Da: Karl Lövith: Hegel e il Cristianesimo
Bari, Laterza 1976
“A proposito dell’introduzione di Hegel alla “Fenomenologia dello Spirito”
K. Lövith puntualizza il carattere ontologico della filosofia di Hegel, sostenendo (pp.74-75)
che tutto l’essente è interpretato attraverso la logica, e poiché lo stesso essente ha come punto finale
l’Assoluto, il carattere della filosofia si sposta in onto-teo-logica.
Tanto che per Hegel, continua Lövith, non vi è filosofia se non come conoscenza dell’infinito. La
conoscenza del mondo degli uomini, cioè del finito non sarebbe filosofia.
Si può aggiungere che nell’idealismo di Hegel sia confluito il concetto di filosofia nel senso
medievale del termine: quello di “conoscenza di Dio”.
Ora non si tratta di un punto finale, prosegue Lövith, come senso “assoluto” dell’Assoluto.
Ora è vero che l’Assoluto è la verità stessa dell’uomo come finito, tanto che l’Assoluto giunge in-sé
e a-sé nell’uomo, e l’uomo per poterlo raggiungere deve essere spirito.
La filosofia hegeliana è pertanto filosofia dello spirito: nel senso dell’Assoluto e dell’uomo.
Questa categoria, essa la deriva dal vangelo di Giovanni (Logos) e dal Nous di Aristoltele (Metaf.
11,7) (Lövith pag.76).
Brevemente, che cos’è lo spirito?
“Spirito in Hegel non significa sostanza immutabile, ma sostanza come soggetto, e soggetto non è
soltanto l’uomo, ma l’universale movimento e attività dell’intero, (il mondo esterno alla mente del
soggetto, gli eventi storici, ecc.) il quale è anche la “verità”. In questa attività universale lo spirito si
esprime o si manifesta in tutto ciò che è. Esso è spirito in quanto esce da sé e si aliena in qualche
altra cosa e dunque si estranea da sé stesso, per ritornare a sé stesso dall’altro ed estraneo. Il
risultato di questo movimento vivente dello spirito in ogni stadio del suo divenire consiste nel fatto
che esso “nel suo esser-altro” è “presso-sé-stesso” cioè libero; perché è positivamente libero solo
chi nell’altro riconosce l’altro di sé stesso, appropriandosi di ciò che è estraneo. In questo
movimento dialettico di estraniazione e di interiorizzazione memorizzata (Erinnerung) lo spirito
diviene “per sé” ciò che è già “in sé” (pp. 76-77).
Dunque, una filosofia come filosofia dello spirito assoluto, laddove quest’ultimo è da
intendersi come, struttura del movimento logico dei vari contenuti reali : linguaggio, diritto, eticità,
stato, arte, religione, filosofia.
Inoltre, una filosofia, in cui il concetto di spirito è separato da quello dell’ontologia della
coscienza, come nella filosofia di Cartesio, Kant, e Fichte.
Per mezzo di tale distinzione, Hegel indica chiaramente l’elemento caratterizzante della
“Fenomenologia dello Spirito”, la quale – certamente – parte dall’esperienza della coscienza –
all’inizio come certezza sensibile, ma poi approda né alla coscienza, né all’autocoscienza, perché
poi raggiunge la verità della ragione oggettiva nelle figure storiche dello spirito. Si tratta di figure
reali, che non sono soltanto della coscienza, ma di “un mondo” e di un “regno dello spirito”, che è
la storia compresa attraverso il concetto.
“Questo è il regno in cui l’essenza dell’uomo è davvero a casa sua o presso di sé, in quanto è
nell’Assoluto”(p. 79).
La filosofia, dunque, non è più mera philo-sophia, ma è scienza della sophia, nel significato
di sapere reale.
“Ciò richiede un ‘sistema della scienza’ in sé compiuto, la cui prima parte è la “Fenomenologia
dello Spirito”, cioè dello spirito che dapprima appare come coscienza.
Come seconda parte conclusiva Hegel aveva progettato la Logica, che poi apparve separatamente
cinque anni dopo” (pag. 79).
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Da: Jean Hyppolite : “Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel”
La Nuova Italia
La “Fenomenologia dello Spirito” si compone di due parti e sei sezioni.
La prima parte si suddivide in tre sezioni:
1. la Coscienza
2. l’Autocoscienza
3. la Ragione
La seconda parte si suddivide in altre tre sezioni:
1. lo Spirito
2. la Religione
3. il Sapere assoluto
La prima forma di conoscenza: “La certezza sensibile”
“Questa conoscenza (quella della certezza sensibile) appare inoltre la più verace:infatti niente
ancora dell’oggetto essa ha tralasciato, anzi lo ha in tutta la sua pienezza dinanzi a sé…Di ciò che
essa sa non annuncia che questo: esso è ; e la sua verità non contiene che l’essere della cosa.
Da parte sua in questa certezza la coscienza è soltanto come un puro Io; e Io vi sono soltanto come
puro questi e l’oggetto similmente come puro questo”.(1)
Dunque il rapporto di conoscenza produce un Io singolo, immediato e sensibile, come
questi, e un oggetto altrettanto singolo, immediato e sensibile, un questo.
Un singolo Io sa un singolo oggetto esistenziale, e crede di essere in possesso di una verità
salda e permanente.
Il “questo” può esprimersi spazialmente o temporalmente;
può essere un ora o un qui.
Dato che la certezza sensibile risponde che il questo è un “ora”, mezzogiorno, “noi appuntiamo per
iscritto questa verità; una verità non perde niente per essere scritta, e altrettanto poco per essere
conservata.”(pag.83)
Se dopo qualche tempo – continua Hegel – torniamo a cercare cosa sia quell’ora segnata nel
taccuino, troviamo che essa non è più mezzogiorno, ma mezzanotte. A questo punto il primo ora
viene conservato soltanto mediatamente, in quanto distinto dal secondo ora. L’ora dunque non è un
immediato, ma un mediato che si conserva tramite una negazione; questo ora che è giorno si
conserva in opposizione all’ora che è notte, e viceversa.
D’altronde, giorno o notte, l’ora è sempre un’ora, un semplice; ma non il semplice che sta
all’inizio, bensì quello che costituisce il risultato della certezza sensibile.
“Un alcunché di così semplice che è per via di negazione, e che è né questo né quello, noi lo
chiamiamo con universale: l’universale è dunque nel fatto il vero della certezza sensibile.”(pag 84)
Con un procedimento analogo, il questo nella forma spaziale, il singolo qui si converte
anch’esso in un universale.
Il qui è un albero; “io mi volto” e il qui è una casa. Il qui come albero si conserva attraverso la
negazione del qui come casa, e viceversa.
Dunque il qui è né albero né casa, e può essere e albero e casa: è un qui universale.
Il passaggio dal singolo all’universale fa perno questa volta sull’atto del voltarsi.
Ma chi si renderebbe garante della continuità del tempo e dello spazio?
E’ il soggetto a rendersi garante della continuità e dell’universalità: il dileguare del singolo ora e del
singolo qui verrebbe evitato “perché ci sono io che li trattengo”.
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“Ciò che ivi non dilegua è l’Io come universale, il cui vedere non è né un vedere dell’albero,
né di questa casa, ma un vedere semplice che, mediato dalla negazione di questa casa ecc. è
altrettanto semplice e indifferente verso ciò che vi è ancora in gioco: verso la casa, l’albero ecc.
L’Io non è che universale, come lo sono l’ora, il qui o il questo in genere”(pag. 86)
La certezza sensibile ci dà, dunque, una conoscenza dell’oggetto al suo primo apparire. La
percezione di consente di cogliere i particolari di un oggetto. L’intelletto coglie l’oggetto come
unità dei particolari. La coscienza è consapevole dell’oggetto. L’Autocoscienza a sua volta è la
coscienza della conoscenza dell’oggetto. Le Autocoscienze sono due, quella che si riconosce
tramite l’oggetto e quella che riconosce l’autocoscienza che si riconosce nell’oggetto. Per non
rimanere estranee a sé, nell’oggetto e nella condizione di scissione, l’autocoscienza deve perseguire
l’obiettivo della libertà.
“Le Figure” :
Indipendenza e Dipendenza dell’Autocoscienza; Signoria e Servitù.
La prima forma di attività-negatività dell’Autocoscienza è la brama, cioè il desiderio
ardente. Tuttavia la brama non è un puro desiderio animale: soggetto e oggetto della brama è
l’Autocoscienza. Ciò che l’Autocoscienza desidera ardentemente è se stessa. La sua brama è brama
di riconoscimento. Anche per questo “riconoscere” ontologico sono necessari due termini, un
riconoscente e un riconosciuto. Le autocoscienze devono essere due, o meglio l’autocoscienza deve
sdoppiarsi. Ecco così le due autocoscienze un di fronte all’altra: ognuna delle due vuole essere
riconosciuta e non vuole riconoscere l’altra. Il loro rapporto è attivo, quindi è una lotta. Lotta a
morte, perché ciò che si tratta di togliere è la vita come immediatezza.
Ciascuna delle due autocoscienze mira al riconoscimento negando la vita immediata: in sé
mettendo a repentaglio la propria, nell’altra mirando a sopprimerla.
Ma la morte non risolverebbe dialetticamente il rapporto di lotta, perché toglierebbe senza
conservare : se l’uno dei due contendenti morisse, l’altro sopravviverebbe immediatamente, non
come autocoscienza riconosciuta.
Quindi è necessario che sopravvivano entrambi, l’uno come riconosciuto e l’altro come
riconoscente.
Riconoscente significa alienante all’altro il proprio essere autocoscienza, che cerca il
riconoscimento: significa vivente e operante, in funzione dell’altro. Quindi servo di un signore.
Il carattere dell’attività si perde nel signore, in quanto non opera; egli toglie la cosa immediatamente
senza conservarla, né trasformarla;egli la consuma; d’altra parte egli ha negato la vita immediata
soltanto nel momento di metterla a repentaglio, ma non ha sperimentato l’integrale negatività della
propria vita.
Il servo ha sperimentato tale negatività integrale con la paura, rinunciando alla lotta e
continua a sperimentarla in quanto vive in funzione del signore, ed opera per lui.
Comunque il servo nega l’essere indipendente e fisso della cosa in quanto, col lavoro, la
trasforma, ossia infonde nella materialità la forma del proprio operare e costituisce la propria
attività formante, realizzando sé stesso autocoscienza come senso proprio , in quanto la propria
attività dalla cosa lavorata gli torna alla coscienza.
Nella cosa esterna, l’autocoscienza ritrova sé stessa, e così domina ogni esteriorità.
La Libertà dello Stoicismo
Lo stoicismo si limita ad affermare la coerenza del pensiero in tutti i diversi contenuti
dell’esperienza. L’autocoscienza libera si innalza sulla confusione della vita e conserva
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l’impassibilità-senza-vita tanto ammirata nel saggio stoico.(in questo stato il pensiero puro non ha
in sé un contenuto suo proprio).
Alla domanda che cosa sia vero e buono, si offriva ancora in risposta il pensiero stesso, privo di
contenuto: il vero e il buono avrebbero dovuto consistere nella razionalità.
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(1) GWF. Hegel: Fenomenologia…
Firenze, La Nuova Italia, trad. di De Negri, pp. 81-82.
Qui dunque il pensiero resta formale – formale nel senso che dopo aver svincolato l’essenza del
pensiero puro da tutte le “differenze vitali”, è in grado di superare tutte queste differenze e
ritrovarvi tale essenzialità del pensiero; e quando riflettendosi in sé il pensiero si determina come
pura forma , le differenze della vita, dunque, le differenze di situazione della vita restano intatte.
Lo Scetticismo
Anche lo scetticismo penetra in tutte le determinazioni dell’esperienza e della vita, ne mostra il
nulla, le dissolve nell’autocoscienza. Il fatto è che nello scetticismo la forma non è più la semplice
positività assoluta del pensiero, ma la negatività onnipotente.
“lo scetticismo…è l’esperienza effettuale di ciò che sia la libertà del pensiero; essa è in sé il
negativo e deve così presentarsi”.(1)
Omnis determinatio est negatio, ecco la scoperta dello scetticismo.
La funzione dello scetticismo – che poi è l’esperienza della dialettica nella coscienza – è dissolvere
tale stabilità, mostrare il nulla delle determinazioni a cui l’uomo si aggrappa inutilmente.
Hegel indicherà nella commedia antica una forma di arte corrispondente a questo
scetticismo. In tale commedia le determinazioni ammesse dal pensiero cadono in preda a una
dialettica che ne rivela la vanità. Il finito è finito, mentre la coscienza che così si afferma superiore a
ogni destino, gode se stessa.
La coscienza della commedia antica è l’innalzamento dell’io sopra le vicissitudini
dell’esistenza.
La coscienza come conoscenza di se stessa “è dunque completa assenza di paura per cose
estranee che per essa non hanno alcuna consistenza essenziale,e un benessere e un sentirsi bene
della coscienza, come più non se ne trova al di fuori di questa commedia”.(2)
Nell’accostamento dello scetticismo alla commedia antica – in cui viene rilevato il carattere
di vanità del finito – Hegel collega gli scettici greci all’”Ecclesiaste”: “Vanitas vanitatum, et omnia
vanitas”.(3)
Lo scetticismo qui considerato da Hegel è accostabile a quello di cui parla Pascal, che porta
la coscienza umana al sentimento duplice del proprio nulla e della propria grandezza; ecco il passo
che in Hegel definisce tale scetticismo: “il pensiero diventa pensare perfetto che annienta l’essere
del mondo molteplicemente determinato; la negatività dell’autocoscienza libera, in questo vario e
diverso configurarsi della vita, diventa la negatività reale”.(4)
Qui l’autocoscienza giunge alla certezza assoluta di sé.
Non è più solo un astratto porre se stessa come nello stoicismo, ma un porsi attraverso la negazione
effettiva di ogni alterità; è l’autocertezza ottenuta con l’annientamento di tutte le determinazioni
dell’esistenza.
Perciò innalzandosi sopra tutte le vicissitudini dell’esserci questa coscienza felice –
impigliata com’è in ciò che essa nega scoprirà la propria infelicità.
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La coscienza scettica diverrà la coscienza disgregata, in sé divisa : la coscienza infelice.
Lo sviluppo , quindi, va dallo stoicismo alla coscienza infelice, attraverso la coscienza scettica.
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(1)Fenomenologia , I, pag. 171 in J Hyppolite, cit. pag. 225
(2)Fenomenologia …in J.Hyppolite, cit. vol II, pag. 257
(3) Ecclesiste, XII, 8.
(4) Fenomenologia…in J. Hyppolite, vol I, cit. pp. 171-172
La verità della coscienza – conclude Hyppolite su “ la libertà dell’autocoscienza” –
dell’autocoscienza scettica è la coscienza infelice come coscienza esplicita della contraddizione
vigente in lei. Ormai non si tratta di un io che affronti un altro io entro la vita universale, né di un
signore che si opponga ad un servo dall’esterno; con lo stoicismo le due coscienze sono divenute la
duplicazione dell’autocoscienza in se stessa. Ogni autocoscienza è per sé stessa duplice: è dio e
l’uomo in una coscienza sola.
La Coscienza Infelice (1)
La coscienza infelice è un tema fondamentale della “Fenomenologia”.
La coscienza come tale, non essendo ancora giunta all’identità concreta della certezza e della verità,
e ricercando sempre la verità nel suo fondamento è sempre coscienza infelice.
La coscienza infelice nel senso stretto del termine è il risultato dello sviluppo
dell’autocoscienza: l’autocoscienza non prova il dolore del proprio sé non ancora pervenuto
all’unità con sé medesimo.
Tale dolore nasce dalla complessiva coscienza della vita, della vita che si contrappone al sé e alla
coscienza.
“la coscienza della vita, la coscienza dell’esistere e dell’operare della vita stessa, è soltanto il
dolore per questo esistere e per questo operare; quivi infatti come consapevolezza del suo contrario,
ed quindi conscia della propria nullità” (2)
Questo passo definisce concretamente l’infelicità dell’autocoscienza. La coscienza della vita
è una separazione della vita, un riflettersi che contrappone, in modo tale che prendere coscienza
della vita è sapere che la vera vita è assente e trovarsi come respinti sul lato del nulla.
Introduzione storica
Su tale infelicità dell’autocoscienza Hegel aveva meditato sin dai suoi primi scritti teologici.
In quei primi lavori sua preoccupazione costante e fondamentale era stata la descrizione
dell’infelicità della coscienza nelle sue forme più diverse allo scopo di cogliere l’essenza di questo
dolore.
Sempre attento alle realtà sovraindividuali – lo spirito di un popolo o di una religione – egli
aveva considerato il popolo greco come il popolo felice della storia, e quello ebraico l’infelice,
perché rappresentava la prima riflessione totale della coscienza fuori della vita. Laddove,invece, il
popolo greco permane entro la vita e sfocia in una armonica unità del Sé e della natura, trasponendo
la natura nel pensiero e questo in quella, il popolo ebraico sa solo opporsi alla natura e alla vita.
Negli studi sulla figura di Abramo, Abramo ha abbandonato la terra dei padri, ha spezzato i
legami della vita e ora non si è più che ein Fremdling auf Erden, uno straniero sulla terra.
Cosi sarà anche della sua discendenza, della quale Abramo è il simbolo.
Questo popolo recherà in sé la lacerazione essenziale; non saprà più amare.
Anteriore ad ogni riflessione, l’amore è l’identità primitiva.
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Nell’amore dell’uomo per la natura, per la famiglia, per il proprio popolo, vi è
un’immanenza dell’infinto nel finito: l’intero, l’unità è presente nelle parti. La separazione è ancora
solo possibile. Ma con la riflessione l’uomo si separa da tale vivente e gli si oppone.
____________
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(1)J.Hyppolite, cit. pag. 231
(2)Hegel : Fenomenologia…in J.Hyppolite, cit. pag. 231 vol I, pag. 178
Da quel momento l’opposizione può farsi tanto profonda che l’infinito diviene l’al di là e il finito
l’al di qua.
Nella storia del popolo ebraico si ha un progresso che ci conduce al cristianesimo.
Con Abramo e Mosè l’uomo si oppone ad un dio immutabile, inteso come sua essenza e
colloca sé dal lato della non essenza.
Con Davide ed i profeti, egli si innalza verso tale immutabile; col cristianesimo si stabilisce il
contatto tra quell’immutabile e la singolarità dell’esistenza: diviene possibile una nuova
conciliazione, tanto più profonda quanto più lo era la separazione(Holderlin).
Solo una scissione infinita può dar luogo ad una riconciliazione infinita
Anche nella società contemporanea, si è prodotta una rottura, l’individuo si è ridotto a sé stesso e
non ha più potuto provare la sua essenza.
Il cristianesimo gli ha offerto una religione corrispondente a tale condizione di spirito.
Il passaggio alla coscienza infelice(1)
Il passaggio dallo scetticismo alla coscienza infelice non presenta difficoltà per la sua
comprensione.
Dice Jean Wahl : “ lo scetticismo quale lo concepisce Hegel è più Pascal che Montaigne, o è
l’Ecclesiaste che fonda l’essenza infinita di dio sul nulla della creatura e non riesce a riconciliare le
due idee, l’infinito e il finito.”
Lo scettico infatti rapporta tutte le differenze della vita all’infinità dell’io , ne scopre dunque il
nulla, ma in pari tempo conosce sé stesso come una coscienza accidentale, impegnata nell’esistenza
senza possibilità di liberarsene.
Pertanto la coscienza scettica è in sé la coscienza di una contraddizione.
La coscienza infelice scopre la contraddizione, vede sé stessa come una coscienza duplicata,
e ora si innalza sull’accidentalità della vita a cogliere la certezza immutabile e autentica di sé, ora si
abbassa fino all’essere determinato e si vede come una coscienza impegnata nell’esserci: mutevole
o priva d’essenza, “essa è dunque per sé la coscienza di questa sua propria contraddizione” (2)
Coscienza della vita – la quale scopre che la vita così come le si dà, non è la vera vita, ma
una sola accidentalità – è coscienza della contraddizione – cioè dell’io scisso in sé medesimo – e
qui si identificano.
L’infelicità della coscienza è la contraddizione, anima della dialettica, e la contraddizione è
l’infelicità della coscienza.
Nella scissione dell’io, essere un’autocoscienza significa sapersi liberare di tutte le
situazioni determinate , che si presentano, raggiungere l’io come essenza in rapporto a cui il corso
della vita è solo apparenza.
Comunque la lacerazione e o la disgregazione (Zerrissenheit)(3) ora è tale che l’una coscienza
no può mai porsi senza l’altra “ e la coscienza infelice è la coscienza di sé come dell’essenza
duplicata è ancora del tutto impigliata nella contraddizione”.(4)
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Questa coscienza infelice è la soggettività che aspira alla quiete dell’unità, è la coscienza di sé e
della vita di quanto oltrepassa la vita, ma non sa che oscillare tra questi due momenti, come
l’inquietudine soggettiva che non trova in sé la propria verità.
L’autocoscienza - riflessione della vita – ci appare quindi con l’elevarsi alla libertà: ma tale
elevazione è l’inquietitudine soggettiva l’impossibilità di uscire da una duplicità (essenziale al
concetto dello spirito.)
(1)J.Hyppolite , cit. pag. 235
(2) Hegel : Fenomenologia…, vol I pag. 176 in J.Hyppolite , cit. pag. 236
(3) J.Hyppolite , cit. pag. 236
(4) Hegel : Fenomenologia…, vol I pag. 176 cit. in J.Hyppolite , cit. pag. 237
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