“ I Qashqai “di Mirza Mazogh

La poesia “ I Qashqai “di Mirza Mazogh : una via d’accesso e una proposta di lettura
Il poeta dà voce, confondendosi con lui, al mistico (sufi): insieme diventano nel componimento la
coscienza e la memoria del mondo e della cultura ghashghai. Hanno “visto il succo” di tutte le cose:
la stupenda sinestesia ci parla dell’attitudine mistica a non separare le facoltà percettive e la
conoscenza che ne deriva, nel cammino verso la Presenza Divina, verso la fusione totale con la
natura e quindi con l’Essere. Nel Corano, infatti, si legge che il sufi è come la terra.., come le
nubi… come la pioggia e si abbandona totalmente a dio. Il succo della sua conoscenza può essere
dolce, ma anche un distillato velenoso se diventano visibili le ”cattiverie del mondo”. Il mistico (e
con lui il poeta) ha imparato una per una tutte le parole, ma il suo apprendistato sembra collidere
ora con la storia, presentata come sconvolgimento di regole e discipline ataviche. L’equilibrio e
l’armonia del passato si sono spezzati: chi era immobile e stanziale ora si muove, e chi si muoveva
si è fermato. Il poeta appare incredulo e sbigottito di fronte a questa “rivoluzione”: il povero è
proprietario di una ricchezza senza confine, quella dell’acqua dei pozzi, i “sacerdoti” capi della
cultura e della tradizione dei nomadi vengono arrestati, bloccati come fossero messi ai ceppi,
costretti- contro la loro stessa realtà antropologica di nomadi- ad arrestarsi.
Il tema dello stravolgimento innaturale della realtà dei Qashqai è la chiave di lettura del testo: la
“maledizione storica” si è abbattuta su di loro come un incubo terribile da cui il mistico- poeta si
vorrebbe svegliare. La prima parte della poesia è dunque caratterizzata da questi toni di catastrophé
, ma senza neppure una sfumatura di vittimismo: anzi tutta giocata sulla dignità del passato messo a
confronto con un presente incomprensibile. La prospettiva, però, è quella della rinascita. Nelle due
ultime strofe, infatti, dominano la speranza, la devozione riconoscente al creatore, l’afflato mistico
tra la natura e il poeta-cantore nomade. E non sorprende la presenza del mare, con cui si identifica il
moto per antonomasia, l’onda che mai si può arrestare, correlativo analogico del nomade che
riprende continuamente vita attraverso il movimento, perché “ i prodotti del cuore ci trasportano[..]
e ci innalzano “ ( Corano 39,53 passim). Si può arrestare il mare? Si può immobilizzare il nomade,
avvincerlo al palo del “progresso” e impedirgli di pensare che la “stella della fortuna sorgerà di
nuovo”? Il suo ciclo naturale è eterno come il cammino della stella del mattino, è intimamente e
indissolubilmente legato a quello del cielo e della terra.
Il poeta sembra voler dunque fondere, nella sua voce, quella del contemplativo e del nomade, per
immergerli nel senso etereo dell’Essere, accomunati dalle stesse movenze sentimentali, desideri e
adlla originaria capacità di provare stupore.
Un primo commento “ a caldo” della poesia “ Dov’è? ”
In questa lirica colpisce immediatamente l’associazione tra l’amore per la natura e quello per la
donna , che attraverso il canto si delinea sia a livello retorico che di immagini.
Nell’incipit i fenomeni naturali sono ora personificati ora descritti con semplicità, quasi con
candore : le nuvole, come sospinte da un desiderio amoroso, si incontrano, mentre sulla terra la
neve e la bufera invernale forse bloccheranno i percorsi consueti e le vie dell’andare.
Nella prima strofetta si profila dunque il contrasto, caratteristico dell’immaginario del nomade, tra
elementi mobili (le nubi) ed elementi statici ( il congelamento e il blocco dei sentieri, dove nella
bella stagione passa l’uomo e con lui la vita e la cultura).
Ma la Natura è sostanzialmente movimento e mutamento: su questa sicurezza poggia la speranza
del poeta-amante, cioè sul ritorno gradevole della primavera, cui egli associa due ritrovarsi: quello
con la comunità nomade dei Qashqai e quello con la donna amata. La relazione significativa che
nel testo si crea riguarda dunque i tempi della natura , i tempi del nomade che con essi si accordano
perfettamente, e i tempi dell’anima innamorata. Il senso di provvisorietà permanente legato
all’”andare” è sempre accompagnato dalla fiducia, dalla speranza certa del miglioramento di
condizione. Il poeta-discepolo ha appreso una grande verità dal Maestro ( tramite una cultura che è
trasmissione, consegna amorosa di sapere, dottrina che va dalla bocca all’orecchio e al cuore) : chi
non ama è “invidioso” dell’amore e vorrebbe sottrarlo anche agli altri. Ma l’amore, come il canto, il
vento, l’acqua, si effonde nell’amante, è l’unica stanzialità del nomade, “è” nel suo cuore, sciolto
in lui (come si scioglierà la neve): è linfa, vene, sangue. E’ l’Essere. Torna qui un’allusione mistica
, quella che lega nell’amore tutti gli iniziati ed esclude i profani, coloro che non hanno la scienza e
non hanno voluto o saputo apprenderla dal Maestro.
Nelle ultime due strofe il poeta si rivolge direttamente alle montagne, di cui si dichiara innamorato,
chiedendo loro di rendersi accessibili, di permettergli di raggiungere le loro cime. Di nuovo è
sottintesa l’analogia tra l’accessibilità della donna amata ( l’incontro) e quella della natura,
sublimamente personificata nelle montagne. Ma l’immagine di queste ultime è anche
“terribilmente” sacra: essa sigla il cammino verso l’alto ( il viaggio mistico), il raggiungimento
delle vette e il loro superamento, per poter sovrastare con lo sguardo tutto il mondo sottostante e
concludere la “ricerca”, approdo ultimo del cammino e scopo della conoscenza. L’immagine finale
del poeta-aquila in volo nello spazio del cielo chiude ad anello la poesia, che era iniziata con
l’immagine delle nubi. I nomadi vi appaiono come magnifici portatori di una cultura che sembra
“osservata” dall’alto degli astri, protetta dal moto cosmico, dal perenne andare delle stagioni e dalle
montagne, che ne sono millenarie, mute custodi, splendidi totem.
E ora una breve escursione intertestuale…
Si avvertono in questa poesia alcuni tratti tipici dello spazio del nomade, del suo ambiente , delle
sue condizioni di vita, tratti che ritroviamo- fatte salve le differenze culturali- in altre aree
geografiche e in altri contesti storici.
Andare verso le montagne, anche senza attribuire a questo viaggio sovrasensi mistico-allegorici,
così come discendere verso la pianura, è il percorso consueto dei pastori nomadi, non soltanto di
quelli d’Asia, che si muovono alla ricerca del verde. Il pastore nomade condivide con il gregge
ambiente e condizioni di vita all’aperto, che spiegano anche le sue scelte produttive ed insediative,,
l’economia legata alla terra, un’architettura abitativa dominata dalla pietra a secco e determinata
dalla provvisorietà. Tutta una civiltà dai tratti sostanzialmente omogenei è stata costruita attorno
alla condizione dell’andare e scandita dalla periodicità dei tempi migratori ( manufatti, riti, sistema
di vita della comunità etcc..) Ma la vera trasversalità sovraculturale è nell’immaginario e nei
modelli espressivi, che appaiono fortemente influenzati dalla vita all’aperto. Avere per tetto il cielo
e muoversi nella purezza dell’aria, entro spazi ampi o sconfinati, ma comunque non urbani e solitari
induce facilmente immagini essenziali, suggerite dai tempi lunghi e lenti della natura, o pensieri
rivolti all’eternità dell’essere. Non a caso Leopardi rimase colpito dalla notizia letta su “Le Journal
des savants” del settembre 1826 e riportata nello Zibaldone 4399,400 ,a proposito dei Kirghisi: Les
Kirkis (nazione nomade, al Nord dell’Asia centrale) ont aussi des chants historiques ( non scritti)
qui rappellent les hauts faits de leurs héros; mais ceux-là ne sont récités que par des chanteurs de
profession, et M. de Meyendorff ( barone viaggiatore russo autore d’ un Voyaged’Orenbourg à
Boukhara, fait en 1820. Paris 1826 ; dal quale sono estratte queste notizie) eut le regret de ne
pouvoir en entendre un seul. Ib.septemb.p.518. Plusieurs d’entre eux ( d’entre les Kirkis), dice M.
de Meyendorff, ib. passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des
paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont moins.
Il grande recanatese accolse con tale interesse la notizia di queste nenie anonime di pastori nomadi
d’Asia seduti sulla pietra a guardare la luna, di questi canti malinconici improvvisati da pastori
erranti e poeti naifs , che proprio ad uno di essi affidò il suo canto più filosofico, di respiro cosmico.
Identificandosi con lui, il poeta colto ci porta nelle misteriose distese desertiche dell’Asia , nel
profondo infinito seren e.. solitudine immensa per rivolgere alla luna e alla greggia le domande più
inquietanti che l’uomo può porsi sul senso dell’universo e dell’esistenza. Pur nella negatività
filosofica delle asserzioni ( il silenzio della luna), in questo straordinario canto leopardiano si
respira quella dimensione cosmica che solo uno stato di primitiva semplicità, quale quella del
pastore nomade, può far avvertire. Il mistero dell’uomo e delle cose è affidato alle parole semplici,
al linguaggio quasi povero del pastore, che chiude il suo canto proprio sognando di volare e
identificandosi con la natura…Forse s’avess’io l’ale/ da volar su le nubi,/ e noverar le stelle ad una
ad una,/ o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia,/ più felice
sarei, candida luna… [..]
Il pastore-filosofo leopardiano, come il mistico iraniano, è dunque portatore di verità secondo un
punto di vista solo apparentemente ( o pregiudizialmente, che è la stessa cosa ) primitivo, mentre in
realtà sono il frutto della stretta relazione tra lui e gli eterni giri, il moto incessante degli astri, il
persistere della luna che lo guarda muta e lo segue nel suo viaggiare a mano a mano. Il poeta
italiano attribuisce al pastore nomade asiatico la sua disperata e dolorosa consapevolezza
materialistica, mentre il poeta iraniano si scioglie nell’abbraccio con l’amata, esprime la speranza
che “ravviva” la vita del ghasghai. Comune ad entrambi è, forse, la consapevolezza del mistero
dell’Essere. Ma quanto abbandono mistico, quanto ardore vitalistico, quanta fiducia “elementare”
nelle leggi della natura sono espressi nella poesia iraniana! Quanta più fede nella cultura degli avi,
rispetto al nostro poeta - che fu definito “ultimo pastorello d’Arcadia”- e che si dibatte dentro il
pensiero occidentale a lui contemporaneo, avvertendone tutta la problematicità!