Una conoscenza ostaggio dell’innovazione? Perciò noi distinguiamo […] l’uomo educato in virtù di un ideale dall’uomo d’affari puramente efficiente. W. von Humboldt,Lo spirito dell’umanità. Ordini della conoscenza Il nostro rapporto con i saperi e le conoscenze ha una natura composita. Ci sono cose che sappiamo perché dobbiamo saperle e cose che sappiamo perché il loro possesso è fonte di piacere, di soddisfazione, a volte anche di compiacimento. Anzi, a proposito di quest’ultima sfumatura non sarebbe difficile mostrare come vi sia sempre stato nel possesso della conoscenza una dimensione esibitiva. Come se essa fosse una fonte cui attingere per rafforzare non solo la stima di sé, ma anche la considerazione degli altri. Più qualcosa da mostrare che non da vivere e condividere. Ma non è questo il punto. Quando osservo che vi sono saperi e conoscenze di cui ci appropriamo per il nostro piacere, intendo dire questo. Molte delle cose che la tradizione culturale dalla quale proveniamo ci fa incontrare nei nostri curricula formativi, riguardano l’affinamento del gusto, l’educazione di una facoltà mediante cui dovrebbe aprirsi la possibilità di stabilire con il mondo circostante una relazione più ricca, più articolata e fondata di quella che presiede le nostre abitudini correnti. Una relazione, intendo dire, supportata dalla capacità di contrapporre all’immediatezza del vissuto, alla sua “economia spicciola”, la critica e la riflessività; alla coazione del comportamento irretito dalla consuetudine o dalla necessità, la libertà di una comprensione prospettica, aperta all’interrogazione, all’approfondimento, alla pluralità delle risposte e dei nessi. Qui, il mondo non vale solo per le risposte pratiche che esso ci impone di dare, è una realtà che si presenta anche come oggetto di interrogazione, di fruizione disinteressata, talvolta persino di contemplazione, in ogni caso di accettazione e, quando è il caso, di rifiuto. Per questa strada, l’educazione della facoltà del gusto viene a sovrapporsi all’educazione della facoltà del giudizio. Gusto e giudizio, allora, come organi di un modo di essere che non si conforma solo al calcolo della funzionalità, alla valutazione dell’efficacia di quelle prestazioni in forza delle quali diventa possibile trasformare cose e persone in risorse utilizzabili. Naturalmente, sappiamo tutti che una buona parte delle nostre conoscenze e dei nostri saperi deve possedere un carattere pragmatico, poiché non c’è vita umana in grado di riprodursi al di fuori di questa operatività manipolatoria capace di trasformare, innovare, apparecchiare, emendare il mondo circostante. Dunque, di nuovo, ci sono cose che dobbiamo conoscere e sapere così da acquisire capacità operative e cose che dovremmo conoscere e sapere per riuscire a comprendere il significato di questa operatività, per riuscire a cogliere le implicazioni che essa genera e per immaginare i loro effetti. Saperi e conoscenze che dovrebbero consentirci di afferrare non solo la natura dell’orizzonte nel quale ci moviamo, ma anche la natura della relazione che ci lega a un tale orizzonte, ossia il modo in cui si dà il nostro inserimento in esso. Se nel primo caso i contenuti messi in gioco concernono prevalentemente l’efficacia di quelle che potremmo definire le nostre pratiche di intervento sui segmenti di mondo con i quali abbiamo a che fare, nel secondo caso i contenuti riguardano piuttosto la vita stessa, vale a dire la comprensione che l’esistenza ha di sé nella sua relazione con il mondo all’interno del quale essa accade. Da una parte, dunque, ci sono i saperi che aumentano il nostro potere di adattamento alle situazioni del mondo, dall’altra i saperi che aumentano il nostro potere di riflessione sulle situazioni del mondo, il potere di distanziarci dalle risposte più o meno efficaci che siano in grado di attivare al loro cospetto: un potere che, prima di ogni altra cosa, è potere dell’individuo su se stesso. Si tratta di due modalità della conoscenza inscritte all’interno di finalità molto diverse, così come diverse sono le motivazioni alla base degli investimenti e delle risorse necessari a promuoverle. Diverso è però, in primo luogo, il potere di affermazione delle rispettive finalità e la rispettiva capacità di attrarre investimenti e risorse. Ora, parlare di finalità, di investimenti e di risorse, in questo caso, significa giocoforza sottrarsi a qualsiasi tentazione idealista. Perché il riferimento alla loro realtà, colloca immediatamente il discorso al cospetto delle logiche da cui, sempre, dipendono la nascita, l’incremento e lo sviluppo di saperi e conoscenze. Se si tiene presente questo punto, sarà allora più facile riconoscere dietro la produzione della conoscenza, la presenza di soggetti collettivi che rispondono a interessi, si rifanno a valori, traducono nelle loro azioni un disegno di società ritenuta auspicabile, in quanto funzionale e pertinente al dispiegarsi di determinate congiunture. Sono tutti quei “portatori di interesse” che nel contesto delle società attuali – dove, come vedremo, anche la conoscenza tende sempre più ad assumere lo statuto della merce - intervengono sulle politiche di sviluppo dei saperi in base ad un sistema di attese al cui potere di promozione corrisponde un non meno rilevante potere di inibizione. Ed è proprio a questo livello che intervengono i poteri, ossia che i poteri interagiscono con i saperi. La “società della conoscenza” esemplifica perfettamente questa logica. Basti pensare al fenomeno che essa interpreta come il suo principale asse portante: l’innovazione. L’innovazione Sul versante degli investimenti e delle risorse, l’innovazione è un desideratum che canalizza energie e progettualità, un obiettivo delle società avanzate sul quale convergono politica e economia, formazione e impresa, un obiettivo capace quindi di mobilitare, ancor prima che capitali, discorsi, programmi, auspici, visioni del mondo condivise. Un insieme di disposizioni, quindi, che ne fa un fattore decisivo, se non il fattore principale, della produzione di conoscenze. Altra cosa è osservare che questo straordinario catalizzatore di consensi genera, oggi, forme di conoscenza che stabiliscono però con il reale una relazione ambigua, se è vero che per il suo tramite viene messo in gioco al contempo l’elemento del superamento e quello della conservazione. “Superamento” per quanto concerne i risultati cui l’innovazione approda: nuovi oggetti, nuove forme, nuovi design, nuovi materiali, incremento della potenza, della velocità, delle prestazioni, delle funzioni e dell’efficienza dei risultati prodotti. “Conservazione”, invece, per quanto concerne i meccanismi di subordinazione della società al mercato, secondo quel tipico movimento di trasformazione delle varie istituzioni umane in semplici accessori delle leggi del mercato, che Karl Polanyi, nei suoi studi degli anni ’40, riconosceva come l’elemento capitale dell’affermazione, a partire dal XVIII secolo, dell’economia di mercato1. Sul versante delle finalità, poi, l’innovazione, in quanto obiettivo principale degli investimenti nel campo della conoscenza, si presenta come uno fra i più rilevanti dispositivi di concorrenzialità, di eccellenza e di crescita economica. Il che, come si capisce, costituisce una potentissima cornice generativa di affermazione e di sviluppo delle conoscenze stesse. E 1 Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), tr. it., Einaudi, Torino 1974, pp. 88-98. questo, in ragione della sua capacità, non solo di orientarle, ma anche di gerarchizzarle, di selezionarle e, quindi, in ultima analisi, di produrle. E’ un orientamento, questo, che si lascia cogliere bene nell’attuale riorganizzazione delle Università e dei centri di ricerca pubblici. La gestione del transfert della conoscenza prodotta al loro interno in direzione delle imprese – uno dei nuovi compiti cui sono chiamati -, modifica radicalmente il profilo della ricerca e della conoscenza, introducendo parametri di orientamento al mercato e, in generale, al risultato che tendono a delegittimare quelli che potremmo chiamare i “saperi senza programmazione del fine”. Cioè i saperi che non nascono da una relazione perspicua, controllabile e pianificabile, tra attività di ricerca e pianificazione dei risultati. Si tratta di un cambiamento di prospettiva che interviene in profondità, raggiungendo le motivazioni stesse della conoscenza e della ricerca: una trasformazione, direi persino, che agisce sulla stessa libido sciendi. E questo perché, a monte delle questioni sollevate dalla gestione del transfert, a cui oggi il sapere è chiamato con forza, vi è l’azione stessa dell’imperativo del transfert sull’indirizzo della conoscenza: la trasferibilità come principio operativo della politica della conoscenza, con i suoi effetti “riformisti” sull’organizzazione degli studi, degli insegnamenti e soprattutto della ricerca. Se al riguardo ho parlato di “libido sciendi” è perché non è difficile vedere come ciò che è in gioco in questa trasformazione è il valore stesso della operazione conoscitiva, il valore conseguibile dalla conoscenza nella misura in cui vi è qualcosa in relazione al quale essa acquista un senso che, da sé, non è più in grado di garantire; qualcosa solo al cui cospetto essa è abilitata a valere. Le due forme di conoscenza cui ho fatto riferimento nel paragrafo precedente identificano in modo molto diverso questo “qualcosa”. Anche la legittimazione che ne traggono è, però, a sua volta, del tutto diversa. Per capire come si costruisce questa duplice differenza, dobbiamo guardare da vicino la congiuntura nella quale essa si è affermata. Contesto Siamo oggi confrontati a un’articolazione di poteri in ragione della quale la solidarietà venutasi a creare tra produzione e conoscenza, lavoro e formazione tende ad esautorare dall’universo dei saperi una certa idea di cultura. Come si è giunti a questa situazione? Possiamo dire, per ora, che l’odierna centralità della dimensione del lavoro, a seguito delle trasformazioni intervenute negli ultimi anni nella sfera della produzione, dove l’incremento del profitto è misurato come ritorno economico a brevissimo termine, si rivolge alla formazione con alcune domande precise rispetto alle quali conoscenze e saperi possono rispondere solo a condizione di spogliarsi di alcuni tratti specifici. Sono propriamente i tratti concernenti quell’idea di cultura che, come abbiamo visto, anziché orientare al risultato, predispone alla comprensione e al significato. La conoscenza che vale, oggi, è quella che riesce a circoscrivere il proprio orizzonte in modo tale da corrispondere, attraverso il percorso più breve possibile, alla percezione che mercato e imprese hanno delle competenze e delle occorrenze concernenti il proprio potenziamento, in termini di crescita e di diffusione immediata. Tra conoscenza e interesse si stabilisce così un’alleanza che promuove l’affermazione di una temporalità abbreviata, dove l’intelligenza dei nessi e dei sistemi di relazione complessa, cioè l’intelligenza delle implicazioni ad ampio raggio e a lungo termine, viene sostituita con una intelligenza della risposta, fulminea e puntuale, coinvolta, assieme ad altre forze, nella questione di come massimizzare il ritorno del capitale d’investimento. Parlare di “centralità della dimensione del lavoro”, oggi, può sembrare paradossale, non appena si pensi alla grande eterogeneità della qualità dell’offerta, delle condizioni contrattuali, alla sua svalorizzazione e subalternità rispetto al capitale. Per non dire dei meccanismi di automazione attraverso cui il capitale perviene oggi, con una efficacia crescente, a estromettere quote rilevanti di lavoro dal processo produttivo, al fine di svincolarsi dai suoi ritmi temporali2. Tuttavia, proprio a causa della volatilità e mobilità del lavoro - due caratteri che non fanno che riflettere la natura stessa del mercato -, in ragione cioè della sua instabilità e della sua perdita di potere rispetto al capitale, esso acquista per le vite degli individui un rilievo inedito. Il lavoro - come necessità, dovere, investimento, ideale - si ripercuote sull’esistenza coinvolgendola su più fronti: quello dell’impegno cui le persone sono chiamate, se intendono rimanere oppure mettersi “in gioco”, quello dell’incertezza provocata da un “gioco” sempre più aleatorio e, infine, quello dell’ansia riguardo alla “posta” in gioco, una posta che non smette di lievitare, considerata l’instabilità attuale del sistema. Fuor di metafora, in un modo o nell’altro, il lavoro entra nelle nostre vite attraverso forme del tutto inedite. E’ una centralità che, del resto, riflette la rilevanza stessa del lavoro – una volta svincolato da talune tutele legislative maturate in mezzo secolo di negoziazioni – nel processo di riproduzione della ricchezza e come inaggirabile fattore di competitività. Che poi l’incremento della produttività, via l’attività lavorativa, vada piuttosto a beneficio della voce profitto, anziché della voce salario, è un problema di ridistribuzione che non invalida assolutamente l’osservazione sulla centralità del lavoro nel sistema di produzione post-fordista. Come detto, sono in atto oggi innegabili tendenze di subordinazione del lavoro alle necessità del capitale. Allo stesso modo, è presente una forte propensione alla svalorizzazione del lavoro, alla riduzione del suo costo, onde poter competere con le economie di quei paesi dove i prestatori d’opera sono esposti senza alcuna tutela agli interessi della produzione. Ma nonostante vi sia ancora chi crede possibile salvaguardare “il mito del lavoro come appendice cieca di una classe manageriale pensante”3, è vero che la flessibilità delle tecnologie e la sua ricaduta sui rapporti tra produzione e mercato, l’altalena tra innovazione e obsolescenza di tecnologie e competenze, il ruolo crescente assunto dalla conoscenza, tutto ciò conduce inevitabilmente a fare del lavoro “il primo fattore di produttività dell’impresa”4, soprattutto quando questo lavoro assume la forma di una intelligenza funzionale ai diversi regimi di utilizzabilità delle risorse (tecnologica, logistica, comunicazionale, manageriale) che articolano l’odierna attività produttiva. Imprenditorialità diffusa Non è allora difficile comprendere perché la pressione che il lavoro esercita a vario titolo sugli individui, si traduca nel fatto che sempre più fenomeni, sino a ieri estranei alle sue necessità, siano ora posti nella condizione del confronto diretto. Fra le ragioni di questo confronto, vi è senz’altro il fatto che il movimento di decentramento, delocalizzazione e terziarizzazione dell’unità produttiva – tre fattori distintivi di ciò che siamo ormai soliti chiamare economia post-fordista - si accompagna a una strategia di amplificazione dei margini di autonomia della forza-lavoro funzionale all’aumento del profitto. Dal punto di vista del lavoratore, questo significa una cosa molto precisa. Significa che la responsabilità dell’accesso al lavoro e della sua qualità viene viepiù individualizzata, tanto che le condizioni lavorative sembrano dipendere in primo luogo dal profilo del lavoratore, dalla sua capacità di autopromozione sul mercato del lavoro. Egli risulta esserne il principale responsabile, poiché i livelli di remunerazione si presentano come dipendenti prevalentemente dal tenore delle prestazioni, e in ultima analisi dalle qualità della persona stessa. L’investimento individuale che ne deriva, in termini umani e finanziari, ricade ora soprattutto sulle spalle del singolo lavoratore. Dato che è il singolo lavoratore a portarne la faccia, in ragione anche di una pressione sociale che enfatizza le ragioni individuali dell’eccellenza e del suo contrario, attraverso idealizzazioni del merito e della perfomance personale confermate, appunto, a Cfr. A. Ponzio, Formazione, occupazione, migrazioni, in “Quaderno di comunicazione”, n. 8, 2008, pp. 39-49. 3 B. Trentin, Un nuovo contratto sociale, in “Gli argomenti umani”, n. 9, 2002, p. 10. 4 Ibid. 2 livello salariale. Il terreno sul quale si è giocata questa individualizzazione dei rapporti lavorativi come spinta alla responsabilizzazione del singolo prestatore d’opera è quello del tempo lavorativo. Tende a scomparire, anche al livello del lavoro esecutivo, l’idea del tempo come misura del salario5. Se questa è la prospettiva, il tempo lavorativo, il tempo che articolava fino a ieri la giornata di lavoro, si presenta ora come una misura variabile asservita alla prestazione. E’ la prestazione, quale prodotto valutabile, a entrare idealmente in relazione diretta con la retribuzione: la responsabilità del risultato mette in gioco una disponibilità che non è più solo quella di erogare un certo numero di ore giornaliere di lavoro. La quantità di tempo necessario a conseguire il risultato, diventa allora una questione che ricade per intero sulla persona del lavoratore. Il che implica un’inedita messa in gioco del lavoratore nella sua relazione con il prodotto della prestazione, quanto a competenze, capacità di pianificazione, efficienza, produttività. In questo caso, il prestatore d’opera subentra, in un certo senso, al datore di lavoro, perché è chiamato egli stesso ad interviene direttamente nell’organizzazione del suo tempo lavorativo. Tendenzialmente, questa assunzione di responsabilità, da parte del lavoratore, circa il risultato del suo operato rende del tutto irrilevanti le tradizionali otto ore lavorative giornaliere, per quanto in molti casi esse continuino ad essere presenti in termini contrattuali. Quando è principalmente il risultato a diventare il principale fattore di valutazione, il quantum temporale, nella sua determinatezza, non garantisce nulla in sé. Del resto, è lo stesso “lavoratore responsabilizzato” a celarlo oppure ad esibirne l’esubero rispetto alla norma contrattuale. All’interno di una logica dove gli “straordinari” non sono più oggetto di remunerazione, l’esibizione del surplus temporale o il suo occultamento diventa una questione personale, da valutare a seconda dei casi. “Personale” proprio nel senso che spetta al singolo lavoratore salariato stimare quale delle due opzioni (esibizione o occultamento) assicuri un guadagno competitivo all’interno o all’esterno dell’organizzazione. Si tratta, in entrambi i casi, del tempo come luogo in cui si esprime una disponibilità che, di volta in volta, può assumere i tratti della devozione, del sacrificio o dell’interesse. Nel migliore dei casi, l’esito è quello di un sentimento di auto-imprenditorialità che nobilita anche i lavori più esecutivi, nel peggiore quello di un sentimento di sfinimento che annichilisce e “brucia” il lavoratore. L’individualizzazione della responsabilità, a questo livello, corre parallela all’individualizzazione del lavoratore, alla sua solitudine “contrattuale”, a quella perdita di unità d’interessi – un effetto dello sganciamento dell’attività lavorativa dalle sue tutele – che consente di parlare del lavoro nei termini di una realtà ormai priva di rappresentanza6. Se, nonostante tutto, è ancora possibile parlare del lavoro come di una delle funzioni del riconoscimento sociale, bisogna però aggiungere che è un riconoscimento in cui si smarrisce la dimensione comunitaria di categoria. Il riconoscimento passa semmai attraverso prestazioni individualizzate, spesso in competizione tra loro, incapaci di generare identità lavorative coese. In questo senso, la retribuzione anziché accomunare comunità salariali riconoscibili nella loro uniformità, distingue individui singoli che non coesistono più in base ad una serie omogenea e rappresentabile di mansioni. La forma della loro relazione è ora piuttosto quella della compresenza degli uni agli altri, ognuno inquadrato secondo forme contrattuali tali da prevedere anche importanti differenze in termini retributivi o di tutela . Come dire, tutti al lavoro ma, letteralmente, ciascuno per proprio conto. In linea di principio, il riconoscimento dell’identità lavorativa cessa di essere assicurato dal lavoro, se con “lavoro” si intende un campo uniforme di azioni identificanti, veicolo di identità professionali condivise e riconoscibili nella tipicità di prestazioni e interessi. Ora ciò che è professionalmente identificante è invece il risultato del lavoro, con tutte le strategie messe in campo per assicurarne l’eccellenza, come si ama dire oggi, ossia per produrre quel vantaggio competitivo attraverso cui istituzioni e Ivi, p. 13. Il declino dell’idea del tempo di lavoro quale misura del salario è reso possibile dall’idea che “la qualità della prestazione di lavoro e l’intervento del lavoratore sono fisiologicamente diversi in un’ora di lavoro rispetto ad un’altra”. 6 Cfr. P. Ciofi, Il lavoro senza rappresentanza, Manifestolibri, Roma 2004. 5 individui pervengono a distinguersi dai loro concorrenti. Sempre meno, l’individuo al lavoro pensa se stesso come parte di una comunità che condivide finalità e interessi. Sempre più, qualità, originalità, velocità, abilità – che sono i caratteri mediante cui è possibile aggiungere un alto valore alla propria attività – costituiscono l’orizzonte in base al quale misurare il riconoscimento professionale. La parola magica è “valore aggiunto”. Nel confronto con questa abilità che consente di differenziarsi in un regime produttivo altamente competitivo qual è quello odierno, l’impresa mette in gioco la sua affermazione sugli attori del mercato, e il singolo individuo mette professionalmente alla prova se stesso. Conoscenza e interesse Si capisce allora in che senso un vasto campo di attività, disposizioni, investimenti e risorse finisce con l’essere convogliato nell’orbita del lavoro. Conoscenza, creatività, comunicazione, ricreazione, socievolezza: tutto ciò riceve una nuova destinazione, cioè un nuovo orientamento, nel momento in cui si trasforma in materiale indispensabile alla riproduzione e alla produttività del lavoro. Qui però si tratta di un lavoro a senso unico, giacché la possibilità di capitalizzare in chiave economica conoscenza, creatività, comunicazione, ricreazione e socievolezza, consegue dal fatto che il lavoro, dal canto suo, è inteso oggi principalmente, quando non esclusivamente, quale vettore di creazione del valore. Qualsiasi altro significato è tendenzialmente messo in ombra. Tra lavoro e produzione si stabilisce una linea diretta, esclusiva, che spinge al margine rappresentazioni e pratiche del lavoro non immediatamente convertibili in questo modello, se non a costo di una radicale trasformazione dei modi di agire e di pensare. Una trasformazione particolarmente evidente in quei lavori che si sono pensati attraverso una forte idealizzazione della loro missione, anzi che si riconoscono proprio come motivati da una missione, una missione alimentata dalla vocazione dei suoi attori. E’ il caso, ad esempio, delle professioni nelle quali è centrale la relazione di cura, la trasmissione del sapere, la dimensione della solidarietà - laddove, cioè, entra in gioco la componente della donazione di sé. L’enfatizzazione della relazione tra lavoro e produzione, vale a dire la tendenza a circoscrivere i significati del primo ai meccanismi di incremento della seconda, è alla base della forma che assume oggi la relazione tra conoscenza e interesse. Il prezzo di tale trasformazione è, come detto, il declino di una certa idea di cultura. La natura della relazione tra conoscenza e interesse economico, come pressione dell’uno sull’altra, diventa perfettamente visibile là dove aumento della produzione, ricchezza e creazione del valore sono fatti dipendere dalla formazione di un homo technologicus innovativo, flessibile e capace di imprenditorialità, dunque da una forma della soggettività che è qualcosa di più del “semplice” homo sapiens. Certamente, l’organizzazione della produzione odierna mostra ogni giorno come l’investimento sul capitale cognitivo, di per sé, non sia sufficiente a creare valore. L’appello alla conoscenza e all’innovazione nasconde sovente una realtà molto meno nobile. Nasconde, o tende a non vedere, sapendolo però benissimo, quanto sia decisiva per l’odierno sviluppo economico la dimensione territoriale e quella contrattuale. Quanto siano rilevanti per la creazione del valore sia l’insediamento di segmenti della produzione nelle aree geografiche maggiormente convenienti alle diverse fasi di realizzazione delle merci e dei servizi, costi quel che costi in termini di diritti umani e di sostenibilità ambientale, sia la possibilità di poter contare su una riduzione sistematica del costo del lavoro. Ma ora non è questo il punto. Il punto è, come detto, il declino di una certa idea di cultura. Per capire in che modo ciò sia reso possibile e quale idea di cultura sia precisamente in declino, occorre vedere più da vicino il tipo di impegno cui è chiamato l’individuo dall’odierno mercato del lavoro. Il che ci permetterà di capire meglio, in conclusione, che cosa si intenda con conoscenza nell’attuale “società della conoscenza”, e come la sua affermazione ostacoli quella forma di cultura che più sopra abbiamo chiamato intelligenza delle implicazioni ad ampio raggio e a lungo termine. Unilateralità La natura “a tutto campo” dell’impegno richiesto al lavoratore contemporaneo discende principalmente dal fatto che l’attuale organizzazione dell’esperienza lavorativa valorizza il lavoratore quasi esclusivamente attraverso le risposte immediate che il mercato dà alle sue performance. In quanto lavoratore, ciò che valgo dal punto di vista salariale lo raccolgo direttamente sul mercato7. La relazione diretta che si viene così a creare tra prestazione e mercato, chiede al lavoratore un onere che sovrappone all’attività lavorativa in sé, l’attività necessaria a riprodurre continuamente le condizioni affinché il mercato del lavoro si mostri interessato alle sue prestazioni. “Auto-imprenditorialità” è il termine con cui, oggi, si definisce sia questo surplus di lavoro, sia l’individualizzazione della responsabilità che ciò comporta. La volatilità del mercato, il suo estendersi selettivo e dinamico al mondo intero, come continuo riorientamento in direzione delle opportunità migliori, è all’origine di un sentimento di insicurezza cui si chiede di rispondere con un’attivazione totale di risorse personali che non tollera alcuna delega di responsabilità. In questo quadro, l’assunzione in toto della responsabilità da parte del lavoratore, costituisce il principale movente della mobilitazione di risorse operata dal singolo individuo. Nel momento in cui la responsabilità nei confronti di ciò che mi accade come lavoratore ricade completamente su di me – in una comprensione completamente falsata di che cosa significhi essere parte di un tutto –, è la stessa considerazione del valore di se stessi ad essere messa in gioco in modo nuovo, rispetto al recente passato. Perché se il valore della mia prestazione viene misurato esclusivamente in relazione alle esigenze del mercato, ciò che esso finisce con l’esprimere direttamente attraverso le sue riposte è un giudizio sul mio merito in quanto individuo. Un giudizio formulato sì in base ad una precisa selezione di ciò che è valorizzante, ma la cui rilevanza è tale da interpellare l’individuo nella sua totalità. Saltano in un certo senso tutte le mediazioni, politiche, sociali, comunitarie, con i loro rispettivi interessi e processi di valorizzazione: ci sono ancora solo la mia prestazione e il banco di prova sul quale viene misurata la sua capacità di farsi valere concorrenzialmente. Si capisce allora meglio il ruolo giocato dalla responsabilità: spetta a me in quanto lavoratore mettere in gioco tutto quanto possa servire a superare la prova, consapevole del fatto che essa non è mai superata una volta per tutte. Dunque: risvegliata da una responsabilità che mi interpella in quanto artefice a tutto campo della mia biografia - in una relazione diretta e senza mediazioni con il mondo e le sue sanzioni -, la mobilitazione a cui sono chiamato ha per oggetto soprattutto l’incremento di quelle facoltà che hanno valore di risorsa. La responsabilità, allora, è qui da mettere in relazione con l’autoproduzione di sé come risorsa, ancora prima di qualsiasi intervento strategico di ordine imprenditoriale relativo allo sviluppo delle cosiddette “risorse umane”. Voglio dire che sotto la regia del singolo individuo, lo sviluppo di facoltà-risorsa diventa, certo, una questione di responsabilità, ma di una responsabilità dove ognuno è spinto a porre se stesso al centro delle proprie attenzioni: una responsabilità per così dire auto-centrata. Tanto più se è vero che la riduzione dei possibili referenti della responsabilità (ciò verso cui mi sento responsabile) alla produzione di sé quale risorsa operativa, fa leva non solo sulla necessità di incrementare continuamente la propria concorrenzialità per poter rimanere all’interno del mercato del lavoro, ma anche, e forse soprattutto, su un approccio ugualmente restrittivo alla considerazione di sé e all’autostima, perché orientato ad una selezione unilaterale dei contenuti che ne garantiscono la presenza. E’ questo un orientamento che incrina completamente il senso della cura di sé, alla quale ci ha educato la tradizione occidentale. E poiché ogni cura di sé mette in gioco la capacità di 7 Cfr. R. B. Reich, L’infelicità del successo, tr. it. Fazi Editore, Roma 2001, p. 155 raccontarsi all’interno di un orizzonte vasto e articolato, in grado di attingere a risorse altrettanto estese e differenziate, questa restrizione rispetto alla considerazione di sé e all’autostima, finisce inevitabilmente con il trasdursi in una sconsolante debolezza del soggetto, a fronte delle sfide che lo attendono. Paradossalmente, in piena vulgata economicista, egli sembra così sospinto a sottrarre la sua stessa persona al “sacrosanto” principio della differenziazione degli investimenti. Ma questo non è che il rovescio della medaglia di quell’unilateralità che, come abbiamo visto, contraddistingue gli investimenti nella conoscenza della cosiddetta “società della conoscenza”.