Analisi della poesia “Migrazione estiva” La poesia esordisce in modo “minimalista”, con l’esaltazione dei prodotti elementari tipici dei pastori, formaggio fresco e olio puro , che vengono accostati in modo sorprendente e apparentemente casuale alle realtà naturali care all’esperienza di vita e alla cultura dei nomadi: le montagne verdi e fiorite, i ruscelli , le greggi, le fonti… per poi passare di nuovo alla teiera che bolle sul fuoco e al formaggio.Ma all’interno di questo quadretto offerto dalla prima strofa, e che ad un lettore occidentale ricorda immediatamente tanti testi di sapore idillico-pastorale, c’è una parola “spia”, il ponte tra il visibile naturale e l’invisibile soprannaturale: il giardino, anzi, correttamente detto in persiano antico, paradiso. E’ un termine che ha tutta la forza del mitologema . L’olio puro e ambrato, le montagne fiorite (il legame, spesso ricorrente nelle poesie, tra montagne e fiori variopinti fa pensare al simbolismo della luce e alla “teoria dei colori” quale troviamo in Corano,XXIV,35), l’acqua scorrente verso la valle: tutti questi elementi si distendono in un’enumerazione priva di gerarchie di valore e di ordinamento sintattico. Tutto è sullo stesso piano, tutto rimanda all’immagine del parideza , luogo religioso, utopico, recintato per meglio proteggere il piacere, la condizione di benessere e di felicità; altrettanto forte è il legame analogico con lo spazio- invece libero e aperto- del nomade, dove gli uccelli cantano e covano nuove vite e i ruscelli cantano sottovoce qualcosa di misterioso ed incomprensibile all’orecchio del poeta. Egli ci ha così portato dalla dimensione del consueto, familiare e conosciuto ( il paesaggio e le cose dei pastori) a quella del sacro e dell’indecifrabile, legando i due piani con il motivo della “nostalgia” e della tristezza, sentimenti dai quali solo il “giardino ritrovato” può liberare l’uomo. Non sembra azzardato pensare alla nostalgia edenica, al “bisogno di paradiso” che è un archetipo, che ha alimentato la sentimentalità romantica , e che oggi- a detta di molti sociologi- è surrettiziamente “costruito” sulla terra, senza riuscire ad appagare il nostro senso del sacro. Il pastore della tribù Shahsavan suona con il flauto una musica triste…L’idea del melos malinconico offriva già a Leopardi forti suggestioni su queste cantilene dei pastori d’Asia, ma è anche il più moderno Ungaretti a parlarci dei canti malinconici dei beduini e dei nomadi. Poeta nomade adunco, come si definisce in “Dolina notturna”, e che In nessuna/ parte/ di terra si può accasare, proiettato verso la Terra promessa, alla ricerca di un paese innocente, il grande italiano nato ad Alessandria d’Egitto sentì nascere dal deserto la nuova musica cui ispirarsi.”Ho udito, ora ci penso, questa malinconia dolcissima espressa nella cantilena del beduino. Il beduino ha un canto che si mescola a gridi fuggitivi di bestie partite da molteplici e indeterminabili luoghi, ai silenzi della luna altissima, a voli di lunghe ombre sul nuvolo solare, dopo il crepuscolo ondeggiante come per sempre sulla sabbia: è cantilena fatta d’una sola parola, iterata all’infinito: Dove?, dove?, dove?” Della poesia araba Ungaretti dirà di aver sempre rifiutato ogni colore , ogni “pittoresco dei bazar” e di essere rimasto incantato dall’”infinito dei grandi spazi in cui nasce”, dalla “musicalità notturna” che emana, dalla monotonia musicale del canto popolare che si modifica per lievi variazioni tonali. Versi come Morire come le allodole assetate/ sul miraggio o come Ha bisogno di qualche ristoro/ il mio buio cuore riarso trasudano deserto, ma soprattutto rievocano miraggi ed oasi , come l’emblematica, densissima poesia del 1916, intitolata “Tramonto” : Il carnato del cielo/ sveglia oasi/ al nomade d’amore , poesia che rivela un’altra componente di ascendenza araba in Ungaretti e che è la sua bruciante sensualità.”Nato in un paese maomettano, trascorsa l’infanzia in una zona a quei tempi ancora deserta , colla tenda del beduino a quattro passi da casa nostra, so quanto sia facilmente virile la pratica d’una religione i cui precetti aderiscono alla sensualità[..]” Questo aspetto molto, forse troppo soggettivo o spregiudicato, è però assente nella poesia iraniana, dove il pastore è affiancato, in modi più semplici, elementari, dalla rappresentazione del suo gregge saltellante e dei suoi cani, con i quali è generoso e che alleva come amici fedeli. La natura, di cui il pastore- ed il poeta- non hanno perso il senso , si compiace quasi narcisisticamente della sua bellezza , e l’odore della menta inebria l’aria. In un’ebbrezza panica e sinestetica ( vedo.. sento… bevo.. mangio..), l’io poetante afferma di approdare all’oblio, alla dimenticanza di sé, ad una forma di alienazione felice, accompagnata dall’esaltazione dello spazio aperto e dalla derisione di quello urbano. A questo punto la poesia assume un’altra tonalità: si avvertono il risentimento polemico nei confronti della “cultura” urbana, ma anche una sfumatura epica nell’inneggio alla montagna, simbolo di “resistenza e di forza, che diviene spunto politico nell’esaltazione conclusiva della libertà. Il binomio resistenza e libertà appare così il manifesto ideologico della lotta contro chi cercherà di privare il poeta nomade - e la cultura di cui è portavoce- del diritto a vivere secondo i propri codici. La conclusione è tutta organizzata attorno all’allegoria della montagna che, simile ad un eroe, non si è piegata di fronte alle illusioni e alle separazioni dolorose, resistendo nobilmente alle tempeste. Come non pensare- per libera e stravagante associazione- alla resistenza e nobiltà del fiore allegorico per eccellenza, la leopardiana ginestra? Queste sottili nervature rivelatrici di nascoste affinità scavalcano la logica, contraddicono le categorie spaziotemporali, e soprattutto le barriere culturali perché rinviano all’immaginario umano universale: sono l’effetto magico, ma non certo volatile della poesia. Perciò affido ancora alla voce di Ungaretti e alla sua filosofia unanimista la mia conclusione di lettrice improvvisata: “Ho avuto sempre compagni appartenenti a qualsiasi suddivisione religiosa. In ogni paese d’Oriente ci sono, è noto, cento riti antichissimi di cristianesimo, e di più ci sono i musulmani, e di più ci sono gli ebrei. I miei compagni erano ragazzi che appartenevano a tutte le credenze e alle più varie nazionalità. E’ un’abitudine presa dall’infanzia quella di dare, certo, un’importanza alla propria nazionalità, ma insomma di non ammettere che non potesse essermi fratello chi ne avesse un’altra.”