Gli errori del modello italiano - Dipartimento di Tecnica e Gestione

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GIi errori del "modello italiano"
MARCELLO DE CECCO
Tutto comincio con la scelta della filiera automobilistica.
Come ha ricordato Colajanni la settimana scorsa su queste pagine, Fiat, IRI ed ENI, operando di
conserva con una efficacia e concordia oggi inimmaginabile, diedero all'ltalia la piu vasta rete di
autostrade in Europa, un paio. di piccoli modelli di automobile accessibili alle tasche degli italiani
e la "potente benzina italiana", che in realta veniva per lo più dal Medio Oriente, distribuita in tutto
il paese. Fu un grande salto che diede al paese un abbrivio di una diecina d'anni, innescando una
quantita di altri fenomeni virtuosi. Diversamente si comporto il Giappone, che attese altri quindici
anni prima di scegliere la filiera automobilistica, preferendo prima rinforzarsi nell 'industria dei
beni di investimento. Come ebbe a notare a suo tempo Augusto Graziani, quella italiana fu una
scelta troppo precoce, perche operata ad un livello di reddito pro capite che era la meta di quelli del
resto d'Europa. Mise la nostra economia, per un decennio, su una veloce direttrice di sviluppo ma
assorbi una parte troppo grande dei redditi pro capite degli italiani. Comprata la macchina e
contate le spese per tenerla su strada e farla circolare, restava ai nostri concittadini del tempo poco
da spendere in altri beni di consumo o per cambiare la macchina stessa. Nel 1963, inoltre, la
locomotiva italiana si fermò, bloccata dalla prima crisi post-bellica di bilancia dei pagamenti (se si
esc1ude l'allora malata cronica Gran Bretagna). Nel 1966 si fermo brevemente anche la Germania
e con essa l'intera Europa registro una pausa. Ne soffrirono le esportazioni italiane, che
sostituivano ladomanda interna non ancora riavutasi dallo stop del 1963-64.
Cominciò cosi l'infausta opera di coloro che vedevano qualsiasi altra occasione di spesa privata
come conflittuale con la domanda di automobili. Dalla costruzione della ferrovia direttissima
Milano-Roma, con la tratta Roma-Firenze iniziata appunto nel1966 e bloccata o ritardata fino ai
primi anni novanta. Con il blocco della televisione a colori, con la strozzatura della Olivetti
Calcolatori Elettronici, ricordata da Colajanni, della quale fu responsabile diretto Visentini, ma
alla quale parteciparono tutti i piu illuminati esponenti del Gotha industrial-finanziario di allora. In
verità, oltre ad avere preso la scorciatoia automobilistica innanzitempo, il capitalismo italiano del
dopo guerra dovette presto accorgersi dell 'usura precoce del meccanismo finanziario divisato da
Alberto Beneduce per dotare il paese di infrastrutture e persino di strutture industriali. Esso si
basava sulla emissione di obbligazioni da parte di istituti di credito speciale, garantite dallo stato e
vendute ai risparmiatori, i cui proventi andavano a finanziare investimenti destinati a generare
introiti sicuri in settori protetti dalla concorrenza internazionale, e quindi in un ambiente quasi
completamente privo di rischio.
Con l'entrata in vigore della liberalizzazione doganale e con la progressiva evanescenza dei
controlli valutari, sia il settore industriale che quello finanziario italiano furono investiti dalla
concorrenza estera, proprio quando venivano meno i dlfferenziali salariali tra il nostro e gli altri
paesi europei e persino il pool di manodopera a buon mercato rappresentato dal Mezzogiorno era
messo a disposizione dell'intera Europa sviluppata.
II sistema Beneduce aveva funzionato a meraviglia in un paese in cui finanza e industria vivevano
al riparo della concorrenza estera. Ma non poteva tollerare la liberalizzazione. E infatti cadde,
pesantemente, quando si cercò di adoperarlo per il potenziamento del'industria chimica usando
come base i proventi della nazionalizzazione dell' industria elettrica. Nel 1905 si erano
nazionalizzate le ferrovie e con i proventi i loro proprietari erano riusciti a creare una poderosa
industria idroelettrica, natural mente in regime di monopolio interno e di protezionismo totale.
Quando si pubblicizzò l'elettricita, la SIP parastatale, il solo ex-proprietario che si dedicò al
potenziamento di una industria operante in regime di monopolio e protezione, quella telefonica,
riuscì splendidamente nell'impresa. I costruttori dell'industria petrolchimica, invece, nonostante
avessero a disposizione il brevetto del polipropilene del professor Natta e l’acume finanziario del
genero di Alberto Beneduce, Enrico Cuccia, andarono presto ad arenarsi contro le difficoltà della
fusione tra Montecatini ed Edison, contro la concorrenza di rivali italiani che costituirono un
oligopolio competitivo invece che collusivo, e quindi si dedicarono ad una guerradei prezzi, e
infine furono messi fuori gioco dalla quadruplicazione del prezzodella materia prima con la crisi
del petrolio del 1973.
Dopo quella crisi, i nuovi venuti sulla scena petrolchimica mondiale si trovarono di fronte ad una
concorrenza senza quartiere da parte delle imprese chimiche più forti del mondo. Ricordiamo che
insieme all’Italia anche la Polonia di Edward Gierek aveva tentato l’avventura petrolchimica,
costruendo la propria industria sui prestiti internazionali. Il primo shock petrolifero, se distrusse
l'industria italiana, provocando un terremoto finanziario di notevole potenza nel nostro paese, in
Polonia mise in crisi addirittura l'intero regime politico, dando l'avvio al crollo del comunismo in
quel paese e altrove. La fine di Bretton Woods, con l'inaugurazione del non-sistema monetario dei
cambi flessibili come lo chiamò Triffin, funzionò come un vero e proprio deus ex machina per
l'economia italiana, perche permise trent' anni di svalutazioni, che portarono il cambio della lira
nei confronti del marco da 163 a 1000.La politica di Stop-Go seguita senza interruzione dal nostro
paese negli anni settanta, infatti, sottopose la grande industria ad una incertezza sui volumi della
produzione e sull’utilizzazione della capacità installata tale da sconfiggere le capacità gestionali di
imprenditori e manager, ovviamente impreparati al compito, iniziando una ininterrotta crisi delle
grandi imprese, emorragia di operai e tecnici dalla quale ebbe vita il secondo capitalismo italiano,
quello, delle piccole imprese, che tanti studiosi e tanto pochi imitatori avrebbe trovato in Italia e
all'estero.
Si potrebbe dunque concludere che grande industria e grande finanza italiana, allevate alla scuola
del protezionismo e del monopolio, si arresero di fronte ai problemi introdotti dalla
liberalizzazione dell'economia italiana e mondiale. Dalla loro resa sono nati sia i problemi che
abbiamo ancora da risolvere, sia le soluzioni, ovviamente insoddisfacenti, che abbiamo inventato
finora. II sistema bancario italiano, ad esempio, è stato profondamente influenzato dalle crisi di
bilancia dei pagamenti che si sono susseguite nel nostro paese a partire dal 1963 . Esso è stato
infatti sottoposto a partire dai primi anni settanta a un regime di stretto controllo dei cambi, che ha
impedito ai suoi manager e impiegati di imparare a vivere in un sistema finanziario internazionale
libero, sfruttando le nuove possibilità operative da esso offerto. Le continue frenate impartite al
sistema delle imprese dalla politica economica italiana non solo hanno costretto gli imprenditori a
delocalizzare una quantita di funzioni fuori dell' azienda per ridurre i rischi, ma ha insegnato ai
loro banchieri a ricorrere al pluriaffidamento, col quale tutte le banche affidano pro-quota tutte le
imprese e in tal modo cercano anch'esse di ridurre i rischi del credito, senza strozzare le stesse
imprese ad ogni stretta di politica monetaria. E’ evidente che da1 nanismo industriale non potesse
venire un incentivo al gigantismo bancario, ma piuttosto il suo contrario. Esso e stato anche,
all'inizio, fortemente voluto dalle autorita politiche e monetarie del paese, timorose di un "oscuro
potere bancario" che si diceva avesse dominato il paese tra il 1890 e i primi anni trenta del
novecento. Successivamente, la tendenza è divenuta strutturale per il sistema economico. Solo
apartire dagli anni piu recenti, le autorità monetarie hanno cambiato rotta, dedicandosi a
promuovere un movimento di concentrazione e concorrenza nel sistema bancario. Esso ha avuto
un certo successo, ma non ha potuto raggiungere oblettivi come quelli ottenuti in Spagna nella
ricostruzione che ha seguito il crolla del sistema bancario negli anni settanta, e che ha visto il
sorgere di almeno un paio di istituti di dimensioni di "global player". Allo stesso tempo, infatti,
sono intervenute a spingere il sistema in direzione opposta le conseguenze della legge sulle
fondazioni bancarie, che lo hanno istradato su un binario ancora una volta peculiare al nostro
paese, nel quale le fondazioni proprietarie istigano le banche a distribuire a loro rilevanti utili, che
sono adoperati a fini del tutto diversi dal consolidamento patrimoniale e dalla crescita, anche
transfrontaliera, delle stesse banche. Così come peculiare all'Italia è la nuova tendenza, che vede
imprenditori, debitori importanti delle banche, divenire azionisti, talvolta anche strategici per il
controllo delle banche stesse.
E' evidente, dunque, che tutti i fenomeni elencati, e i molti altri che ad essi potrebbero aggiungersi,
richiamano le loro origini a una incapacita di adeguare il modello inventato da Alberto Beneduce
per far fronte alle sfide del ventennio tra le guerre mondiali alla nuova realta della liberalizzazione
e globalizzazione dei decenni recenti. Con un metodo tutto italiano di evitare le rivoluzioni
copernicane, si sono escogitati sempre piu bizantini epicicli per adeguare le istituzioni e gli assetti
di potere esistenti alla mutata realtà, fino a trasformare l'intera economia italiana in una struttura
che non rassomiglia a nessuna delle altre economie allo stesso livello di sviluppo, in Europa e nel
resto del mondo.
Nessun altro paese sviluppato, ad esempio, esibisce un tasso di patrimonializzazione delle famiglie
rispetto al reddito alto come quello italiano, mentre intermediari finanziari e imprese si
confrontano, assai meno favorevolmente, sempre rispetto agli stessi indici, con i loro equivalenti
stranieri. Non deve meravigliare, allora, che avendo affidato alle famiglie cosi elevate risorse
patrimoniali, si susciti poi ripetutamente la tendenza a espropriarle in parte delle medesime con
fantasiose proposte di investimento finanziario, alle quali l'impreparazione professionale dei
singoli le fa acconsentire, in una atmosfera che ricorda quella delle folle che si affidano ai
taumaturghi che promettono miracoli.
D' altro canto, in quale altro paese sviluppato si sta costruendo, rapidamente e senza che i cittadini
se ne dolgano più di tanto, un vero e proprio "stato patrimoniale", che ricorda, ahimé, le precedenti
esperienze italiane delle signorie e dei principati? Questa volta, purtroppo, a questa involuzione
non si accompagna nemmeno it fasto delle corti rinascimentali e lo splendore delle arti che in esse
rifulsero. A meno di non voler confondere le attuali etere televisive con laFornarina di Raffaello o
con la Dama con l'Ermellino di Leonardo da Vinci.
La Repubblica, Affari & finanza
7 marzo 2005
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