La storia di Mose

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LA STORIA DI MOSÈ
( Esodo - Levitico – Numeri - Deuteronomio)
Oppressione del popolo d'Israele
Il popolo d'Israele è ormai in Egitto da 400 anni.
Durante questo lungo periodo di tempo si sono succedute
numerose dinastie di faraoni. Nuovi monumenti
s'innalzano accanto alle antiche piramidi costruite mille anni prima di Abramo.
Siamo circa nell'anno 1250 avanti Cristo. Sul trono d'Egitto siede ora il faraone
Ramses II. Ormai la storia di Giuseppe è stata dimenticata. Il nuovo faraone è
preoccupato per la crescita d'Israele che occupa la terra di Gosen a est del Nilo.
Gli ebrei sono un popolo dentro un popolo.
Un giorno il nuovo faraone dice ai suoi
sudditi: “Ecco, il popolo dei figli d'Israele è più
numeroso e più forte di noi. Prendiamo
provvedimeni per impedire che accresca la sua
potenza. Altrimenti, in caso di guerra, Israele si
unirà ai nostri nemici e occuperanno il nostro
paese.”
Da quel giorno gli ebrei non hanno più la libertà di spostarsi con i loro greggi,
né di coltivare la terra che era stata loro donata.
Sono costretti, invece, con la forza, a fare i muratori, un mestiere che non
avevano mai esercitato. Impastano l'argilla per farne mattoni che poi cuociono al
sole. Devono costruire, sotto la sferza dei sorveglianti egiziani, mura di difesa e
canali per l'irrigazione. Per un popolo abituato alla libertà dei grandi spazi, alla
mobilità, questa condizione è insopportabile.
A questa prima restrizione si aggiunge presto una
più grave decisione del faraone. Alle levatrici ebree
viene ordinato di uccidere, al momento della nascita,
tutti i maschi d'Israele.
Mosè salvato dal Nilo
Una famiglia ebrea che aveva già due figli, Maria ed
Aronne, è allietata da un terzo figlio. La mamma, che aveva partorito senza l'aiuto
della levatrice, pensa di nasconderlo per salvargli la vita. La cosa le riesce per circa
tre mesi. Ma ogni tanto le case ebree sono perquisite dalle guardie egiziane.
Quella mamma allora rinchiude il bambino in un cestello impermeabile di vimini
che poi affida alle acque del Nilo. La sorella del bambino, Maria, si nasconde fra i
giunchi sulla riva del fiume per osservare da lontano cosa succede al fratellino.
Ed ecco la figlia del faraone scendere al Nilo per fare il bagno, mentre le sue
ancelle passeggiano lungo la riva. Il cestello si è impigliato fra i giunchi. La figlia
del faraone manda una schiava a raccoglierlo. L'apre e vede un bellissimo bimbo
che piange con i piccoli pugni sugli occhi.
La figlia del faraone prova una grande tenerezza e dice: “Dev'essere un
bambino ebreo”.
Maria allora esce dal nascondiglio e suggerisce alla principessa: “Se vuoi, posso
trovare una donna ebrea che allatti il bambino per te”. “Va bene” risponde la figlia
del faraone che si è subito affezionata a quel fanciullino.
Maria naturalmente chiama la madre,
la quale può riavere così il suo figlioletto.
Quando il bambino è cresciuto ed è
diventato un giovinetto, la madre lo
conduce alla figlia del faraone. E il ragazzo
diventa come un figlio per lei ed ella lo
chiama Mosè che significa «salvato dalle
acque».
La fuga di Mosè
Mosè è allevato alla corte del faraone in mezzo agli agi e alle ricchezze.
Tuttavia egli sa di essere ebreo e non dimentica il suo popolo.
Un giorno egli si reca nella terra di Gosen dove risiede Israele e nota i lavori
pesanti che il popolo è costretto a compiere. Mosè vede un sorvegliante egiziano
che colpisce con una frusta un operaio ebreo.
Subito si accende di sdegno. Si guarda attorno.
Non vede altri sorveglianti. Mosè allora colpisce
a morte l'egiziano e lo seppellisce nella sabbia.
Il giorno dopo Mosè osserva due ebrei che
stanno bisticciando. Interviene per dividerli ed
uno di essi gli dice: “Con quale diritto vuoi fare
il giudice fra noi due? Vuoi forse uccidermi
come hai ucciso ieri l'egiziano?”, Mosè allora
capisce che il fatto del giorno precedente è già di dominio pubblico. Il faraone
stesso è stato avvertito ed ora cerca Mosè per metterlo a morte.
Mosè, preso dalla paura, abbandona l'Egitto e si rifugia nel paese di Madian, a
est della penisola del Sinai, oltre il golfo di Aqaba. In quel territorio abitano degli
ebrei discendenti anch'essi del patriarca Abramo. Questi ebrei non si erano recati
in Egitto al tempo di Giuseppe, figlio di Giacobbe, ma erano rimasti liberi pastori
nel deserto. A differenza degli ebrei che stavano in Egitto, i madianiti avevano
conservato un certo ricordo del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
Mosè vaga come un fuggiasco per le terre di Madian, un giorno affranto
sconsolato si siede presso un pozzo. Qui vi sono sette giovani che attingono acqua
per far bere il gregge del padre, in quel momento giungono alcuni pastori che
scacciano le fanciulle. Mosè di fronte a questo sopruso, ritrova il suo vigore, si alza
in tutta la sua imponente statura e a forza di spintoni allontana quei prepotenti. Le
ragazze, tornate a casa raccontano l’accaduto al padre Ietro, che per ricompensare
il difensore delle figlie lo ospita e gli dà in moglie la propria figlia Zippora.
Il roveto ardente
Passano alcuni anni. Mosè ormai fa parte del clan di Ietro e porta al pascolo i
greggi del suocero. Il faraone Ramses II nel frattempo muore e a lui succede
Mernepta. Il nuovo faraone è ancora più crudele e deciso del precedente e
continua ad opprimere il popolo
d'Israele.
Un giorno Mosè, che ora ha
circa quaranta anni, conduce il gregge
di Ietro presso le falde del monte Sinai,
a sud della penisola che porta lo stesso
nome.
Ed ecco che Mosè vede delle
lingue di fuoco uscire da un roveto. A
debita distanza, Mosè osserva
quell'incendio aspettando che esso si
spenga dopo aver consumato i rovi.
Ma il fuoco continua e il roveto non si
consuma. Allora Mosè pensa: «Voglio
avvicinarmi perché questo è uno
spettacolo davvero eccezionale. Come
mai il roveto non brucia?». Mosè sta
per accostarsi al roveto ardente
quando sente una voce. E la stessa voce, ferma e dolcissima, che aveva parlato ad
Abramo, ad Isacco e a Giacobbe.
“Mosè, Mosè!” dice la voce, e Mosè, come Abramo, come Isacco e come
Giacobbe, risponde prontamente: “Eccomi!” La voce riprende: “Non avvicinarti.
Togliti i sandali dai piedi perché il luogo dove sei è santo. lo sono il Dio di
Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe. Ho osservato la condizione del mio
popolo in Egitto e ho deciso di liberarlo e di dargli la terra che ho promesso ad
Abramo, Isacco e Giacobbe. Perciò, fa' uscire Israele dall'Egitto. lo sarò con te.”
Dio rivela il proprio nome
Mosè si ferma spaventato. Guarda verso il roveto che continua ad ardere
senza consumarsi e dice, quasi parlando a se stesso: “Chi sono io per andare dal
faraone e per far uscire dall'Egitto gli israeliti? Essi mi diranno. Chi ti ha mandato?
E io che cosa risponderò loro?” E la voce, ferma e dolcissima, dice:
“lo sono Jahvè”
Jahvè in ebraico è la terza persona del verbo essere, tanto al
tempo presente che al tempo futuro. Jahvè perciò può essere
tradotto in due modi: Egli è oppure Egli sarà.
Rivelando questo nome Dio si definisce come: Colui che è o Colui che sarà
sempre con te (Mosè). Meglio ancora, il nome potrebbe essere tradotto con
un'intera frase: “Conoscerai chi sono dalle opere che compirò a favore di Israele”.
Oppure: “lo sono Colui che libererà Israele. lo sono Colui che salverà l'umanità”.
Nel nome che Dio rivela a Mosè è racchiuso dunque tutto il suo progetto di
salvezza. È come se Dio dicesse: Dai fatti che compirò capirete anche la mia
natura.
Il nome, presso gli ebrei, indica sempre anche la missione di chi lo porta. Nel
nome c'è tutta la persona. Rivelando il proprio nome a Mosè, Dio si affida a lui e si
affida a tutta l'umanità. Dio dimostra che si fida degli uomini, che li ama.
Da questo momento Dio ha un nome proprio. Non sarà più chiamato El, che
significa genericamente Dio, ma Jahvè: Colui che è.
Mosè, dopo aver ricevuto da Jahvè l'assicurazione del suo aiuto, obietta
ancora: “Ma io non sono un buon parlatore. Come potrò convincere il faraone a
liberare Israele?”
E Jahvè risponde: “Chi ha dato una bocca all'uomo? Non sono forse io Jahvè? Tuo
fratello Aronne ti aiuterà nella missione e parlerà lui per te”.
Mosè ritorna in Egitto
Dopo 400 anni Dio non ha dimenticato le promesse fatte ad Abramo, ad
Isacco e a Giacobbe. La schiavitù dell'Egitto è servita a Israele per capire come
senza Dio l'uomo non può realizzarsi.
Senza Dio si diventa schiavi di altri uomini. Senza Dio non c'è futuro, non c'è
libertà, non c'è uguaglianza per gli uomini. I forti opprimono i deboli, la violenza
regna. Questa è la triste condizione dalla quale Dio vuole liberare non solo Israele,
ma tutta l'umanità.
La missione di Mosè anticipa dunque la missione ben più importante e
definitiva di Gesù. Mosè libererà Israele dalla schiavitù del faraone; Gesù libererà
gli uomini dalla schiavitù del peccato, dell'egoismo, della violenza, dell'odio, della
morte.
Mosè dunque si fa coraggio e ritorna in Egitto per attuare la missione che
Jahvè gli ha affidato. Prima di entrare in Egitto, Mosè incontra il fratello Aronne di
qualche anno più vecchio di lui. Insieme si presentano al faraone e chiedono la
libertà per Israele.
Dopo aver ascoltato la richiesta dei
due fratelli, il faraone sghignazzando
risponde: “Chi è questo Jahvè perché io
debba ascoltare la sua voce? lo non
conosco nessun Jahvè. Ho i miei dèi:
Amon e Ra, personificazione del sole
che sorge e tramonta, e poi Osiride e
Iside sua sposa e sorella e il loro figlio
Horus, di cui io, il faraone Mernepta,
sono la reincarnazione. Sono forse io il servo di Jahvè che debbo eseguire i suoi
ordini?”
Da quel giorno il faraone diventa ancora più esigente con gli ebrei; li aggrava
di nuovi lavori e rende la sorveglianza ancora più rigida.
La prime nove piaghe
Mosè, per portare a compimento la missione che Jahvè gli ha affidato, deve
combattere su due fronti. Da un lato deve convincere il suo popolo e condurlo
alla fede in Jahvè; dall'altro deve lottare contro il potere del faraone che non
intende rinunciare alla manodopera degli ebrei così a buon mercato.
Ma Jahvè, come aveva promesso presso il roveto ardente, è dalla parte di
Mosè e di Aronne.
Per convincere Israele e il faraone della sua potenza,
Jahvè si serve di alcune calamità naturali che si
abbattevano normalmente in Egitto, intensificandole e
usandole cone strumenti di
persuasione.
Spesso le acque del Nilo diventano fangose e rosse a
causa di un'alga che vi cresce a volte in maniera
smisurata. Altre volte sono le rane a moltiplicarsi oltre la
norma e a distruggere i raccolti.
Oppure sono zanzare e mosche
ad invadere case e stalle. Anche la peste o il vento che
abbatte e dissecca sono eventi del tutto naturali. Ma
mentre Mosè insiste presso il faraone perché lasci libero
Israele, quelle calamità si fanno più gravi e insistenti.
Dopo ognuna di queste calamità naturali, che la
Bibbia chiama «piaghe», il faraone sembra sempre sul punto di
Le dieci piaghe:
cedere alla richiesta di Mosè, ma in seguito, ripensandoci,
1) L’acqua cambiata
ritratta e si intestardisce. Il suo cuore diventa sempre più duro.
in sangue
2)
3)
4)
5)
Le rane
Le zanzare
I mosconi
Mortalità del
bestiame
6) Le ulcere
7) La grandine
8) Le cavallette
9) Le tenebre
10) La morte dei
primogeniti
Esodo, capitoli 7-12
Non vuole cedere. Non vuole arrendersi. Non vuole
ammettere che Jahvè, il dio di quegli schiavi ebrei, di quegli
straccioni, sia più potente dei suoi dèi Amon e Rè,
personificazione del sole che sorge e tramonta, Osiride e Iside,
sua sposa e sorella, e Horus di cui egli si considera la
reincarnazione.
«Un dio come io sono -pensa il faraone- non può cedere
alle pressioni di un altro dio. Un dio di schiavi e di straccioni».
Così pensa l'orgoglioso faraone della terra d'Egitto,
Mernepta, signore dell'Alto e del Basso Nilo.
Il passaggio dello sterminatore
Il popolo d'Israele prima di essere schiavo in Egitto e fin dai tempi di Abramo,
aveva conservato un rito legato all'attività pastorizia:
All'inizio di ogni primavera i pastori cominciavano a spostarsi con le greggi per
andare nella steppa dove le piogge avevano fatto crescere l'erba. Per allontanare
dal gregge le malattie che venivano attribuite ad una potenza malefica, prima
della partenza per i pascoli, i pastori sacrificavano un
agnello e con il suo sangue aspergevano i pioli delle tende.
La potenza malefica (chiamata anche “il devastatore” o
“sterminatore”) portatrice di malattia e di morte, vedendo
il sangue sparso sui pioli, avrebbe dovuto passare oltre
senza recare danno.Il sangue innocente dell'agnello era
considerato un amuleto protettore.
L'agnello sacrificato veniva poi mangiato stando in piedi poco prima della partenza
verso i pascoli, quando già i pastori erano abbigliati per il viaggio. Con l'agnello si
mangiavano per contorno delle erbe amare che crescevano nel deserto.
Questo rito antichissimo si chiamava pasqua o passaggio.
Ed è proprio questo rito che Jahvè suggerisce a Mosè di riprendere prima di
uscire dall'Egitto. Gli israeliti avrebbero dovuto sacrificare, come gli antichi pastori
del tempo di Abramo, un agnello e con il suo sangue
segnare le porte delle case dove abitavano.
Durante la notte lo sterminatore, questa volta
rappresentante della potenza di Dio, sarebbe
passato per l'Egitto uccidendo tutti i primogeniti
delle famiglie egiziane e risparmiando le case ebree.
È l'ultima «piaga» che Mosè minaccia al faraone.
Ma anche questa volta Mernepta non si spaventa
troppo. Non crede alla potenza di Jahvè, il dio degli schiavi e degli straccioni.
Spera nella protezione di Amon e Re, di Osiride e Iside, di Horus loro figlio.
«Un dio come io sono -pensa il faraone- non ha paura delle minacce di un dio
straniero, che forse neppure esiste».
Cosi pensa, e a torto, l'orgoglioso Mernepta,
signore della terra d'Egitto, della Valle del Nilo e del
Delta.
L'uscita dall'Egitto
Gli israeliti eseguono fedelmente le indicazioni
di Mosè. Durante la notte ogni primogenito delle
famiglie egiziane muore.
Il faraone questa volta si convince che il Dio di
Mosè e di Aronne è ben più potente dei suoi dèi.
Nel cuore di quella stessa notte egli convoca in tutta fretta a palazzo Mosè e
Aronne e, in tono mansueto e ossequioso, dice loro: “Partite pure, voi e il vostro
popolo, e andate a servire il vostro Dio. Prendete anche il vostro bestiame e le
vostre greggi e partite! E... benedite anche me!”
Sul far del giorno tutto il popolo d'Israele, calcolato in circa 60.000 persone,
lascia finalmente l'Egitto dirigendosi verso Canaan, la terra promessa.
Per andare verso Canaan gli israeliti potevano scegliere tre vie carovaniere. La
più battuta era la strada del nord o via dei Filistei che, costeggiando il
Mediterraneo, arrivava a Gaza sulla costa della Palestina (la terra di Canaan).
La seconda strada, chiamata delle Carovane, passava per il centro della penisola
del Sinai e giungeva presso il porto di Elat sulla punta nord del golfo di Aqaba.
La terza, infine, era la strada occidentale che scendeva lungo la costa est del Mar
Rosso, giungeva al massiccio del Sinai e poi risaliva fino all'oasi di Kades ai confini
meridionali della terra di Canaan.
Mosè sceglie quest'ultimo itinerario, non solo perché ritenuto più sicuro, ma
soprattutto perché intende rivisitare il monte Sinai dove Jahvè gli aveva affidato la
missione di liberare Israele. Quasi per dimostrare a Dio che la missione era stata
compiuta. Ma per prendere la strada occidentale bisognava prima attraversare il
Mar Rosso.
L'acqua, nel punto dove Mosè decide di passare, è bassa. Più che altro si tratta
di attraversare le paludi di acqua salmastra soggette alla marea. Quelle paludi si
chiamano Laghi Amari.
1. Rameses Israele fu scacciato dall’Egitto (Es. 12; Num. 33:5).
2. Succoth Dopo che gli Ebrei lasciarono questo primo accampamento, il Signore li accompagnò in
una nuvola di giorno e in una colonna di fuoco di notte (Es. 13:20–22).
3. Pi-Hahiroth Qui Israele attraversò il Mar Rosso (Es. 14; Num. 33:8).
4. Mara Il Signore risanò le acque di Mara (Es. 15:23–26).
5. Elim Israele si accampò qui presso dodici sorgenti (Es. 15:27).
6. Deserto di Sin Il Signore mandò qui la manna e le quaglie per nutrire Israele (Es. 16).
7. Refidim Israele vi combattè contro Amalek (Es. 17:8–16).
8. Monte Sinai (Monte Horeb) Qui il Signore rivelò i Dieci Comandamenti (Es. 19–20).
9. Deserto del Sinai Israele vi costruì il Tabernacolo (Es. 25–30).
10. Accampamenti nel deserto Mosè chiamò settanta anziani per aiutarlo a governare il popolo (Num.
11:16–17).
11. Etsion-Gheber Israele attraversò in pace le terre di Esaù ed Ammon (Deut. 2).
12. Kades-Barnea Da qui Mosè inviò delle spie nella terra promessa; Israele si ribellò e non poté
entrare nel paese; Kades fu il principale accampamento di Israele per molti anni (Num. 13:1–3, 17–33;
14; 32:8; Deut. 2:14).
13. Deserto orientale In quest’area Israele evitò il conflitto con Edom e Moab (Num. 20:14-21;22-24).
14. Fiume Arnon Qui gli Israeliti distrussero gli Amorei che combattevano contro di loro(Deut.2:24-37)
15. Monte Nebo Da questo monte Mosè poté guardare la terra promessa (Deut. 34:1–4) e qui
pronunciò i suoi ultimi tre sermoni (Deut. 1–32)
16. Pianure di Moab Il Signore disse qui ad Israele di spartirsi il paese e di spodestarne gli abitanti
(Num. 33:50–56).
17. Fiume Giordano Israele attraversò il Giordano su terreno asciutto. Delle pietre prese dal fondo del
fiume furono poste vicino a Ghilgal, come monumento alla spartizione delle acque del Giordano (Gios.
3–5:1).
18. Gerico I figli d’Israele catturarono e distrussero questa città (Gios. 6).
Il passaggio del Mar Rosso
Quando Israele è ormai presso la sponda
occidentale dei Laghi Amari, il faraone ancora
una volta si pente di aver ceduto alla richiesta
di Mosè.
“Ho fatto male a lasciarli partire questi
schiavi!” dice il faraone ai suoi ministri, “Così
non potranno più servirci”. Fa attaccare allora i cavalli al suo cocchio da guerra e
prende con sé il fior fiore dell'esercito: seicento carri con altrettanti cavalieri
armati di archi e di lance.
L'esercito egiziano, sollevando una nuvola di polvere, insegue e raggiunge gli ebrei.
Quando gli israeliti vedono avvicinarsi quella nuvola di polvere, si rivolgono a Mosè
e gli dicono con un certo sarcasmo misto a sgomento: “Forse non c'erano sepolcri
in Egitto che ci i hai portati a morire nel deserto?” Mosè risponde: “Non abbiate
paura. Siate forti perché Jahvè è con noi. Gli egiziani che vedete non li rivedrete
mai più. Jahvè combatterà per voi. Egli è il
Dio degli eserciti.
Poi Mosè si alza in tutta la sua
imponente statura e stende il braccio
destro sulle paludi salate. Un forte vento
d'oriente soffia per tutta la notte e, in
concomitanza con la bassa marea,
risospinge le acque dei Laghi Amari.
Appare una lingua di terra melmosa ma
percorribile. Israele attraversa così il Mar Rosso «a piedi asciutti».
L'esercito egiziano che insegue da vicino i fuggiaschi, si precipita nel varco
che il vento e la bassa marea hanno creato attraverso il mare. Ma i pesanti carri
da guerra dell'esercito del faraone sprofondano nella sabbia molle e nella
melma.
Poi all'improvviso il vento d'oriente
cessa di soffiare e la marea riprende a
salire. Le acque del Mar Rosso si
sollevano e sommergono, fra le urla di
vittoria degli israeliti e quelle di panico
degli egiziani, l'esercito del faraone.
Il passaggio del Mar Rosso è stato
sempre interpretato da Israele come il
più straordinario intervento di Jahvè a favore del suo popolo.
Per Israele il Mar Rosso non è semplicemente un confine geografico fra la
terra della schiavitù e il deserto, terra della libertà. Le acque che salvano gli ebrei
e sommergono gli egiziani sono l'immagine stessa di Dio che salva chi confida in
lui, mentre abbandona al proprio destino chi lo rifiuta.
Il passaggio del Mar Rosso resterà per Israele la prova più importante e
prodigiosa della potenza di Dio, Signore degli eserciti.
Giunto sulla sponda orientale del mare, Israele esprime con un canto intonato
da Maria, sorella di Mosè e di Aronne, i propri sentimenti di gratitudine a Jahvè:
programmi per il futuro. Nel deserto si deve vivere alla giornata affidandosi
completamente a Dio.
È lo stesso insegnamento che un giorno sarà proposto da Gesù. L'uomo non
deve rimpiangere il passato, né temere il futuro. Ogni giorno ha la sua pena.
L'uomo deve prima cercare le cose di Dio e poi quelle che riguardano il corpo.
Così insegnerà Gesù.
Nel deserto Israele sperimenta queste verità. Nel deserto Israele
purifica la propria fede. Nel deserto incontrerà Dio, diventerà un popolo,
prenderà coscienza delle proprie forze sorrette dalla potenza di Jahvè.
Al Mar Rosso Dio divide le acque dalla terra asciutta. È la stessa azione che
Dio ha compiuto all'alba della creazione.
Il deserto è ricominciare tutto da capo. Il deserto è una terra nuova, è come
la terra nel primo giorno della creazione. Nel deserto soprattutto Israele è
chiamato a premettere le esigenze dello spirito a quelle del corpo.
Non sempre però Israele supererà il test del deserto. Nel deserto Israele
rimpiange la carne che mangiava in Egitto. Rimpiange le cipolle d'Egitto ora che
ha solo sabbia. Ma Dio, ancora una volta, è paziente con quelli che ama. Dice a
Mosè: “Ho inteso la mormorazione degli israeliti. Parla loro così: Al tramonto
mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane”.
Voglio cantare in onore di Jahvè:
perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare
cavallo e cavaliere.
Jahvè è prode in guerra,
il suo nome è Jahvè.
I carri del faraone e il suo esercito
ha gettato nel mare
e i suoi combattenti scelti
furono sommersi nel Mare Rosso.
Gli abissi li ricoprirono,
sprofondarono come pietra.
Nel deserto verso Il Sinai
Dopo la traversata a piedi asciutti del Mar Rosso, Israele si trova finalmente
libero nel deserto. Ma il deserto non rappresenta
solo la libertà riacquistata. Il deserto è anche luogo di
privazioni e di conflitti.
Israele rimarrà nel deserto per
quaranta anni, un numero simbolico
che indica il passaggio di un'intera
generazione. Non gli uomini che sono
usciti dall'Egitto entreranno nella terra promessa, ma i loro figli.
Neppure Mosè calcherà i piedi sulla terra di i Canaan. Vedrà la patria sognata
da lontano, la possederà solo con gli occhi.
Questo lungo peregrinare di Israele nel deserto è come un test al quale Dio
sottopone il suo popolo per convincerlo che solo nell'abbandono in lui si può
realizzare. Nel deserto Israele sperimenta che la sopravvivenza di ogni giorno è
dono di Dio. Nel deserto non sono ammessi rimpianti per il passato, né
Israele infatti si nutrirà di quaglie e di manna. Jahvè adopera ancora eventi
naturali per manifestare la sua potenza e la sua provvidenza.
Le quaglie migrando attraversano
la penisola del Sinai e spesso cadono al
suolo spossate. La manna è una resina
commestibile prodotta dalla pianta del
tamarisco che cresce nel deserto.
Israele non supera neppure la prova
della sete. Si lamenta con Mosè:
“Perché ci hai fatti uscire dall'Egitto per
far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?”
E Jahvè fa scaturire acqua dalla roccia e disseta il
suo popolo.
Quaglie, manna e acqua che sgorga dalla roccia
sono il simbolo della potenza di Dio, ma anche
della sua pazienza. Dio mette alla prova Israele e
poi ne soddisfa le esigenze.
Mosè stesso non supera del tutto il test del
deserto. Anch'egli, presso la località di Meriba,
dubita per un istante della parola di Dio e
percuote due volte la roccia con il bastone perché
ne scaturisca l'acqua.
Per questo vedrà solo la terra di Canaan senza
potervi entrare.
L'alleanza del Sinai
Il deserto è soprattutto il luogo dove
Israele incontra in maniera solenne e
ufficiale il suo Dio.
Nel deserto Israele, che prima era un
non-popolo, un'accozzaglia di schiavi senza
futuro, senza una legislazione, senza
un'organizzazione, diventa un popolo.
L'incontro fra Israele e Jahvè avviene
sulla montagna sacra, su quella montagna
dove Jahvè già aveva parlato al suo servo
Mosè. Israele scende lungo la penisola del
Sinai e giunge alle falde del massiccio
montuoso che dà il nome a tutta la
penisola.
Sembra quasi che Dio lo abbia attirato
in quel luogo per un appuntamento importante, per un appuntamento d'amore.
Sulle falde, fra le gole e sulle vette di quel massiccio montuoso, Jahvè si rivela
maestosamente a Mosè e a tutto il popolo. La manifestazione di Jahvè sul monte
Sinai è la più spettacolare fra tutte quelle descritte nella Bibbia.
Jahvè si palesa attraverso fenomeni naturali terrificanti. Una nube densa copre
la montagna. Poi c'è un violento temporale. Lampi e tuoni scuotono il massiccio. E
poi un terremoto e un'eruzione vulcanica. E poi fumo e fuoco e ululare del vento
fra le gole del monte.
Mentre Israele terrificato sta ai piedi del monte, Mosè sale da solo sulle vette
per incontrare faccia a faccia il suo Dio terribile e dolcissimo.
Sul monte Jahvè rivela al suo servo i termini di una nuova alleanza. L'alleanza
del Sinai è un approfondimento delle alleanze già stipulate da Dio con Noè e con
Abramo. Questa volta l'alleanza è fra Jahvè e tutto il popolo. Mosè è solo il
mediatore, l'intermediario di tale patto.
L'alleanza del Sinai ricalca i trattati di sudditanza che, a quel tempo, i re
stabilivano con i propri vassalli. Secondo questi trattati, il re, dopo essersi
presentato ed aver enumerato i propri meriti, fissava le norme che i vassalli
dovevano osservare.
Dal canto suo il re offriva protezione e aiuti a coloro
che avessero osservato i suoi patti. Secondo questo
schema avviene anche l'alleanza fra Jahvè e Israele.
Jahvè si presenta a Mosè come l'unico Dio. Come il Dio
che ha fatto uscire Israele dalla condizione di schiavitù.
Poi Jahvè fissa le norme che il popolo deve osservare.
Sono i dieci comandi, o le dieci parole, che sintetizzano i
doveri di Israele verso Dio e verso il prossimo.
Le dieci parole
Jahvè pronuncia sul Sinai parole che rimangono scolpite nella mente di Mosè.
La Bibbia, con un linguaggio simbolico, riferisce che Dio stesso scolpisce queste
parole sulla pietra. Ma è probabilmente Mosè che, durante la sua permanenza sul
Sinai, trasferisce le parole di Jahvè su due grandi lastre di pietra.
Queste sono «le dieci parole» di Jahvè:
lo sono Jahvè, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione
di schiavitù.
• Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti prostrerai davanti a loro e non li
servirai. Perché io, Jahvè, sono il tuo Dio, un Dio geloso.
• Non pronuncerai invano il nome di Jahvè, tuo Dio.
• Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni faticherai e farai il
tuo lavoro. Ma il settimo giorno è il sabato in onore di Jahvè.
• Onora tuo padre e tua madre.
• Non uccidere.
• Non commettere adulterio.
• Non rubare.
• Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
• Non desiderare la casa del tuo prossimo.
• Non desiderare la moglie del tuo prossimo.
Mentre Jahvè parla al suo servo dentro la nube oscura, il popolo percepisce i
tuoni e i lampi e il vento fra le gole come il suono di
un corno e vede il Sinai fumare come un vulcano.
La prima trasgressione di Israele
Il trattato fra Jahvè e il popolo eletto si conclude
con un rito. Mosè fa erigere un altare in mezzo a
dodici stele che rappresentano le dodici tribù di
Israele, cioè i dodici gruppi che discendevano dai figli di Giacobbe.
Sull'altare vengono offerti animali in olocausto (completamente bruciati) e
altri in sacrificio di comunione (consumati dai presenti).
Il sangue delle vittime viene cosparso sull'altare e asperso sopra il popolo a
significare che, da questo momento, Jahvè e Israele divengono consanguinei.
Poi Dio richiama Mosè sopra il monte e detta altre prescrizioni che riguardano
il culto.
Jahvè ordina a Mosè di costruirgli un santuario mobile. Jahvè vuole abitare in
mezzo al suo popolo, vuole una tenda come segno della sua presenza fra coloro
che ama. Jahvè ordina al suo servo di costruire anche un' Arca nella quale
dovevano essere conservate le tavole della legge. Poi Jahvè stabilisce che Aronne e
i suoi figli, appartenenti alla tribù di Levi, siano destinati a svolgere la funzione di
sacerdoti.
Tutte queste leggi e prescrizioni sono raccolte nei libri dei Numeri, del Levitico
e del Deuteronomio che assieme al Genesi e all'Esodo formano il Pentateuco.
Questa raccolta di cinque libri prende perciò anche il nome di Legge (in ebraico
Toràh).
Mentre Mosè parla faccia a faccia con Dio, Israele è
attendato ai piedi del Sinai. Mosè tarda a discendere. Israele
allora chiede ad Aronne di costruire un basamento che
doveva rappresentare il trono di Jahvè.
Aronne, in buona fede, pensando di fare cosa gradita a
Jahvè, a Mosè e al popolo, fa fondere tutto l'oro che Israele
aveva portato dall'Egitto e fa costruire un trono in forma di
vitello.
Il vitello d'oro, nelle intenzioni di Israele, non voleva
raffigurare una divinità, un idolo. E tuttavia assomigliava agli
idoli dei popoli pagani. Mosè, disceso dal monte, non accetta
questo trono temendo che Israele ne faccia poi un idolo da
adorare. Adirato, frantuma le tavole della legge, fa
distruggere il vitello d'oro e punisce i trasgressori.
Mosè, infine, rivolge al Dio di Israele, un Dio geloso, questa preghiera: “Non
adirarti, o Signore, contro il tuo popolo. Ricordati di Abramo, di Isacco, di Giacobbe
e perdona il tuo popolo”.
E Dio, nella sua infinita pazienza, ascolta la preghiera di Mosè. Non punisce il
popolo che ha trasgredito il comandamento principale dell'alleanza.
In viaggio verso Canaan
Durante il viaggio di avvicinamento verso l'oasi di
Kades, a sud di Canaan, Israele sperimenta nel
deserto la protezione di Jahvè.
I popoli che abitano quelle terre si oppongono spesso
alla marcia di Israele, ma sempre Jahvè, secondo i
patti, aiuta Israele a superare quelle resistenze.
Le lamentele di Israele però non si placano. Il
viaggio si sta prolungando oltre il previsto. La fame e
la sete mettono a dura prova Israele. Il popolo si rivolta con il solito ritornello
contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatti uscire dall'Egitto per farci morire
in questo deserto? Qui non c'è né pane, né acqua e siamo
nauseati di mangiare questa manna. È un cibo insipido e
troppo leggero”.
Questa volta Jahvè punisce duramente Israele. Serpenti
velenosi mordono numerosi israeliti che muoiono.
Mosè interviene ancora a favore del popolo e prega Jahvè
di allontanare quell'insidioso pericolo. Jahvè allora ordina a
Mosè di costruire un serpente di rame e di porlo sopra
un'asta. Chiunque, dopo essere stato morso, avesse guardato
il serpente di rame, sarebbe rimasto in vita. E così avviene.
Anche questo episodio ha un significato simbolico. Il serpente di rame è una
rappresentazione della potenza e della provvidenza di Dio. Dio dal male stesso sa
ricavare il bene. Chi fissa lo sguardo in Dio, non corre alcun pericolo.
Gesù, nel nuovo testamento, si paragonerà al serpente di rame. Chiunque si
fida di Gesù e fissa lo sguardo sopra di lui innalzato sulla croce, sarà salvo.
Israele prosegue nel suo viaggio. Ancora altri ostacoli e altre prove. Israele
finalmente giunge all'oasi di Kades. Mosè invia
alcuni esploratori verso Canaan. Essi tornano
entusiasti e descrivono Canaan come una terra
dove «scorre latte e miele». Poi Israele si
attenda a oriente del fiume Giordano, nel
territorio della Transgiordania.
La morte di Mosè
Il re di quel territorio, rendendosi conto che non può fermare Israele con la
forza, tenta di farlo con la magia. Invia contro Israele il suo mago più potente, di
nome Balaam, perché maledica solennemente il popolo ebreo.
Ma anche Balaam è piegato dalla potenza di Jahvè. Invece di maledire Israele,
Balaam lo benedice con queste parole:
Oracolo di Balaam, figlio di Beor,
e oracolo dell'uomo dall'occhio penetrante.
Come sono belle le tue tende o Israele.
Chi ti benedice sia benedetto
e chi ti maledice sia maledetto!
La terra promessa ora è a due passi. Basta attraversare il fiume Giordano.
Ma ormai è giunto per Mosè il momento di ricongiungersi con i suoi padri, con
Abramo, con Isacco e con Giacobbe.
Dopo aver scelto come suo successore Giosuè, il vecchio e stanco condottiero
di Israele sale su una montagna per contemplare la terra promessa. Dall'alto del
monte Nebo, oltre il Giordano, Mosè abbraccia con gli occhi la patria per lunghi
anni sognata.
Mosè, per l'ultima volta, ode la voce ferma e
dolcissima del suo Dio:
“Questo è il paese -dice la voce- per il quale io ho
giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe. Io lo
darò alla tua discendenza. Te l'ho fatto vedere con
i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai”.
Con questa visione di Canaan negli occhi e con
la certezza nel cuore che le promesse di Jahvè si
avvereranno, Mosè si addormenta nel Signore.
Muore così il più grande profeta d'Israele, il
condottiero, il liberatore, il legislatore. Colui che
parlava faccia a faccia con Dio.
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