SCHEDA 4 Il Dio liberatore (Es 6,2-7,7) In questa sezione troviamo

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SCHEDA 4
Il Dio liberatore (Es 6,2-7,7)
In questa sezione troviamo prima di tutto un nuovo racconto della vocazione di Mosè (Es 6,2-8); poi in Es
6,10-30, ascoltiamo di nuovo il racconto relativo all'ordine divino dato a Mosè perché egli parli al faraone;
all'interno di questo racconto (Es 6,14-25) troviamo la genealogia di Mosè e Aronne. Infine, il testo di Es
7,1-7 contiene un nuovo discorso di Dio nel quale viene anticipato ciò che accadrà nella sezione che segue,
dedicata alle cosiddette "piaghe" d'Egitto.
Da un punto di vista letterario, il racconto di Es 6,2-8 costituisce ciò che gli studiosi chiamano un
"doppione". Infatti, Dio chiama di nuovo Mosè e si fa conoscere a lui come YHWH, il Signore, ignorando il
precedente racconto di Es 3,13-15. Il vocabolario di tutta questa sezione è tipico di quella fonte che abbiamo
chiamato "Sacerdotale"; basta notare l'importanza data alla figura di Aronne. In particolare, il discorso di
Dio contenuto in Es 6,2-8, risente della teologia dei profeti dell'esilio e del post-esilio, come Ezechiele e il
Secondo Isaia (Is 40-55).
Tutta questa sezione è un buon esempio di come il libro dell'Esodo sia composto con molta attenzione.
Un materiale, che di per sé costituisce un doppione di cose già narrate (la vocazione di Mosè), viene
riutilizzato in modo nuovo. Dopo la crisi causata dalle obiezioni di Mosè in seguito al fallimento della sua
missione presso il faraone (Es 5,22-23), Dio interviene nuovamente, rinnovando la chiamata e la missione.
Tuttavia permane nel testo una forte tensione drammatica: Israele non ascolta le parole del Signore (Es 6,9),
perché è ormai in una situazione tale di oppressione e miseria che neppure le parole più belle possono
bastare; così pure neanche il faraone ascolterà (cf. Es 7,4). Dio ha così vinto la resistenza di Mosè, ma come
riuscirà a vincere quella di Israele, e soprattutto quella del faraone?
DIO RISCATTA IL SUO POPOLO (Es 6,2-8)
La prima cosa che deve essere notata, in questi versetti, è la struttura del discorso rivolto dal Signore a
Mosè. Per ben quattro volte appare la formula «Io sono YHWH/il Signore», che segna così il cuore del
discorso; Dio si fa conoscere a Mosè come Yahweh (cf. quanto abbiamo detto a proposito di Es 3,13-15). La
prima parte del discorso (vv. 3-5) è segnata da verbi indicanti il passato; il Signore ricorda due fatti
importanti: l'alleanza e le promesse fatte ai patriarchi, forestieri in una terra non loro (v. 4), e l'attenzione da
lui rivolta alle sofferenze di Israele in Egitto (v. 5). Nei vv. 6-7, invece, i verbi rimandano al futuro. Ciò che
il Signore farà per Israele - è importante osservare - si fonda su ciò che egli ha già fatto per il suo popolo. Il
nostro futuro è già scritto nel nostro passato, che dunque è storia di salvezza.
Nei vv. 6-7, in particolare, la promessa divina è espressa con sette verbi. Il primo è «vi sottrarrò ai
gravami degli egiziani», alla lettera "vi farò uscire da sotto i gravami degli egiziani"; il verbo "far uscire"
diviene qui una delle espressioni chiave dell'intero libro dell'Esodo, storia dunque di "uscita" e"liberazione".
Il secondo verbo è «vi libererò dalla loro schiavitù», alla lettera "vi strapperò", lo
stesso verbo usato
da Mosè in polemica con Dio in Es 5,23. Ben più importante è il terzo verbo, «vi libererò con braccio teso e
con grandi castighi»; il verbo qui utilizzato è in realtà il verbo ebraico ga'al, che significa di per sé
"riscattare". Nel diritto di Israele il go'el, il "riscattatore", è il parente più prossimo che si prende cura del
parente in difficoltà (per esempio del parente schiavo per debiti o del parente ingiustamente ucciso). Dio si
presenta così come il parente più stretto - il padre (Es 4,24) - del suo popolo in schiavitù.
Per questo motivo il verbo è importante: Dio non può sottrarsi al dovere di riscattare il suo popolo. Nei
testi di Is 41,14; 43,14; 54,5-8 il termine go'el verrà applicato infatti a Dio, che è il "riscattore", ovvero il
"redentore" del suo popolo.
Il quarto e quinto verbo: «vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio»; l'espressione ebraica
"prendere come" indica il far entrare una persona a far parte di una nuova famiglia, come moglie, ad
esempio, o come figlio adottivo, in questo caso.
Ciò rafforza l'idea che l'intervento di Dio a favore di Israele sia presentato come qualcosa che è frutto
dell'intimo rapporto esistente tra Dio e il suo popolo. Gli ultimi due verbi - «vi farò entrare nel paese che ho
giurato a mano alzata di dare ai vostri padri e ve lo darò in possesso» - indicano la mèta dell'uscita
dall'Egitto: l'ingresso nella terra promessa. Tutto questo avviene, ancora una volta, perché Israele sappia che
«Io sono il Signore».
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«VAI DAL FARAONE» (Es 6,10-7,7)
Nella prima di queste sezioni emerge una tecnica tipica della narrativa biblica, quella detta della "ripresa":
la genealogia dei vv. 14-25, infatti, è incorniciata dai vv. 10-13 e dai vv. 26-30 che ripetono le stesse cose,
ovvero la riconferma, da parte di Dio, della missione di Mosè e Aronne presso il faraone. In questo modo,
l'inserzione della genealogia, apparentemente fuori luogo, viene ben integrata all'interno della narrazione. La
genealogia ha lo scopo di legittimare la figura di Mosè, della cui famiglia sino ad ora non sapevamo quasi
nulla, e allo stesso tempo di introdurre accanto a Mosè il fratello Aronne che, nella prospettiva della fonte
sacerdotale, sarà il capostipite di tutti i sacerdoti di Israele.
Nel testo di Es 7,1-7 il narratore pone in bocca al Signore un discorso nel quale a Mosè viene svelato in
anticipo il progetto di Dio su Israele e sull'Egitto.
Dio non solo rinnova a Mosè la propria vocazione, dopo un momento di crisi e di difficoltà, ma anche lo
mette a parte delle sue scadenze, dei tempi di Dio che non sono necessariamente quelli dell'uomo.
Lo scopo ultimo dell'azione divina non sarà punire gli egiziani, ma spezzare il potere di chi non riconosce
che «Io sono il Signore» (Es 7,5) e dare perciò anche all'Egitto la possibilità di credere.
PER RIFLETTERE INSIEME
1. Es 6,2-13 - In questo secondo racconto della vocazione di Mosè viene richiamata con forza la promessa
fatta da Dio ai patriarchi; la chiamata di Mosè deve essere letta nella successione delle generazioni, come
indica la genealogia (vv. 14-27). Per quali aspetti la nostra identità rinvia alla storia della famiglia e della
comunità dalla quale proveniamo? La nostra missione è collegata a tale storia? Ci sentiamo inseriti in una
storia che ci precede e continuerà dopo di noi? Le nostre genealogie hanno un senso per le nostre famiglie?
2. Es 6,6-8
Dio rivela il suo volto attraverso un crescendo di azioni a favore del suo popolo egli agisce
come liberatore («vi farò uscire», «vi libererò»), come il parente più stretto che riscatta («vi riscatterò», egli
è il Redentore, il Go'el), come il fidanzato/sposo d'Israele («vi prenderò come il mio popolo»). Quando Dio è
il vero liberatore dell'uomo? La sua liberazione è solo liberazione dal peccato e dal male interiore o anche dal
male che ci circonda? Abbiamo fatto esperienza nella nostra vita di un Dio così vicino da essere "l'unico
parente" in grado di compromettersi fino in fondo con noi? Che significato ha pensare Dio come sposo
dell'umanità?
3. Es 6 - Mentre il faraone non ascolta Mosè perché non conosce Dio, gli israeliti non lo ascoltano a causa
della dura schiavitù alla quale sono sottoposti. Quali sono le situazioni di estrema sofferenza (fisica, morale,
psicologica) che ci fanno ripiegare su noi stessi? Come uscirne?
4. Es 7,1-7 - Mosè e Aronne hanno ormai ottanta anni quando compiono la missione affidatagli da YHWH.
Tutta la Sacra Scrittura ci dice che Dio ama i vecchi, agisce attraverso la debolezza di vegliardi meravigliosi,
come Abramo, Anna, Simeone e tanti altri. Abbiamo colto negli anziani quell'agire gratuito e distaccato che
nasce dalla sapienza dell'età? In una società come quella attuale, che rifiuta la vecchiaia e la debolezza, che
parola di speranza possiamo dire noi cristiani? È possibile coniugare vecchiaia e speranza come Mosè e
Aronne?
5. Es 6,9 – 7,7 - Solo una relazione "affettivamente significativa" rende possibile un reale scambio
comunicativo. Il dialogo autentico richiede, infatti, fiducia tra gli interlocutori. Nel testo viene
mostrato chiaramente che anche per Dio e Mosè è difficile entrare in relazione con il popolo
d'Israele. Come chiesa, sappiamo costruire uno stile e forme di comunicazione fondati su relazioni
affettivamente significative? Quali sono le principali difficoltà in questo senso?
PER APPROFONDIRE
1. – Il libro che ha ispirato itinerari di liberazione
Quando, al termine del secondo capitolo del Libro dell'Esodo, leggiamo come Dio, presa coscienza
della condizione di sofferenza del suo popolo, si disponga ad intervenire (la traduzione italiana della CEI è
molto espressiva: «se ne prese pensiero»), ci rendiamo conto di essere davanti a uno dei passaggi
fondamentali della storia della salvezza. Dato che questa storia è scritta anche per noi, è un passaggio
cruciale per la nostra consapevolezza di fede: il Dio in cui confidiamo è un Signore mai estraneo alla nostra
sofferenza, alla nostra fatica, all'ingiustizia che subiamo o di cui siamo responsabili. Se questo lo
concepiamo come un aspetto fondamentale del Suo modo di rapportarsi nei confronti dell'umanità, di ogni
essere umano, senza nessuna esclusione, ne deriva la responsabilità che dobbiamo vivere verso il mondo che
ci circonda, a partire da quanto e da come agiamo. Il senso della giustizia esce dalla parzialità di se stessi, del
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considerare la realtà funzionale solo al proprio ego, per diventare un elemento fondamentale della dignità
umana: non conta solo la giustizia che riguarda i propri diritti, ma quella che si pone il problema dei diritti di
tutti.
Questo sarà l'insegnamento forte che scaturisce dall'esperienza della liberazione dalla schiavitù: c'è un
Dio che vuol farsi conoscere e il cui amore significa lo spezzarsi delle catene. È un Dio a cui rendere culto
con la vita; una vita improntata all'imitarlo in tale amore. Da questo contenuto di fede i credenti hanno tratto
la forza, nei secoli, per testimoniare il valore della giustizia, l'imprescindibilità della libertà per definire ciò
che è umano, la dimensione fondante della solidarietà per ogni comunità. Molto spesso la testimonianza di
tale sistema di valori ha significato incontrare avversione, persecuzione, morte: non a caso la parola greca
per "testimonianza" dà origine al termine "martirio". Lotte sociali di rilevanza storica assoluta hanno avuto
presupposti e protagonisti religiosi, come, del resto, alcune istituzioni tra le più feroci nel negare i diritti
umani hanno preteso di farlo in nome di verità di ordine spirituale. L'ambiguità della natura umana ha reso
gli ideali di ordine religioso molto fragili nella pessima testimonianza dei credenti. Ciò ha tolto credibilità
anche sul piano della proposta di fede: annunciare il valore della libertà, negandola nei fatti, ha prodotto una
frattura tra i movimenti di liberazione sociale e la chiesa difficile da superare.
Quando nel corso dei secoli le società umane si sono secolarizzate, hanno cercato i presupposti fondanti
delle loro istituzioni di base in valori che non fossero necessariamente di origine religiosa. Ciò è accaduto
anche per il pensiero umano, che ha teorizzato a partire da elementi presenti nelle rivelazioni religiose ma in
modo che fossero condivisibili da più persone, a prescindere dall'identità religiosa; o, semplicemente,
rimuovendo il dato che quella spirituale fosse la loro provenienza. In questa "secolarizzazione degli ideali" si
può parlare anche della "secolarizzazione delle speranze", delle utopie sociali e storiche. Per certi aspetti è
come se in filigrana a molte dottrine e teorie politiche fosse rimasto il dato biblico (almeno per quanto
riguarda l'Occidente): peraltro i credenti sanno che ogni volontà di riscatto, ogni desiderio di libertà
condivisa, ogni sacrificio di sé in nome del rispetto verso l'umanità porta il segno del progetto divino.
I credenti non dimenticano, però, che le liberazioni e le conquiste sociali sono espressione di una capacità di redenzione da parte di Dio ben più radicale. Se la Pasqua ebraica raccoglie in sé il senso della
liberazione dalla schiavitù d'Egitto, chi ha fede legge questo evento come la capacità divina di prendersi
carico delle aspettative umane sulla storia. Chi celebra la Pasqua di resurrezione del Signore sa bene che
nessun progresso sul piano della giustizia ha un senso compiuto se non apre alla prospettiva della sconfitta
della morte fisica. Le conquiste di un popolo non rendono del tutto ragione della sofferenza del singolo: un
destino di pace per l'umanità non consola appieno chi si lascia dietro la propria esistenza, e con essa affetti,
responsabilità, gioia. La resurrezione è risposta alla molta sofferenza che gli esseri umani hanno
sperimentato nel corso della storia, soprattutto a quella subita ingiustamente, a quella vissuta liberamente,
per fedeltà ai valori che illustrano la potenza dell'amore, sulle orme di Cristo Signore: ma essa non si limita a
sancire il recupero dell'esistenza a chi l'ha perduta. Risorgere è entrare nella definitività dell'esistenza,
secondo la formula della pienezza e dell'eternità: la liberazione assoluta e integrale, in cui alla capacità del
tutto si unisce la comprensione piena del fine e dei significati. Festa dell'essere, dimensione dell'incontro che
definisce il riposo, l'esplodere della fantasia nello Spirito, capace di realizzare ogni sogno, ogni speranza,
ogni utopia.
2. – Il CdA La verità vi farà liberi, ai nn. 154-163 propone un approfondimento: liberi da egoismi e paure
PER LA PREGHIERA
Si può utilizzare il Salmo 115 (113 B)
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