UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TORVERGATA UNIVERSITA’ CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN SCIENZE INFERMIERISTICHE ED OSTETRICHE CORSO DI SCIENZE INFERMIERISTICHE GENERALI CLINICHE E PEDIATRICHE Dottoressa Cesarina Prandi OGGETTO: Le Cure Palliative nel Paziente con Alzheimer STUDENTESSA BARBARA VACCARELLI INDICE 1. Etimologia della parola Demenza pag. 4 2. Etimologia della parola “palliativo” pag. 4 3. Principi fondamentali su cui si basano le cure palliative pag. 4 4. Un po’ di storia pag. 5 4.1 Carta dei diritti dei morenti pag. 5 5. Etica e critica pag. 6 6. Assistenza in Ospedale… in Hospice… a Domicilio… una scelta difficile pag. 7 6.1 Assistenza in Ospedale pag. 7 6.2 Assistenza in Hospice pag. 8 6.3 Assistenza a Domicilio 7. Cure Palliative nella demenza: ostacoli 7.1 La Demenza è una malattia terminale 7.2 Decorso della malattia e natura delle decisioni terapeutiche 7.3 In cerca di criteri diagnostici 7.4 Assessment e gestione dei sintomi pag. 9 pag. 10 pag. 10 pag. 10 pag. 11 pag. 11 2 7.5 Il caregiveng ed il lutto nella Demenza 8. Bibliografia pag. 12 pag. 13 1. Etimologia della parola Demenza La radice etimologica della parola demenza, è da ricercare nel latino demens –entis, ossia "mancanza di giudizio". E’ stata usata da Cicerone, e nelle Bucoliche da Virgilio “Quae te dementia 3 cepit?” Oggi si applica alle alterazioni mentali con evoluzione progressiva verso la disgregazione delle funzioni intellettive di base, della condotta sociale, dell’intelligenza e della personalità. Tra le demenze, la Malattia di Alzheimer è, senza dubbio, la più frequente, rappresentando, infatti, il 50-60 % dei casi, mentre il 10-20 % si riferisce a cause vascolari, il 5-10 % a forme miste; il 10-20 % a demenze reversibili. La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta nel 1906 dal neuropatologo Alois Alzheimer (1863-1915). Fu durante la Convenzione psichiatrica di Tubingen che Alzheimer presentò il caso di una donna di 51 anni affetta da una sconosciuta forma di demenza.. Ma fu soltanto nel 1910 che la malattia ebbe un nome, quando Emil Kraepelin, il più famoso psichiatra di lingua tedesca dell'epoca, ripubblicò il suo trattato "Psichiatria", nel quale definiva una nuova forma di demenza scoperta da Alzheimer, chiamandola appunto malattia di Alzheimer. 2. Etimologia della parola “palliativo” La radice etimologica della parola “palliativo”, è da ricercare nel latino “palliare” ossia “coprire con il pallio,con il mantello”. Ci si riferisce alle cure palliative, per indicare quindi, tutte quelle cure destinate a lenire le sofferenze della persona morente, avvolgendola in un caldo mantello di dolcezza, assistenza medica, comprensione, conforto e dignità. Per cure palliative si intende l’insieme di cura attiva, complessiva, multidisciplinare, rivolta ai pazienti la cui malattia di base non risponde più ai trattamenti specifici, in cui la morte è prossima. In esse il controllo del dolore e degli altri sintomi e in generale dei problemi psicologici, sociali e spirituali è fondamentale. L’ambito d’applicazione riguarda la fase terminale di patologie evolutive e irreversibili. Il primo obiettivo delle cure palliative, è quello di garantire la miglior qualità di vita possibile, al malato. Le cure palliative non rinnegano la vita, e non invitano all’eutanasia, ma accettano la morte come l’evoluzione normale dell’esistenza. Si prefiggono di lenire il dolore, e gli altri sintomi molesti. Inoltre integrano il sostegno psicologico, sociale e spirituale nelle cure al malato, lo sostengono e lo seguono fino alla fine della vita, affinchè sia il più possibile attiva, e confortano la famiglia nel corso della malattia del proprio caro, e nel lutto. 3. Principi fondamentali su cui si basano le cure palliative Il loro intento non è medicalizzare la morte, ma rivestire di umanità situazioni di disumana sofferenza attraverso: la globalità dell’intervento terapeutico che non si limita al controllo del dolore e dei sintomi fisici, ma si estende al supporto psicologico, relazionale, sociale e spirituale; la valorizzazione delle risorse del paziente e della sua famiglia; il rispetto dell’autonomia e dei valori della persona malata; la molteplicità delle figure professionali e non professionali coinvolte nel piano di cura; 4 il pieno inserimento e forte integrazione nella rete dei servizi sociali e sanitari; la continuità della cura fino all’ultimo momento di vita; la qualità delle prestazioni erogate che devono essere in grado di dare risposte specifiche, tempestive, efficaci e adeguate al mutare dei bisogni del malato. 4. Un po’ di storia La medicina palliativa ha il suo fondamento nel concetto del “curare quando non si può guarire” messo in pratica per la prima volta a Londra, negli anni Sessanta del Novecento da Cicely Saunders fondatrice del St. Christopher’s Hospice, la prima struttura di accoglienza per malati terminali.. Tale esperienza si è diffusa dapprima nei Paesi anglosassoni e poi nel resto d’Europa con l’affermazione della Medicina Palliativa come specialità autonoma e con la fondazione, nel 1988, dell’Associazione Europea di Cure Palliative (EACP). In Italia sono i centri di terapia del dolore ad avere avuto un ruolo fondamentale, dalla fine degli anni Settanta, nello sviluppo delle cure palliative, in primis la Fondazione Floriani di Milano e il Servizio di terapia del dolore dell’Istituto nazionale tumori Milano. Nel 1987 è stata fondata la Società italiana di cure palliative (SICP) e nel 1989 è nata la Scuola italiana di medicina e cure palliative (SIMPA). Nel 1997 il Comitato Etico Fondazione Floriani ha steso un documento importantissimo, la Carta dei diritti dei morenti, che definisce in 12 punti i diritti di chi sta morendo. Attualmente in Italia i servizi di Cure palliative, la cui regolamentazione è affidata a tre recenti provvedimenti, sono più di cinquanta. 4.1 Carta dei diritti dei morenti Tratta dal Comitato Etico Fondazione Floriani. Chi sta morendo ha diritto: 1. A essere considerato come persona sino alla morte 2. A essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole 3. A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere 4. A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà 5. Al sollievo del dolore e della sofferenza 6. A cure di assistenza continue nell’ambiente desiderato 7. A non subire interventi che prolunghino il morire 8. A esprimere le sue emozioni 9. All’aiuto psicologico e al confronto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede 10. Alla vicinanza dei suoi cari 11. A non morire nell’isolamento e in solitudine 12. A morire in pace e con dignità. 5. Etica e critica 5 Il rapporto tra il malato e il personale sanitario, soprattutto nella struttura pubblica, è oggetto da tempo nel nostro Paese di critiche che provengono sia dall'opinione pubblica sia dagli addetti ai lavori. Il disagio nasce principalmente da un eccesso di tecnicismo, dalla scarsa attenzione alle esigenze delle persone malate e dal perdurare di atteggiamenti paternalistici da parte dei medici. Questi infatti, in nome di un preteso ed ipotetico miglior vantaggio per il malato, tendono a decidere per lui senza informarlo adeguatamente. E così facendo, lo privanodella possibilità di operare scelte autonome riguardo ad un bene così essenziale e assolutamente personale come la salute. In nome di una concezione antiquata della Medicina, attenta più alla malattia che al malato, il paziente si trova declassato da soggetto ad oggetto delle decisioni che lo riguardano. Non si deve, però, dimenticare che questa pratica diffusa non corrisponde alle norme che regolano il rapporto fra il paziente e l’operatore sanitario. L’articolo 32 della Costituzione, infatti, lascia libero il malato di accettare o di rifiutare le terapie e, in generale, gli interventi medici che gli vengono proposti (diritto alla autodeterminazione). Il presupposto indispensabile per una scelta autonoma e consapevole è il diritto del malato ad essere correttamente informato sulla diagnosi, sulla futura evoluzione della malattia, sulle possibili alternative diagnostiche e terapeutiche e sui loro costi e benefici (principio del consenso informato). Anche il Consiglio d’Europa con la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina dell’aprile ’97 ha ribadito che il malato ha diritto di essere informato e a scegliere in piena autonomia gli interventi che lo riguardano. La libertà di scegliere le cure, infatti, fa parte delle libertà fondamentali garantite a tutte le persone dall’articolo 13 della Costituzione. Tale libertà, peraltro, se da una parte esprime il diritto del malato di scegliere se e come curarsi, dall’altra non può estendersi fino alla pretesa di ricevere dal medico qualunque trattamento, anche di efficacia non comprovata. Va, comunque, ribadito che una relazione di tipo paternalistico fra il medico e il paziente non rappresenta soltanto un comportamento eticamente scorretto, ma anche una violazione di specifici diritti dei cittadini. Questa pratica è fonte di disagi particolarmente profondi e rappresenta una violazione più grave dei diritti nel caso di malati prossimi alla morte. Nei confronti di queste persone, particolarmente vulnerabili, il paternalismo medico spesso si accentua, grazie anche alla complicità dei familiari, che, spinti da un intento protettivo, chiedono che il loro congiunto sia tenuto all’oscuro della reale situazione, divenendo a loro volta i destinatari dell’informazione e i titolari delle decisioni. Tutti questi atteggiamenti sono espressione di una medicina che, proprio perché rivolta alla malattia più che al malato, appare poco attenta ad affrontare, dando adeguate risposte, la sofferenza del paziente prossimo alla morte. Del resto tale medicina ha contribuito a determinare orientamenti tipici della società contemporanea, volti ad esorcizzare la morte e a negarla come evento naturale dell’esperienza umana. 6 Ne consegue che i diritti e la dignità di persona del morente vengono spesso violati proprio nel momento più difficile e angoscioso dell’esistenza. Chi è al termine della propria esistenza, infatti, da una parte, si trova a subire trattamenti invasivi e inutili volti a prolungare la sopravvivenza (il cosiddetto accanimento terapeutico), dall'altra, può anche trovarsi abbandonato e trascurato nelle sue esigenze affettive e psicologiche. Alla ricerca di un’alternativa fra questi atteggiamenti e comportamenti, entrambi dannosi, la Medicina Palliativa, dalla fine degli anni Sessanta, ha affrontato i problemi del malato prossimo alla morte in modo globale, tenendo conto della complessità delle sue esigenze, non solo fisiche (ad esempio il controllo del dolore), ma anche psicologiche, spirituali e di relazione con chi gli è vicino. E, in effetti, questa nuova forma di assistenza e di cura, dopo molte difficoltà, si va finalmente affermando anche in Italia (come già avvenuto in altri paesi europei e non). Sta nascendo una nuova consapevolezza dei bisogni del morente e delle risposte ad essi più adeguate, che non è, però, ancora diffusa fra gli stessi operatori sanitari, né presente in maniera significativa nella nostra mentalità. 6. Assistenza in ospedale… in hospice… a domicilio… una scelta difficile Oggi pochi muoiono conservando la propria autonomia decisionali e con un efficace controllo dei sintomi, nonostante direttive nazionali e regionali in materia mentre invece occorrerebbe porre al centro delle cure nelle fasi finali della vita la persona stessa. Nel caso della Demenza, poiché il decorso coinvolge lo stato cognitivo della persona, che alla fine della sua vita, non è più in grado di poter valutare e scegliere dove e come morire, è bene che una informazione completa ed esaustiva sulla malattia, sulla prognosi, sulle cure possibili, sulle eventuali alternative terapeutiche, venga data al paziente, dal medico,nel momento della diagnosi. Deve essere realmente garantita al paziente la possibilità di prendere decisioni sulla propria malattia, sulle cure, e in quale luogo attendere la morte, in tempo, perché poi non potrà più farlo. Inoltre deve avere il diritto di rifiutare trattamenti ai quali non desidera essere sottoposto, anche se ritenuti dai curanti indispensabili. Nel caso di pazienti in stato di incapacità decisionale, la figura di riferimento, che prende le decisioni, è il caregiver familiare. In mancanza di figure di riferimento, le decisioni dovrebbero essere prese dall’équipe curante che comprende anche il medico di medicina generale, sulla base di informazioni rintracciabili nella storia pregressa della persona malata. 6.1 Assistenza in Ospedale Bisogna tener conto di alcuni importanti cambiamenti socio-economici avvenuti nel mondo sanitario. Sul piano economico si evidenzia la trasformazione degli Ospedali in Aziende e la conseguente riduzione dei tempi assistenziali. 7 Sul piano sociologico e antropologico, si osserva un rifiuto della morte, che porta ad un’assenza del senso dei limiti e all’accanimento diagnostico-terapeutico. La persona morente viene spesso sottoposta ad accertamenti diagnostici e terapie futili, che non porterebbero a nessun miglioramento vi è la ripetizione standardizzata da parte dei sanitari di gesti consueti, ma inutili e spesso fuori luogo. In Ospedale non esiste “un posto per morire”, riservato, privato, dove vi sia attenzione per la sofferenza fisica e psicologica. Difficilmente l’Ospedale è rispettoso dei bisogni psicologici del morente, dei suoi bisogni spirituali e religiosi. Qualche volta si assiste ad una estromissione dei familiari che non possono portare la loro presenza e il loro sostegno. Non è garantita e favorita la presenza di una persona significativa e gradita al paziente, sempre e fino alla fine. Inoltre il ricovero ospedaliero non è sempre la via migliore per la fine vita. Un buon servizio ospedaliero è attento al valore della vita e al servizio. L’assistenza spirituale è un giusto completamento alle cure mediche, ma non è prerogativa dell’assistente spirituale, tutti dovrebbero essere formati ad un ascolto attivo, dovrebbero favorire le condizioni migliori per il morente, ponendo attenzione a tempi e luoghi. 6.2 Assistenza in hospice L’hospice si può definire come una “struttura organizzativa residenziale di cure continue, inserita nel sistema di cure palliative, caratterizzato dalla personalizzazione dell’assistenza, volta a migliorare la qualità della vita delle persone nella fase terminale della malattia, integrando gli aspetti psicosociali e sanitari, basandosi su una filosofia delle cure fondata sulla continuità assistenziale; contestualizzata in un modello organizzativo orientato a riprodurre la dimensione domestica”. L’hospice deve rispondere a degli standard strutturali, organizzativi e di formazione,che lo differenziano da altre modalità di ricovero con finalità diverse (RSA, Ospedali di comunità, lungodegenze, ecc.). Lo scopo principale di queste strutture, è garantire non solo un buon comfort logistico e strutturale, ma anche un clima organizzativo che permetta al malato e alla sua famiglia di sentirsi, per quanto possibile, “come a casa”, senza regole predefinite, con un’assistenza personalizzata e attenta alle dimensioni relazionali……” La formazione: è un elemento fondamentale nella filosofia dell’hospice, infatti nella convinzione che la specificità della filosofia hospice è la personalizzazione dell’assistenza (in confronto alla specificità delle cure in Ospedale, fondate sulla standardizzazione), si ritiene che i contenuti della formazione, debbano permettere di acquisire: • La capacità di rispondere con la flessibilità alla complessità ed alla personalizzazione dell’assistenza. • La capacità di ascolto e di decodifica dei bisogni inespressi. • La capacità di gestione dei conflitti fra i diversi soggetti coinvolti, riducendo anche i rischi di burn out 8 Per favorire le opzioni e le scelte del paziente, aspetto particolarmente rilevante nelle cure di fine vita, occorre saper riconoscere ed attivare le risorse sia individuali che di rete sociale della persona ammalata e favorire ed accettare i desideri e le scelte del paziente, sia in ordine alle persone che egli considera di proprio riferimento, sia in ordine alle decisioni di fine vita. 6.3 Assistenza a domicilio Nel corso dell’assistenza domiciliare che accompagna il morente si deve rendere possibile la scelta di interrompere i trattamenti rivolti all’aggressione della malattia, per concentrarsi interamente sulla cura della persona. Il bisogno di assistere le persone a domicilio deve essere riconosciuto e favorito dall’istituzione, sia a livello regionale che aziendale, con l’impiego di risorse economiche e uno sforzo organizzativo. Sarebbe opportuno che ogni Azienda sanitaria creasse un gruppo interdisciplinare appositamente formato e dedicato all’assistenza domiciliare. Tale assistenza non deve però essere riservata al momento della morte, ma dovrebbe accompagnare necessariamente, fin dalle prime fasi le esigenze di tutto il percorso di malattia. Il paziente è protagonista della scelta di assistenza domiciliare, e la sua consapevolezza è garantita se sono disponibili referenti chiaramente identificati, responsabili della cura sia dal punto di vista sanitario che dell’assistenza domiciliare. Il medico di medicina generale deve essere messo in condizione di svolgere il suo ruolo di medico della persona e della famiglia, in relazione alle responsabilità connesse al coordinamento e alla pianificazione dell’assistenza. I percorsi da offrire ai pazienti vanno pianificati anticipatamente, costantemente verificati e personalizzati rispetto alle esigenze e ai desideri della persona stessa. Nelle fasi finali della vita deve essere garantita un’assistenza pianificata per le scelte rilevanti, da una comunicazione circolare tra i curanti e le figure coinvolte nell’assistenza. Il medico è affiancato nel coordinamento appositamente formato e operante nel territorio. dell’assistenza da personale infermieristico L’assistenza di uno psicologo deve essere possibile. Nel caso di una prima diagnosi in fase terminale effettuata in Ospedale, il medico ospedaliero deve comunicare la diagnosi e concordare le strategie assistenziali con il medico di medicina generale e/o con l’unità di cure palliative, nel rispetto della volontà del paziente e al fine di soddisfare, nei limiti del possibile, i desideri e le esigenze del malato e dei suoi familiari. Sarà cura del medico ospedaliero prescrivere gli ausili necessari per rendere possibile l’assistenza domiciliare. Per l’alta complessità dell’assistenza ai malati giunti alla fine della vita, per le tematiche etiche in atto, per la molteplicità delle figure professionali coinvolte, per la necessità di un uso etico delle risorse, è indispensabile la definizione di un processo formativo ad hoc riferito ad ogni singola disciplina e alle specificità del lavoro di gruppo e di équipe. 9 7. Cure palliative nella demenza: ostacoli Tratto dall’articolo: Barriers to excellent end-of-life care for patients with dementia, di Greg A. Sachs, Joseph W. Shega, Deon Cox-Hayley, J Gen Intern Med 2004; 19:1057-1063 Gli autori di questo interessante lavoro partono dalla constatazione che negli Stati Uniti, paese ove le cure palliative sono assai più diffuse che da noi, solo il 10% dei pazienti con demenza beneficia dei cosiddetti programmi hospice (che non si identificano necessariamente con il ricovero in strutture tipo hospice, ma consistono in programmi di cure specifiche per i malati terminali sia in ambito domiciliare che residenziale), una percentuale certamente molto più alta che nel nostro paese, in cui siamo solo all’inizio di questa evoluzione. Gli ostacoli individuati da Greg Sachs e collaboratori sono quattro, di diverso ordine: - Riconoscimento della demenza come malattia terminale Decorso della malattia e natura delle decisioni terapeutiche Assessment e gestione dei sintomi Il caregiving e il lutto nella demenza 7.1 La demenza è una malattia terminale? Si rileva che in generale sia i medici che il pubblico tendano a non considerare la demenza (e il suo prototipo, la malattia di Alzheimer) una malattia terminale. Per questo motivo la demenza viene raramente citata nei certificati di morte come causa della morte. Va da sé che la lunga durata della malattia, e in particolare l’intervallo fra il momento della diagnosi e quello della morte, differenzia l’Alzheimer dalle malattie tumorali, specialmente dalle più aggressive. In realtà questa affermazione è solo in parte vera. Infatti da un lato recenti studi epidemiologici tendono a dimostrare che la mediana della sopravvivenza dei malati di Alzheimer si aggira intorno ai 4 anni, in luogo dei 7-10 o più che per lo più immaginiamo. Dall’altro, se confrontiamo la mortalità per Alzheimer con quella per tumori relativamente poco aggressivi come il carcinoma della prostata oppure la mortalità dei pazienti in trattamento dialitico per insufficienza renale, otteniamo valori non molto diversi. Ne consegue che, così come si ammette il carattere terminale di quelle situazioni morbose, si può ammetterlo anche per la demenza. Anche chi si occupa professionalmente di demenza tende a considerare la morte di questi pazienti come dovuta non alla demenza stessa, ma alle malattie intercorrenti (polmonite, sepsi ecc.), anche se si riconosce che dette malattie sono per lo più secondarie a disturbi, quali la disfagia e la ridotta mobilità indotti dalla demenza stessa. 7.2 Decorso della malattia e natura delle decisioni terapeutiche Un secondo ostacolo a considerare la demenza come malattia terminale è il suo decorso. Se paragoniamo il decorso – la traiettoria di malattia – del cancro con quella della demenza, osserviamo che, mentre il primo, dopo una fase iniziale in cui lo stato di salute del paziente rimane più o meno stazionario, assume un andamento continuamente declinante, la seconda, contrariamente a quanto si potrebbe pensare su base teorica, presenta un lento declino interrotto da peggioramenti bruschi, con un andamento “a scalini”. Infatti, se è vero che il processo degenerativo cerebrale è molto probabilmente continuo e regolare, è anche vero che i peggioramenti bruschi sono dovuti all’insorgere di patologie intercorrenti. Il tipo di decorso descritto per le demenze costituisce un grosso problema perché, come è ovvio, la traiettoria è fortemente influenzata dalla decisioni di terapia che vengono assunte nel 10 momento in cui si verifica un peggioramento improvviso: la decisione di usare o non antibiotici, di provvedere all’idratazione parenterale e/o alla nutrizione entrale può decidere della sopravvivenza o non del malato e dell’interruzione precoce della traiettoria. 7.3 In cerca di criteri prognostici È perciò al tempo stesso difficile e importante tentare di individuare criteri prognostici che non dipendano unicamente dalle scelte terapeutiche. Un tentativo in questo senso è stato fatto dall’American Hospice Organization per motivi molto pragmatici: l’AHO infatti riconosce il diritto di beneficiare dei programmi di hospice care ai malati che abbiano una prognosi di sopravvivenza inferiore o uguale ai sei mesi. Nel tempo sono stati proposti due diversi set di criteri, l’ultimo dei quali è stato commentato da Hanrahan e Luchins: uno dei criteri suggeriti è l’essere il paziente giunto allo stadio 7C della scala FAST (Functional Assessment Stages) di Reisberg. Si tratta di uno stato in cui il paziente non è più in grado di pronunciare più di una parola e di lasciare il letto. Qualora il decorso della demenza segua con regolarità gli stadi delineati nella scala, lo stadio 7C annuncia una prognosi vitale inferiore a 6 mesi e anche misure di sostegno vitale come la nutrizione artificiale non modificano in modo significativo la durata di sopravvivenza. Non così accade per stadi precedenti o per i decorsi non regolari; in questi ultimi infatti l’istituzione della nutrizione entrale qualora compaia disfagia prolunga in modo significativo la sopravvivenza del malato. Quindi, la comparsa di disfagia, che tipicamente è considerata un segno di ingresso nella terminalità, è veramente tale solo se avviene in uno stadio come quello indicato oppure, in stadi precedenti, in caso di omissione della nutrizione artificiale, decisa per esempio per rispettare volontà precedentemente espresse dal malato. 7.4 Assessment e gestione dei sintomi Un terzo tipo di ostacolo allo sviluppo delle cure palliative nella demenza è la compromissione cognitiva e della comunicazione che caratterizza appunto la malattia. Infatti, una corretta gestione del dolore e degli altri sintomi è chiaramente subordinata alla valutazione della loro presenza. Nel momento in cui il malato non è più accessibile verbalmente, alcuni sintomi,e in modo del tutto particolare il dolore, divengono difficili da rilevare anche con l’osservazione da parte dei caregivers. Sono state proposte allo scopo scale di valutazione indiretta – non verbale – del dolore attraverso i comportamenti del malato, strumenti certo imperfetti ma probabilmente utili. In alcuni casi, davanti a comportamenti (irrequietezza, agitazione) di cui si sospetti l’origine dolorosa, può valere la pena di fare un tentativo di trattamento analgesico e valutare la risposta ex adjuvantibus. È ovvio che la demenza in sé non è dolorosa, ma motivi di dolore sono assai comuni nell’anziano demente, ad esempio per patologie osteoartrosiche associate, per neuropatie periferiche, allettamento ecc. Di qui l’importanza di aver sempre presente la possibilità che il malato abbia dolore e la valutazione regolare anche dei segni non verbali di dolore. 11 7.5 Il caregiving e il lutto nella demenza Un punto di grande importanza è il ruolo affatto peculiare che il caregiver svolge nel corso della demenza. L’impegno è di molti anni e spesso di 24 ore al giorno; per di più, almeno da una certa fase in poi, esso non è “ripagato” dalla riconoscenza del paziente, che finisce per non riconoscere più chi lo assiste e può dimostrarsi ostile e aggressivo. Per gli operatori sanitari che si occupano di demenza, l’attenzione al caregiver è una parte molto importante del proprio lavoro ed anzi tende ad accrescersi mano a mano che la situazione del malato peggiora. Per queste ragioni il sostegno ai caregivers gioca un ruolo centrale nella cura del paziente con demenza e non può ispirarsi al modello abituale delle cure palliative per i malati di cancro. Allo stesso modo, il sostegno al lutto in questi casi ha peculiarità che debbono essere tenute in conto. “Un bel morir tutta la vita onora” (F. Petrarca) 12 Bibliografia Corli O. Che cos’è la medicina palliativa, in Corli O. (ed.) Una medicina per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia. Città Nuova. Roma. 1988 Parkes C.M. Terminal care: evaluation of an advisory domiciliary service at St.Christopher’s Hospice. Postgraduate Med. J. 1980 Parkes C.M. Terminal care: home, hospital or hospice? Lancet 19 gen. 1985 Spinsanti S. Introduzione. Quando la medicina si fa materna. In Corli O. (ed) Una medicina per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia. Città Nuova. Roma.1988. Ventafridda V. De Conno F., Comparison of home and hospital care of advanced cancer patients. Tumori. 1989 Ventafridda V. Providing continuity of care for cancer patients. J. Psychosocial Oncology. Vol 8 1990 Sitografie http://www.salute.toscana.it http://www.prodigio.it 13 http://www.limen.biz http://www.palliative.ch Barbara Vaccarelli 14