzionale. Si è trattato, nella sinistra, di una vera e propria mutazione genetica dei partiti e dei sindacati, tanto da poterla iscrivere nel più vasto processo di fine del Novecento e di crisi storica del movimento operaio . Sulla centralità del governo a scapito del parlamento, si è innestata la figura predominante del capo di governo che, a sua volta ha trascinato il fenomeno del leaderismo, con la sostituzione delle domande di partecipazione critica con la manifestazione di sostegno gregario (e di identificazione passiva con il leader). Ad accentuare la tendenza c’è stato anche l’insorgere di un fenomeno alimentato da una grande rivoluzione tecnica e da una nuova cultura emerse a partire dagli anni Ottanta. La rivoluzione tecnica è quella che ha investito le comunicazioni, attribuendo un crescente dominio all’apparire sull’essere; la cultura del nuovo, che oggi tuttavia comincia ad entrare in crisi, è quella post-modernista che ha destituito di fondamento la ricerca della verità, fino a negare la possibilità di conoscenza del reale, pretendendo di sostituire ad essa il mondo delle emozioni e del vissuto, fino all’assolutizzazione di un reinsorgente e invasivo individualismo. Il versamento di queste culture sul sistema elettorale ha cambiato radicalmente il campo di gioco della democrazia rappresentativa. Il sistema maggioritario, costruito per una società politica bipolare, ha accentuato il declino dei partiti e affermato il primato delle coalizioni di governo. Straripanti premi di maggioranza attribuiti a quella vincitrice delle elezioni hanno cambiato la natura stessa del voto conducendola da una scelta propriamente politica, com’era stata a lungo, fino al voto utile e, dunque, alla povertà del male minore o al voto chiesto per avversione, invece che per opzione positiva. L’imperativo di vincere le elezioni per conquistare il governo ha preso il posto dell’impegno a guadagnare il consenso elettorale per affermare un’idea di società e, in questo senso, un programma, una guida per l’agire. Il parlamento dei nominati, invece che degli eletti, la riduzione del parlamento a cassa di risonanza dell’esecutivo (si veda il ricorso ordinario, anche in presenza di una robusta maggioranza parlamentare, alla decretazione d’urgenza e al voto di fiducia al governo nel varo dei provvedimenti), il suo degrado nella tenaglia tra la percezione di massa della sua inutilità e, per conseguenza, dell’insopportabilità dei suoi costi, sono le conclusioni patologiche ma prevedibili della controriforma politica operata nella Seconda Repubblica. Questa devastazione del regime democratico ha fatto sì che la cessione di sovranità verso la costruzione europea, pur avvenendo nella direzione di un’entità a-democratica, non ha potuto trovare un’opposizione da parte della Repubblica perché essa stessa è stata gravemente mutilata nella sua sovranità popolare e nel suo assetto democratico fino a subire, da ultimo, persino una sospensione della democrazia nella formazione del governo di fronte all’esplodere della crisi. Più in generale, lo stato di eccezione deliberato da parte dell’Europa reale si estende ai paesi europei a loro volta largamente privati dall’interno di una capacità di resistenza democratica. 14) In Italia, come più in generale in Europa, la connessione tra lo svuotamento della democrazia rappresentativa si connette con la regressione imposta alla civiltà del lavoro e al modello sociale del paese. Semmai qui si può rilevare una particolare radicalità del fenomeno. Esso del resto è comprensibile se si pensa a ciò che è stato il caso italiano. Si è trattato di un avanzato e dinamico compromesso sociale nel quale lo stato sociale, invece che una costruzione realizzatasi dall’alto e per legge, come in altri paesi europei dalla Germania alla Francia, è stato realizzato dal basso, a partire dalla società. Promosso dal conflitto sociale e alimentato prevalentemente dalla contrattazione, il compromesso sociale e democratico italiano è stato prevalentemente laborista. Prevalentemente, ma non solo. La rottura del biennio ’68-’69 e gli anni Settanta sono andati ben oltre, nella costruzione di una rivoluzione poi mancata. Anche la modernizzazione, che è diventata la traduzione reale dell’intero ciclo, ha visto insorgere, al suo interno, domande di qualità portate da protagonisti e da culture tanto forti da proseguire, sebbene carsicamente, il loro corso, nei contesti sociali e politici i più diversi, fino ad arrivare vive sino ad oggi. Sono stati, in primo luogo, le donne a mutare nel profondo la società civile. L’ambientalismo, a sua volta, ha sottoposto a una critica durevole il rapporto tra la produzione e la natura, mentre le istanze di comunità e di partecipazione sono cresciute fino a porsi in relazione critica con la globalizzazione capitalistica, con il movimento altermondista, un movimento di scala mondiale. Per questa ragione, in Italia, la messa in discussione del modello sociale precedente ha nell’attacco al lavoro e al contratto una particolare radicalità e concentrazione, sia delle politiche statuali come in quelle aziendali. Tutti i campi vengono occupati da questa offensiva, quelli materiali come quelli simbolici, quelli contrattuali come quelli istituzionali, quelli culturali come quelli dell’informazione. L’obiettivo è duplice, per la nuova impresa capitalistica, l’azienda globale: realizzare una vittoria sul campo così da ridurre il lavoro a variabile dipendente dal mercato e conseguire una vittoria ideologica nella società civile per trasformarla in senso comune. La linea della dinamica salariale, che va dalla metà degli anni Settanta ad oggi è implacabile nel dare conto del rovesciamento del conflitto di classe e della mutazione sociale e istituzionale che ha investito i suoi protagonisti, fino alla morte del contratto e all’istituzionalizzazione del sindacato confederale. Un’ espropriazione di democrazia e di partecipazione, ancor più violenta di quella che ha toccato il cittadino, è toccata al lavoratore. Se, come ricordato, Norberto Bobbio aveva già intuito che la democrazia si sarebbe afflosciata senza democrazia economica, ora siamo ben oltre. Nel lavoro e nella società, il lavoratore, colpito nei diritti sociali, è privato di ogni possibilità di esercizio democratico (non può decidere, né pronunciarsi con il voto, neppure sul suo proprio contratto collettivo di lavoro). Così come, sul terreno politico, parte della controriforma è consistita nella rottura del patto tra la sinistra e il popolo, così, sul terreno sociale, essa passa per la rottura del patto tra i lavoratori e il sindacato che aveva caratterizzato il ciclo della riforma sociale e dell’espansione democratica. Quel patto era fondato sull’azione collettiva per il miglioramento, da un lato, delle condizioni dei lavoratori e per il riconoscimento, dall’altro, del potere del sindacato. L’accettazione della contrattazione in pejus, prima, e della sua sostituzione con la concertazione, poi, ha vanificato il patto progressivo a cui è subentrata una istituzionalizzazione regressiva del sindacato. Quando la reazione delle classi dirigenti europee alla crisi economica è precipitata nella proclamazione dell’incompatibilità del suo modello sociale con la, per altro, incerta uscita dalla crisi stessa, essa ha chiuso una tenaglia sulla questione sociale, che ora è presa tra le morse della dominazione finanziaria, da un lato, e dalla destrutturazione della democrazia, dall’altro. Se il sovrano è quello che decide dello stato di eccezione, il sovrano in Europa si è costituito di fronte alla crisi economica e adesso occupa il centro dei luoghi della decisione. 15) Il circuito che va dalla costruzione dell’Europa reale sovranazionale a quella nei singoli paesi, il circuito che va dal costituirsi dell’Europa plasmata dal capitalismo finanziario, al formarsi di un assetto istituzionale ad essa funzionale si configura come un vero e proprio processo costituente dal quale viene però espulso, come inattuale, ogni processo democratico. E’ la costruzione di un “recinto” entro il quale i luoghi della decisione e i processi decisionali dovrebbero essere messi al riparo da ogni influenza su di essa della società e del conflitto. Il ritorno delle élites al comando si propone così di immunizzarsi da quella vulnerabilità che il recente World Economic Forum di Davos ha individuato in quella crisi di consenso sociale che colpisce la legittimità delle decisioni e l’autorità di coloro che le prendono. La costruzione del recinto è la risposta anticipata alla manifesta crisi di consenso popolare sia nei confronti di un modello sociale (quello in costruzione) sia nei confronti della rappresentatività politico-istituzionale dei sistemi politici. La costruzione del recinto è, dunque, il nucleo costituente dell’Europa reale allevata dal capitalismo finanziario globale che rivela così la sua intrinseca attitudine neoautoritaria, la sua sostanziale incompatibilità con la democrazia. Il terreno di ricerca del convegno è quello dell’indagine sul rapporto tra il capitalismo finanziario globale e la democrazia. Esula perciò da essa la ricerca che ne dovrebbe seguire anche qualora si verificasse la fondatezza della tesi proposta, della incompatibilità tra le due. Tuttavia solo per indicarne una possibile traccia, essa, quando venisse affrontata, dovrebbe, a partire dall’irrinunciabilità della democrazia, indagare le vie per la sua ricostruzione in Europa o, che dir si voglia, della costruzione di un’Europa democratica, quale alternativa di società all’Europa reale. Si delineerebbe la necessità storica di un processo costituente di altra natura rispetto a quello in atto; un processo nascente nella società reale e promosso fuori e contro il recinto. I barbari che non imbarbariscono, di cui ha parlato Kostantinos Kavafis, ne dovrebbero essere i protagonisti. La costruzione della coalizione sociale ne dovrebbe costituire il fondamento. I materiali per l’impresa non sono inesistenti; sono confusi, incerti, contorti, ma esistono. Dal Mediterraneo è spirata un’aria di rivolta che attraversa l’Europa, la sua trama è, a sua volta, mobile e carsica, eppure in essa affiorano domande e pratiche di democrazia diretta, di autogoverno, di autorganizzazione e di autogestione, affermazione di beni comuni e di attività umane extramercantili, lavori partecipati e liberati, conflitti da cui emergono nuovi protagonisti sociali e nuovi elementi di culture critiche. La nominiamo come aria di rivolta per indicare un fenomeno magmatico di questo nostro tempo in latente opposizione al fenomeno della colonizzazione dei popoli e delle persone che è l’opera dell’ultimo capitalismo in Europa. La rinascita democratica, se ci sarà, nascerà dal farsi sospingere da quel vento. ( a cura di Fausto Bertinotti)