Intervista a Daniela Guardamagna

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Convegno internazionale su
Samuel Beckett
17, 18, 19 aprile 2008 presso Auditorium “Ennio Morricone”
Facoltà di Lettere e Filosofia - Via Columbia, 1 – Roma
Intervista a Daniela Guardamagna (Comitato scientifico)
“Interpretando il Finale di Partita non si può inseguire la chimera di mediarne il senso per via
filosofica: comprenderlo vuol dire né più né meno comprenderne l’incomprensibilità,
ricostruirne concretamente il nesso significante, che consiste nel rendersi conto che esso non
ne ha” (Adorno)… Eppure, a 19 anni dalla sua scomparsa, Beckett è già un classico e ancora
si continua a esplorare la sua opera alla ricerca di un filo conduttore. Cosa e quanto c’è
ancora da dire su Beckett? E, soprattutto, perché?
R.: Faccio spesso lezione su Shakespeare ai miei allievi. All’inizio dei corsi molti, che lo hanno
studiato un pochino a scuola, mi chiedono ‘come mai sempre Shakespeare?’ Perché è splendido,
rispondo. Perché dice qualcosa di fondamentale per la nostra vita. Perché parla di noi, della nostra
vita, della nostra morte.
In modi diversi, tutte queste cose sono vere di Beckett.
È uno dei grandi che, invece di raccontare piccole storie quotidiane, affrontano il tema della vita,
della vecchiaia, della malattia e della morte dell’uomo. Inoltre, come Shakespeare, Beckett affronta
questi grandi temi con uno humour, una creatività (anche se il termine non gli piacerebbe) e un
livello di consapevolezza tali che in qualche modo ce ne consegna anche la consolazione: una sorta
di catarsi, anche se lui rifiuterebbe anche questa definizione. È uno dei grandissimi, insomma.
Beckett da questo punto di vista è quasi necessario per affrontare il Linguaggio, la Lingua e il
Teatro del ‘900, interrogandosi sul lavoro di chi più di chiunque altro ha stravolto queste
categorie, rendendole in sostanza impraticabili. Su quali aspetti punteranno dunque gli
incontri?
R.: È vero che – un po’ come Joyce con Finnegan’s Wake – Beckett ha ‘reso impossibile’
proseguire dopo di lui sulla strada che ha indicato; d’altro canto se lo si realizza bene il suo teatro
funziona, e funziona in modi imprevedibili.
Personalmente, anche se il nostro convegno si occuperà di tutte le forme della scrittura beckettiana
inclusa naturalmente la prosa, penso che sia stato il suo teatro a risolvere definitivamente
quell’impasse che si era creata con la sua Trilogia narrativa: quel che Beckett tenta di fare anche nei
romanzi è mostrare un linguaggio che tende al silenzio, è “scavare dei buchi”, come scrive, nel
linguaggio, arrivando al silenzio ‘che farà la migliore delle opere’, e questo è un progetto terribile
sulla pagina di un testo narrativo; mentre è splendido e vitale – nonostante i temi trattati – nei suoi
drammi, dove la dialettica è mostrata nel suo svolgersi.
Dal punto di vista pratico, c’è un grandissimo interesse per Beckett nell’accademia italiana, fra i
dottorandi, fra gli studenti. Ma, tranne qualche eccezione che pure esiste, noi italiani come i francesi
tendiamo a letterarizzare l’opera di Beckett, ad esplicitare il grande substrato filosofico che nella
sua opera naturalmente c’è, ma – come avverte il grande saggio di Adorno che tu citavi – rimane
“puro detrito culturale”, e mostra la fine della filosofia occidentale semplicemente essendo.
Gli inglesi, invece, hanno quasi sempre presente l’aspetto concreto, e quindi vitale del suo teatro. A
noi promotrici del Convegno, io e la mia allieva e ‘partner in Beckett’ Rossana Sebellin, è sembrato
molto utile che i giovani invitati al convegno abbiano contatto con questo modo di leggere l’opera
beckettiana, ascoltando e confrontandosi, oltre che naturalmente con qualcuno degli italiani, con
alcuni dei più grandi esperti al mondo sulla sua opera: John Pilling, Enoch Brater, Stan Gontarski,
Chris Ackerley e altri.
Infine, a cento anni dalla nascita, ci sembra utile mettere a contatto gli studiosi italiani con studiosi
di tutto il mondo, e fare un po’ il punto dello status della critica attuale: se sarà accettato il nostro
invito, gli Atti del convegno – che saranno pubblicati speriamo molto presto sulla neonata collana
della Laterza-“Tor Vergata” University Press on-line – potranno contenere gli abstracts di molti
studiosi anche giovani che non parleranno al convegno (non c’è posto per tutti, e dobbiamo
purtroppo effettuare una scelta!), ma che pubblicheremo volentieri, per dare un panorama di quello
che si scrive, si studia e si pensa su Beckett oggi.
Uno dei temi più costanti nel teatro il rapporto tra fedeltà al testo e tradimento della messa in
scena. Secondo alcuni il solo fatto di mettere in scena Beckett costituirebbe un tradimento,
eppure la sua opera continua a riempire le stagioni teatrali europee. Lo stesso Strehler –
brechtiano e razionalista– ha giocato con le distruzioni di senso beckettiane e voi ospiterete
proprio Giulia Lazzarini, grande interprete beckettiana diretta da Strehler .. .cosa possiamo
aspettarci da questa testimonianza?
R.: La domanda è sorprendentemente in linea con molte cose a cui sto riflettendo. Sto lavorando, in
particolare, sulla messa in scena di Fin de partie realizzata da Cecchi. Com’è noto, Beckett richiede
una fedeltà totale alla sua scrittura, ai tempi e ai ritmi previsti minuziosamente dalle didascalie;
eppure ogni messa in scena deve contenere elementi di invenzione, per essere vitale. Come si fa a
coniugare fedeltà e libertà? È un dibattito aperto. Secondo alcuni, la pur bella messinscena di Brook
pecca un po’ troppo nella linea della passività, nonostante alcune innovazioni esteriori come far
recitare da uomini due delle donne di Come and Go. Cecchi, invece, secondo me riesce
perfettamente.
Riguardo a Strehler e Giulia Lazzarini, sono molto felice che Giulia abbia accettato di venire a
parlarci del suo Giorni felici: ci racconterà la sua esperienza, ci dirà cosa ha voluto fare Strehler con
questo grande testo beckettiano e come lo ha messo in scena. Penso che la sua testimonianza ci farà
capire come si confrontano due grandi, e come avviene che un regista (partito da premesse diciamo
pure filosofiche del tutto diverse da quelle dell’autore) riesca, entrando profondamente nel testo, a
‘servire’ il testo nel senso più alto. Citerò scherzosamente Stoppard nella sua sceneggiatura di
Shakespeare in Love, quando all’impresario Henslowe viene chiesto come potranno essere risolti
dei problemi apparentemente insanabili, e lui gli fa rispondere: “Non lo so: è un mistero”. Indagare i
“misteri” della letteratura e del teatro è il nostro lavoro,non è vero?
Liberare Beckett da etichette e categorie artistiche e storicistiche… liberarlo da
“scolasticismi” fuorvianti per restituirlo semplicemente a se stesso. Può essere anche questo
uno dei fini del Convegno?
R.: Certamente. I più grandi critici beckettiani si mettono, secondo me, al servizio del testo, lo
contemplano com’è. E credo che ascoltarli sarà estremamente fertile.
“Negli ultimi anni, quando il suo editore o il suo agente annunciavano l’arrivo di un nuovo
testo di Beckett, era lecito aspettarsi una busta con un foglio bianco, se non vuota”. Così
scrisse Fruttero, il traduttore italiano di Beckett. A pochi anni dal centenario della nascita
cosa ci possiamo aspettare ancora dal genio di En attendant Godot e di Oh, les beaux jours ?
R.: Di capirlo un po’ meglio, direi.
Ufficio Stampa: Giovanna Nigi, 339.52.64.933 – Marta Volterra, 340.96.900.12
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