Realismo metafisico e Intellettualismo gnoseologico di Tommaso d’Aquino Voler riassumere la totalità del pensiero di Tommaso d’Aquino non è affatto impresa facile, ne breve da realizzarsi. Dal momento che, dicendolo con Gilson, è nella metafisica che Tommaso rivela il suo genio, può essere sufficiente richiamare alcuni cenni dell’ontologia tomista per metterne in luce l’originalità. La riflessione su ciò che esiste ha poi i suoi risvolti necessari nel modo di concepire la conoscenza umana; parlando di ciò che esiste o non esiste si fa sempre riferimento anche a ciò che l’uomo può o non può conoscere. Per questo Tommaso dedica ampio spazio alla gnoseologia, in modo da valutare innanzitutto le capacità dell’intelletto umano, prima di procedere alla speculazione sulle realtà esistenti. L’opera che riassume l’impostazione metafisica tomista è l’opuscolo giovanile De ente et essentia1, composto durante gli anni del baccalaureato a Parigi (1254 – 1256). Già il titolo è indicativo dell’orientamento netto che assume la sua trattazione: si tratta di una filosofia che ha al suo centro il concetto di essere, inteso nella sua duplice dimensione concreta e astratta, indicate rispettivamente dai termini ente e essentia. L’ente è il particolare esistente mentre l’essenza rende gli enti ciò che sono. L’esperienza umana però ha a che fare con gli enti e non direttamente con le essenze. Gli enti reali dunque sono le sostanze concrete di cui parlava Aristotele, e proprio come la sostanza aristotelica il concetto di ente è primordiale rispetto a qualsiasi altro, nel senso che ogni sostanza prima di essere quella particolare sostanza, è innanzitutto ente, ossia è qualcosa che è. Ogni altro predicato riferito alla sostanza la determina, in due modi possibili: o come categoria, nella quale vengono espresse le modalità dell’ente o con il predicato che è comune ad ogni ente: tale è l’essenza. Ciò significa che ogni ente può essere inquadrato sotto molteplici punti di vista (spazio, tempo, relazione ecc.), ma il principio che lo distingue da tutti gli altri è l’essenza, detta anche forma. Infatti nella terminologia aristotelica la forma è ciò che rende possibile la definizione perché rappresenta ciò per cui una cosa è sé stessa e non un’altra. Il concetto di forma è 1 Si seguirà l’interpretazione di VANNI ROVIGHI, Introduzione a Tommaso d’Aquino, pp. 40 – 54. opposto a quello di materia, che invece è l’elemento indifferenziato, potenziale, che necessita di essere portato in atto dalla forma. Quindi l’essenza è indispensabile affinché vi sia l’ente poiché senza l’essenza (cioè la forma) vi è solo la materia indifferenziata. Tommaso distingue poi le sostanze semplici da quelle composte. Le sostanze composte sono quelle corporee, in cui si ritrovano materia e forma, mentre in quelle semplici vi è soltanto la forma. Ora nelle sostanze composte l’essenza non coincide con la forma soltanto, ma è un sinolo di forma e materia. Questo perché la forma da sola non è concepibile, ma solo in quanto forma di qualcosa. Come l’accidente non ha alcun valore senza la sostanza cui inerisce, allo stesso modo la forma non è un’essenza autonoma, ma è sempre accompagnata dalla materia che essa informa. Il risvolto antropologico di tale assunto è l’affermazione dell’unità integrale dell’essere umano, rispetto ai tentativi della filosofia antica di concepirlo solo come anima o soltanto come corpo. L’anima infatti è forma, ma non è definibile se non come forma di un corpo. Il legame fra dimensione fisica e dimensione spirituale è avvertito in modo così forte da permettere all’Aquinate di giustificare razionalmente il dogma della Risurrezione, come evento necessario di ricomposizione del corpo con il suo principio di informazione2. Con Tommaso l’uomo non è più la sua anima, che possiede accidentalmente un corpo, come per Socrate e Platone, ma è la sua anima ed è il suo corpo. La sua essenza è costituita dall’unione inscindibile di corpo e anima. Ma se tale è l’essenza dell’uomo, ciò significa che si tratta sempre di un’essenza particolare, che riguarda cioè l’uomo in quanto singolo individuo. Come è possibile allora cogliere l’essenza dell’uomo non in senso ristretto, ma dell’uomo in generale, dell’umanità, usando una terminologia platonica? A questo punto Tommaso compie una precisazione: la materia che compone l’essenza del singolo individuo non è una qualsiasi materia, ma è quel particolare corpo, è una materia signata. Nel momento in cui, invece, bisogna cogliere l’essenza dell’uomo in sé, non si parla più di quel preciso corpo, ma di essere umano in generale, in quanto dotato di corpo e di anima, di un aspetto materiale e di uno spirituale. In questo modo è possibile parlare non solo dei singoli individui concreti, ma risalire alle specie e ai generi, che nel linguaggio della Scolastica sono detti Universali. Come nell’esempio dell’uomo parlare dell’uomo in generale significa considerare corpo e anima non più in modo particolar ma 2 TOMMASO D’AQUINO, Commento al Libro delle cause, Milano 1986, pp. 219 – 228. 2 genericamente, così ogni specie non è altro che la conoscenza di certe proprietà, comuni a più individui, in maniera generica anziché nel loro specifico modo di realizzarsi concretamente, e lo stesso dicasi della conoscenza dei generi rispetto alle specie. Dopo aver spiegato l’essenza come composizione di materia e forma nelle sostanze composte, Tommaso passa a spiegare in cosa consiste l’essenza delle realtà semplici, o separate. Innanzitutto quando parla di sostanze semplici, egli si riferisce alle intelligenze angeliche, ossia gli angeli della teologia cristiana e delle fedi ebraica e musulmana. In quanto intelligenze pure gli angeli non possono essere composti di materia, per cui la loro natura sarà di forme pure, e pertanto sono dette semplici. In realtà però la loro semplicità è tale se paragonata alle sostanze composte di cui si è parlato prima, ma non è affatto assoluta, poiché vi è sempre in loro una qualche composizione, che salvaguarda la assoluta unità e semplicità che spetta soltanto a Dio. Se nelle sostanze separate non vi è composizione di materia e forma, esse tuttavia hanno in comune con ogni essere creato la composizione di essenza ed esistenza. Tutto ciò che è creato da Dio infatti, riceve da Lui l’esistenza, ragion per cui l’esistere non è qualcosa di proprio delle creature, ma di partecipato. Nessun ente che non sia Dio esiste per virtù propria, ma altrui, e per questo motivo la sua esistenza non fa parte della sua essenza. Nessuna sostanza, neppure fra le sostanze semplici, è l’essere, ma lo possiede per partecipazione dal solo Ente la cui essenza coincide con l’esistenza, perché esiste per virtù propria. Dunque l’esistenza di ogni ente è sempre un passaggio dalla potenza all’atto, rispetto all’esistenza di Dio che invece è sempre in atto. Questo principio costituisce la struttura portante su cui è costruito il discorso delle cosiddette “Cinque vie” della Summa teologiae, sicuramente uno dei passaggi più celebri della filosofia tomista3. Come già si è detto esse non intendono costituire delle prove schiaccianti circa l’esistenza di Dio, ma sicuramente dei capolavori di forza argomentativa, in cui tutto l’edificio metafisico costruito da Tommaso nel De ente et essentia si fonde con il suo bagaglio culturale rappresentato dalla logica e la terminologia aristotelica. Ciò che accomuna le cinque vie è il metodo utilizzato: si parte dall’osservazione della realtà, per riscontrarvi un ordine che necessita la derivazione da altro da sé, e procedendo nella ricerca della spiegazione si giunge a considerarne la causa in un Essere che possiede per propria virtù le proprietà che gli esseri finiti hanno 3 Per le 5 vie cfr. GILSON, La filosofia nel Medioevo, p. 605 – 607. 3 solo in modo parziale. Nella prima via ciò che viene osservato della realtà è la presenza del movimento, inteso non solo come spostamento fisico, ma in modo più ampio come mutamento, ossia come passaggio dalla potenza all’atto. Applicando il principio aristotelico secondo cui tutto ciò che si muove è mosso da altro, si può giungere a cogliere l’esistenza di un Primo Motore, che essendo perennemente in atto sia causa del movimento senza a sua volta essere mosso da altro. Allo stesso modo nelle altre vie si giunge a Dio sempre a partire dall’esperienza concreta. Nella seconda via Dio viene colto come Ente incausato a partire dal concetto di causalità efficiente; nella terza viene colto come Ente necessario a partire dalla Contingenza; nella quarta si parte dai diversi gradi di perfezione della realtà per giungere all’Ente perfettissimo; infine nella quinta via si coglie la direzione al fine di ogni creatura per risalire all’Intelletto ordinante4. Le cinque vie dunque riassumono il percorso tracciato dalla metafisica tomista, in cui l’essere costituisce sia il punto di partenza che quello di arrivo. Il pensiero di Tommaso d’Aquino si rivolge continuamente all’ente concreto per arrivare a coglierne l’essenza astratta; indaga l’essere particolare, per giungere all’Essere assoluto: la sua è una filosofia dell’ essere, un Realismo metafisico. Ora sostenere il Realismo metafisico, che cioè la realtà esiste, implica necessariamente il riconoscimento della capacità dell’uomo di cogliere la realtà stessa, vuol dire cioè confidare nelle sue facoltà conoscitive. L’uomo può avere conoscenza di oggetti estranei al suo pensiero, non riducibili al soggetto stesso e da lui indipendenti. La filosofia antica, se si eccettua la corrente sofistica, non ha mai avuto riserve riguardo a questo principio. Supponendo che l’essere preceda il pensiero, il pensiero è sempre stato pensiero solo di ciò che è. La logica aristotelica si fondava su una coincidenza immediata di realtà e pensiero, tanto che le categorie erano sia modalità di pensiero che modi di essere dell’oggetto stesso. Tommaso condivide questa impostazione realista, ma la sua teoria della conoscenza si presenta non più come un realismo ingenuo bensì assume una forte connotazione critica, tanto che in alcuni casi è possibile parlare addirittura di un antirealismo gnoseologico5. Ritornando alle cinque vie, lo schema logico – argomentativo con cui esse sono costruite segue la tipica struttura del sillogismo aristotelico, composto di premessa maggiore, premessa minore in due parti e 4 5 P. ORLANDO, L’infinito. Saggio di Intellettualismo critico, Napoli 1993, p. 608. VANNI ROVIGHI, Introduzione a Tommaso d’Aquino, p. 43. 4 conclusione. Nella premessa maggiore vi è sempre la costatazione di fatto, cioè si parte dall’osservazione di un evento di per sé evidente; la prima parte della premessa minore esprime la necessità della spiegazione, e in questo modo ci si allontana dall’oggetto considerato per cercarne la causa in altro, mentre nella seconda parte si afferma la non procedibilità all’infinito. Così la conclusione giunge all’esigenza di un infinito, inteso non in senso negativo come somma di parti, ma come assoluto, come totalmente astratto e trascendente gli oggetti concreti. Uno dei termini – chiave, che permette di ricostruire il pensiero di Tommaso sul modo di conoscere dell’uomo è il concetto di evidenza, che Tommaso spiega nella Summa theologiae: «Una cosa può essere evidente in due modi: primo, in sé stessa, ma non per noi; secondo in sé stessa e anche per noi. Infatti una proposizione è di per sé evidente se il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come per esempio: l’uomo è un animale, poiché animale fa parte della nozione stesa di uomo. Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti evidente (…) Se però a qualcuno rimane sconosciuta la natura del predicato e del soggetto, la proposizione sarà evidente in sé stessa, ma non per quanti ignorano il predicato e il soggetto della proposizione». Questo discorso è affrontato da Tommaso subito prima delle cinque vie; infatti il suo intento è proprio quello di mostrare l’unico modo corretto di poter giungere a Dio con il pensiero: «Dico dunque che questa proposizione: Dio esiste, in sé stessa è immediatamente evidente, poiché il predicato si identifica con il soggetto, dato che Dio è il suo stesso essere; ma siccome noi ignoriamo l’essenza di Dio, per noi non è evidente, e necessita di essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più note, anche se per loro natura meno evidenti, cioè mediante gli effetti»6. La prima critica di Tommaso al realismo ingenuo riguarda proprio la conoscenza di Dio: essa non si realizza, almeno in questa vita, in un’intuizione diretta, né può essere una conoscenza piena e totale, ma è sempre una conoscenza parziale, che ha bisogno di partire dall’esperienza concreta per arrivare ad affermare qualcosa della divinità. Questo concetto è esteso poi a tutto l’ambito dello scibile umano: la conoscenza umana è sempre mediata dall’esperienza sensibile, poiché la facoltà conoscitiva dell’uomo che risiede nella sua parte spirituale che è l’anima, come l’anima ha bisogno di un supporto materiale per svolgere la sua operazione propria. Come l’anima è forma di un corpo ed 6 TOMMASO D’AQUINO, Somma teologica I, q.2, art. 1, resp. , Bologna 1996, p.45. 5 è inseparabile da esso, così la conoscenza umana non può pretendere di avere conoscenza della realtà, sia pure la realtà suprema di Dio, se non passando per la conoscenza sensibile. Tornando alla distinzione fra ente ed essenza, l’uomo non può cogliere le essenze delle cose se non entrando in contatto con gli enti stessi. Da questi poi egli per astrazione ricava le forme intelligibili, ossia le essenze. Ora potrebbe sembrare strano che conoscere Dio significhi per l’uomo doversi imbattere con gli oggetti concreti della quotidianità, soprattutto se si tiene presente che uno dei principi fondamentali della fede non solo cristiana e cattolica, ma comune a tutte le fedi monoteiste è proprio la trascendenza di Dio rispetto al mondo creato, la sua alterità rispetto al mondo sensibile. Tommaso ha ben presente questo principio e lo conserva intatto in tutta la sua riflessione; infatti rigetta la cosiddetta teologia catafatica, che consiste nel discorso su Dio per via positiva, per avvicinarsi all’altro metodo, ripreso dalla filosofia neoplatonica, che è la teologia apofatica, o negativa, presente in Dionigi, in Maimonide, nel Liber de Causis. Essa consiste nella negazione di tutti gli attributi che non riguardano Dio, per cui lo si definirà con termini negativi come immobile, immortale, incorporeo, increato ecc. Tommaso però si rende conto che portando alle estreme conseguenze il metodo apofatico non si può che giungere al silenzio assoluto riguardo a Dio, poiché si innesca una catena di negazioni incrociate che permettono di negare ogni affermazione come la sua opposta. Egli adotta quindi una terza via, che consiste nel metodo dell’analogia. Dio in quanto creatore non è affatto “totalmente altro” ha invece con le creature uno stretto rapporto partecipativo, per cui le cose create partecipano da Dio non solo l’essere, ma tutte le altre proprietà, in modo più o meno aderente a Lui. Conoscere Dio quindi significa attribuirgli dei termini in modo analogo, cioè in maniera in parte simile e in parte dissimile dal modo in cui quegli stessi termini vengono riferiti alle creature. Se le creature hanno l’essere, Dio è l’essere, e il medesimo termine Essere può venire attribuito sia a Dio che alle creature, ma in maniera solo in parte simile. In questo modo si salva la trascendenza divina, ma nello stesso tempo l’uomo ha una possibilità minima di accostarsi al mistero di Dio. Scrive Gilson: «Così ci viene chiusa la via diretta che l’argomento ontologico che sant’Anselmo ci apriva; ma ci resta aperta quella che indica Aristotele. Cerchiamo quindi nelle cose sensibili, la cui natura è conforme alla nostra, un punto d’appoggio 6 per elevarci a Dio»7. Riprendendo la teoria aristotelica della conoscenza per astrazione, Tommaso riesce a dare voce ad un pensiero, che nella terminologia contemporanea può essere definito “forte”. La sua filosofia appare come una rivalutazione del senso comune, che permette di avvicinare il filosofo all’uomo “volgare”, e l’uomo in quanto tale alla natura. Senza essere ingenuo, ma senza neanche la paura di apparire tale, Tommaso accetta la validità dell’esperienza, ed esalta il ruolo attivo dell’intelletto che dalla sensibilità è in grado di ricavare le forme, ed in questo modo può avere una conoscenza, mediata e parziale ma allo stesso tempo vera e adeguata, della realtà: la sua gnoseologia è un Intellettualismo critico8. 7 8 GILSON, La filosofia nel Medioevo, p. 605 – 606. P. ORLANDO, L’infinito. Saggio di Intellettualismo critico, pp. 425 – 463. 7