La Comunità Terapeutica nel continuum dell'assistenza a lungo termine Antonio Maone Non basta far nascere, bisogna poi far vivere. Racamier (1997) In questo capitolo tenterò di mettere a fuoco una questione che attraversa tutto il campo della psichiatria di comunità e che coinvolge in modo particolare la funzione delle Comunità Terapeutiche. Si tratta del problema di come integrare e rendere coerenti, in una prospettiva di lungo termine, i diversi interventi terapeutici che si succedono lungo il decorso dei disturbi mentali gravi. Lungo tale prospettiva temporale, la presa in carico in Comunità Terapeutica rappresenta senz'altro un nodo strategico essenziale, in quanto su di essa convergono tipicamente forti investimenti e aspettative. Tuttavia, benché intensamente investito ed esteso nel tempo, questo percorso finisce comunque per rappresentare “solo” un segmento della storia clinica e dell'intero ciclo vitale del paziente. Ed è verosimile che, in carenza di coerenza ed appropriatezza delle azioni che si susseguono dopo il percorso in Comunità Terapeutica, i risultati grazie ad esso raggiunti rischino non solo di non evolvere ulteriormente, ma perfino di disperdersi e vanificarsi. Dopo aver riassunto gli indizi e le prove a conferma di questa tesi, tenterò di indicare lungo quali direzioni ci si possa oggi muovere e attraverso quali paradigmi sia possibile cercare nuove soluzioni. A tal fine, eviterò di addentrarmi, se non marginalmente, nel processo inerente l'intervento terapeutico-riabilitativo in Comunità per sé, che pure è strettamente correlato al nostro tema per la rilevanza che le dinamiche separative possono assumere nel processo di dimissione e per come possano condizionare il seguito del percorso terapeutico. Prenderò in considerazione, invece, in una prospettiva più ispirata ad un approccio di salute pubblica, ciò che si situa al di là del percorso comunitario, iniziando da alcune evidenze riguardanti proprio il primo snodo, quello in cui può essere messa in questione la stessa praticabilità della separazione e della dimissione del paziente. Strutture intermedie e dipendenza istituzionale C'è un leitmotiv che si ripropone lungo i vari passaggi del processo di de-istituzionalizzazione, relativo al rischio (accompagnato da disillusione e preoccupazione) che le strutture intermedie tendano a riprodurre il fenomeno della dipendenza istituzionale. E' un fenomeno indagato dall'osservazione epidemiologica ed a cui fanno riscontro osservazioni “impressionistiche” che hanno dato luogo a metafore pregnanti, nel corso degli ultimi decenni. Fin dagli anni '70, nell'ambito degli Hopitaux de Jour francesi, ad esempio, o dei Day Hospital britannici, sono emersi richiami in questo senso, sintetizzati da rappresentazioni metaforiche che descrivono il modo in cui una struttura, un gruppo di lavoro, si auto-percepiscono: “il demone della cronicizzazione” (Chanoit, 1977), che ci si era illusi di aver messo fuori gioco con il superamento del manicomio, ma che rientra e si installa insidiosamente nelle strutture intermedie alternative ad esso, alimentato dal perdurare indefinito della dipendenza dei pazienti; o l'immagine del silting up, cioè l'insabbiamento dei porti (Pryce, 1982), per rappresentare gli effetti del lento turn-over; o, ancora, l'immagine del campo sociale della Comunità Terapeutica come “labirinto” istituzionale dal quale può essere molto difficile uscire (Moroni et al., 1998). Metafore che legittimano la proposizione del dilemma paradossale: “sortir de la psychose ou sortir de la psychiatrie?” (Reynaud, 1990); e che confermano la necessità di formulare una via d'uscita, ripensando la riabilitazione psichiatrica proprio in termini di “fine dell'intrattenimento” (Saraceno, 1995). L'indagine epidemiologica sui sistemi di psichiatria di comunità ha dato consistenza quantitativa a tali rappresentazioni; sia, su un piano più generale, attraverso l'evidenza della lungoassistenza nei servizi psichiatrici territoriali (Wing & Haley, 1972; Tantam & McGrath, 1989; Balestrieri, 1990; Veltro et al., 1993), sia riguardo alle strutture semi-residenziali (Maone, 1998; Maone et al., 2002) e residenziali. In queste ultime, in particolare, è stato evidenziato (de Girolamo et al., 2002) che il 38 % di esse non ha dimesso alcun paziente in un anno ed il 31% ne ha dimesso uno o due. Bisogna tener presente, tuttavia, che questo studio ha esplorato un campo fortemente eterogeneo, comprensivo di tutte le tipologie di strutture residenziali non ospedaliere. Inoltre, per il 40% si tratta di pazienti con un lungo passato istituzionale, precedentemente ricoverati in ospedale psichiatrico. Non sappiamo, quindi, quante siano le strutture che abbiano, almeno programmaticamente, una mission che ricada propriamente nel campo degli interventi terapeutico-riabilitativi. Nonostante tali limitazioni, però, da questo studio emerge anche che i responsabili delle strutture ritengono che per il 28% dei pazienti ospitati sarebbe opportuno un minore livello di “protezione”: tuttavia, solo per il 7% è prevista la dimissione nei 6 mesi successivi (de Girolamo et al, 2005). Un campione limitato, ma più utile alla nostra analisi, è stato oggetto di uno studio svolto in tre strutture residenziali in Lombardia, caratterizzate da una mission terapeutico-riabilitativa. Gli Autori concludono che, malgrado quanto dichiarato programmaticamente, “le strutture esaminate non hanno carattere puramente transizionale, in quanto circa ¾ dei pazienti ha degenze protratte talvolta per anni” (Lora et al., 2004)1. E' un fenomeno, peraltro, la cui interpretazione può rivelarsi controversa. Da una parte, infatti, esso può essere considerato come indizio di una situazione morbosa, nella quale aspetti inerenti alla psicosi interagiscono con risposte istituzionali collusive, in un gioco di rinforzo reciproco che dà luogo ad interventi routinari, restringimento progressivo delle prospettive evolutive, perdita di vitalità e dinamismo, rassegnazione, o perfino regressione e degrado; dall'altra, il perdurare della presa in carico intensiva può essere legittimamente interpretato come un'opportuna adattabilità del servizio ai bisogni a lungo termine dei pazienti più gravi (Wiersma et al., 1995). Operatori e pazienti, buone intenzioni e circoli viziosi La dipendenza istituzionale, con le sue conseguenze negative e “cronicizzanti”, sembra dunque essere un rischio implicito nei dispositivi di cura e riabilitazione dei disturbi mentali. La complessità della sua analisi è verosimilmente dovuta ad una serie di macro e micro-fattori che interagiscono incessantemente (aspetti intrinseci ai disturbi e al loro decorso, atteggiamenti dei familiari e degli operatori, pregiudizi sociali, vincoli legislativi e istituzionali, situazioni locali, ecc.). Il fenomeno osservabile è solo il portato finale di tale complessa interazione. Da tale complessità cercheremo ora di enucleare un aspetto centrale, quello riguardante l'interazione fra pazienti e operatori, intorno a cui nel corso delle ultime decadi sono state prodotte analisi approfondite. In particolare, nell'ambito della riflessione guidata da un approccio di derivazione psicoanalitica, si possono citare alcuni contributi significativi. Correale (1991), ad esempio, ha messo a fuoco il rischio di una dipendenza reciproca illimitata che può favorire nel paziente, sulla base di una debolezza delle forze coesive del Sé, un uso tossicomanico dell’istituzione curante. In modo ancora più incisivo, Pazzagli e Rossi hanno sostenuto che proprio nell'offrire la propria mente come contenitore dell'altro si delinea il grande problema del circolo vizioso fra curante e curato, in cui il curante sopravvive mentalmente solo per la presenza del curato, ed il paziente instaura quella dipendenza che o è “in mancanza di meglio”, o è distruttiva per la salute mentale 1 A proposito dell’utilità e dei rischi del perdurare della presa in carico in Comunità Terapeutica, sono interessanti i risultati di uno studio recente sull’utenza delle Comunità Terapeutiche del Lazio; è stato osservato, attraverso l’uso di strumenti di valutazione, che i livelli di isolamento emotivo e appiattimento affettivo ed alcuni aspetti cognitivi si riducono significativamente nei pazienti nel corso dei primi 2 anni di permanenza, mentre tornano ad aumentare successivamente, col prolungarsi di essa (Soscia et al, 2005). sua, ma anche degli operatori. Questo anaclitismo, questa “nuova patologia, la patologia seconda, è in realtà la relazione col curante, che è forse la condizione migliore che si possa ottenere, (...) e che il servizio potrebbe tanto più accentuare quanto meglio funziona” (Pazzagli e Rossi, 1991). Per quanto riguarda la Comunità Terapeutica, sembra che un elemento fondamentale nella genesi del problema sia da rintracciare nelle procedure necessarie all'ingaggio del paziente psicotico nel processo terapeutico, nella creazione delle condizioni minime necessarie alla sua trattabilità; ovvero nella necessità di favorire, lungo la fase di inserimento, “lo sviluppo di un rapporto simbioticofusionale, preludio indispensabile per dare avvio ai primi movimenti identificativi (…) e per la costruzione di un’alleanza terapeutica” (Agrimi e Vigorelli, 1998). Il paziente deve trovare, in altri termini, una “residenza emotiva” (Zapparoli, 1987), in cui l’equipe garantisca la risposta ai bisogni di attaccamento e di accudimento. Il rischio insito in questo irrinunciabile passaggio, tuttavia, è che la gratificazione ottenuta alimenti idealizzazioni onnipotenti e durevoli (nei pazienti e nei curanti), rendendo complesso, poi, il lavoro di dimissione. Lavoro che va quindi previsto, formulato e pianificato, con tutta l'attenzione necessaria alle dinamiche separative ed ai lutti connessi. A questo proposito, Sassolas, riprendendo una concettualizzazione di Racamier, sostiene che il paziente sviluppa “una strategia inconscia di seduzione narcisistica, la quale è agita, non fantasmatizzata o pensata, espressa dunque in azioni e comportamenti in grado di attivare nei curanti il fantasma di essere indispensabili alla sua sopravvivenza psichica e fisica, cioè comportamenti di autosqualificazione. Se si prendono per denaro contante questi comportamenti, cioè se si vede in essi l'espressione di una patologia definitivamente insediata, piuttosto che un elemento della relazione del paziente con i curanti, la situazione rischia di bloccarsi nella ripetizione e quindi nella cronicità” (Sassolas, 2007). Il concetto di auto-squalificazione così formulato sembra trovare una certa analogia con quello, proveniente da tutt’altro ambito teorico, di “passività appresa” (learned helplessness), dove pure è la situazione ambientale, caratterizzata da paternalismo e rassegnazione, ad alimentare nel soggetto il graduale strutturarsi della convinzione di non farcela da solo (Seligman, 1994). Una concezione analoga si ritrova poi alla base dei recenti modelli statunitensi di riabilitazione psichiatrica (Farkas, 2007) e di case management (Rapp e Goscha, 2006), che puntano su un ribaltamento dell’approccio riabilitativo tradizionale, condizionato dal medical paternalism e focalizzato sulla fragilità e sul deficit, a favore di una visione che valorizzi i “punti di forza” e le risorse personali e ambientali. La diffusione dell’atteggiamento paternalistico sembra essere documentata da ricerche che hanno esplorato le attitudini ed i pregiudizi degli operatori psichiatrici. Uno studio condotto a Zurigo (Nordt et al., 2006) su un vasto campione, ha sorprendentemente rilevato la stessa “distanza sociale” e gli stessi pregiudizi verso la malattia mentale negli operatori rispetto a quelli rilevati nella popolazione generale. Altri studi hanno evidenziato sostanziali diversità di punti di vista fra operatori e pazienti circa i bisogni e i desideri di questi ultimi (Middleboe et al., 1998; Fakhoury et al., 2005); in particolare, in merito alle aspettative di dimissione da strutture residenziali, gli operatori mostrano marcati pregiudizi riguardo al desiderio dei pazienti di accedere ad una prospettiva di vita autonoma. Sembra dunque che uno dei fattori essenziali alla base della dipendenza istituzionale possa essere individuato nella relazione del paziente coi curanti, nella quale, anche a causa della paradossalità del mandato (coinvolgere il paziente nel processo terapeutico attraverso un'”accoglienza” persuasiva e protettiva, ma nel contempo non perdere di vista la necessità di favorire l’autodeterminazione) e malgrado le migliori intenzioni, è sempre operante il rischio che si instaurino circoli viziosi di difficile risoluzione, che possono anche esitare in pratiche cronicizzanti, o perfino iatrogene. Si direbbe anzi, in questo senso, che proprio nelle pieghe della relazione pazienteoperatore si potrebbero rintracciare alcuni dei meccanismi che sostengono la “costruzione sociale” della disabilità e della cronicità. Va ricordato, infine, che se una struttura nasce col mandato di “restituire” il paziente alla comunità, dopo un’adeguata presa in carico intensiva all’interno di un setting residenziale di durata ragionevole, ma poi, di fatto, risulta impedita ad operare tale restituzione non solo per i fattori appena descritti, ma anche per ragioni esterne (vincoli istituzionali e normativi, scarse opportunità per far transitare i pazienti in setting meno intensivi, carenza di mezzi e di competenze, ecc.), ciò finisce per ripercuotersi sul clima interno e sul morale degli operatori, che rischiano di sperimentare tale impedimento come fallimento, più o meno esplicito, del mandato stesso. Le conseguenze di situazioni di questo tipo sono tutt’altro che secondarie, ed alimentano un ulteriore circolo vizioso, se si considera il sostanziale impatto di fattori come l’atmosfera, il milieu e la motivazione degli operatori sulla validità e la qualità delle pratiche comunitarie, e quindi, in ultima analisi, sugli esiti. Continuità e transitorietà Se da una parte è opportuno, come abbiamo visto, sorvegliare i circoli viziosi che caratterizzano l’interminabilità della relazione, dall’altra va tenuta presente la necessità, dettata dalla durata e dalla imprevedibilità dei decorsi psicotici, di garantire la continuità della presa in carico. Tale continuità viene generalmente intesa non come costanza o invariabilità del setting, bensì come coordinamento e flessibilità delle risposte ai differenti bisogni nelle differenti fasi e circostanze del decorso, nonché garanzia della pronta accessibilità di tali risposte nel tempo (Haggerty et al., 2003). Il processo di deistituzionalizzazione e lo sviluppo della psichiatria di comunità sono stati accompagnati da una costante insistenza intorno a questa necessità. Lo stesso concetto di settore, o di area territoriale, si fondano su questa pietra angolare. Ed è da questa matrice che ha preso forma e si è diffuso il concetto di linear continuum nell’ambito della residenzialità psichiatrica (Budson, 1990): lo sviluppo di un continuum graduale di programmi di trattamenti residenziali attraverso il quale il paziente “progredisce” verso un migliore funzionamento sociale e quindi verso setting meno restrittivi (Lehman e Newman, 1996). Per realizzare ciò in ogni area territoriale è necessario prevedere un ventaglio coordinato e coerente di strutture a diversi livelli di intensità assistenziale, ognuna delle quali possa rispondere in modo appropriato ai bisogni contingenti. Il paziente dovrebbe quindi transitare lungo tale filiera di servizi, in relazione al grado di autonomia raggiunto, tendendo idealmente ad uscirne per accedere alla “vita indipendente”, o, eventualmente, “retrocedere” in caso di peggioramento del suo stato. Si tratta di un paradigma che, forse anche per la sua apparente semplicità concettuale, ha trovato una larga diffusione. Esso è, per esempio, implicito nelle raccomandazioni del Progetto Obiettivo Tutela della Salute Mentale 1998-2000 (Ministero della Salute, 1999), in cui, “con lo scopo di offrire una rete di rapporti e di opportunità emancipative”, sono previste strutture “differenziate in base all’intensità di assistenza sanitaria (24 ore, 12 ore, fasce orarie)”. Se compiutamente realizzato, un sistema di questo tipo dovrebbe perciò, ad esempio, assicurare che, una volta “concluso” il programma terapeutico-riabilitativo in Comunità Terapeutica e risolta in modo ottimale la dipendenza del paziente dalle relazioni significative che lì ha intrattenuto, si inauguri un cursus honorum verso il reinserimento sociale a pieno titolo. Ma, per una serie di ragioni, ciò accade molto di rado. Innanzitutto perché realizzare una tale rete di strutture differenziate in ciascuna area territoriale è complicato e costoso. Molto spesso l’impresa viene pianificata, ma poi, per inerzia istituzionale o per carenza di risorse viene realizzata solo in parte; costituendo ciò un primo ostacolo2. Qualora, poi, il “posto” in una struttura a minore assistenza fosse disponibile, questa dovrebbe prendere in carico il paziente solo per un ulteriore segmento temporale (se così non fosse, il sistema si saturerebbe rapidamente, compromettendo il turn-over). Peraltro, questo processo di transizione richiede delicati passaggi del paziente da 2 Nell'ambito del Progetto PICOS-Veneto, un recente studio multicentrico regionale, è stata realizzata un'indagine sui DSM, che, a proposito della residenzialità, conclude: “Il gradiente decrescente della dotazione di residenze, da quelle a maggiore protezione ed intensità di trattamento verso quelle che prevedono maggiori livelli di autonomia, fa ipotizzare che in molti DSM possa configurarsi una situazione a “collo di bottiglia” in uscita: la scarsa dotazione di Comunità Alloggio e Appartamenti semiprotetti potrebbe impedire ai DSM di promuovere, per quegli utenti delle Comunità Terapeutico-Riabilitative con più bassi livelli di disabilità, una possibile esperienza di vita progressivamente autonoma, favorendone invece lo stazionamento in Comunità e procrastinando sine die gli eventuali tempi della verifica finale; da ciò ne conseguirebbe una saturazione dei posti letto, scarso o assente turn-over degli utenti (...), col rischio di cronicizzazione per i nuovi e più giovani psicotici che magari potrebbero beneficiare di un tempestivo trattamento riabilitativo in una cornice protetta residenziale” (Lasalvia et al., 2007). un’equipe ad un’altra; e tale delicatezza può essere fonte di instabilità, vulnerabilità e perdita dei supporti sociali costruiti nella situazione precedente. In ogni caso, le varie transizioni vengono decise dai curanti sulla base di una propria valutazione di “idoneità”; di conseguenza il paziente rischia di non avere alcuna opportunità di scelta personale. E d’altronde, considerata anche la ristrettezza a monte delle opzioni possibili, non sempre i curanti possono scegliere la soluzione più adeguata al caso, dovendosi spesso accontentare di sistemare il paziente “dove c’è posto”. Che il paradigma del continuum residenziale fosse inaffidabile, del resto, è già apparso chiaro da tempo nelle situazioni in cui era stato pianificato e sottoposto a verifica: le transizioni attese si realizzavano solo in minima parte, e generalmente il percorso dei pazienti si bloccava nel primo slot della serie prevista (Geller, 1993). Ad una valutazione a posteriori, le conseguenze della sua applicazione sono state descritte come una sorta di “ottovolante di successi e fallimenti indotti dal sistema stesso, che lasciava tutti gli attori coinvolti in uno stato di grave frustrazione e demoralizzazione” (Bigelow, 1998); e si è fatta strada la convinzione che il “mito” del continuum lineare andasse seriamente ridimensionato. Continuità e flessibilità L'errore di fondo che rende difficoltosa l'applicazione del continuum residenziale risiederebbe nello stretto legame fra alloggio e assistenza che lo caratterizza in tutti i suoi passaggi (Ridgway e Zipple, 1990). Mentre, infatti, il bisogno di assistenza, derivante dagli aspetti clinici e dalla disabilità, può manifestare variazioni significative lungo il decorso (come dimostrano gli studi catamnestici), il bisogno di un luogo in cui vivere è invece una necessità costante ed universale, non solo per il paziente, ma per tutti gli esseri umani e per tutta la vita. La sistematica (ed impropria) sovrapposizione di queste due dimensioni rischia di creare le premesse perché diventino confuse e fra esse intercambiabili. Se poi si considera l'andamento delle evoluzioni a lungo termine dei quadri psicotici, lungo le quali fatalmente le aspettative e gli investimenti sul trattamento tendono ad affievolirsi, allora il luogo in sé, cioè la mera collocazione fisica del paziente, rischia di divenire l'obiettivo sostanziale, verso cui tende a confluire ed a esaurirsi l'intero senso del “progetto terapeutico”. Col passare del tempo, il bisogno del paziente tende a coincidere con il bisogno della sua collocazione, peraltro mai definitiva. Infatti, i diversi segmenti del continuum vengono concepiti come transitori, e ognuno di essi deve essere provvisto di una cornice istituzionale atta a regolare la durata della permanenza, le forme ed i livelli di tutela dei pazienti e le rispettive responsabilità dei curanti. L'effetto complessivo di tale processo è che la traiettoria esistenziale del paziente si trova ad essere costantemente vincolata alla collocazione spaziale del provider (Saraceno, 2005), anziché essere modulata sulla naturale variabilità temporale dei suoi bisogni. Nei primi anni '90 è stato proposto un ribaltamento radicale del paradigma del continuum lineare, ribaltamento fondato innanzitutto sulla disgiunzione (de-linking) fra alloggio e assistenza. Ne consegue che: 1) bisogno di alloggio e bisogno di assistenza possono essere messi a fuoco e valutati separatamente; 2) si può rispondere al primo con una casa “vera e propria”, dignitosa e non transitoria; 3) ai bisogni di cura e assistenza si provvede attraverso una rete flessibile di assistenza domiciliare, associata ad una reperibilità di 24 ore su 24 degli operatori (Carling, 1993). Questo approccio, definito supported housing3, ha avuto una certa diffusione negli Stati Uniti ed in Canada, dove è stato anche sottoposto a verifiche di efficacia (Ridgway e Rapp, 1997; Rog, 2004) ed è stato accreditato come best practice (Public Health Agency of Canada,1997; SAMHSA, 2003). Il terreno su cui esso ha preso le mosse è quello dell’empowerment e del modello di riabilitazione psichiatrica di Boston, armonizzandosi con le filosofie di intervento basate sui concetti di recovery ed autodeterminazione (Anthony et al., 2003), incontrando anche grande favore da parte delle associazioni di utenti e familiari (Power, 2006). Del resto, anche in Italia, in una serie di esperienze innovative che si vanno sviluppando negli ultimi anni, si ritrovano alcuni dei principi essenziali di questo approccio: la rete di appartamenti nel centro di Torino (Xocco et al, 2006), ad esempio, o la Comunità Sabrata di Roma, in cui una onlus di familiari e utenti svolge un ruolo di mediazione sociale per il reperimento degli alloggi nel libero mercato immobiliare (Maone, 2005; Maone et al., 2008). Il potenziale vantaggio di questo tipo di approcci sta nella possibilità di promuovere, attraverso l’abitazione, intesa quale elemento-chiave dell’intero processo, uno stabile radicamento del paziente nel tessuto sociale, una sorta di restituzione di un pezzetto di territorio su cui egli possa avere il controllo, costruendo intorno ad esso una rete di supporto flessibile ma dotata di coerenza e continuità e modulata sul profilo individuale dei bisogni. La sua realizzazione, però, richiede uno sforzo “collettivo” che sia in grado di superare gli steccati convenzionali dei ruoli, fra sociale e sanitario, fra pubblico e privato, ma anche fra utenti e servizi, familiari e servizi. In altri termini, sembra che piuttosto che dall’essere pianificate dall’alto, il successo di tali iniziative dipenda proprio dalla possibilità di agire dal basso, mettendo insieme le risorse disponibili sul campo, 3 Questo termine è usato nella letteratura anche con un significato più generale, con riferimento ad ogni tipo di alternativa residenziale extra-ospedaliera. Nel significato ristretto qui utilizzato è stato invece introdotto da Ridgway e Zipple (1990) e Carling (1993). Parkinson (1999) lo distingue, inoltre, anche dal termine supportive housing, riferito alle soluzioni abitative di tipo istituzionale, come board and care homes, halfway houses, ecc. Per una revisione in italiano della letteratura sull'approccio di supported housing si rimanda a: Maone (2006). mettendo in moto e coordinando, attraverso leadership adeguate, la partecipazione attiva di tutti gli attori in gioco. Tali “spinte in avanti” ricordano da vicino la lezione di Ciompi, che affermava la necessità di “provocare uno scatto terapeutico onnipervasivo che spinga in una direzione chiaramente definita, al quale, alla fine, tutti coloro che si trovano coinvolti non possano sottrarsi”; adottare “quale supremo principio terapeutico la formulazione di obiettivi espliciti e concreti, ad esempio il trasferimento in un’abitazione privata”; considerare la scelta dell’obiettivo “già una parte essenziale della terapia, stabilito mediante una trattativa, sotto forma di un contratto da tutti approvato nel lavoro in comune con il paziente, i componenti della famiglia, l’équipe terapeutica e le altre persone coinvolte nell’assistenza” (Ciompi, 1982; corsivi dell’Autore). L’abitazione con supporto flessibile sembra quindi riuscire a scardinare la macchinosità del continuum residenziale, ponendosi come obiettivo concreto da realizzare ad un certo punto del percorso e formulato insieme al paziente. La diffusa implementazione di questo tipo di soluzione potrebbe ottenere due significativi risultati: da una parte, dotare la Comunità Terapeutica di una rete esterna in grado di assicurare una effettiva presa in carico territoriale a lungo termine, evitando così prolungamenti impropri e dannosi, nonché dispersioni e drop-out; dall’altra, stimolare nei servizi territoriali un deciso decentramento dell’asse dell’assistenza dagli ambulatori ai luoghi reali di vita, in più stretta conformità al mandato della psichiatria di comunità, avvalendosi di pratiche ormai ampiamente accreditate, come l’assertive outreach (Burns e Firn, 2003). Occorrerebbe che la soluzione abitativa fosse però già ben presente nella mente degli operatori e dei pazienti della Comunità Terapeutica fin dall’inizio del percorso, secondo accordi stabiliti con i servizi territoriali, prevedendo dispositivi che possano far “scivolare” l’investimento (secondo la definizione di investissement glissant; Sassolas, 2007) dall’equipe della Comunità Terapeutica all’equipe di supporto domiciliare. Peraltro, la realizzazione di progetti di questo tipo è oggi semplificata, almeno teoricamente, dal quadro normativo introdotto in Italia nel 2000 con la legge 328, la quale consente la realizzazione di progetti socio-sanitari integrati nell’ambito dei Piani di Zona, con la partecipazione di rappresentanti delle famiglie e degli utenti, dimostratisi in molte esperienze adeguati a rispondere alle necessità percepite dalle comunità locali. Il nuovo ruolo degli utenti e dei familiari La diffusione dei modelli di assistenza basati sull’abitazione indipendente è stata sottesa fin dall’inizio da una diversa concezione della posizione del paziente nella relazione con i curanti. L’impostazione tradizionale, basata sulla preminenza del ruolo dei curanti nella valutazione dei bisogni e nella formulazione degli obiettivi, viene progressivamente superata, nello sforzo di restituire al paziente la possibilità di esprimere il proprio punto di vista e di partecipare alle decisioni che lo riguardano (secondo il noto slogan, nothing about me, without me). Ma la consistenza di questo nuovo approccio non si fonda solo sulla retorica degli slogan: negli ultimi dieci anni importanti evidenze sono emerse dall’ambito degli studi sulla qualità della vita, che dimostrano che il coinvolgimento attivo dei pazienti nelle scelte riguardanti i trattamenti, nella pianificazione dei servizi, nella conduzione di programmi di ricerca, è un fattore che può essere decisivo sulla soddisfazione e sugli esiti (Sartorius, 2006). Nello stesso ambito sono emersi con chiarezza alti livelli di discrepanza nella visione di utenti e terapeuti, basati prevalentemente sulle diverse priorità rispetto agli esiti desiderati4 (Lasalvia et al., 2005; Ruggeri et al., 2005). E questo diverso “ascolto” dei pazienti ha fatto emergere le loro preferenze in merito alle opzioni inerenti la residenzialità psichiatrica. Numerosi studi hanno dimostrato in modo inequivocabile che i pazienti, se potessero scegliere, preferirebbero di gran lunga soluzioni assistenziali corrispondenti al modello di supported housing descritto sopra (Tanzman, 1993; Friedrich et al., 1999; Forchuk et al, 2006). Questo diverso posizionamento dell’utente (divenuto nel frattempo consumer/survivor, ovvero cittadino “sopravvissuto” alla malattia mentale ed alle sue conseguenze e quindi “competente” in materia di risposte ai propri bisogni; Agnetti, 2007) sembrerebbe promettere un’azione decisiva sui processi di auto-squalificazione e sui circoli viziosi di cui si è discusso sopra, inserendo nuovi e più chiari elementi di negoziazione e responsabilizzazione all’interno della tradizionale concezione dell’alleanza terapeutica. Anche il ruolo delle famiglie sta attraversando, in questi anni, significative trasformazioni. Intanto va ricordato che si tratta di una popolazione di familiari sempre più anziani: quelli i cui figli hanno avuto un esordio schizofrenico all’epoca della riforma sono ormai ultrasettantenni. Di fronte ad un sistema di assistenza psichiatrica tuttora frammentario e carente in molte aree del paese, ed alle 4 Mirella Ruggeri (2007) ha così riassunto le priorità degli utenti emerse dalla letteratura recente: a) ricevere informazioni appropriate ed essere coinvolti nelle decisioni; b) avere un buon rapporto con i propri curanti; c) essere coinvolti in programmi terapeutici chiari che includano anche una buona preparazione alla dimissione o al termine del trattamento ambulatoriale e prevedano dei follow-up; d) un buon coordinamento fra i servizi con cui interagiscono; e) essere messi in contatto con gli altri pazienti affinché si attivi una forma di supporto tra pari. I familiari esprimono richieste molto simili a quelle dei pazienti, ma pongono un’enfasi più netta: a) sull’informazione ricevuta; b) sul proprio coinvolgimento nei trattamenti; e) sull'importanza di interventi supportivi ed intensivi nell'emergenza e, infine, d) sulla necessita di una presa in carico a lungo termine.” prese con il sistema della residenzialità ancora contraddittorio nelle sue prospettive temporali e privo di una visione coerente e di lungo respiro, i familiari sono comprensibilmente preoccupati del “dopo di noi”. Molti di loro hanno accumulato una storia di rapporti con i servizi caratterizzata dall’alternanza di speranze e delusioni, deleghe e rigetti, spesso intessendo la propria tragedia personale e familiare con le storie naturali dei servizi e con le loro alterne vicissitudini, o sperimentando l’attribuzione di essere agenti eziologici del disturbo e di ostacolo al trattamento, senza riuscire infine a discernere quanta sofferenza si sarebbe potuto evitare e quanta fosse ineluttabile. E’ comprensibile, perciò, che una parte di familiari, mossi dalla preoccupazione per il futuro, cerchino e trovino alleanze ed esercitino pressioni nell’intento di moltiplicare le “strutture” per la presa in carico a lungo termine, verso ulteriori e più “rassicuranti” forme di istituzionalizzazione. Ma la situazione è in realtà molto eterogenea. In molti servizi si va diffondendo da qualche anno la pratica del coinvolgimento dei familiari, sia attraverso le varie tipologie di gruppi multifamiliari, sia con la partecipazione alla gestione degli stessi servizi o di alcune sue componenti (De Stefani, 2007). Anche in questo campo, pratiche nate dal basso, dalle situazioni locali, operazioni “creative” di bricolage istituzionale, tendono a ribaltare i paradigmi tradizionali e vengono poi assimilate a livello normativo5. Ma l’aspetto più interessante ed innovativo sembra evidenziarsi dal momento in cui i familiari, più informati e coinvolti nell’attività dei servizi, anziché limitarsi ad una funzione consultiva, o semplicemente essere oggetto di supporto psicoeducativo, si propongono come soggetti attivi e corresponsabili nella realizzazione di progetti e reti di assistenza. E' verosimile, infatti, che se la devastante ferita narcisistica in opera nei familiari si installa come un potente aspetto conflittuale, relativo ai gravi sensi di impotenza e colpa, una porzione di questo contenuto mentale abbia difficoltà ad essere correttamente riconosciuto ed integrato con altri contenuti (sollecitudine, percezione dei limiti, riparazione) e che venga quindi proiettata sulle équipe. D'altra parte, le équipe si prestano facilmente ad accogliere questo tipo di proiezioni, essendo per lo più, a loro volta, inadeguate all'aspettativa di debellare la malattia, di operare una guarigione. E' possibile, allora, che una riformulazione del rapporto con i familiari, basata sulla condivisione dell'inadeguatezza e sul reciproco riconoscimento dei limiti, possa mettere in discussione questa fissità di ruoli e di deleghe. Se poi i familiari sono messi in grado di agire concretamente, insieme all'équipe, nella realizzazione 5 Nelle raccomandazioni contenute nel Piano Sanitario Nazionale 2002-2003 (Ministero della Salute, 2002) si legge, fra l’altro: “coniugare gli aspetti organizzativi con la possibilità che il paziente sia partecipe ad ogni livello del programma d’intervento, anche attraverso la scelta consapevole del luogo di cura e del curante per migliorare l’adesione al trattamento; mettere in campo nuovi strumenti per l’integrazione sociale e lavorativa del paziente, nel contesto del tessuto sociale e non in surrogati di esso, superando barriere e stigmatizzazioni che ancora oggi riducono le opportunità per pazienti e familiari”. delle condizioni più idonee per una “sopravvivenza” a lungo termine del paziente nella comunità, ciò può meglio favorire l'elaborazione del lutto e l'attivazione di funzioni riparative. Nelle pratiche di supported housing, in particolare, la collaborazione diretta dei familiari può creare le condizioni di una separazione del paziente dalla famiglia senza che ciò si traduca in una rottura o in un'espulsione. La famiglia può infatti mantenere un rapporto col paziente e contribuire da parte sua alla rete di supporto. Del resto, già Racamier, negli anni ’70, in palese controtendenza rispetto ai tempi, sosteneva che la “partecipazione responsabile e collettiva” dei familiari “all’insieme dell’impresa terapeutica, la loro identificazione ai curanti, le informazioni che ricevono, li aiutano in molti casi a superare le loro ferite narcisistiche e ad impegnarsi in posizioni nuove” (Racamier, 1974). Conclusioni Il destino a lungo termine dei pazienti della community care generation, che non hanno conosciuto la realtà dell’ospedale psichiatrico ed i cui decorsi sono stati plasmati nell’interazione con i servizi di comunità, rappresenta oggi un problema di dimensioni notevoli ed una sfida per i sistemi di welfare. In tempi dominati dall’esigenza di razionalizzare e tenere sotto controllo la spesa, si verifica la situazione paradossale per cui lo scenario prevalente dell’assistenza è sempre più incentrato sulle soluzioni residenziali, che sono le più costose ed assorbono la maggior parte delle risorse dei servizi psichiatrici (Bonizzato et al, 2000; Grignoletti et al., 2004). Concepite come transitorie, col mandato di ridimensionare la disabilità e “restituire” il paziente alla comunità, esse tendono purtroppo a riprodurre stanzialità, con il rischio già paventato di ricreare forme aggiornate di istituzionalizzazione. Il basso turn-over le rende poi facilmente sature, e ciò incrementa la domanda, che viene invariabilmente letta ed interpretata come “bisogno” di residenzialità e si traduce in richiesta di ulteriori “posti-letto” e strutture. L’affacciarsi, su questo scenario, di gruppi imprenditoriali che possano offrire risposte a tale domanda con soluzioni di lungo-assistenza e di dubbia qualità, renderebbe ancora più concreta la possibilità di una re-istituzionalizzazione su larga scala. Eppure abbiamo constatato che i delicati meccanismi nascosti nelle pieghe del sistema e che verosimilmente contribuiscono a mantenere questa situazione possono essere analizzati e se ne può, in qualche misura, invertire la tendenza. L'importanza di questa prospettiva è cruciale per le Comunità Terapeutiche: non tenerne conto può comportare il rischio, già attuale, che esse, nella percezione collettiva, vengano assorbite nella generale tipologia delle “strutture residenziali”, in cui la funzione si sovrappone alla struttura, come in un continuo e confondente effetto stroboscopico, e in cui il mandato propriamente terapeutico venga costantemente minacciato, attraverso una serie di ambiguità e malintesi, e fatto tacitamente confluire verso il “compito impossibile” della psichiatria di comunità. Nei trent'anni trascorsi dalla riforma, tale compito sembra essere sotterraneamente “migrato” dai servizi territoriali, ai centri diurni, alla residenzialità, come nel tentativo di dislocarne e procastinarne la soluzione. Se si considerano gli effetti di tale ambiguità, lucidamente descritti da Foresti e Rossi Monti (2004) nei termini di un deterioramento irrimediabile del funzionamento dei singoli e dei gruppi, si comprende quanto essi possano risultare implosivi per le Comunità Terapeutiche, proprio per il situarsi di esse al capolinea di quella catena di deleghe e rinvii. Esse perciò necessitano di una definizione più chiara e sostenibile del loro mandato; e ciò può avvenire solo nella misura in cui il sistema di salute mentale nel suo complesso abbandoni la prospettiva segmentale adottando finalmente una visione sistemica a lungo-termine, in cui la Comunità può giocare un ruolo strategico essenziale. In direzione opposta, anzi proponendosi come antidoto alla prospettiva sopra descritta, sembrano oggi muoversi gli approcci che tentano di ribaltare i paradigmi tradizionali. Essi rientrano, prevalentemente e di fatto, nella cornice teorica della recovery (Anthony, 1993; Farkas, 2007), che sta conoscendo una vasta diffusione ed è ormai inclusa come principio-guida nelle policy di diversi Paesi occidentali, inclusi la Gran Bretagna e gli Stati Uniti (NIMHE, 2004; New Freedom Commission, 2005). Questo termine, come è noto, allude ad una condizione di recupero, ripresa, reintegrazione, piuttosto che alla guarigione clinica6; si riferisce perciò a pazienti che, malgrado la persistenza dei sintomi e della disabilità, e al di là di esse, possono riannodare i fili di un progetto esistenziale compatibile e sostenibile, e recuperare senso e significato all’esperienza vissuta ed anche alla sofferenza. L'approccio di un servizio recovery-focussed non sarà basato, quindi, su obiettivi definiti dai curanti ma piuttosto sarà guidato dall’ascolto delle opinioni dei pazienti e ne terrà conto nella pianificazione degli obiettivi. Ma c'è un altro risvolto importante di questo diverso orientamento: la comunicazione che il curante rivolge al paziente, nell’ascoltare e nell’indagare il suo punto di vista, sembra contenerne altre due, implicite ma altrettanto rilevanti: il riconoscimento dei limiti del servizio nei confronti dei bisogni e delle aspettative dei pazienti e dei familiari; la necessità che le esigenze e gli obiettivi espressi dagli utenti tengano conto di tali limiti e siano sostenuti dalla partecipazione responsabile di chi li formula. 6 Per una analisi approfondita del significato del termine recovery si veda: Carozza (2006); Schrank e Slade (2007). Il riconoscimento dei limiti e la condivisione della relativa inadeguatezza possono costituire un utile argine al “compito impossibile” inerente al mandato della psichiatria di comunità, e quindi creare le premesse per una esplicita ridefinizione e rinegoziazione di esso. Inoltre, la compartecipazione di utenti e familiari, con il ruolo di “esigenti” nella formulazione di obiettivi sostenibili a lungo termine, può dare più oggettività e cogenza alla pianificazione delle risorse necessarie ed alla contrattazione di esse con le aziende sanitarie e con le agenzie di welfare7. Ci si potrà chiedere quanto ci sia di evidenza e quanto di retorica in questa visione; o si potrà essere perplessi di fronte alla prospettiva di affidare alla spontaneità e al “meticciato” un così delicato e complesso compito. Tuttavia la ricerca potrà dare risposte e potrà guidare questo processo evolutivo. Mike Slade (2007), un ricercatore inglese che recentemente ha sottolineato l'urgenza di approfondire l'indagine in questo campo, ritiene che vi siano tre possibili esiti futuri: i nuovi approcci potranno fallire nell’impatto sui servizi e gradualmente scomparire; potranno essere introdotti nelle pratiche, ma essere poi lentamente dimenticati, analogamente al destino che in passato hanno avuto altri “movimenti” in questo campo; oppure potranno divenire i modelli dominanti e condurre a fondamentali e accreditate innovazioni nelle pratiche. 7 Il concetto di “esigente” è qui inteso nel senso che ne dà Cavicchi (2007): “Ormai il senso più profondo che le aziende sanitarie non sono in grado di cogliere – e non per sbadataggine – è quello per il quale l'esigente è il portatore sia di una cultura societaria sia di una cultura comunitaria. Egli non si propone tanto nei confronti dell'istituzione sanitaria in termini di rivendicazione (voglio questo e voglio quello) anche se è un domandante o un reclamante, né rivendica nei confronti dell'istituzione chissà quali elargizioni, o prestazioni, ma al contrario si propone sul piano della responsabilità e quindi della corresponsabilizzazione.” Agnetti G. (2007) Arrivano i consumatori: dove andiamo? Psichiatria di Comunità, VI, 2, 73-79 Agrimi E., Vigorelli M. (1998) La Comunità Terapeutica per giovani psicotici adulti. Introduzione. In: Ferruta A., Foresti G., Pedriali E., Vigorelli M. (a cura di) La Comunità Terapeutica. Tra mito e realtà. Raffaello Cortina Editore, Milano. Anthony W., Cohen M., Farkas M., Gagne C. (2003). Riabilitazione Psichiatrica. CIC Edizioni Internazionali: Roma. Balestrieri M. (1990) Il registro dei casi per il monitoraggio e la valutazione dei servizi psichiatrici. Rivista Sperimentale di Freniatria, vol. CXIV, Suppl. al fascicolo N. 1/1990. 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