Prof. Diego Manetti J. J. ROUSSEAU JEAN JACQUES ROUSSEAU Nato a Ginevra nel 1712, rimasto orfano di madre fin dalla nascita, ebbe un’adolescenza difficile. Affidato a uno zio, tornò a Ginevra nel 1724, per poi cominciare un solitario peregrinare per l’Europa, alla ricerca di stabilità. A Chambery è mantenuto da una amante-protettrice, lasciata la quale si dirige a Parigi dove fa il primo incontro con i philosophes. Collabora all’Enciclopedia. Conosce una giovane donna che sarà sua compagna per tutta la vita e che gli darà 5 figli, tutti abbandonati alla pubblica carità. Il Discorso sulle scienze e sulle arti (1749) gli vale il primo premio di un concorso letterario che gli regala immediata notorietà. Tornato a Ginevra nel 1754, riabbraccia il calvinismo. Tornato in Francia, pubblica Il contratto sociale (1762) e l’Emilio (1762). Negli stessi anni matura la rottura con gli enciclopedisti a causa del carattere instabile di Rousseau che si fa scudo della propria “diversità ed eccezionalità”. Per le idee religiose espresse nell’Emilio è costretto a lasciare la Francia, per riparare a Ginevra dove pure il suo pensiero viene condannato. Si rifugia dunque in Inghilterra (1766) su invito di Hume. L’equilibrio psichico è sempre più instabile e ovunque Rousseau vede complotti e persecuzioni ai suoi danni. Sono gli anni delle autobiografiche Confessioni, pubblicate postume. Ormai solo, muore nel 1778 a Ermenonville, presso il marchese Girardin, in Francia. Nel Discorso (1749) emerge chiara la posizione di Rousseau: “Le nostre anime si sono corrotte a misura che le nostre arti e le nostre scienze sono progredite verso la perfezione”. La decadenza presente dei costumi è opposta da Rousseau alla virtù spartana e romana del passato, criticando del presente soprattutto quel contrasto tra apparenza e realtà che porta a una società “opaca”, in cui la comunicazione è distorta, ricoperta da un “velo uniforme e perfido di cortesia”. Questo è il frutto perverso della civiltà e questa è l’idea - controcorrente rispetto ai maggiori temi dell’Illuminismo francese - che percorre il pensiero di Rousseau, impegnandolo in un serrato confronto critico a distanza con Hobbes e il concetto di “stato di natura”. L’idea è sviluppata nel Contratto sociale (1762) dove si afferma che quanto più una civiltà è evoluta, tanto più vi è disuguaglianza tra gli uomini. Rousseau non vagheggia il ritorno a una mitica condizione pre-sociale dell’uomo, ma aspira a superare la presente società corrotta per formare una società e un uomo nuovi. Ecco il perché della grande importanza del tema pedagogico nell’Emilio (1762), dove si afferma la necessità di educare il bambino proteggendolo dalle influenze del mondo esterno (e corrotto). La filosofia di Rousseau pare dunque in conflitto con i temi dominanti nell’epoca dei Lumi, rispetto ai quali egli si sentirà un incompreso, fino ad arrivare allo scontro aperto, in primis con Voltaire del quale non tollerava l’ironia corrosiva né la critica scettica dell’ordine provvidenziale del mondo – ma anche con gli enciclopedisti, con i quali aveva collaborato per amicizia con Diderot e D’Alembert. Forti sono però i tratti comuni a Rousseau e l’Illuminismo: la critica della società, la religione naturale, l’importanza dell’educazione, la battaglia contro i pregiudizi. Lo sviluppo di tali temi è però diverso, poiché la critica della società da parte dei philosophes appare a Rousseau più una accettazione dell’esistente, mentre le sue idee di riforma radicale sono giudicate delle utopie. Eppure Rousseau stesso diceva: “Io non amo affatto la filosofia”, nel senso che avrebbe voluto evitare le vuote dispute degli illuministi e affrontare in modo concreto i problemi della giustizia, dell’intolleranza, della disuguaglianza. Prof. Diego Manetti J. J. ROUSSEAU L’ORIGINE DELLA DISEGUAGLIANZA I veri mali della società per R. sono la disuguaglianza economica, lo sfruttamento, l’ingiustizia sociale. Nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini (1755) afferma che la diseguaglianza, essendo quasi nulla nello stato di natura, è accresciuta dal progresso umano e diventa stabile con l’introduzione della proprietà e delle leggi. Essa è dunque contraria al diritto naturale. Sotto i nostri occhi sta ora l’uomo civilizzato. Per coglierne la vera essenza, nascosta dalla civiltà, occorre ritornare all’uomo dello stato di natura, senza proiettare in tale ipotetica condizione le caratteristiche dell’uomo civilizzato – come hanno fatto Hobbes e i contrattualisti – né supponendo capacità razionali e leggi naturali proprie di un uomo già sviluppato, civilizzato, capace di discernere il bene dal male. La chiave per una critica radicale all’esistente diviene invece per Rousseau il ripercorrere una ipotetica storia originaria dell’uomo che ne rintracci la condizione naturale, essenziale. L’uomo naturale appare un animale meno forte di altri ma capace di organizzarsi, con bisogni elementari (mangiare, dormire, riprodursi) e una relazione immediata con la natura. Privo di riflessione e immaginazione, tale uomo vive alla giornata, senza progettare il futuro né temere la morte. Isolato, non ha cognizione del bene né del male, è un essere a-morale, o meglio ancora pre-morale. Gli unici principi che lo guidano, anteriori alla ragione, sono l’amor di sé (autoconservazione) e la pietà (per i propri simili). Rispetto agli animali, l’uomo è però un agente libero dotato della capacità di auto-perfezionarsi. Questo ha portato al progresso, alla civiltà, secondo uno sviluppo storico che ha corrotto l’uomo naturale facendone derivare un uomo civilizzato e artificiale. A mano a mano che sono migliorate le capacità tecniche e intellettuali dell’uomo, le relazioni sociali e le condizioni morali e spirituali sono andate deteriorandosi. La divisione del lavoro, la nascita della competizione e dell’invidia sociale hanno trasformato l’amor di sé in amor proprio, in egoistico culto del proprio interesse. In tale processo è sorta la disuguaglianza, frutto della istituzione della proprietà privata della terra, per cui è andata formandosi e accentuandosi quella disparità fra ricchi e poveri che non appartiene all’uomo naturale ma solo all’uomo come essere storico. Solo a questo punto si può assistere a quella conflittualità generalizzata che Hobbes riteneva tipica dello stato di natura; e solo a questo punto si rende necessario un contratto che istituisca la società civile e le leggi per porre fine alle contese. Un patto però che è sancito dal primato dei ricchi e come tale è la legalizzazione del sopruso. Se il contratto è iniquo, si produce una socializzazione malvagia, che andrà spazzata via da un terremoto rivoluzionario (nel 1789 ci sarebbe stata la Rivoluzione…) destinato a riprodurre un nuovo (ed equo) stato di natura. IL CONTRATTO SOCIALE La critica radicale alla società presente viene sviluppata nel Contratto sociale. Anzitutto Rousseau afferma che non è sua intenzione tornare a un anacronistico stadio pre-civilizzato, né si illude che si possa risalire ai tempi della naturale uguaglianza tra gli uomini. Tuttavia crede fermamente che si debba indicare la via per ricomporre la scissione dell’uomo artificiale in oppresso e oppressore, rigenerando l’uomo malato. E questo è possibile sulla base della naturale bontà dell’uomo (ottimismo antropologico di Rousseau, opposto al pessimismo storico). La politica è lo strumento indicato per portare a una società e a un uomo nuovi. E il Contratto sociale delinea la teoria politica che deve guidare tale compito. Anzitutto nessun individuo per natura è titolare di un diritto o un’autorità su un altro individuo. Non valgono il diritto divino, Prof. Diego Manetti J. J. ROUSSEAU né l’autorità paterna, né la legge del più forte: l’autorità richiede il consenso espresso nel patto. A differenza del contrattualismo che ammette pactum unionis (origine della società) e pactum subiectionis (fonte della scelta di assoggettarsi a un sovrano rinunciano in tutto – per Hobbes – o in parte – per Locke – ai propri diritti originari), Rousseau non accetta il secondo, poiché sarebbe una forma di schiavitù, ma afferma che il contratto sociale è un patto di associazione, non di sottomissione, poiché ciascuno dei membri, cedendo alla comunità, di cui fa parte, la propria sovranità, si trova in realtà sovrano di se stesso. Il contratto fa sì che gli uomini, uniti nel popolo, siano al tempo stesso sudditi e sovrani di se stessi. In questa sovranità popolare, in questo “io-comune” ogni io individuale trova la garanzia dei propri diritti e della propria libertà. Unica condizione necessaria è che l’alienazione da parte di ciascuno dei propri diritti sia totale e senza riserve, poiché ciascuno “dandosi a tutti, non si dà a nessuno”. La volontà generale così formata non è la semplice somma delle volontà individuali ma la volontà dei cittadini in quanto corpo comune: è una differenza qualitativa, in ordine all’oggetto voluto che è il bene pubblico secondo l’interesse collettivo. La sovranità è l’esercizio della volontà generale e la sua espressione è la legge. La sovranità è popolare e non può esser alienata, né divisa, né rappresentata. Rifiuta dunque la divisione dei poteri e ritiene, con Hobbes, che la sovranità sia indivisibile. Diverso è invece il governo, che non ha compito di legiferare, ma è come un ministro tra il popolo in quanto sovrano e il popolo in quanto suddito. Il governo non nasce dal contratto ma da una legge, promulgata dalla sovranità popolare che può destituire il governo quando lo ritenga più opportuno. Separata la sovranità e l’esercizio del governo, ecco che Rousseau può distinguere le forme di governo: la democrazia (idealmente la migliore, ma poco opportuna e poco praticabile in quanto causa di possibili contese), la monarchia (ferocemente criticata poiché il suo fine non è la felicità pubblica ma il benessere del singolo re: è dunque ben lontano dalla prospettiva del dispotismo illuminato dei philosophes e di Voltaire), l’aristocrazia elettiva (giudicato il migliore ordinamento, fondato sul governo di pochi, eletti dai cittadini). Lo scopo del Contratto sociale è dunque “trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato; e per la quale ognuno, unendosi a tutti, non ubbidisca tuttavia che a se stesso, e resti altrettanto libero di prima”. Mentre Hobbes in vista della sicurezza rinunciava alla libertà dei suddito, postulando una sovranità assoluta, ecco che Rousseau lega inscindibilmente sicurezza e libertà. Ovviamente si tratta non della libertà naturale e originaria, ma della libertà civile, possibile cioè entro determinati rapporti sociali. Se il patto è la rinuncia all’uomo naturale e la sua trasformazione in uomo artificiale, è vero però che tale uomo civile è anzitutto un cittadino, con virtù sociali (in luogo della originaria indifferenza al bene o al male). Rigenerare l’uomo civilizzato dalla decadenza presente significa riportare la proprietà privata a esser un diritto e non un’usurpazione, riconducendo la disuguaglianza a quel minimo di accettabile che non minaccia l’altrui libertà. Prof. Diego Manetti J. J. ROUSSEAU L’EMILIO La rigenerazione dell’individuo viene presentata nel progetto pedagogico dell’Emilio (1762). La felicità è indicata come il fine di ogni essere sensibile. Veramente felice è chi è solo, come Dio. Ma all’uomo non è data una simile felicità, poiché egli è un essere sociale, bisognoso degli altri. Occorre dunque nell’educazione ricercare una via sicura alla umana felicità. Per fare questo Rousseau conduce una sorta di esperimento mentale per ripercorrere il cammino dell’educazione della specie umana dallo stato di natura allo stato sociale, il tutto sotto il controllo della figura dell’educatore. Anzitutto occorre rispettare le esigenze proprie dell’età del bambino, senza imporre modelli educativi tipici degli adulti. Non si parte dunque dai contenuti (che cosa insegnare) ma dal soggetto (a chi insegnare). Si tratta di una educazione negativa, volta non tanto a insegnare la virtù quanto a prevenire il vizio, soprattutto nei primi 12 anni di età, durante i quali le influenze (negative) dell’ambiente possono essere determinanti. Per quanto concerne lo sviluppo cognitivo si favorirà anzitutto la sensazione e solo successivamente si punterà sull’esercizio della riflessione e della ragione. Sin verso i tre anni Emilio imparerà dunque a distinguere gli oggetti esterni tra loro, sviluppando gradualmente le percezioni che favoriscono la conoscenza del mondo. L’obbedienza all’educatore non sarà ottenuta con ragionamenti ma con la pura autorità secondo il detto (sconcertante) di Rousseau: “Adoperate la forza coi fanciulli e la ragione con gli uomini”. Dai 12 ai 15 anni Emilio svilupperà le capacità intellettuali, studiando geometria e fisica non tanto come astratte nozioni quanto piuttosto come utili discipline. Intorno ai 15 anni si curerà lo sviluppo della retta capacità di giudicare, badando di preparare Emilio a una vita di relazioni sociali, educandolo dal punto di vista morale, sociale e religioso affinché non si lasci trascinare dalla passioni e dai giudizi degli uomini, bensì sappia vedere coi propri occhi e giudicare col proprio cuore. Imperniata essenzialmente sulla disciplina e il controllo delle passioni, l’educazione alla virtù farà di Emilio un uomo morale, capace di seguire il lume della ragione. Infine, l’educazione politica farà di Emilio un cittadino capace di mediare la propria volontà particolare con la volontà generale della comunità in cui è inserito.