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Rossano, Cattedrale - 21.06.09
Ordinazione sacerdotale di Giuseppe Ruffo e Viju George
Inaugurazione in diocesi dell’Anno Sacerdotale
Omelia di S. E. Mons. Santo Marcianò
Il sacerdozio, dono d’Amore
Carissimi fratelli e sorelle,
1. «L’amore del Cristo ci possiede» (2 Cor 5,14).
Questa espressione di San Paolo, un uomo realmente posseduto dall’amore per Gesù Cristo, bene introduce la
solennità e la bellezza della nostra Celebrazione Eucaristica nella quale due Diaconi, George e Giuseppe, saranno
ordinati Presbiteri della Chiesa di Rossano-Cariati. Sono parole che tracciano per loro un vero programma di vita e che
sintetizzano la portata del grande dono e mistero che oggi vive la nostra Chiesa.
Con tutta la Diocesi vi saluto nella gioia, carissimi George e Giuseppe, grato per la sovrabbondante e dolcissima
Provvidenza di Dio che, ancora una volta, ha voluto suggellare con il dono delle Ordinazioni Sacerdotali la data del mio
stesso Anniversario di Ordinazione Episcopale, avvenuto in questo giorno tre anni fa. Saluto le vostre famiglie, con
grande affetto, chiedendo per loro al Signore che possano accogliere la Grazia di questo momento e portarla nel cuore
per tutta la vita. Saluto le vostre comunità di appartenenza e quelle in cui avete esercitato il ministero diaconale; i
tanti amici, venuti anche da lontano; saluto tutte le persone che vi sono state accanto nella formazione e nel cammino
di questi anni, in particolare il Rettore e il Vice-rettore del nostro Seminario; saluto le persone che non possono essere
qui, soprattutto a motivo della lontananza o della malattia; infine, saluto tutti voi presenti, in modo particolare i
presbiteri concelebranti, ai quali rivolgo un carissimo e particolare augurio.
La ricchezza del dono di oggi è, infatti, impreziosita anche da un’altra ricorrenza che il Signore ci offre: l’apertura
dell’Anno Sacerdotale che il Santo Padre ha inaugurato nella Basilica di San Pietro due giorni fa, nella Solennità del S.
Cuore, e che noi iniziamo solennemente in questo giorno dedicato alle Ordinazioni Sacerdotali. Un anno speciale: per
riflettere sul sacerdozio, per pregare per i sacerdoti, per lasciarsi interpellare da questo mistero, chiedendosi cosa esso
concretamente esiga dalla Chiesa e da ciascuno di noi. Soprattutto, un anno che il Papa ha voluto dedicare a noi
sacerdoti, specificamente alla nostra santificazione, attingendo all’esempio e all’intercessione del Santo Curato d’Ars:
è, infatti, per il 150° Anniversario della sua morte che lo stesso Anno Sacerdotale si celebra. Che dono e che
responsabilità, cari presbiteri. E che mistero, cari George e Giuseppe, che la vostra Ordinazione avvenga proprio in
questo anno!
Questa sera, dunque, vogliamo meditare sul dono del Sacerdozio, cosa che continueremo durante l’anno. Lo facciamo
sviluppando idealmente la riflessione iniziata un anno fa nell’analoga Celebrazione Eucaristica per le Ordinazioni
presbiterali. Se, in quell’occasione, mi sono soffermato sul presbiterato quale «Dono di Grazia», oggi vorrei proporre
alla vostra contemplazione il sacerdozio come «Dono d’Amore». D’altra parte, nella Lettera inviata per l’indizione
dell’Anno Sacerdotale, il Papa inizia col ricordare ai presbiteri quella che definisce la «toccante espressione» del Santo
Curato d’Ars: «Il Sacerdozio è l’amore del Cuore di Gesù»1!
Sì, siamo chiamati ad essere amore: l’amore del Cuore di Cristo.
2. «L’amore del Cristo ci possiede».
La seconda Lettura, utilizzando la nuova traduzione della Bibbia, definisce questo amore come un amore che possiede;
ecco l’amore di Cristo, ecco l’amore di Cristo per il prete, ecco l’amore che il prete si accorge di ricevere da Cristo e
che cambia totalmente la sua identità.
Sì: l’identità umana, o almeno la percezione della propria identità, è per la persona intimamente legata alla qualità di
amore ricevuto. E l’amore che potremmo definire “possessivo” di Cristo tesse l’identità sacerdotale edificandola su
quella che la Pastores dabo Vobis chiama la «relazione fondamentale» con Cristo2.
L’amore di Cristo ci possiede: e voi, carissimi George e Giuseppe potete certamente testimoniarlo, rileggendo le
sfumature della storia d’amore con cui Dio ha tessuto la vostra storia. Perché la storia di una vocazione, qualunque
essa sia, è sempre una storia d’amore: guai se non fosse così! E questo amore, particolare e tenero di Dio per ogni
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Benedetto XVI, Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale in occasione del 150° Anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria
Vianney, 16 giugno 2009
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Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, n. 13 - 16
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creatura, nel sacerdote acquista proprio – lo abbiamo affermato – la caratteristica di una «relazione fondamentale con
Cristo», che è di centrale e imprescindibile importanza: quello di Cristo e per Cristo è l’amore fondamentale della vita
del prete.
Quanto è scarsa, talora, la percezione di questa centralità dell’amore! E, mi verrebbe di dire, quante cosiddette “crisi”
del sacerdozio sono generate da una non consapevolezza, da una non comprensione, da una non accoglienza di tale
amore e, dunque, da una non reale risposta ad esso!
Amare – lo ricordavo nell’Omelia nella Solennità del S. Cuore – è più che sentire. L’amore, nel senso più proprio e
pregnante del termine, è, in definitiva, dono; più esattamente, è dono di sé.
Ed è un donarsi, quello di Cristo, che abilita il sacerdote ad essere sacerdote. Un dono che, anzitutto, è totale e
irrevocabile; un dono che, nella sua peculiarità, mi piace definire così: «conformante».
«L’amore del Cristo ci possiede»… All’origine del donarsi del sacerdote a Cristo c’è un donarsi di Cristo che «possiede»
il sacerdote. È molto interessante l’esame del verbo greco dal quale è tratta la parola che traduciamo con “possiede”: è
il verbo siunècho, termine che, nel Nuovo Testamento, è usato con differenti significati: “stringere, pressare,
circondare, custodire, spingere”; ma anche “dedicarsi a, soffrire per…”
Nella sua Lettera ai presbiteri, il Papa va col pensiero a tutti quei sacerdoti che cercano di «aderire» a Cristo «con i
pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza» ma anche a quelli che sperimentano la
sofferenza «sia perché partecipi dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché
incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero»3.
L’amore di Cristo, cari confratelli, ci stringe e ci avvolge, ci spinge e ci custodisce, ci abilita a soffrire per Lui e ci dedica
a Lui; scrive dentro la nostra anima l’urgenza del donarci come ha fatto Lui. Perché questo amore, “possessivo e
conformante”, trasforma la vita del presbitero; come abbiamo ascoltato dalla seconda Lettura, fa del sacerdote, «in
Cristo», «una creatura nuova» (2 Cor 5,17); lo rende, specifica la Pastores dabo Vobis, una reale «ripresentazione
sacramentale di Gesù Cristo capo e pastore»4.
Il Suo amore ci possiede, possiede l’universo. Ma bisogna conoscere questo amore.
3. «Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine» (Gb 38,1).
È l’esperienza di Giobbe, nel brano che abbiamo ascoltato e che è incluso nel più ampio contesto del capitolo biblico
intitolato «la grande Teofania». Dal profondo del suo dolore Giobbe, che comprensibilmente gridava a Dio, riceve da
Lui una risposta che ne manifesta la grandezza infinita e ne testimonia la presenza in tutte le cose: «Chi ha chiuso tra
due porte il mare quando usciva impetuoso dal seno materno…» (Gb 38,3).
Si tratta di una teofania che, dapprima, Giobbe percepisce come potenza del Signore. «Comprendo che puoi tutto e
che nessuna cosa è impossibile per te» (Gb 42,2), egli dirà; ma, andando avanti nel testo, Giobbe stesso griderà: «io
ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5)!
Giobbe parte dal dolore e dallo sconvolgimento, è portato ad arrendersi a Dio, alla potenza di Dio, all’iniziativa di Dio;
ma, alla fine, arriva alla conoscenza di Dio! Una conoscenza che è squisitamente e teneramente personale - egli non Lo
conosce più «per sentito dire» - e, addirittura, lo rende capace di vedere Dio: «Ora i miei occhi ti vedono»…
Il percorso di Giobbe potrebbe sembrarci oggi quasi una ripresentazione della “Teologia della vocazione”: il sacerdozio
è da Dio, dalla Sua iniziativa, dalla Sua libertà, dal Suo mistero; ma è, soprattutto dal Suo amore. Ed è questo l’amore
che il chiamato riconosce, è con esso che realmente vede Dio; è in esso che riconosce se stesso e la propria identità; è
grazie a questo amore che egli risponde il proprio libero, totale e definitivo «Sì»!
Anche Giobbe, come Paolo, è – potremmo dire - «posseduto» dall’amore di Cristo. È circondato, pressato, spinto ma
anche custodito da questo amore che possiede l’universo.
E voi, fratelli e sorelle? E, voi, carissimi Giuseppe e George? E noi, presbiteri tutti? È davvero così avvolgente per noi
questo amore, da farci considerare quella con Cristo come la «relazione fondamentale» del nostro presbiterato?
Quando riconosce l’amore, Giobbe ritrova la pace, non ha più paura; Giobbe scopre che la potenza d’amore di Dio si
manifesta e possiede non solo l’universo ma anche tutto quanto è nel cuore dell’uomo: tutto il dolore che lo aveva
sopraffatto, tutti i vuoti che egli aveva sperimentato… anche tutto il male!
4. «Gesù se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva» (Mc 4,38).
Seppure con una diversa visuale, è il medesimo insegnamento che ci propone il Vangelo di oggi. I discepoli sono su
una barca, stanno attraversando il lago e, improvvisamente, si scatena una grande tempesta. In Giobbe, Dio si
manifesta come Colui che pone un limite al mare; il Salmo 106 canta la grandezza di Dio che compie «meraviglie nel
mare profondo» e che fa «tacere le onde del mare»: ma qui, Gesù dorme!
Tra l’altro – come abbiamo ascoltato – è Gesù stesso che aveva provocato l’uscita in barca, dicendo ai discepoli:
«passiamo all’altra riva» (Mc 4,35). E il passaggio all’altra riva indica una direzione che è molto più di una rotta
geografica: è una sorta di conversione, di passaggio da una condizione di vita ad un’altra. Ciascuno di noi può leggere
oggi in queste parole di Gesù l’invito ad un passaggio che Egli ci richiede. In particolare, lo potete fare voi, George e
Giuseppe, che approdate alla riva del sacerdozio; ma lo dobbiamo fare anche tutti noi presbiteri, per entrare nell’Anno
sacerdotale con l’eco di questa richiesta del Cristo nel cuore e nell’anima.
Quale riva Dio mi chiede di lasciare? E quale mi chiede di raggiungere?
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Benedetto XVI, Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale in occasione del 150° Anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria
Vianney, 16 giugno 2009
4
Ibidem
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Proprio quando i discepoli hanno accolto l’invito di Gesù, si scatena la tempesta sul mare: quel mare che, nella
simbologia biblica, evoca il “mondo” nel senso più vasto del termine, comprendendo anche il male, il peccato… E,
proprio ora, Gesù dorme!
Cari Giuseppe e George, nel cammino del vostro sacerdozio sperimenterete certamente questo “dormire” di Gesù. È
comprensibile, dunque, che oggi vi chiediate come vincere la paura della solitudine presbiterale, di tante tentazioni, di
tante tempeste; in definitiva, come essere certi della presenza di Gesù anche quando Lui dorme.
5. «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
È la risposta che il Cristo da ai discepoli. La relazione fondamentale con Cristo fonda il nostro amore per Lui ed anche
la nostra fede in Lui. Il passaggio all’altra riva, dunque, è un passaggio di fede, che richiede la fede, che accresce la
fede. Notiamo, però, come Gesù chieda ai discepoli tale passaggio mentre essi sono insieme sulla barca; e sappiamo
che, se il mare rappresenta il mondo, la barca raffigura la Chiesa.
Anche se non vedi Gesù, anche se non lo senti, anche se ti sembra che dorma… pure Egli è sulla barca. La Chiesa è la
garanzia della Sua presenza: e la Chiesa è quella barca sulla quale Egli stesso ci chiede di salire per condurci all’altra
riva. Gesù, dunque, chiede la fede in Lui e nella Chiesa: e la chiede in modo speciale ai Suoi presbiteri.
Vedete, se quella con Cristo è la «relazione fondamentale» per il sacerdote, questa relazione – dice in modo
efficacissimo la Pastores dabo Vobis – è «intimamente intrecciata» alla relazione con la Chiesa. «Non si tratta di
“relazioni” semplicemente accostate tra loro, ma interiormente unite in una specie di mutua immanenza» 5.
Due relazioni così intimamente intrecciate, da raffigurarsi come un’unica relazione: direi come un unico amore! Un
amore che, in modo inseparabile e sponsale, unisce Cristo alla sua Chiesa e del quale il presbitero partecipa. È questo
amore che risplende nella castità del celibato del sacerdote, che esige la sua povertà, che nutre l’obbedienza. È questo
l’amore che vi possiede, carissimi George e Giuseppe, con il quale oggi Gesù si impegna a salire con voi sulla barca, vi
conduce ad un’altra riva, vi spinge nel mare del mondo…
Non dimenticatelo: anche se dorme, Cristo sarà sempre in questa barca. A voi il compito di aver fede, a voi il compito
di contribuire con Lui, Pastore dei pastori, a guidare questa barca tra le tempeste del mondo, fedeli all’amore a Cristo e
alla Chiesa, all’amore di Cristo e della Chiesa.
«Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote»: è il tema bellissimo che il Santo Padre ha voluto dare all’Anno Sacerdotale.
È l’amore che permette la fedeltà. È l’amore che vince la paura dei discepoli nella tempesta, quando i loro occhi –
come quelli di Giobbe e come i nostri – vedono veramente Gesù. Solo se fedeli a questo amore noi sacerdoti saremo
veramente fedeli all’uomo; sapremo venire incontro alle tante paure dell’uomo contemporaneo, sempre più fragile
perché sempre più lontano da Dio.
Carissimi fratelli e sorelle, carissimi George e Giuseppe,
per vincere la paura non basta un rapporto intimistico con il Signore: occorre essere insieme – e insieme con Lui –
sulla barca: occorre vivere la comunione e la verità nella Chiesa. Questo deve dire il nostro sacerdozio! Ancora un
grande dono di Dio, per la nostra Diocesi, è che l’Anno sacerdotale si intersecherà con l’Anno della Chiesa, che
apriremo solennemente il 13 agosto prossimo, nella festa della Madonna Achiropita.
Ogni giorno, Gesù chiede alla Sua Chiesa di andare all’altra riva: per farlo, occorre attraversare il mare, entrare nel
mondo. Gesù non ci fa fare una strada alternativa; il Suo amore che ci possiede, ci fa sentire l’urgenza di
evangelizzare il mondo. Ecco il Mistero della Chiesa, ecco il senso del sacerdozio.
Ma, mentre ci spinge, l’amore del Cristo ci custodisce. Custodiamolo anche noi questo amore. Custoditelo anche voi,
George e Giuseppe, nella vostra vita e nella vostra preghiera. «L'uomo è un povero che ha bisogno di domandare tutto
a Dio», diceva il Curato d’Ars. Vi auguro, per la vostra vita e per il vostro ministero, di essere ricchi solo di questa
povertà e, da poveri, di essere sempre in grado di cogliere e accogliere la grandezza infinita del dono irrevocabile che
oggi il Signore vi fa e al quale voi rispondete: il Sacerdozio, dono d’Amore!
E così sia!
 Santo Marcianò
5
Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Pastores dabo Vobis, n. 16