Filosofia triennio - Pagina didattica di Andrea Filieri

Filosofia
Che resterebbe d’altro senza Altri?
E. Lévinas
Mito (  )1 :narrazione di carattere fantastico2poetico avente per oggetto, normalmente, quelle od alcune cose su cui indaga la filosofia3.In
sostanza il mito può essere considerato: rivelazione\presentazione del senso del mondo 4
Mythos:in questo termine compare infatti il senso della parola,
dell’annuncio di qualcosa di importante ed essenziale .
Legato al sacrificio: atto col quale l’uomo conquista il favore degli Dei che regnano
nell’universo
Scopo: ma qual è il fine del mito?
Identificarsi e dominare5 ciò che appare nel mito; identificarsi con ciò che ha suprema potenza nel
governare gli eventi del mondo
Ma cosa accade nel VI secolo a.c.? Accade6 l’ apparire della filosofia come sapere che pretende
superare il mito mediante un sapere incontrovertibile, e questo sapere è espresso dalla Filosofia
[Mŷthos]. In Omero (i poemi omerici rappresentano la trascrizione operata presumibilmente nell’VIII secolo a.c. di
preesistenti narrazioni stratificatesi nel corso dei secoli trasmesse di generazione in generazione per via orale) la
parola “mito” significa in alcuni casi “parola, notizia, novella” […], in altri significa addirittura la cosa stessa […].
Successivamente, proprio per la comparsa di un altro tipo di racconto o discorso chiamato “lógos”, le narrazioni
mitiche, fino allora accolte con la stessa serietà con cui più tardi lo saranno quelle filosofiche, assumono il carattere
fabulatorio di “leggenda, favola, fola, mito”, come appunto noi ancora oggi lo impieghiamo […]. Il mito ha in comune
col lógos l’intento di conoscere e spiegare il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è un passaggio dalla
favola alla verità, ma tra due diversi modi di perseguire quell’intento.
2
Fantastica non nel senso di fantasiosa bensì una invenzione che pretende essere rivelazione del senso complessivo del
mondo. Solo più tardi il senso della parola mito diventa quello della “fola”, della leggenda (vedi sopra).
3
Giovanni Reale - Storia della filosofia antica - Vita e Pensiero – Milano 1983
4
E. Severino - Storia della Filosofia Antica - Rizzoli
5
Pur nella loro elementarietà, i miti fornirono all’uomo un quadro del mondo in cui orientarsi e anche l’indicazione dei
modi per dominarlo”. Il pensiero Filosofico e la società, Geymont, Boncinelli, DEA Scuola, Garzanti 2014. Pag. 16.
1
Filieri Andrea
1
Filosofia: philo-sophia7: cura del sapere e della verità.
Sapere che utilizza la forza della ragione per dire qualcosa di inaudito fino ad allora: la verità del
mondo abitato dall’uomo, sulla base di un sapere che non può essere negato né da dei né da
uomini
Che tipo di sapere? Un sapere che si rivolge al Tutto8,
alla Totalità, indagandone:
 il senso ;
 il principio,
 gli elementi;
 il fondamento ,
 le cause ;
 le conseguenze.
Contrariamente
Mito: si rivolge al chaos: disordine, magma, all’illimitato. Tutti i
mondi e gli dei si originano al suo interno . Nel mito greco quindi, tutti gli dei sono originati dal
Chaos originario che è la dimensione più ampia che il mito greco sia riuscito a pensare. Dal
disordine del chaos emerge il kosmos come insieme delle cose ordinate , come mondo.
Esiodo: Teogonia9: gli Dei sono originati dal chaos primordiale\originario. Dal chaos si
origina successivamente un kosmos come insieme delle cose ordinate e finite . Nella Teogonia
dunque, dall’immensità del chaos si generano tutti gli Dei e tutte le fasi del mondo che però
rimangono sullo sfondo mentre l’attenzione è attratta dal modo in cui le vicende e le lotte tra i divini
rispecchiano le lotte e le vicende umane10
“Quali sono i fattori che spiegano il sorgere del pensiero greco? (…) le civiltà pre-greche sono (…) monarchiche ,
stataliste, e accentratrici, con potenti caste sacerdotali e guerriere che detengono le chiavi del potere (…).
 In Grecia (..) innanzitutto, all’antica monarchia patriarcale sono per lo più succedute, fin dai tempi omerici,
governi e repubbliche di tipo aristocratico.
 In secondo luogo , al posto di uno stato accentratore si è costituita una variopinta e frazionata costellazione di
città stato.
 In terzo luogo, le aristocrazie dominanti non sono assimilabili alle caste guerriere o sacerdotali orientali
poiché in Grecia (…) hanno poco importanza.” Abbagnano, pagg. 21 e sgg.
In effetti nella Polis greca dell’VIII\VII sec. a.c. emergono alcuni tratti tipici dell’argomentazione razionale: confronto
di opinioni,discussione,argomentazione,sviluppo delle tecniche, definizione di ambiti privato\pubblico.Non ultima una
oggettivazione della natura distaccandosi da una concezione animistica di essa: una realtà che l’uomo sente estranea e
che cerca di dominare.
7
“.la sapienza greca si presenta, in quanto filosofia, come una ricerca razionale che nasce da un atto fondamentale di
libertà di fronte alla tradizione…” Abbagnano, pagg. 20 e sgg
8
Termine filosofico che designa l’assoluto ossia la totalità del reale. Il soggetto pensante è ovviamente parte del tutto.
Vedi Atlante di filosofia , Hoepli, Milano 2006.
9
Rappresentazione fantastico poetica della generazione degli dei e, di conseguenza, di tutte le cose che dipendono dagli
Dei (alla teogonia è quindi connessa una cosmogonia). Ibidem, pag. 280
10
Retroterra culturale della filosofia greca sono quindi le cosmologie mitiche ma anche le dottrine religiose dei Misteri
ed i motti dei Sette Savi
6
Filieri Andrea
2
Problema dello stato originario da cui le cose sono uscite e della forza che le ha prodotte (Abbagnano pag. 23)
TEOGONIA DI
ESIODO
(VIII secolo a.C.)
COSMOLOGIE
MITICHE
Prima distinzione tra la materia e la forza organizzatrice
del mondo (Abbagnano pag. 23)
FERECIDE DI SIRO
(VI secolo a.C.)
Culto di Dioniso (Tracia): i travestimenti ferini, le
danze sfrenate, l’eccitazione erotica, lo stato d’ebbrezza
che contraddistinguono lo svolgimento dei riti dionisiaci
esprimono una spontaneità non epurata da aspetti
violenti e cruenti.
Orfismo (Tracia): setta filosofico-religiosa fondata dal
poeta tracio Orfeo (VI sec. A.c.). Per l’orfismo in ogni
uomo vi è un demone o un anima di natura divina ed
immortale. Nel corpo l’anima si trova come in una
tomba, il suo fine è liberarsene. (Cioffi, Il Testo
filosofico, Mondadori, 1999). La morte rappresenta
quindi una prospettiva di liberazione. Solo però chi si è
purificato in vita (mediante una condotta moralmente
ineccepibile) può sperare in tale liberazione.
RELIGIONE DEI
MISTERI VI SEC. A.C.
Culto di Demetra, divinità collegata al culto del grano :
misteri celebrati ad Eleusi :località greca ,nei pressi di
Atene ,dove si celebravano i misteri eleusini, una forma
di culto antichissima e tra le più importanti di tutta l’età
antica.
Concetti fondamentali per la filosofia successiva:
1) legge che dà unità al mondo ossia una legge che
dia giustizia di cui sono custodi gli dei. Esiodo la
personifica in Díke: la figlia di Zeus che, sedendo
accanto al padre, vigila affinché siano puniti gli uomini
che commettono in-giustizia, per cui il giusto trionfa e
l’ingiusto (o un suo discenden-te) viene infallibilmente
punito.
POESIA
Hýbris: infrazione alla Legge di Giustizia, dovuta allo
sfrenamento delle passioni e delle forze irrazionali
Primo presentarsi della riflessione morale:motti di
natura pratico-morale che riflettono sulla saggezza della
vita e che preludono a un’indagine sulla condotta
dell’uomo nel mondo. Abbagnano, Storia della
Filosofia, UTET, 1982. Chilone: bada a te stesso:
Solone: nulla troppo.
SETTE SAVI
Filieri Andrea
3
Dimensioni o aspetti del mito: - dimensione più ampia ed originaria(chaos)
- apertura illimitata (chaos)
- unità che raccoglie in sé cose differenti: tribù, clan
familiari
- non pulviscoli di parti
La filosofia, a differenza del mito, pensa al Tutto, come ciò che non ha nulla fuori di sé. Viceversa,
nel chaos di Esiodo, non è escluso che altri mondi possano irrompere, che oltre il chaos si
estendano altri mondi imprevisti ed imprevedibili11. La filosofia allora apre una serie di dimensioni
quali: l’arte, le matematiche, la morale, l’educazione, etc.
vediamo:
1) niente esiste al di fuori del Tutto12
2) tutto il molteplice si raccoglie in Unità: l’identità del diverso.
Non c’è una cosa che non sia identica, per un qualche
aspetto, con le altre cose : se è cosi le cose sono ri-unite in Un
insieme . Lo sguardo su questo unico insieme è la filosofia
dimensioni della totalità:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
8)
presente
passato
futuro
cose visibili
cose invisibili
cose reali
cose possibili
sogni e fantasie veglia e sonno
11
Anche nella sapienza orientale e nelle parti più antiche del Vecchio testamento. Vedi Severino, cit. pag. 19
Non si tratta quindi, di descrivere minuziosamente tutto il reale (cosa evidentemente impossibile per il pensare
umano, finito) bensì di pensare a qualcosa di inoltrepassabile che contiene, appunto, Tutto.
12
Filieri Andrea
4
In conclusione: pensare al Tutto significa pensare-a le cose e
riflettere-su le cose, comprendendo che tutte appartengono alla
totalità oltre la quale non c’è ni (non) -ente (nessun ente)
quindi
La filosofia nega che il mito comprenda il vero senso della totalità e nei primi pensatori presocratici
indaga la totalità come physis ()
la physis non contiene dunque le vicende degli Dei e del loro rapporto con gli uomini (mito) bensì il
cielo stellato, il sole e la terra , l’acqua ed il vento, le azioni umane ed il loro dipanarsi 13
la filosofia vede quindi nella totalità come physis che le cose diverse hanno qualcosa in comune: il
loro essere identiche abitatrici del Tutto (tutti gli x hanno la medesima proprietà T). Tutte le cose
diverse sono identicamente nel Tutto ed il Tutto, per converso, si mostra come insieme di tutte le
cose proprio grazie all’evidenza che tutte sono unite da una medesima proprietà: il loro far parte
della physis come unità primordiale ed incorruttibile
ma come fanno parte le cose della Totalità? Le cose che
nascono e periscono cosa hanno a che fare con la totalità delle cose? I primi filosofi tendono
ad identificare :
1) ciò che vi è di identico nelle cose: la proprietà T
2) con ciò da cui le cose sono costituite, ossia ciò di cui sono fatte , la loro sostanza od
elemento.
In questo modo ciò che le accomuna, l’identità del diverso, non è nient’altro che l’unità da
cui provengono ed a cui ritornano. Es: l’acqua del mare è sia ciò che le onde hanno di identico sia
ciò da cui esse provengono ed in cui si dissolvono. In questo senso i primi filosofi si domandano
dunque, qual è il principio di tutte le cose , ossia si domandano cosa vi sia di identico in tutte le
cose in quanto elemento che le accomuna. Si aggiunga che questo principio (arché-) è anche
la forza che determina il divenire ed i nascere\perire di tutte le cose. Questo divenire è eterno e
quindi divino.
E. Severino, ibidem. Vedi anche Abbagnano pag. 13 cit.: “La filosofia presocratica è dominata dal problema
cosmologico. Essa non esclude l’uomo dalla sua considerazione ma nell’uomo vede solo un parte della natura. Per i
presocratici gli stessi principi che spiegano la costituzione del mondo fisico spiegano la costituzione dell’uomo. (…) il
compito della filosofia presocratica è quello di rintracciare (…) l’unità che fa della natura un mondo.(…) la materia
di cui le cose sono fatte ma anche la forza che spiega la loro composizione. (…) sostanza come principio di azione e di
intelligibilità del molteplice ed in divenire”.
13
Filieri Andrea
5
Possiamo dire allora che per i fil. Presocratici, la physi14s, va indagata sulla base di un principio
che spiega come le cose non solo non si originano dal niente ma il divenire stesso delle cose è retto
da una forza (principio) che le governa.
“l’uomo ha sempre barattato un
po’ di felicità per un po’ di
sicurezza”
S. Freud
Talete
Il sole non è la Luna ma sono identici nel loro essere qualcosa che fa parte del Tutto: ma che cos’è
l’identità dei diversi? In che consiste l’elemento unificatore (determinato) delle cose? Meglio
ancora: qual è l’arché – l’inizio - delle cose?
Acqua: motivi di carattere biologico e chimico
Vediamo: non dobbiamo soffermarci sull’acqua sensibile e sui
motivi che hanno condotto Talete a pensare all’acqua come substrato sensibile del nutrimento dei
viventi, sì che la filosofia apparirebbe rudimentale e rozza.15 Dobbiamo far riferimento piuttosto
all’acqua (tutte le cose sono acqua) come elemento identico da cui si generano ed in cui si
corrompono tutte le cose : physis come acqua .L’acqua allora non è tanto una sostanza sensibile,
non fosse altro perché la terra ed il sole non ne hanno le medesime caratteristiche, bensì ciò che vi
è di identico in tutte le cose. Come farebbe infatti una delle diverse cose del mondo ad essere
identica in tutte le cose diverse? L ‘”acqua” appare allora come una sorta di metafora che non
14
L’identità del diverso va intesa come elemento da cui le cose sono costitutite. Ma l’elemento degli
enti è anche il loro principio ossia il principio da cui le cose si generano ed in cui si dissolvono.
L’identificazione di “elemento” e “principio” è espressa dalla parola “physis”. La parola
“physis” allora nomina sia il principio delle cose che l’elemento delle cose .
In effetti per i primi pensatori l’elemento\principio delle cose è la materia da cui sono costituite e
che quindi è ciò che vi è di identico in ognuna. La physis(Essere) è eterna e le cose sono
espressioni della physis. Vediamo meglio: il termine stoichéion fu utilizzato da Aristotele per la sua
ricostruzione della storia del pensiero presocratico. Ora, mentre il principio e la causa possono
essere anche esterni a ciò di cui sono causa e principio, l’elemento è sempre un costitutivo
immanente.
15
E. Severino, ibidem, pagg. 30 e sgg.
Filieri Andrea
6
riesce ad esprimere ciò che essa intende16 sebbene possiamo affermare che Talete vedeva nell’acqua
quel qualcosa di empirico che unificava il reale, un qualcosa di naturale dotato di proprietà divine.
Anassimandro17: ma come fa un diverso (cosa finita e limitata) ad essere l’unità
della molteplicità del reale? Ad essere l’identità di tutti i diversi? Ad essere physis? La physis allora
è àpeiron (): il- limite.18 In effetti se la physis è principio (arché) ed elemento
(stoichéion) del reale, del molteplice finito e limitato, non può essere a sua volta finita e limitata in
quanto non sarebbe ciò in cui e da cui si generano tutte le cose: dal nulla nulla (ex nihilo nihil).
Tutto ciò che è generato potremmo dire, deve provenire da qualcosa di ingenerato ed incorruttibile
che è il principio di tutte le cose : ciò che è causa di tutte le cose non può essere causato da altro, è
eterno e divino. Banalizzando: l’àpeiron non invecchia. Ed in effetti l’àpeiron è illimitato,
inesauribile e completamente indeterminato. Forse potremmo aggiungere che l’àpeiron è amorfo e
proteiforme: assume infatti qualsiasi forma deterninata.
Anassimene.
Senonchè l’àperion è un concetto solo negativo (ciò che non è
limitato) ma che cos’è l’apeiron? (concetto positivo ). E’ aria: soffio vitale (anima) che ci
sorregge. Rarefacendosi e condensandosi l’àpeiron diventa tutte le cose. Di più: principio vivo e
vitale, non cieco ed insensibile, che governa tutte le cose anche se l’”aria” non rende esplicito il
senso di ciò che vuole dire. In effetti, solo rifacendosi a concetti fisici e materiali quali rarefazione e
condensazione non si comprende il senso dell’”aria” che è invece anima di tutte le cose. Ancora
una volta l’àpeiron resta senza risposta esplicita19.
16
Ibidem, pagg. 34 e sgg.
Physis significa natura. Il Tutto che i filosofi presocratici pensano come 0ggetto di indagine razionale è natura. Ma
qual è l’elemento caratteristico della natura? In una battuta è il divenire, l’incessante movimento delle cose divenienti.
Il fatto stesso insomma che il Tutto è costituito da una molteplicità di cose di cui facciamo esperienza, e questa
esperienza si caratterizza anche per essere esperienza di contrasti: lo stesso oggetto attraversa stati differenti e
contrastanti a volte opposti tra loro: acqua, divenire degli enti naturali, etc.. Il divenire è allora anche esperienza di
contrasti, e proprio questa esperienza contraddittoria caratterizza il Tutto. In effetti il Tutto , ossia ciò per cui le stanno
insieme, ciò che unifica le cose in un Tutto, fa sì che le cose siano in contrasto tra loro: Principio di tutte le cose o
arché. Si faccia attenzione però: l’indagine sul principio non è solo una indagine che ci dice da dove ha origine il
cosmo (ad esempio la teoria de big bang iniziale), non è solo questo ma anche questo. Non è solo la ricerca di qualcosa
che sia temporalmente prima del cosmo, che sia all’inizio del cosmo temporalmente, ma è la ricerca di un principio
primo che sia a fondamento di tutte le cose cioè che sia ragione di tutte le cose e della loro esistenza così come appare
nell’esperienza che ne possiamo avere. La ricerca sull’arché è allora due cose insieme:
- la ricerca di un principio che viene temporalmente prima delle cose
- la ricerca di un fondamento che contenga la ragione dell’esistenza delle cose così come appaiono e questa ragione
non può che essere di tipo fisico: la totalità infatti è natura. Il principio ha la stessa natura delle cose. Se la
physis è totalità, l’origine della phyisis non può che essere di natura fisica e questa natura fisica è espressa
dall’elemento che è comune a tutte le cose.
18
Limite in greco péras: confine, ciò che ci permette di dire che una cosa sia delimitata e finita. Anassimandro ritiene
che all’origine delle cose ci sia un qualcosa che sia priva di questa caratteristica di finitezza o determinatezza.
All’origine delle cose c’è dunque un principio che non ha confini e che per questo motivo contiene tutte le cose.
Detto in altri termini, l’origine delle cose determinate non può essere a sua volta determinata. Le cose, staccandosi, se
così si può dire, da questo indeterminato hanno ricevuto un confine: l’indeterminato per Anassimandro è il divino.
Ma il passaggio fondamentale che si vuole sottolineare è che benché Anassimandro sia un filosofo della physis e si
17
avvalga di concetti di tipo fisico, alla luce di riflessioni successive, l’indeterminato non può essere un principio
fisico.
19
Si badi che in Anassimandro non si può ancora parlare di un superamento della fisica: ciò appare solo in Platone. In
buona sostanza anche in Anassimandro non c’è un ambito della physis ed un ambito soprafisico o metafisico.
Filieri Andrea
7
Monismo
Talete
Ilozoismo
L’arché
è
l’acqua
Tutto è
pieno di
dei
Panteismo
Anassimandro Anassimene
L’arché
l’àpeiron
è L’aria è la forza che anima il mondo
L’àpeiron ha L’aria ha carattere divino
carattere
divino
Eraclito di Efeso (550\480 a.c. circa): “Tutte le cose sono uno” afferma Eraclito. Ossia hanno
qualcosa di identico pur essendo diverse. “questa identità non può essere una cosa particolare e
limitata”20 ma è il-limitata come abbiamo visto (Anassimandro). D’altro lato dovremmo anche
essere in grado di dire cos’è l’àpeiron (Anassimene). Eraclito dà un’ulteriore risposta: l’identità del
diverso, ciò che le rende per un verso identiche pur differendo per altre proprietà (colore, forma,
peso, etc.) è la contrapposizione alle altre: è il loro opporsi alle altre cose ciò che hanno in comune
tra loro. Se la vita non si opponesse alla morte, se se il caldo non si opponesse al freddo, tutte
queste determinazioni non esisterebbero. La discordanza ed il contrasto (pòlemos) governano il
mondo, in una battuta: il non essere altro da sé è àpeiron , l’opporsi di ogni cosa alle altre. Ecco
che allora ogni cosa viene sopraggiunta dal suo opposto, la gioventù dalla vecchiaia, la guerra
dalla pace.Nel divenire delle cose, ogni cosa diventa il suo contrario21, una sorta di armonia
nascosta che esprime il senso della physis come legge ed ordine delle cose.
Ma se non vi fosse opposizione esisterebbe il Tutto ? Non per Eraclito. Nel sogno di chi non
comprende la Parola (Logos) del Tutto, che si offre all’ascolto di tutti , il contrasto delle cose tra
loro è la stessa condizione dell’armonia del Tutto. La vita ed il Tutto sono tali proprio in virtù
dell’armonia del contrasto che non permette a nessuna cosa di esistere per sempre al posto di
un’altra. Nessuna prevaricazione quindi , nessuna ingiustizia, pensata da chi vive e vede le cose
come isolate dalle altre non comprendendone la propria relazione alle altre: un contrasto che tutto
regola ed ordina.
20
Ibidem, pagg. 42 e sgg.
Vediamo di approfondire: non solo ogni cosa si oppone alle altre ma ogni cosa diventa altro da sé. Ogni cosa è
potenzialmente il contrario di sé. In questo senso è impossibile definire l’identità della cosa in un preciso momento.
Ogni cosa è una molteplicità di stati diversi tra loro. In questo senso diventa difficile dire che cos’è una cosa proprio per
questa continua variazione della cosa stessa . Per Eraclito anzi dovremmo dire che una cosa non si riduce ad uno stato
determinato e preciso ma la una cosa è una molteplicità di cose. In sintesi potremmo dire che una cosa consiste nella
molteplicità di variazioni a cui è sottoposta . E ciò per Eraclito non è problematico anzi: è proprio perché le cose sono
intimamente in contrasto che possono divenire, la ragione che sta all’origine del divenire delle cose è il contrasto
delle cose. Diciamolo in altro modo: il fatto che la natura sia attraversata da questi processi dinamici di
cambiamento non è motivo di dissoluzione della natura bensì è la ragione della sua esistenza. In effetti la
struttura delle cose, la loro ragion d’essere sta nel loro intimo contrasto con se stesse. Se vogliamo, proprio
21
perché le cose sono l’identità dei contraddittori, proprio per questo divengono . Ecco, in
questo Eraclito supera ciò che si vede nell’esperienza concreta per andare al di là, verso il nascosto ed il
profondo delle cose m a bisognerà aspettare Platone per introdurre la distinzione tra sensi ed intelletto.
Filieri Andrea
8
La Filosofia di Eraclito
Lògos
Simbolo: fuoco
Realtà
Legge universale
che governa il
mondo
Conoscenza
Ragione
umana
Identità
Filieri Andrea
9
Linguaggio
Discorso
filosofico
La scuola eleatica (dal perché al che cosa)
“due sole cose ti dico: l’una che l’essere è e
non può non essere; e questa è la via della
persuasione perché è accompagnata da
verità. L’altra, che l’essere non è ed è
necessario che non sia, e questo ti dico è
un sentiero sul quale nessuno può
persuadersi di nulla.”(fr. 4,Diels)
Parmenide (VI – V sec. A.c.): abbiamo visto come l’opposizione tra le cose si presenti come il
passo in avanti, fatto da Eraclito su Anassimandro ed Anassimene . Ora, con Parmenide ,
dobbiamo compiere un ulteriore passo in avanti, l’opposizione non di qualcosa ad altro bensì
l’opposizione suprema: della totalità delle cose (physis o Essere) al Niente . In effetti, percorrendo
la molteplicità delle cose, non troviamo mai il Niente, che resta sempre inteso e pensato come nonessere, nulla, Niente assoluto. Se la physis è essere22 , se la totalità23 delle cose che sono, appunto, è
(non è nulla), allora il niente è non essere, fuori dall’essere, opposto all’essere. Ora, se l’Essere
non è non-essere, non è il Nulla, non può neanche darsi il caso che l’Essere sia generato.
Si faccia attenzione attenzione: Parmenide si domanda che cos’è la phyisis mentre precedentemente la domanda era
sul perché della physis: Talete si chiedeva il perché di tutte le cose cioè faceva una domanda sull’origine di tutte le cose,
sul principio di tutte le cose (archeologia. come domanda sull’archè) mentre Parmenide si chiede cosa sia la physis
(l’essenza della physis). Certo Talete rispondeva che l’acqua era origine delle cose perché era l’essenza delle cose
e tuttavia la domanda prima era sul senso del perché di tutte le cose, sull’origine, sul principio primo da cui le
cose provenivano. Parmenide invece ritiene che una volta compreso che cosa sia la physis non avremo più
22
bisogno di pensare ad una origine delle cose. E Parmenide ritiene che la prima risposta che dobbiamo dare è :
- la physis è (l’essenza della physis è il fatto di essere) L’essere è allora l’elemento comune(ed
in questo Parmenide si mantiene in stretto contatto con i pensatori presocratici) a tutte le cose sicché prima di
conoscere se sussistano elementi specifici come l’acqua, l’aria o il fuoco, se siano in contraddizione o in armonia,
è opportuno riflettere sul carattere comune a tutte le cose : l’essere. Ed il significato del termine essere che
deriva dal frammento due è questo: l’impossibilità di non essere. Insomma noi guadagniamo il significato dell’essere
solo attraverso la negazione del suo contrario. Detto in altri termini: il significato dell’essere è la
negazione del non- essere e questo non è né ovvio né scontato nella storia della metafisica.
L’Essere è il Tutto (frammento 8) e non è divisibile: noi non possiamo pensare alle parti (una parte non è l’altra)
dell’Essere perché ancora una volta introdurremmo il non essere nell’essere, in effetti ciò che distingue un essere
dall’altro è il non- essere. (Qui però dobbiamo fare una precisazione, Platone ed Aristotele hanno penato che Parmenide
pensasse l’essere come Uno, come non molteplice. Eppure in Parmenide non si trova una sola volta il termine Uno nel
suo poema. . In effetti Parmenide, più specificatamente, non intende dire che l’essere non si possa articolare al suo
interno, piuttosto intende dire che l’essere non è divisible. Pensiamoci: se noi affermiamo che l’essere non è la
molteplicità escludiamo dall’Essere come Uno la Molteplicità: in realtà la chiave della comprensione del problema sta
nel fatto che l’Essere come Uno è piuttosto la posizione di Melisso e non di Parmenide. Parmenide afferma che tutto è
pieno di essere ed è questa la condizione dell’Essere come totalità: non ci può essere nulla che non abbia un essere, che
non sia essere. Vediamo meglio: molte interpretazioni insistono sul fatto che l’Essere sia il soggetto della proposizione :
“due sono le possibili vie di ricerca : che è ed è impossibile che non sia”. Ma in realtà una modalità interpretativa più
sofisticata ritiene che il soggetto di questa proposizione sia qualsiasi ente, qualsiasi x. E perché questo?. Perché
Parmenide non distingue tra ente ed Essere. Anche quando parla dell’essere come tutto intero ed uguale intende
parlare del fatto che sono tutti degli esseri.. Ancora:Tutto è pieno di essere, ossia l’essere è totalità nel senso che non
c’è nulla che non sia essere. In conclusione, il soggetto della proposizione “l’una che è ed è impossibile che non
sia, l’altra che non è ed è necessario che non sia” è qualsiasi ente, sia nella prima parte che nella seconda.
23
Filieri Andrea
10
Vediamo meglio: L’essere non è il Nulla abbiamo detto, ma se l’Essere fosse generato, ci sarebbe
stato un momento in cui l’Essere era Nulla (Niente), cosa che abbiamo escluso poc’anzi perché
contraddittorio. In buona sostanza l’essere è: eterno24, ingenerato ed incorruttibile. Ma, e qui
veniamo al fondo del ragionamento parmenideo, se l’Essere è ed il non essere non è come possiamo
pensare la totalità degli enti divenienti, le cose insomma? Ogni cosa determinata, ad esempio un
fiore, non ha lo stesso significato della parola “Essere” evidentemente, ma allora, e questa è
l’estrema conseguenza del ragionamento sin qui condotto, il fiore non è l’essere ossia è nonessere25. (cioè non esiste, è una illusione).
Ancora, se io affermo che quel fiore esiste affermo che ciò che non è l’essere è, esiste, è essere, ma
questa è una palese contraddizione per cui sembra che per Parmenide il molteplice delle cose
divenienti debba essere negato.26(l’immobilità è una caratteristica dell’essere)
In conseguenza al problema posto da Parmenide sembra che il mondo della esperienza debba essere
negato, sembra che il divenire delle cose finite sia illusorio perché non-essere e quindi Nulla. Il
momento della esperienza, dell’apparire del molteplice diveniente e cangiante, sembra
inconciliabile con il momento della ragione che afferma la verità dell’ Essere e della sua in
generabilità ed incorruttibilità. Parmenide tiene dunque ferma la verità di ragione27 (L’Essere è ed
il nulla non è) e ritiene illusoria la verità dell’esperienza: le cose appaiono molteplici e divenienti.
Ancora, per tornare alla questione dell’essere parmenideo è interessante far notare che con
Se noi introduciamo il tema della temporalità, dobbiamo fare attenzione a non introdurre il non essere nell’essere:
introducendo il tempo affermiamo che l’Essere era, è stato e sarà. In realtà non c’è nessun passato per l’essere, non c’è
nessun futuro, semplicemente perché introducendo passato e futuro
si introduce la variazione all’interno dell’
Essere ossia inseriamo il non essere. Ma allora perché l’essere deve essere eterno? Perché se noi ammettessimo
che l’essere abbia una fine , un limite, oltre il quale l’essere non è, ammetteremmo un tempo in cui l’essere non
è. Ma, come si diceva, l’essere è, è sempre presente, è sempre nella dimensione del tempo presente, e questa
eterna presenza è derivata dalla radicale opposizione al non –essere. In questo senso, per Parmenide, non ha più
senso una domanda sull’origine, sul perché delle cose, l’Essere non ha una origine. Né sussiste differenza tra
principio delle cose e le cose principate ossia derivate, causate, dal principio.
25
Ib. pagg. 76 e sgg.
24
Se introduciamo nell’essere la variazione, il mutamento, il divenire (ogni cosa diviene altro da sé: il legno brucia,
l’uomo invecchia, l’acqua cambia di stato, etc.) dobbiamo introdurre il non essere nell’Essere quindi dobbiamo
predicrer anche l’immobilità dell’essere.
Facciamo attenzione: in conclusione Parmenide non intende negare la molteplicità degli enti divenienti, intende
piuttosto negare la posizione che interpreta la variazione nei termini del passaggio dall’essere al non essere, che è una
posizione teorica, e non empirica. Si badi anche a questo: non esiste il puro empirismo bensì esiste una teoria che
interpreta la datità. Insomma, il problema è interpretare l’esperienza.
27
Si aggiunga che il non essere è impensabile. E’ possibile pensare solo l’Essere. In effetti se noi affermiamo di pensare
al non-essere affermiamo che l’oggetto del pensiero è il Nulla: cosa impossibile. Certo possiamo dire che l’Essere non
è, possiamo utilizzare un linguaggio per parlare di ciò che è impossibile dal punto di vista logico, ma, e questo è il
punto, nella misura in cui diciamo che l’essere non è noi non pensiamo al nulla bensì all’Essere. Si aggiunga che in
Parmenide logica ed ontologia stanno insieme: la struttura del pensiero è la struttura dell’essere (la logica del pensiero è
logica dell’essere per i greci in genere) mentre nei moderni le cose vanno un po’ diversamente. Andiamo ancora più a
fondo: perché il pensiero non si può contraddire? Perché la contraddizione non possibile? Semplicemente perché per
l’essere è impossibile l’introduzione del non essere. Per altro verso possiamo d ire che per Parmenide non esiste
separazione tra Essere e logica e questo vale per tutti i greci. In effetti se il pensiero fosse separato dall’essere allora non
sarebbe ma daccapo questo è impossibile. Di conseguenza la logica delle cose è presupposta dalla logica del pensiero.
In Platone lo vedremo: l’essere è origine della logica e la logica è tale (non contraddizione) perché l’Essere non si
contraddice. In un abattuta l’orgine della logica è un’origine ontologica. In seconda battuta, il soggetto non deve essere
inteso come nei moderni come cogito cartesiano, il soggetto non ha un natura diversa dall’oggetto : il soggetto
manifesta l’essere. Compresenza di essere e della sua manifestazione.
26
Filieri Andrea
11
Parmenide nasce l’ontologia, come studio di ciò che è radicalmente opposto al nulla, cosa che la
tradizione posteriore riterrà caratteristica del divino. Il divino sarà infatti pensato come
incorruttibile, ingenerato, ed immobile. Se vogliamo, con Parmendide, nasce la teologia, se
ammettiamo che la teologia si interessi dell’essere eterno. Certo, in Parmendide, non si parla ancora
di questo visto che si interessa a tutto l’essere.
Immobil
e
eterno
immutabile
ingenerato
unico
necessario
L’Essere è e
non può non
essere per cui
Esso è:
Finito come
una sfera
perfetta
continuo
omogeneo
indivisibile
I fisici posteriori
Nei pensatori preparmenidei “la verità è l’apparire della physis intesa come unità delle cose
molteplici, fonte del loro generarsi e termine del loro corrompersi.”28Le cose appaiono sebbene
Parmenide ne affermi l’illusorietà e la contraddittorietà con la ragione. Ma se appaiono come
conciliare questo apparire con l’eternità dell’essere ingenerato ed incorruttibile? Possiano dire che
in Empedocle la nascita e la morte delle singole cose non è mera apparenza in quanto esprime la
mescolanza e separazione degli elementi primi dell’essere quali: acqua, terra, aria, fuoco. Tale
mescolanza avviene in una vicenda ciclica che vede di volta in volta il sopravvento dell’Amicizia
(che tiene unite le quattro radici in cui è contenuto l’essere dell’universo diveniente) o della
Contesa( che separa le radici dell’essere producendo il divenire cosmico)29. L’Amicizia e la
Discordia producono e distruggono quindi le diverse configurazioni delle cose. Del resto già in
28
29
Severino, ib. pag. 55
Ib.
Filieri Andrea
12
Eraclito il logos è anche la forza che produce e distrugge le cose ed in Anassimandro l’arché è
anche la forza che le governa.30 In Democrito del resto, è presente l’esigenza di affermare con
decisione l’esistenza dei fenomeni negati dall’eleatismo. L’esperienza insomma non può essere più
negata. Del resto Democrito ritiene con l’eleatismo che l’esistenza dei fenomeni implichi il non
essere. A questo punto Democrito ritiene di poter conciliare i due aspetti citati affermando che
anche il non-essere è: l’esistenza del non-essere è la condizione del molteplice. E come interpreta
l’atomismo questa affermazione? Se l’essere dei fenomeni corporei non può essere negato esso è
ritenuto, in quanto esteso e corporeo: pieno. Il non-essere sarà allora il vuoto inteso come non
corporeo e pura estensione non riempita. Il vuoto divide la compattezza del molteplice in una
molteplicità di parti e quindi è ciò che rende possibile il molteplice. In questo senso anche il nonessere esiste. Di più ancora, è l’estensione dei corpi, ossia la determinazioni quantitativa , ad
indicare il criterio di verità dell’essere. Dal punto di vista della verità infatti l’essere è estensione
piena(ossia l’essere è ciò che rende piena l’estensione31) mentre il non-essere è estensione vuota.
Gli aspetti qualitativi sono invece opinione illusoria. 32
Ci eravamo imbattuti nel pensiero di Eraclito con cui le cose vivono in una essenziale
contrapposizione e contraddizione per poi incontrate Democrito che affermava che il non-essere è
quando riteneva che ogni corpo fosse un insieme di essere e non-essere (pieno e vuoto). Ora proprio
queste affermazioni inerenti il carattere contraddittorio della realtà (ogni ente è pieno e vuoto, ogni
ente è e non è, in vista della aggregazione di atomi e della differenza tra atomo e atomo) portano i
sofisti a interpretare la relazione tra ragione (verità logica) ed esperienza (verità di fatto) come
contraddittoria. In una battuta l’opposizione interna alle cose e tra le cose porta i sofisti a negare
L’autosufficienza dei quattro elementi impone il ricorso ad un duplice principio attivo a loro esterno che dia ragione
dei movimenti di associazione e dissociazione della sostanza. Per quanto concerne la dottrina di Democrito che afferma
l’esistenza degli atomi e del vuoto come spiegazione del divenire, è possibile parlare di meccanicismo:
- in riferimento all’esclusione di menti ordinatrici del cosmo
in riferimento all’esistenza di legami meccanici di tipo causale tra i corpi.
Una metafora spesso usata è quella dell’orologio in cui ogni ingranaggio è connesso con tutti gli altri sicché il
movimento di ognuno è compreso riferendosi anche agli altri . Sviluppando questa metafora si può arrivare a pensare
Dio come l’orologiaio che regola il flusso del tempo dell’orologio. Diversamente il determinismo , vede nella natura lo
svolgersi di leggi necessarie che si fondano sul rapporto di causa effetto. In questo senso ciascun evento è frutto di una
rete di cause che lo determinano. Non è quindi presente il caso in una natura regolata da principi meccanici di sola
causa\effetto. In effetti gli eventi casuali presenti nel meccanicismo non sono logicamente deducibili dagli eventi
precedenti nel tempo e nello spazio. Sempre in relazione a Democrito è possibile parlare di vuoto e pieno: vuoto è il
non essere e pieno è l’essere, precisando però che lo spazio non è né assoluto pieno né assoluto vuoto. Per altro
verso la materia per D. è il pieno concepita come indivisibile in quanto non composta da parti (a-tomo)
contrapposta al vuoto dello spazio. In questo senso per Democrito il non-essere è pensabile come vuoto inteso
come reale e possibile (Parmenide nega il vuoto assimilato al non-essere, mentre l’atomismo e lo stoicismo lo
considerano al pari della materia con cui non interagisce uno degli elementi dell’essere) nell’unico spazio inteso
come detto. Questa operazione è resa possibile dal fatto che per l’autore in oggetto il linguaggio va inteso come
un insieme di segni convenzionali privo (come dicevano gli eleati) di rapporti necessari con l’oggetto designato
dal segno. Ecco allora che Democrito rifiuta l’alternanza secca delle due vie di parmenide (opinione e verità)
nonché LA VIA ERACLITEA della giustezza del logos. La conoscenza per D. è oscura se intesa come
esperienza dei cinque sensi ma diventa chiara non appena si procede alla riflessione sulle cose invisibili mediante
la ragione.
31
Questa è la posizione materialistica di Democrito: la concezione che non esiste altro essere che quello da cui lo spazio
è riempito, posizione nuova nel panorama sin qui delineato nella storia del pensiero filosofico. In modo ancora più
deciso D. ritiene che il divenire sia spiegato nei termini di un movimento degli atomi urtati da altri atomi. La causa del
moto sta in altri atomi che li urtano escludendo così qualsiasi finalismo, ossia qualsiasi fine di una mente ordinatrice del
divenire in vista di un determinato fine. In effetti solo una mente può ordinare ad un fine ma questo è escluso. Anche la
mente umana allora non potrà esser altro che un aggregato di atomi mentre la sensazione ed il pensiero sono
movimento di atomi.
32
Severino, cit. pag. 67
30
Filieri Andrea
13
una verità uguale per tutti. Anche l’esistenza di una molteplicità di dottrine contrastanti è la prova
evidente che l’essere non si manifesta nella verità ma solo nella discordia tra gli uomini. 33
Il
movimento
sofistico
È caratterizzazto da
attività di
insegnamento a
pagamento
È rappresentato da :
 Protagora: relativismo morale;
 Gorgia : scetticismo metafisico
Credenze, costumi, leggi, valori possiedono
una verità relativa al contesto culturale per cui
unico criterio di verità l’utile mentre strumento
di consenso è la parola
1. L’Essere non c’è, è
inconoscibile o inesprimibile;
2. non esiste alcun criterio di
verità oggettivo per cui:
1. la parola ha potere assoluto;
2. l’esistenza è una dimensione
irrazionale e misteriosa.
Protagora (sofisti): a differenza di Parmenide, Protagora (V sec. A.c.) tiene ferma
l’esperienza affermando il carattere illusorio della ragione. Per Protagora dunque non esiste una
verità34 definitiva ed incontrovertibile (l’Essere è ed il non essere non è) semplicemente perché
“l’Uomo è misura (métron) di tutte le cose”. La ragione allora non è più la ragione universale delle
33
Severino, cit. pag. 66
Filieri Andrea
14
verità incontroverbili bensì l’espressione della singola esperienza individuale che sola stabilisce
l’essere ed il non essere di ciò che si afferma. Una critica dunque, radicale, al valore assoluto
della conoscenza. In buona sostanza il criterio di verità e falsità è derivato dall’esperienza
soggettiva posta a fondamento del conoscere, ecco che allora tale criterio non può essere posto
esser determinato in modo univocamente universale, vista la diversità ed eterogeneità delle
esperienze. in questo senso possiamo arrivare a dire che nessuno pensa il falso vista la verità
soggettiva di ciò che il soggetto sperimenta. (ciò che è bello per uno non è bello per l’altro). Tale
criterio però non si dà nel caso della politica dove è necessario trovare l’utile collettivo come
condizione per lo sviluppo armonico della polis.
Vediamo: se ad un uomo il cibo appare amaro allora quel cibo è amaro; e così via per tutto ciò che
l’uomo afferma. Se ad un altro uomo quel cibo appare dolce allora il cibo è semplicemente sia
amaro che dolce, insieme sia dolce che amaro.
Gorgia
Gorgia era un grande sofista siciliano che insegnò retorica ad Atene ai tempi di Socrate . Pare che
nella sua opera - Sul non essere –Gorgia confutasse una ad una tutte le tesi di Parmenide per mezzo
di argomentazioni dialettiche molto simili, nella struttura, a quelle inventate da Zenone. 35
Se il non essere è non essere (ossia non esiste, come sostiene Parmenide), allora il non ente
non sarà nulla di meno dell’ente , perché il non ente è non ente e l’ente è ente, sicché il fatto che le
cose siano non sarà nulla di più del fatto che le cose non siano. Se dunque il non essere è, allora
l’essere, che è l’opposto, non è.
“Quando vado a tradurre Platone trovo il termine "alètheia", che è il termine con cui gli antichi intendevano la verità.
Andando poi al fondo a vedere la cosa, trovo tradotto "alètheia" con "veritas", cominciando da Cicerone e dai traduttori
latini. Mi sono reso conto che, se Platone li avesse sentiti, si sarebbe arrabbiato moltissimo.. Infatti il nostro termine
"veritas" non vuol dire affatto quello che era, per i greci, la verità. Alètheia, senza voler fare nessun accenno ad
Heidegger, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell'oblio, il fiume che
copre. Alètheia, con l'alfa privativo, è il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito
latino, veritas è un termine che proviene dalla zona balcanica e dalla zona slava, e vuol dire tutt'altro che verità. Vuol
dire, in origine, "fede"; fede nel significato più ampio della parola, tant'è vero che in russo ad esempio vara vuol dire
fede. Tutti noi sappiamo benissimo che l'anello della fede si chiama anche la vera, proprio perché questa origine
balcanica, slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Andando avanti nello studio, ci si rende conto che ci troviamo
di fronte ad una doppia verità. In ciò che diceva Averroè, che parlava di "doppia verità", vi è una sottilissima visione
storica e critico-filologica del significato di verità. Qual è la doppia verità? Da un lato la verità di fatto è ciò in cui ho
fede, per cui l'assumo come vera senza nessuna riflessione critica: questa è la nostra veritas. L'altra verità è quella che
Leibniz - altrettanto dotto - aveva chiamato la "verità di ragione", per la quale sufficit la ragione; la ragion sufficiente,
distinta dalla verità di fatto. Ecco le due verità: l'una è una fede, che è una cosa, e quindi dovrebbe entrare in tutto un
altro ambito; l'altra è quella logica che scaturisce attraverso il saper pensare: si scopre la condizione che permette di
definire la cosa e quindi questa diventa vera nel giudizio, nel logos, nel ragionamento che la viene determinando.
34
Tratto dall'intervista "Parole chiave della filosofia greca" - Napoli,
1998
35
E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Bari, 2008.
Filieri Andrea
15
Biblioteca Marotta, martedì 31 maggio
Cerchiamo di esaminare la forma del discorso presentato da Gorgia: esso deduce dalla tesi di
Parmenide – solo l’essere è e quindi il non essere non è- la conseguenza che il non essere, per il
fatto di essere identico a se stesso, esattamente come l’essere, non ha nulla di meno dell’essere.
Detto altrimenti, non c’è nessuna ragione per dire che le cose sono, più di quanta ve ne sia per dire
che le cose non sono. Da ciò deriva la conclusione che nulla è. La tesi di Parmenide dunque,
contraddice se stessa. 36
Veniamo alla seconda parte del ragionamento di Gorgia:
Le cose pensate (per Parmenide) devono essere, ed il non ente, se non è, non deve poter
essere pensato. Ma, se è così, nessuno dirà più nulla di falso, neppure se dirà che dei carri
gareggiano sul mare, poiché tutte queste cose saranno. Infatti le cose viste e le cose udite sono per
questa ragione, cioè perché ciascuna di esse è pensata. Se invece non sono per questa ragione, ma
le cose viste per nulla di più sono, allora allo stesso modo le cose viste non sono per nulla di più di
quelle pensate; infatti , come in quel caso molti potrebbero vederle, così in questo caso molti
potrebbero pensarle. Dunque il “di più” è di questo tipo. Ma allora non è chiaro quali siano le
cose vere ; sicché , se le cose stanno così, le cose sono per noi inconoscibili
Se solo l’essere può essere pensato, ci dice Gorgia, allora tutto ciò che può essere pensato è, cioè
sono anche i carri che gareggiano sul mare. Se infatti le cose sono perché possono essere pensate,
allora non solo le cose che sono viste da molti devono essere, ma anche quelle che sono pensate da
molti. Ma in tal modo non c’è nessuna differenza tra il vero ed il falso e noi non riusciamo più a
sapere che cosa è vero, dunque non riusciamo più a conoscere nulla: ciò equivale a dire che l’essere
non può essere pensato.
Se anche le cose fossero conoscibili , come potrebbe qualcuno manifestarle a qualcun altro?ciò che
uno ha visto, come potrebbe dirlo con una parola (logos)?E come potrebbe quello diventare chiaro
a chi ha ascoltato senza avere visto?Come infatti la vista non conosce i suoni così anche l’udito
non conosce i colori, ma i suoni, e chi parla dice,ma non dice colore né cosa, poiché non dice un
colore, ma una parola (logos); sicché non è possibile pensare un colore, ma solo vederlo, né un
suono, ma solo udirlo.
Solo le parole possono essere dette , ma le cose non sono parole, quindi le cose non possono essere
dette: i colori non possono essere detti ma solo visti ed i suoni non possono essere detti ma solo
uditi.37
36
37
Ib. pag. 32
Ib. pag. 33
Filieri Andrea
16
Ipotesi iniziale: qualcosa esiste,
quindi è:
O essere
Quindi è:
O eterno
Quindi è:
Infinito
Quindi :
Non è in alcun
luogo
O non essere ma
questo :
O
generato
Quindi è:
O nato
dall’Essere, ma
questo :
È impossibile
Perché se è nato non
è essere (in quanto
prima non era)
O eterno e
generato
insieme , ma
questo:
O nato dal
non essere
ma questo :
Impossibile perché
contraddittorio
È impossibile perché il non
essere non è e non può
generare
Per cui
non
esiste
Filieri Andrea
È
impossibi
le perché
il non
essere
non
esiste
17
O essere e non essere
insieme , ma questo:
È impossibile
perché è
contradditori
o
Socrate
“So di non sapere”
Socrate
Se nei sofisti la critica ad ogni forma di sapere è radicale, Socrate ristabilisce un rapporto
positivo con la verità
differenze
affinità
Sofisti
Socrate
 esercizio della filosofia
 esercizio della filosofia
come mestiere ;
come
attività
disinteressata
a
 relativismo conoscitivo
beneficio
della
ed etico;
collettività;
 uso della dialettica al
 esigenza di superare il
fine di persuadere,
relativismo in direzione
talora
anche
della ricerca di una
indipendentemente dai
verità condivisa;
contenuti
 uso della dialettica
come strumento di
ricerca della verità;
oggetto dell’indagine filosfica: oggetto dell’indagine filosfica:
uomo e mondo;
uomo e mondo;
orientamento razionalista ed orientamento razionalista ed
approccio critico
approccio critico
So di non sapere dice Socrate in quanto le leggi, le consuetudini sociali e le
credenze religiose non gli consentono di sapere veramente qualcosa perché gratuite ed infondate.
In questo senso nemmeno le verità filosofiche si presentano come incontrovertibili per cui Socrate è
ancora più critico dei sofisti verso la conoscenza. Eppure lui sa di non sapere. Sa cioè che tutto
quanto è intorno a lui è privo di verità e gratuito. Ma sapere di non sapere è ben più di non sapere e
permette il salto qualitativo verso un piano superiore: il piano delle critica e della consapevolezza
della propria ignoranza e della non verità del proprio sapere (come il sapere sofistico) In effetti
Filieri Andrea
18
Socrate è il più sapiente dei greci perché possiede un sapere superiore: il sapere che tutto ciò che è
oggetto di giudizio non è vero. La sua è quindi una critica al principio di autorità, educando così i
suoi concittadini:
-
alla conoscenza di sé: “conosci te stesso”
alla cura della propria anima
al dubbio su tutto ciò che è oggetto di riflessione.
Tale critica viene esercitata mediante il continuo ricorso alla domanda “che cos’è” su ogni cosa, (si
tratta insomma di cogliere l’essenza dell’oggetto del discorso) ossia mediante una continua richiesta
di definire38 ciò di cui si parla. Nello specifico, non si tratta tanto di definire obbligatoriamente
tutto ciò di cui si parla quanto di procedere alla sistematica messa in discussione di ogni oggetto
d’indagine fino a rivelarne l’infondatezza ed i pregiudizi sottesi. In questo senso Socrate avvia il
Dialogo tra gli interlocutori come ricerca viva di ogni cosa e come via per il sapere . Sapere che, se
raggiunto, può portare al bene dell’individuo ossia alla virtù. La virtù, in effetti, per Socrate, è
sapere: sapere come e cosa fare ogni volta che si tratta della nostra condotta, del nostro agire, del
nostro stare con noi stessi e con gli altri. Conosci te stesso recita sempre Socrate. Si tratta allora
di esaminarsi continuamente alla ricerca delle proprie virtù e del proprio bene mediante un
processo di messa in discussione delle proprie credenze e dei propri valori: “ per l’uomo il bene più
grande e quotidianamente ragionare della virtù e (…) la vita senza esame è vita indegna d’essere
vissuta.”
In questo senso Socrate richiama la filosofia dal cielo alla terra (Cicerone) ponendo l’attenzione
della sua ricerca non sulla ricerca naturalistica bensì sulla ricerca del senso della realtà umana. Ma
come ricerca Socrate la verità e la virtù? Mediante l’ironia (aspetto inventao da Socrate): arma
dialogica che come la torpedine comunica la scossa a chi la tocca, la scossa del dubbio che emerge
dalle false credenze e dalla false certezze. Si tratta allora di rimuovere le false certezze acquisendo
un metodo d’indagine che non pretende insegnare nulla (Socrate) ma solo far partorire a colui che
dialoga con Socrate, come una levatrice (arte maieutica), la virtù ed il bene. Ecco che allora se
Socrate accetta, da un lato, la critica di non sapere insegnare nulla, permette d’altro canto al
singolo, mercè il dialogo, di giungere alla verità: la virtù, la giustizia, il bene. Sapere insomma
cos’è il bene per l’uomo, è il risultato della ricerca socratica. Si tratta insomma, per Socrate, di
vivere conformemente alla verità con saputa, di vivere nella conoscenza suprema del bene per
l’uomo. Chi non vive in questo modo, non è chi non vuole vivere nelle virtù (volontarismo etico)39
bensì chi non sa quale sia la verità (intellettualismo etico nel senso che per Socrate sapere ed essere
sono una cosa sola40). In effetti che sapere possiede chi resta sopraffatto dalle passioni? Tale sapere
è un non sapere. Vediamo: le cose che danno piacere non sono male in quanto danno piacere, ma in
Definire l’oggetto d’indagine: cos’è giusto? Cos’è bello? La risposta a questa domanda non va ricercata nelle singole
azioni particolari che possono essere testimoniate dai sensi o dalle sensazioni bensì dal pensiero:ossia dal concetto che
il pensiero coglie come generale o universale. Non allora alle singole azioni giuste per il singolo uomo sofisti) ma non
38
per l’altro, ma la giustizia come universale concetto (l’idea) che nel pensiero si manifesta come identico nei
diversi individui e perciò fonte di accordo.
39
In questa prospettiva si ritiene che a dominare le azioni umane siano le passioni e gli istinti e che il sapere sia sempre
sopraffatto da questi.
40
Vediamo: sapere ed esser virtuosi , per Socrate, sono la stessa cosa. Siamo cattivi dunque solo in quanto non
sappiamo. Come si afferma spesso: non sanno quello che fanno per cui sono cattivi. In buona sostanza, una volta
ottenuto il sapere si diventa buoni. Eppure, un aspetto poi codificato da Aristotele, è quello della debolezza della
volontà.
Alla fine, all’interno della Scuola di Atene, posiamo trovare un identico interesse per la morale(sapere\morale) ma
declinato in forme differenti: Socrate identifica il sapere con la bontà; Platone identifica il vero col bene; Aristotele
identifica il sapere con la felicità. Non il sapere con la virtù, visto che sussistono esempi contrari, ma il possesso di un
saper correlato al raggiungimento della felicità per l’uomo.
Filieri Andrea
19
quanto son seguite da dolore ed infelicità. Le azioni buone, viceversa, sono buone in quanto seguite
dalla felicità anche se dolorose al momento. Ma allora come ci poniamo di fronte alla domanda
rivolta a chi fa il male pur sapendo che è male? Non è forse un assurdo? In realtà, per Socrate,
nessuno fa il male essendone veramente consapevole. Chi fa il male, ossia chi compie azioni che
procurano danno a lui ed al prossimo, lo fa perché non sa che il piacere che gli deriva
immediatamente da quell’azione sarà seguito da un dolore peggiore. . Insomma non sa,
incontrovertibilmente, la verità. Chi compirebbe mai una azione che, alla fine , procura più
dolore che piacere? Allora è quel sapere veramente le cose che dobbiamo cercare. Se Socrate
trovasse quella verità certa che afferma di non sapere essa costituirebbe la virtù di cui si accennava
in precedenza.
La
filosofia
per
Socrate:
È incessante
esame di sé e
degli altri
Condotto con
atteggiamento
critico
Filieri Andrea
Studia l’essere
umano
Nel quale infividua i
criteri del pensiero e
dell’azione
20
Cerca la verità
Nel tentativo di
superare il relativismo
sofistico
Virtù.
Essa è:
unica
Scienza
Assume
forme diverse
nei differenti
ambiti
Cioè è la
conoscenza
del bene che
si fonda sulla
ragione
ricerca
insegnabile
Richiede un
incessante
esame di sé
nelle diverse
situazioni
concrete
È frutto
dell’educazione
Si realizza nella
dimensione
politica
Data la
natura
sociale
dell’uom
o
Coicide con la
felicità
Intesa cme la
realizzazione
della natura
umana
Della fortezza
“virtus est quae bonum facit habentem, et opus
eius bonum reddit” Tommaso, De fortitudo.
I primi filosfofo Greci , nella loro concezione pagana41, diedero alla fortezza il nome di
andrèia, che noi diremmo virilità. . E’ la virtù con la quale l’uomo dimostra di essere tale: anèr.
Una fermezza d’animo di fronte alla morte. Accanto a questa dimensione c’è l’atteggiamento
fermo dell’uomo di fronte alle avversità della vita: carterìa o perseveranza forse durezza42.
Ora, l’uomo che vuole affermare positivamente il suo dominio sul mondo, ha bisogno di espandersi
in grandi propositi attraverso la magnanimità. Ecco, questei tre aspetti o caratteristiche sono
assunte dagli stoici come requisiti necessari per il dominio di sé, delle passioni.
41
42
Tommaso d’Aquino, La somma Teologica.
Ibidem.
Filieri Andrea
21
Platone (427\347 a.c.)
Abbiamo detto che nella filosofia presocratica ci si rivolge al Tutto come
ciò che vi è di identico in tutte le cose (l’identità presente in tutte le cose)
ma il Tutto si può presentare come tale solo nel concetto(Socrate) che noi
abbiamo della totalità: andando alla ricerca del Tutto, lo possiamo
comprendere, ossia ci è intelligibile, solo se si manifesta, solo se si
presenta inequivocabilmente nel concetto che ne abbiamo: il Tutto è
pensato come Idea. L’acqua, l’aria, l’Essere, sono dunque concetti , o
meglio, sono contenuti di concetti di volta in volta assunti come il concetto
più universale del molteplice cangiante e diveniente. 43
Severino, ib. Pag. 83. Si pensi anche a questo: Platone deve anche poter formulare una teoria dell’essere diveniente
che Parmenide , nella sua fisica, aveva tentato di pensare senza introdurre il non-essere. In effetti il problema di Platone
è quello di dare una teoria dell’essere diveniente senza incorrere nel problema parmenideo dell’introduzione del non
essere al fine di spiegare l’essere diveniente: una otologia dell’essere diveniente . la risposta di Platone sta
nell’introdurre un nuovo senso del niente :
- nulla assoluto come negazione dell’Essere
- nulla relativo come eteron, come altro dall’essere senza negare l’essere. Altro nel senso che anch’esso è essere
sebbene non l’Essere.
43
Allora Platone quando parla dell’ente intende dire due cose:
- che questo oggetto ha alcune caratteristiche
- che questo oggetto è ossia esiste.
Nell’affermazione che un oggetto è un ente ci sono entrambe le cose dette. Ed è il NON che mi permette di dire che
una cosa è tale: x NON è y. Solo attraverso la negazione (non essere) arrivo a dire che cosa è x. D’altro lato se predico
di tutte le cose solo l’essere, le cose non si differenziano. Insomma la cosa non è solo un ente ma anche altro. Allora
devo dire che la cosa è un ente (predico l’essere della cosa) e che la cosa è qualcosa (ciò che la cosa è) di definito (la
sua essenza o il suo significato diremmo noi moderni). Ma io posso dire tutto ciò solo se introduco il non essere
differenziando l’essere dalla determinazione. Detto in altri termini quando dico che la deterninazione non è essere
intendo dire che la determinazione implica, al tempo stesso:
- l’essere della cosa ossia che la cosa è
il non essere della cosa ossia che la cosa è qualcosa di diverso dal semplice Essere perché se fosse
solamente, non ci sarebbe la differenza.
Devo dire quindi che la cosa è diversa dall’Essere e di conseguenza introdurre il non –essere al fine di spiegare
l’esistenza del molteplice diveniente. Se questa cosa è chiara possiamo dire allora che le caratteristiche della cosa sono
sebbene non siano Essere: essere(della cosa) come eteron, come altro(dall’Essere) e non come Nulla. Altro qui
significa che esso è un essere senza essere l’Essere. Quindi un non-essere relativo e non assoluto (Nulla).Platone
introduce quindi il non essere relativo come altro dall’essere senza essere nulla. il fatto che la cosa sia
determinatamente questa cosa , la determinatezza della cosa non è un niente, è essere essa pure, non c’è dubbio, le
caratteristiche della cosa sono e tuttavia non sono identiche con l’Essere, ché se non ci fosse distinzione si avrebbe solo
il puro Essere indistinto. Allora le caratteristiche della cosa non sono essere e al tempo stesso sono. Se comprendiamo
questa cosa capiamo la nozione di essere relativo o di non essere relativo in Platone e comprendiamo come per Platone
sia necessario introdurre il non-essere proprio per comprendere la nature dell’Essere. In effetti , secondo Platone, senza
il non-essere non saremmo neppure di fronte all’Essere.
In conclusione, per Platone, se vogliamo capire la natura dell’Essere dobbiamo introdurre il non essere, questo è il
contributo filosofico fondamentale rispetto a Parmenide. Ma, arrivati a questo punto, dobbiamo chiederci, se l’ente
sensibile e diveniente è caratterizzato sia dall’essere che dal non essere , direbbe Platone, da una via di mezzo tra
l’essere e il niente, (non è Essere in quanto diviene, è generato e si corrompe, non è nulla in quanto è altro dall’Essere
senza essere niente) qual è il fondamento dell’ente sensibile e diveniente? Ossia , se l’ente sensibile non è un ente
-
Filieri Andrea
22
Vediamo: quale relazione sussiste tra un concetto e le cose a cui si riferisce? Quale relazione
sussiste tra la bellezza e le cose belle? Alcune cose belle possono sfiorire, o per altro non lo sono
state sempre, possono perire come cose, etc..La bellezza, viceversa, non potrà avere queste
caratteristiche, si è mai vista una bellezza in precedenza brutta? Se vogliamo la bellezza non si
modifica, le cose belle sì. Ora, il contenuto del concetto, ciò che in ogni concetto viene concepito,
viene chiamato da Platone
Idea.44
Ma l’Idea non è diveniente e mutevole e pertanto è eterna e
imperitura: l’Essere per eccellenza. L’Idea non è allora quel contenuto della mente che
ritroviamo in noi stessi alla fine di un ragionamento (valenza psichica o mentale), l’Idea non è il
contenuto mentale del concetto, ché se così fosse non esisterebbe fuori dalla mente, l’Idea esprime
piuttosto l’Essere nel suo manifestarsi al pensiero, allo sguardo concettuale della
45
conoscenza. Ancora, l’Idea è pensata secondo Platone, non è sentita
attraverso i sensi. Noi vediamo le singole cose ma non l’Idea, noi non riusciamo attraverso i
sensi a toccare l’Idea. Possiamo anche dire che l’Idea è un significato46 (l’esser uomo) che è
pensato all’interno della conoscenza. Il pensato (il contenuto del concetto, l’Idea) non è qualcosa di
irreale bensì è Essere, complesso di Idee (essere uomo, bellezza, etc.) che si manifesta nella
conoscenza concettuale. Il mondo delle Idee è dunque massimamente reale ed oggettivo anzi è più
reale degli enti che appaiono ai sensi in quanto gli enti divengono altro da sé. L’Idea dunque appare
alla ragione e si vede47: si vede inequivocabilmente senza misteri o pratiche esoteriche con gli
occhi della ragione48. Ancora, l’Idea , per Platone, si manifesta nel dialogo: solo nel Dialogo io
posso verificare attraverso le obiezioni del mio interlocutore se quanto affermo corrisponda al vero.
Ed attraverso il Dialogo io arrivo a pensare l’Idea.
Ma qual è allora la caratteristica dell’Idea? Vediamo.
1) struttura oggettiva del mondo delle Idee e non contenuto soggettivo dell’anima
2) massima realtà dell’Idea, più reale degli oggetti che appaiono ai sensi
assoluto come l’essere parmenideo dove trova l’origine della sua esistenza? Non in se stesso in quanto non assoluto
ossia in quanto caratterizzato dall’essere e dal non essere, sebbene relativo bensì in altro. E cos’altro se non nel
soprasensibile? Ad esempio qul è il fondamento di una singola cosa bella?Una singola azione buona? Il Bello in quanto
tale o il Buono in quanto tale: una realtà universale ossia l’idea.
44
Severino, Ib. Pag. 85
45
vediamo: una lettura moderna di Platone riconoscerebbe nella connessione tra il mondo ideale delle Idee ed il
pensiero il prodotto dell’attività del pensare. In una battuta: il pensiero produce l’universalità dei concetti. In Platone è
vero l’opposto: il pensiero può arrivare ai concetti , all’univerale, proprio in quanto l’universale esiste oggettivamente.
La nostra capacità di astrarre dalle singole cose determinate ed arrivare al concetto universale è resa possibile questte
strutture universali esistono.
46
Il significato mostra in effetti che cos’è una determinata cosa sensibile. In buona sostanza il procedimento socratico
del che cos’è e dell’universale viene fatto proprio da Platone e superato nella concezione del mondo delle Idee come
Essere visto dal pensiero. Ma che cos’è il pensiero? Per tutto il pensiero antico il pensiero non si costituisce se non
all’interno della propria unità con la realtà. Potremmo anche dire che il pensiero è lo stesso venire alla luce della realtà.
. Io penso nel momento in cui la realtà ha consentito di manifestarsi. Ancora potremmo dire che proprio in quanto la
realtà si manifesta, proprio in quanto la realtà è Idea, io posso pensare . Se la realtà non fosse Idea, tutti i miei sforzi
sarebbero inutili.
47
Se in Socrate vale il detto “so di non sapere”, in Platone vale il contrario: so di sapere, ossia so si conoscere l’Essere
intelligibile al pensiero
48
Le Idee sono dunque soprasensibili in quanto appaiono primariamente all’intelletto . In quanto appaiono
all’intelletto senza velature sono intelligibili. Ma se sono soprasensibili allora esiste una separatezza tra i due mondi,
sensibile e soprasensibile. Per Platone, tra i due mondi c’é korismos, separatezza . I latini tradurranno questo
termine con trascendente. Nasce qui allora quella separatezza del mondo intelligibile rispetto al mondo sensibile.
In buona sostanza la divisione tra spirituale e materiale. Prima di Platone del resto non è possibile pensare Dio
come qualcosa di metafisico e immateriale.
Filieri Andrea
23
3) non fisicità dell’Idea: non sta in un luogo o in uno spazio
4) essenza della realtà: una volta che noi abbiamo astratto dalla sua particolarità di cosa
reale e determinata ci resta che cos’è quella cosa: l’Idea
5) realtà dell’Idea: le Idee si vedono, sono massimamente visibili agli occhi dell’intelletto,
sono totalmente trasparenti al pensiero anzi, le Idee sono reali proprio in quanto si
manifestano al pensiero attraverso il Dialogo
6) il pensiero si compie solo nel Dialogo: Io penso solo se dialogo, anche con me stesso,
perché introietto le obiezioni possibili del mio interlocutore. E quando penso,
inevitabilmente mi appare l’Idea.
7) Il pensiero raggiunge sempre la verità: nell’epoca moderna il problema , ad esempio di
Cartesio, sarà quello di capire se il pensiero raggiunge la realtà. Platone, viceversa, ritiene
che non si sia pensato sino a quando non si sia raggiunta la realtà sicché, quando penso,
inevitabilmente, raggiungo la realtà. Semmai io non penso se sento, ossia se sono
all’interno della sensibilità dove , appunto, ancora non penso.
8) Universalità dell’Idea: l’idea del bello, del bene etc. è universale.Se non sapessi cos’è la
bellezza potrei mai riconoscere una cosa bella?(aspetto gnoseologico
Le Idee
Costutuiscono una
zona dell’Essere
diversa dalla nostra:
l’iperuranio
Si distinguono in:
 idee\valori
 idee matematiche
 idee di cose naturali
 idee di cose
artificiali
organizzate secondo una
gerarchia con a capo l’Idea
del Bene
Ripetto alle cose sono
in un rapporto di :
 Mimesi
(imitazione)
 Metessi
Partecipano
dell’essere
delle idee
 Parusia
contengono le
idee
Ora, se noi consideriamo che cos’è un ente qualsiasi, abbiamo sempre a che fare con un’idea. Alla
domanda “cos’è Atene” dovremo rispondere che è una città. Ed è l’Idea di città ciò che è Atene.
Possiamo anche dire che l’Idea costituisce il mondo sensibile. Il mondo sensibile è, in virtù
dell’Idea. Se vogliamo, l’Essere delle cose sensibili, e divenienti non è costituito né dagli atomi
democritei, né dalle quattro radici empedoclee bensì dalle Idee ed è questa la vera risposta
Filieri Andrea
24
platonica. L’universale esiste oggettivamente49. Vediamo: se una cosa è bella lo è per la presenza
della bellezza, o del bello in sé, e per nessuna altra causa Socrate è uomo se non per la presenza
dell’essere uomo. In questo senso Platone non ha l’intento si stabilire in che modo l’idea sia
presente nel sensibile bensì, più semplicemente, di affermarne la presenza. Tale affermazione
conduce Platone, nel Timeo, ad introdurre da un lato il Demiurgo (Dio), artefice dell’universo
sensibile, dall’altro una natura informe che è “madre” e ricettacolo di tutto ciò che viene generato.
In effetti il demiurgo esprime la forza che ha la capacità di realizzare la partecipazione
dell’Idea al sensibile. Ossia di produrre il sensibile ad immagine e somiglianza (mimesi)
dell’intelligibile. . Non una forza cieca ma una potenza che è insieme anche suprema sapienza. La
sapienza di chi conosce il mondo delle Idee e le assume come modello50 nella produzione sensibile.
L’Idea allora è la vera “causa” del mondo sensibile: il reale è tale perché modellato sull’intelligibile
ad opera del Demiurgo. Ora, se l’Idea è presente nel mondo sensibile ad opera del Demiurgo, il
costituirsi del sensibile, il suo farsi concretamente qui ed ora, richiede anche ciò che riceve forma
dall’intelligibile: le Idee di bello, Buono; Giusto, Uomo, etc., sono i modelli di ciò che riceve
l’Idea. L’immagine esiste, è tale, solo se “qualcosa” è trasformata dal Dio in immagine dell’Idea.
Ma se questo “qualcosa” è ciò che può ricevere ogni impronta dell’intelligibile (ossia del regno
delle Idee), proprio per questo non avrà nessuna intelligibilità. Ciò posto, la chora (il “qualcosa”
assolutamente indeterminato”) non è né terra, né aria, né fuoco, etc.51, ma è assolutamente
indeterminata: è la pura capacità di assumere ogni forma, il caos originario, ingenerato ed eterno,
che viene trasformato in cosmo ordinato dall’intelligenza divina del Demiurgo. Ancora, potremmo
dire che la chora non è nient’altro che la physis in quanto materia (ciò di cui le cose sono fatte)
mentre il Demiurgo che produce le cose sensibili ad immagine dell’Idea è la physis in quanto
arché. In questo senso la cosa sensibile che è immagine dell’idea, corrompendosi ritorna all’idea
nel senso che l’idea resta immutata ed eterna mentre la parte sensibile di ciò che è fatta la cosa
sensibile ritorna alla materia madre.
Ciò che è (idea intelligibile);
Il che cos’è dell’ente , l’essere
dell’ente (e di se stessa)
Cosa sensibile
Ciò di cui è fatto (materia)
Vediamo: il mondo delle Idee eredita la caratteristica dell’essere parmenideo: la necessità.
L’Idea è forma dell’oggetto e quindi sua ragion d’essere (perciò logicamente ed ontologicamente preesistente agli
oggetti sensibili, che non sono se non copie di essa in un rapporto di presenza, partecipazione, imitazione e comunanza).
Vedi Atlante della Filosofia, cit, pag. 345
51
Severino, La filosofia antica e medioevale, Bur, Milano, 2006
49
50
Filieri Andrea
25
Dall’opinione alla verità
L’anima è come un libro, in cui un
interno scrivano annota i pensieri,
ricordi e ragionamenti. L’anima non
deve essere troppo dura per trattenere le
impressioni, nè troppo tenera per lasciar
sfuggire le impressioni.
Platone
Ora, la conoscenza del mondo delle Idee, la conoscenza dell’Essere (genitivo oggettivo) viene a
formarsi secondo Platone alla fine di un laborioso processo che porta al di là del comune modo di
pensare. I più ritengono che la realtà consista nel solo mondo sensibile non arrivando a concepire le
Idee, non arrivando a comprendere come le cose siano immagini delle Idee. Insieme a Parmenide,
Platone chiana doxa (opinione) il sogno in cui permangono coloro che si fermano al solo mondo
sensibile. I più insomma si relazionano al mondo diveniente che ora è, esiste, è qualcosa, ed ora non
è più, è non essere, non essere più il qualcosa di prima, o, per converso, non ancora. Platone elabora
a questo proposito un mito, il mito della caverna, al fine di rendere chiaro il senso del processo
conoscitivo: inizialmente l’uomo vive nello stadio (fase) dell’opinione, in una sorta di prigione che
non consente di muoversi verso la verità. Un’opinione riferita, rispettivamente, ai corpi sensibili (
fede) o alle immagini di questi (immaginazione): prodotti dell’arte umana, sogni, fantasie.
Successivamente, nello stadio dell’intelligenza, l’uomo si può trovare nuovamente all’interno di due
fasi: il raziocinio e la intuizione (noùs). Il raziocinio è costituito dalle conoscenze afferenti il mondo
geometrico\matematico: il quadrato sensibile e le altre figure della geometria sono oggetto di
comprensione razionale così come i principi da cui muovono per i ragionamenti matematici quali il
concetto di numero, pari, dispari, etc. Ma tali principi non sono oggetto d’indagine da parte della
geometria, che li utilizza al fine di dimostrare i diversi teoremi matematici e geometrici. Viceversa,
nella fase dell’intuizione, non vi deve essere nulla di ipotetico o dubitativo, nulla che si rifaccia ad
altri principi o idee. La verità e la scienza si costituiscono piuttosto solamente nell’ultima fase: in
quest’ambito avviene la conoscenza dovuta al nous, all’intuizione, che permette l’accesso al
principio non ipotetico di ogni cosa, il principio da cui dipende l’intera conoscenza del mondo
intelligibile: il Bene. In effetti non si dà conoscenza del mondo sensibile ed intelligibile se non si è
in grado di conoscere il suo “Bene” e quindi se non si conosce il Bene in se stesso52 . Possiamo
anche dire che ogni cosa è un certo bene: ogni cosa è un essere che risponde o meno a ciò che
costituisce il suo Bene ed in questo senso è un certo “bene”. Ora l’Idea del Bene (rappresentata
dal sole nel mito della caverna) è insieme, causa per la quale le singole cose sono conosciute
(piano gnoseologico) e causa per la quale ogni conoscibile esiste (piano ontologico) ed è ciò che è.
VEDIAMO MEGLIO: l’idea di uomo è ciò che vi è di identico nei diversi uomini sensibili53 (ogni
uomo, per essere tale, possiede l’idea di uomo) mentre l’idea del Bene è ciò che vi è di identico
(ogni idea presuppone, è partecipata, dall’idea del Bene) nelle diverse idee (molteplice ideale) che
sono partecipate dagli enti sensibili. Ora, gli enti sensibili, come risulta evidente
fenomelogicamente, sono molti e diversi tra loro. Questa molteplicità variegata di enti è negata da
Parmedide in quanto non essere ossia ognuno degli enti determinato, ad. es. l’albero, non significa
essere per cui è non essere.
52
53
Ib. Pag. 93
E’ l’unità del molteplice.
Filieri Andrea
26
Ma se dico che l’albero esiste allora affermo che il non essere esiste ossia affermo che
l’essere è non essere ma questo è impossibile per la ragione. Ora in Platone, tale impossibilità
viene superata sia in riferimento alla molteplicità delle Idee che in riferimento alla molteplicità del
reale.
Nel Sofista Platone distingue due sensi del non essere: il “non essere “ come opposto o
contrario dell’essere (non essere assoluto); il “non essere” come diverso dall’essere (non essere
relativo). In buona sostanza: il contrario dell’essere è il nulla assoluto ed è anche impossibile
pensare che il non essere sia, ma, in un altro senso, ogni determinazione sensibile possiede un
significato che non equivale al contrario dell’essere. Ognuna delle Idee e delle determinazioni
sensibili può dunque essere affermata nella sua esistenza senza cadere nella contraddittorietà
parmenidea. In sintesi: il “non essere” è il molteplice come diverso dall’essere. Ora, il passo avanti
che dobbiamo compiere per intendere appieno Platone consiste nel comprendere che “essere”
significa ciò che è o meglio ogni determinazione che è. Ma allora, eccoci al passo conclusivo, se
nella filosofia presocratica, ciò che vi è di identico nel molteplice è l’elemento di cui sono fatte le
cose, in Platone, ciò che vi è di identico è l’essere una determinazione che è. E nel pensare al Tutto
la filosofia pensa ad ogni determinazione (qualcosa) che è come un ente. L’ente è appunto un
qualcosa che è ed ogni cosa ha di identico con tutte le altre il fatto di essere un qualcosa che è e
non è un niente. In questa identità io come essere pensante riesco a pensare il tutto che solo mi
appare nello scorgere l’identità di ogni diverso.
In conclusione: il Demiurgo platonico produce (porta ad essere) le cose sensibili ad immagine
delle idee. Il Demiurgo è la physis come arché ossia come principio che governa il mondo. La
Madre (ricettacolo delle idee ) è la physis come materia (ciò di cui le cose sono fatte). La
relazione tra il Demiurgo, le Idee e la materia madre è la physis come essere da cui ed a cui
provengono e ritornano tutte le cose dell’universo. Ancora di più: in ogni ente, l’idea è ciò che
l’ente è ossia il che cos’è dell’ente. L’idea di scolaro è ciò che uno scolaro è, il che cos’è dello
scolaro, il suo essere questa determinazione sensibile o intelligibile.
Una volta compreso il senso della filosofia platonica si comprende come grazie ad essa sia
possibile l’ascesa dalla opinione alla verità. Si badi che però , grazie alla filosofia, non si perfeziona
solo il nostro modo di pensare ma anche il nostro modo di vivere. La verità, una volta acquisita, non
conduce al semplice godimento nella vita sensibile bensì alla contemplazione della verità ossia alla
contemplazione del mondo delle Idee coglibile col pensiero. Piuttosto la vita sensibile porta ad un
disturbo alla contemplazione della verità. In effetti non con i sensi bensì col pensiero si coglie la
verità e l’idea del BENE. Ecco che allora la morte del corpo permette all’anima (immortale) di
godere della contemplazione del mondo delle idee una volta liberata dall’impedimento del corpo. In
questo senso Socrate e la sua morte assumono un senso positivo: ci si rallegra dell’imminenza della
morte perché imminente è il viaggio verso il mondo intelligibile che l’anima, per sua natura
immortale come dimostra Socrate, potrà compiere. Ancora, per Platone, non solo l’anima è
immortale, ma preesiste anche alla sua unione col corpo: prima di vivere nel mondo sensibile
l’uomo vive come anima ed ha la possibilità di contemplare l’eterno mondo intelligibile al quale il
filosofo ritorna dopo la morte del corpo.
Platone dimostra la tesi della preesistenza dell’anima con un argomento gnoseologico:
quando noi percepiamo due cose uguali a livello sensibile dobbiamo già disporre del criterio di
uguaglianza per confrontarle: in buona sostanza noi ci ricordiamo di quanto già sapevamo.
Filieri Andrea
27
Hanno sede nel’Iperuranio (al di là del
cielo)
Le Idee sono delle entità
intellegibili ossia realtà che
avvertiamo solo con la ragione,
non con i sensi
Ne consegue quindi, con la seconda
navigazione, che esistono le Idee
Mondo
sensibile
Dualismo ontologico
(l’essere delle idee è
strutturalmente diverso
dall’essere delle cose)
Immanente e
costituito da oggetti
fisici e reali
Cose conoscibili per mezzo dei
sensi e dell’opinione
Piano della doxa: imperfetta e
mutevole (immaginazione,
credenza)
Trascendente e
costituito da realtà
sovrasensibili:entità
intelligibili,
incorporee e perfette
Dualismo gnoseologico
Quale
funzione
hanno le
Idee?
Sono cause
delle cose:
il mondo
sensibile
senza di
esse non
esisterebbe
;
Filieri Andrea
Mondo
intelligibile
28
Idee conoscibili mediante la
ragione
Piano della scienza
I filosofi possono accedere alla
verità:grazie alla dialettica
Platone ritiene che la conoscenza
sia reminescenza
Sono criteri
di giudizio:
per
esprimere
un
qualsiasi
giudizio
dobbiamo
riferirci ad
esse
Idea di bellezza
Partecipazione
Una cosa è bella
se partecipa
dell’Idea della
bellezza
sofisti
umanismo: l’uomo è fondamento di
verità e valori
relativismo: verità e valori sono
relativi e non assoluti
Presenza
Una cosa è bella
perché in lei è
presente l’idea
della bellezza
Imitazione
Una cosa è bell
perché imita l’idea
della bellezza
socrate
platone
umanismo:l’uomo è fondamento di Antiumanismo: la verità ed i valori
verità e valori
non hanno un fodamento umano;
superamnto del relativismo: è Antirelativismo: verità e valori sono
possibile un accordo razionale su universali ed assoluti
verità e valori
L’Esistenza delle Idee:
Obiezione: Quindi, l’idea,
che è Una, verrà a trovarsi
nelle molte cose che
partecipano di essa
Ipotesi di partenza:
Esistono Idee di cui le cose
partecipano
Ma allora sarà una e molte
contemporaneamente, oppure
ciò che per natura è uno dovrà
dividersi in più parti
Ma entrambe queste
definizioni
contraddicono la
definizione di Idea
Obiezione: Per altro verso, se esiste
l’Idea di Grandezza, la relazione tra
questa Idea e le cose grandi implica
un’altra idea di Grandezza che contenga
il loro rapporto, e così via….
Filieri Andrea
29
Ma se le cose stanno come affermato
nelle obiezioni, ossia se le idee sono
modelli fuori dal mondo ed estraneo ad
esso, allora sono inconoscibili e non si
possono imitare; e poi non potrebbe
esserci alcun rapporto tra cose ed Idee
(Idee con Idee e cose con cose)
La tematica dell’anima
Secondo Platone “L’anima è interamente legata ai lacci del corpo, e ad esso congiunta,
costretta a considerare gli enti attraverso il corpo, come attraverso una prigione, e non da se stessa
e per se stessa, per cui è avvolta in una forma di ignoranza.
Si rende conto inoltre che la cosa tremenda del carcere è prodotta dalle passioni, e chi ne
è avvinghiato contribuisce esso stesso a farsi incatenare.
Orbene, coloro che amano il sapere sanno che la filosofia, accogliendo la loro anima che si
trova in questo stato, la consiglia cercando di scioglierla dalle catene, mostrando che l’indagine
che si coglie attraverso gli occhi è piena di inganni, e così anche l’indagine che si conduce
mediante gli orecchi e gli altri sensi. Perciò la persuade ad abbondonarli, e a non ricorrervi se
non per quel tanto che è necessario farne uso, e la esorta a raccogliersi e a concentrarsi tutta in se
stessa e non credere a nient’altro che a se stessa e a tenere per vero solo ciò che da sè essa
intende, quale che sia quall’essere in sè e per sè che da sè essa sola pensa e a non prendere per
vero ciò che ciò che vede con altri mezzi e che continuamente muta col mutare delle circostanze,
perchè mentre questo è sensibile e visibile, ciò che da sè essa vede è immutabile ed eterno”54.
Da quanto espresso si comprende come, in Platone, sia possibile la nascita dell’uomo
occidentale come normalmente lo intendiamo: raccolto presso di sè e concentrato intorno a quella
unità razionale che è l’anima . Anima che deve controllare o meglio dominare le passioni del corpo
che la imprigionano.
In effetti l’anima razionale dell’uomo è s-passionata, espressione della retta conoscenza e
della razionalità più pura. Per questo la Paideia greca, in particolare quella platonica, sarà la messa a
punto di regole che, attraverso il dominio delle passioni, consentirà di raggiungere la verità 55. Per
questo l’anima deve star sola con se stessa, ed “astenersi il più possibile dalle passioni, dai
desideri e dai dolori”56. Astenersi quindi dal mondo sensibile verso la conoscenza dell’intelligibile,
delle Idee. L’’anima allora è connotata dalla sola ragione; una ragione che caratterizza
essenzialmente l’anima secondo una modalità autosufficiente che La porta , in quanto consapevole
di sè, a pensarsi oramai per sè. Si tratta insomma di comprendere come in Platone sia anticipata la
nascita di un Soggetto consapevole di sè ed individuale, separato da un corpo portatore di
disordine e follia57. Ancora l’anima, grazie alla sua natura razionale sganciata dai sensi, può
intrattenersi con la verità, con il mondo delle Idee. In una battuta: l’anima è il luogo della verità.
Si ricordi inoltre che la verità in Platone ha carattere pratico, come in tutta la filosofia
antica: essa guida l’uomo nella vita che egli vuole vivere, in vista del fine\scopo supremo della vita
ossia la contemplazione della verità. Chi ama la verità allora non pone come scopo della propria
vita il godimento sensibile, visto che la vita sensibile disturba la contemplazione della verità. Anzi,
in misura maggiore la morte del corpo rende accessibile l’approccio al divino: così Socrate muore
nell’attesa della visione dell’intelligibile ossia in compagnia degli dei.
Fedone, 82e – 83b.
Cfr. Galinberti, Psiche e Techne, Feltrinelli, Milano, pagg. 126 e sgg.
56
Ivi 83b.
57
Cfr. Galimberti, cit. pag. 127.
54
55
Filieri Andrea
30
L’anima
Abbiamo visto come le Idee non possono derivare dai sensi, in quanto questi ci rendono
solo conto del mondo materiale, inafferabile a causa del suo mutamento58.
Piuttosto le Idee devono “essere viste “ con gli occhi della mente, così come esprime la
radice id- del verbo - idèin – vedere, da cui deriva il termine - idea. Il corrispettivo latino di - idea
è – species – che possiede la medesima radice di - spectare – ossi contemplare, o anche assistere
ad uno spettacolo59.
Ora, secondo Platone, noi possiamo conoscere il mondo delle Idee grazia all’anima: un
anima che si ricorda – teoria della REMINESCENZA – di quanto ha già visto, giacchè per
confrontare il sensibile all’intelligibile è necessario che l’intelligibile sia conosciuto prima ed
indipendentemente dal sensibile. Nella vita sensibile la conoscenza è dunque reminescenza.
L’anima insomma, prima di calarsi nel nostro corpo, ha già vissuto nel mondo delle Idee, e
tra una vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose sensibili. Una volta
discesa nel mondo sensibile l’anima si rammemora del già visto: conoscere è allora ricordare
(aspetto innatistico).
Patone comunque non ritiene che noi ricordiamo perfettamente quanto già visto, siamo
insomma in una forma di ignoranza che necessità di svelare la completezza del già visto: dobbiamo
allora “tirare fuori “- Socrate – la nostra conoscenza vera e propria.
Per altri versi Platone ritiene che l’anima sia immortale (Fedone), e giustifica questa
affermazione con alcune argomentazioni:
1) Teoria dei contrari: ogni cosa si genera dal suo contrario, per cui l’anima rivive dopo la
morte del corpo;
2) Teoria della somiglianza: l’anima è simile alle Idee sterne, per cui sarà anch’essa
eterna;
3) Teoria del soffio vitale: l’anima in quanto soffio vitale, è vita e partecipa dell’idea di
vita. Se è così non può partecipare dell’idea di morte ad essa opposta.
.
Ecco che allora l’anima, attraverso l’esercizio della filosofia e del Dia-logos, può alla fine
ricordare pienamente il senso dell’essere: la complessità delle Idee con a capo l’idea del Bene.
Un Bene che, in quanto superiore ad ogni ente, è come afferma Platone, al di là
dell’Essere, che supera in dignità potenza60.
Ora, in Platone, l’idea di anima risale etimologicamente al termine Psychè, che in verità
copre un’area semantica più vasta: anima, vita , spirito, coscienza. Egli definisce l’anima
naturalisticamente, da un lato, come principio di automovimento del mondo corporeo. Dall’altro
Platone sembra accoglire l’idea dell’Orfismo religioso di una sopravvivenza dell’anima rispetto al
corpo. In Aristotele, che riprende e modifica la tripartizione platonica, sembra accentuarsi l’aspetto
della dipendenza funzionale della psychè dal corpo61.
58
Abbagnano, Paravia, 2015, pagg. 222 e sgg.
Ibidem.
60
Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b.
61
Cioffi, Il testo filosofico, Mondadori.
59
Filieri Andrea
31
Successivamente Platone, si occupa del destino dell’anima, una volta acclarata la sua
immortalità. E a seconda del tipo di anima, buona o catttiva, diverso sarà il viaggio nell’Ade. Ora
l’anima che si sarà macchiata di azioni ingiuste andrà vagando da sola sino al tempo designato dalla
Necessità, quando sarà portata nella prigione toccatale in sorte; viveversa l’anima temperante e
saggia, vissuta nella purezzza e nella misura, sarà accolta nel luogo che le si addice: nella parte più
alta del cielo. In questo senso ciascuno è responsabile della propria sorte (l’anima vive quindi la
vita essa vuole): la filosofa è la via che consente all’uomo di salvare la propria anima perchè gli
insegna la verità ed il Bene. In misura più specifica Platone riconosce all’anima una tripartizione:
1) Razionale:sede del ragionamento logico e della argomentazione rigorosa;
2) Irascibile; passionale, essa si sdegna spesso per le azioni compiute dalla parte
concupiscibile per cui è soggetta all’influsso della parte razionale. (coraggio ed eroismo)
3) Concupiscibile: sede degli istinti. Esa è spesso ribelle, sede degli appettiti, brame,
desideri.
Platone designa quindi un essere, l’uomo, diviso tra l’aspirazione alla visione
dell’incorrutibile e la tendenza a restare nel mondo sensibile. L’uomo giusto è colui nel
quale la ragione esercita il compito che le è proprio: dominare istinti e passioni. E la
ragione va intesa precipuamente come conoscenza della verità attraverso la liberazione
dall’opinione.
In questa dicotomia, Platone cerca di evidenziare quale sia la possibilità per l’uomo
di unire questi due aspetti o meglio di risolvere il conflitto in cui l’anima di dibatte:
l’amore o Eros secondo Platone consente di ottenere quella forza che consente
all’anima di elevarsi dall’esperienza sensibile alla Bellezza ideale ed eterna62.
Si badi che la tematica dell’amore platonico esprime un aspetto profondo ed
innovativo della filosofia platonica: l’amore è follia sebbene non sempre la follia sia un
male. Si tratta infatti di divina follia. E dal divino procede e proviene il bene per
l’uomo. In effetti l’amore per la bellezza del mondo delle Idee è dolcissima pazzia
divina. L’innamorato può infatti percorrere tutte le tappe che lo porteranno a
riconquistare il mondo intelligibile. Platone delinea gli effetti dell’amore con grande
precisione: quando un uomo vede un corpo di fattezze “divine” lo venera con passione,
con tremito e palpito63. Ora, quest’aspetto di Eros – vera forza mediatrice tra sensibile e
soprasensibile - spinge l’anima a superare il mondo sensibile e fisico, dirigendo l’anima
al soprasensibile, dove potrà “vedere” ed amare la bellezza (il Bello coincide con il
Bene: ideale estetico e morale) soprasensibile.
62
63
La meraviglia delle Idee, Massaro, Paravia, pag. 161.
Ibidem.
Filieri Andrea
32
La scala dell’Eros
Sesto gradino: Bellezza in sé; la bellezza nel suo essere
sapienza che coincide con l’amore filosofico
L’Eros è desiderio di bellezza
che è il Bene nel suo
manifestarsi. Per questo la
Bellezza , unica tra le Idee, ha
avuto il privilegio di essere
strordinariamente amabile .
Eros è dunque l’immagine del
filosofo che non possiede la
sapienza ma la desidera
Bellezza delle scienze: si giunge così ad ammirare le
scienze, un sapere che ha i caratteri dell’ordine, della
simmetria, della perfezione
Bellezza delle istituzioni e delle leggi: a questo punto si
prova il desiderio di dar vita a valide istituzioni e leggi
in quanto sono creazioni dell’anima
Bellezza dell’anima: successivamente si capisce che quella
dell’anima è una bellezza più grande di quella fisica che
decade.
Bellezza corporea: la bellezza è uguale in tutti i corpi e si ama la
bellezza corporea nella sua totalità
Primo Gradino - Bellezza di un corpo: l’amore si manifesta
innanzitutto come desiderio di generare da un corpo bello un
altro corpo bello
Filieri Andrea
33
Felicità e giustizia64
La politica è stata la passione
dominante della mia vita.
Platone, Lettera VII
Secondo Platone, la virtù dell’anima è vivere bene, secondo giustizia – virtù morale- ,
(equilibrio delle parti dell’anima)65 che è appunto la virtù dell’anima e la condizione della felicità.
Una concezione questa, autarchica della felicità: la felicità dipende solo dal singolo, sebbene
inserito in un contesto politico a lui affine: una città ( la traduzione di – Polis – con – Stato – non
sembra essere corretta66) che fonde il concetto individuale di felicità in quello sociale (ma forse
sarebbe meglio dire comunitario), in cui tutti operano secondo giustizia, ossia svolgono al meglio il
proprio compito. Una felicità quindi, alla fine, soprattutto sociale, sebbene nella misura in cui la
natura concede67 ossia nella misura in cui ognuno, per nascita, presenta una propria natura. (una
concezione quasi pessimistica questa) per cui non tutti possono essere realmente felici.
L’uomo è la sua anima
Socrate
Afferma Platone: “Ora, non abbiamo affermato che virtù68 dell’anima è la giustizia e
viziol’ingiustizia? - Sì, l’abbiamo Affermato Socrate – Perciò l’anima giusta e l’uomo giusto
vivranno bene e l’ingiusto male. – E’ evidente disse.” (Repubblica, II, 601b).
64
Cfr. Jager, Paideia, II, pp.129, in cui il problema politico di Platone è ritenuto il punto fondante della sua filosofia.
E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, pagg. 255 e sgg.
66
Ibidem.
67
Ibidem.
68
Virtù: il termine non ebbe originariamente quel significato specificamente morale che ha avuto in seguito nelle
dottrine filosofiche e religiose. Il termine greco ἀρετή e quello latino virtus stanno, infatti, a indicare una particolare
capacità o una condizione di eccellenza. Cfr. Treccani on line.
Per Omero è la v. militare, cioè coraggio e destrezza, Cicerone fa derivare virtus da vir («uomo») e la
identifica con la fortitudo («forza d’animo»), chiamata a sostenere due ardui compiti: il disprezzo della morte e del
dolore (Tusculanae disputationes, II, 18).
Virtù e mondo morale. La v. diviene oggetto di indagine filosofica con Socrate, che si pone il problema di «che cosa è»
la v. e lo risolve nel senso della stretta dipendenza della v. dal sapere, per cui la conoscenza è momento intrinseco della
stessa volontà. Cfr. Treccani on line.
65
Sviluppando l’impostazione socratica, Platone concepisce la v. come capacità di attendere a una funzione determinata:
«in ciascuna cosa cui è attribuita una data funzione ci deve essere pure una v.»; così, se la funzione degli occhi è
quella di vedere, la possibilità di vedere è la v. degli occhi. Egli individua quindi tante v. quante sono le funzioni
fondamentali dell’anima:
temperanza;
2. coraggio;
3. prudenza o σωφροσύνη;
4. giustizia come armonia delle precedenti ; Platone le pone alla base dell’organismo statale
1.
;(Repubblica, I, 353 a-d; IV, 440-445).
Filieri Andrea
34
Aristotele, in corrispondenza delle due parti dell’anima, l’una razionale e l’altra priva di ragione, distingue tra due
specie di v.:
1. dianoetiche (arte, τέχνη; scienza, ἐπιστήμη; saggezza pratica o prudenza, φρόνησις; intelletto, νοῦς; e
sapienza, σοφία) e le
2. etiche (coraggio, temperanza, liberalità, magnanimità, mitezza, affabilità, sincerità, urbanità, giustizia,
equità, continenza e amicizia).
Le prime sono legate al prevalere della ragione discorsiva o conoscitiva, o διάνοια (Etica Nicomachea, 1103 a;
1139 b), e le seconde al dominio sull’impulso sensibile (Etica Nicomachea, 1102 b) secondo il criterio del «giusto
mezzo» fra gli estremi (Etica Nicomachea, 1106 a). Lo Stagirita, inoltre, presenta la v. etica come un «abito», cioè una
stabile disposizione o qualità dell’anima che l’uomo non possiede per natura ma che acquisisce operando fattivamente e
compiendo gli atti corrispondenti a ciascuna v. (Etica Nicomachea, 1103 a). Significative, nell’ambito delle dottrine
antiche sulla v., le concezioni stoica ed epicurea che attribuiscono centralità alla v. della saggezza (φρόνησις) o
prudenza, intesa dagli stoici come capacità di contrapporsi alla forza irrazionale e incontrollabile delle passioni in una
prospettiva ascetica; e dagli epicurei come calcolo razionale dei «piaceri» in vista di una condizione di atarassia . In
partic. gli stoici costruiscono sul loro concetto fondamentale dell’identità di ragione e natura una grandiosa e
ricchissima casistica delle v. e dei vizi, che si riassume nell’antitesi «saggezza-stoltezza» e si articola nella dottrina delle
passioni superate dalla v.; l’analisi stoica delle v. e dei vizi avrebbe poi fornito materia e argomenti alla letteratura
moralistica dei secoli successivi. Cfr. Treccani on line.
Le virtù cristiane. Con il cristianesimo la v. cessa di essere un ideale di perfezione puramente umana e, in aggiunta alle
quattro virtù platoniche – denominate nel mondo cristiano v. cardinali – entrano in campo le v. teologali (fede,
speranza e carità) che portano l’uomo verso Dio. Queste sono v. soprannaturali, cioè abiti infusi nell’individuo da
Dio, che ne è d’altronde l’oggetto. Per Agostino l’unica vera v. è l’amore di Dio, dalla quale deriva la capacità
dell’uomo di vivere rettamente; tale v. non è una conquista dell’uomo, bensì «Dio la produce in noi senza di noi».
Tommaso, riprendendo tale definizione (Summa theologiae, I-IIae, q. 55, a. 4), sottolinea che la causa efficiente della v.
infusa è Dio, ma che per il resto la definizione di v. è comune a tutte, sia infuse sia acquisite. In questo modo egli
conserva la distinzione tra due tipi di v. e tutela il valore (sia pure non assoluto) delle v. raggiunte dall’uomo grazie al
proprio impegno; a quest’ultimo riguardo – come per altri problemi filosofici – il suo riferimento è ad Aristotele e
all’Etica Nicomachea. Per Tommaso l’uomo è caratterizzato da un lato dalla finitezza (e quindi dalla fragilità e dal
continuo pericolo di disordine morale e di peccato), dall’altro da un desiderio che non può essere soddisfatto da nessun
bene finito; pertanto l’uomo non potrà realizzare sé stesso in una dimensione autarchica, ma dovrà aprirsi al bene
infinito, cioè a Dio, per raggiungere il traguardo ultimo della salvezza. A tal fine Dio fa dono della grazia, un aiuto
decisivo per vincere il peccato. L’obiettivo finale dell’uomo, dunque, non può essere conseguito per mezzo del solo
impegno etico, e le v. morali, anche se necessarie, non sono sufficienti senza le v. teologali donate da Dio. Cfr.
Treccani on line.
Virtù mondana e virtù naturale. Sarà poi l’Umanesimo, mettendo l’accento sulla dignità dell’uomo, a riportare in auge
il tema antico della v. mondana. Nel Rinascimento importante è la fortuna del termine nelle pagine di Machiavelli, dove
la v., sganciata da un significato morale, consiste nella capacità dell’uomo di non subire passivamente i casi della
«fortuna», ma di dominarli. La v. consiste quindi nella forza dell’individuo di tradurre in atto il proprio volere,
indipendentemente dalla valenza morale e religiosa degli scopi che egli si propone. Insieme alla fortuna, o complesso
delle condizioni oggettive in continuo mutamento in cui l’uomo si trova a operare, e in contrapposizione con essa, la v.
costituisce il fattore determinante del divenire storico. Successivamente, nelle definizioni spinoziane, la v. è
nuovamente ricondotta a potenza o facoltà insita nelle cose e nelle persone (come capacità, attitudine, o disposizione
naturale): «Per v. e potenza intendo la stessa cosa: cioè la v., in quanto si riferisce all’uomo, è la stessa essenza o
natura dell’uomo, in quanto ha il potere di fare certe cose che possono spiegarsi con le sole leggi della sua stessa
natura» (Ethica, 1677, IV, def. VIII).
Nel Seicento è soprattutto il proposito di un esame razionale e scientifico del mondo morale ad accomunare la
riflessione etica, sia nella forma di un’analisi meccanicistica dell’uomo e di una dimostrazione geometrica delle norme
etico-politiche (Hobbes), sia in quella dell’esame della base fisiologica delle passioni dell’anima (Cartesio)
Filieri Andrea
35
Ora, se per Platone l’uomo è fondamentalmente la sua anima, solo l’uomo giusto può
essere felice. In effetti i piaceri del corpo non sono tenuti in conto da Platone, o meglio da Socrate,
genialmente espresso da Platone69.
Proseguendo nella disanima della Repubblica, Platone analizza il senso della giustizia
arrivando ad affermare che l’uomo può essere felice solo in una città ove ognuno svolge al meglio il
propio compito: ogni categoria sociale infatti deve svolgere al meglio il proprio compito secondo la
propria virtù:
-
per i guerrieri sarà il coraggio,
per i governanti la sapienza,
quella di ognuno sarà la misura, il contenimento delle
passioni ossia la temperanza.
La giustizia è espressa dalla “somma di tutte queste
virtù”.70Di nuovo una concezione quasi ascetica.
In questo senso, ed in riferimento ai passi della Repubblica citati, sembra che in questa vita,
il filosofo, colui che secondo un ideale ascetico conosce la verità ed è temperante, non possa essere
veramente felice. E questo non tanto perchè non vive nella città ideale, fondata sulla giustizia di
tutti e di ognuno, ma perchè prigionero del corpo che ottunde la via alla felicità (Repubblica).
In verità, questo aspetto della felicità legata in particolare ai filosofi, ossia a coloro che in
questa vita conoscono la verità, sembra essere controverso: Platone infatti, alla fine della
Repubblica, concede che il filosofo sia felice in questa vita ed anche nella vita futura mentre il
Tiranno non sembra essere felice nè ora ne dopo.
Ora, se è cosi, secondo il mito di Er che pone premi e punizioni per la vita condotta, perchè
il filosofo dovrebbe essere premiato dopo la morte per la vita praticata se già era felice? E perchè il
secondo dovrebbe essere punito se già era infelice?71
Per dare una risposta è necessaria una breve disanima dei dialoghi ulteriori: nel Fedone, si
affaccia maggiormente la tematica dell’anima come prigioniera del corpo di cui si libera dopo la
morte, per cui nemmeno il filosofo può essere veramente felice in questa vita.
In questo senso, sembra che in questa vita, il filosofo, colui che secondo un ideale ascetico
conosce la verità ed è temperante, non possa essere veramente felice. E questo non tanto perchè
non vive nella città ideale, fondata sulla giustizia di tutti e di ognuno, ma perchè prigionero del
corpo che ottunde la via alla felicità.
Viceversa nel Simposio, non pare che dimensione autarchica ed ascetica della Repubblica e
del Fedone sia dominante. Piuttosto la dimensione della carnalità e della conteplazione si
dispongono in un crescendo che già in questa vita consentono la felicità. AMORE PASSIONALE E
SPIRITUALE COME ASPETTI SUCCESSIVI DI UN MEDESIMO PERCORSO. Percorso che si
invera nel momento culminante della contemplazione del Bello in sè: felicità dunque già in questa
vita per il filosofo: Eros (Amore) dunque come dimensione stessa della filosofia, meglio del
filosofare come amore della verità.
69
Ibidem.
Ibidem.
71
Ibidem.
70
Filieri Andrea
36
V’è però da dire che anche nel Filebo, uno degli ultimi dialoghi di Platone, l’aspetto
autarchico e quindi di responsabilità del singolo in questa vita, non viene mai meno: il singolo è
sempre responsabile di ciò che fa e sceglie, o meglio di ciò che vuole72, per cui la sua vita può
essere vissuta in un modo o in altro. Ogni riferimento alla Fortuna è assente, mentre
l’organizzazione della Polis è la dimensione che consente al singolo la via della verità, della
contemplazione e della felicità.
Ancora, il senso del piacere intellettuale nella contemplazione del Bello in sè è più
manifesto e presente unitamente ai piaceri del corpo: certo i piaceri sono puri e non, per cui i piaceri
intellettuali sono preferibili.
Hanno sede nell’iperuranio:
un’immaginre mitica e metaforica
Le Idee sono delle entità intelligibili ossia realtà
che avvertiamo solo con la ragione, non con i
sensi.
Ne
consegue
Mondo sensibile immanente e
costituito da oggetti fisici e
materiali
Conoscibili mediante i sensi
Dualismo ontologico: l’essere delle
idee è strutturalmente diverso
dall’essere delle cose
Mondo intelligibile
trascendente e
costituito da realtà
sovrasensibili: le idee
Conoscibi
li
mediante
la ragione
Dualismo gnoseologico
Sono cause delle cose. Il
mondo sensibile è una
imitazione del mondo
intelligibile
Quali funzioni
hanno le idee
Sono criteri di giudizio in
quanto per formulare un
giudizio dobbiamo riferirci
ad esse
72
Cfr, Severino, cit. pag. 108.
Filieri Andrea
37
La giustizia73
“Voi, invece, sostenete che gli ingiusti sono tali,
non per mancanza di istruzione o per ignoranza, ma perché
lo vogliono, e inoltre avete il coraggio di dire che l'ingiustizia
è cosa turpe e che è odiata dagli dèi; come sì può scegliere
volontariamente un tale male? Voi dite perché si è
sottomessi ai piaceri. Ebbene anche questo è involontario, se
?
è vero che il vincere è volontario Così la ragione dimostra,
in ogni modo, che l'ingiustizia è involontaria, e che di ciò
bisogna darsi pensiero, più di quanto non facciano oggi ogni
persona privatamente e tutte quante le
città
».
pubblicamente
Platone, Carmide
La riflessione platonica sullo stato è, in Platone, un’analisi sulla giustizia 74. Nella
Repubbica, dialogo incentrato sulla tematica dello giustizia e della concezione dello Stato,
(I libro), Trasimaco definisce la giustizia come l’utile del più forte, sino ad affermare che il
tiranno (imponendo il proprio volere) ancorché ingiusto è senz’altro considerato felice.
Trasimaco enuncia infatti la tesi che il giusto è l’utile (symphéron) di chi è più forte
(kreitton), come mostra il fatto che in ogni Polis ciò che domina (krateì) è l’arché.
Ora ogni arché75 indipendentemente dalla forma di governo - di uno o di molti –
pone le leggi, i nomoi, che mirano ad assicurare il proprio utile. Le leggi infatti proclamano
giusto ciò che è utile ai governanti76.
73
GIUSTIZIA (lat. iustitia; fr. ing., justice; sp. justicia; ted. Gerechtigkeit). - Nella speculazione greco-romana il concetto di
giustizia è ancora essenzialmente naturalistico, poiché di esso si cerca il fondamento non nell'uomo, ma nella realtà naturale
comunque concepita, come principio materiale o come principio ideale. Da concetto esprimente la fisica necessità che mantiene
ogni cosa nel proprio ordine e nel proprio corso, la giustizia passa a significare un principio naturale di coordinazione e di armonia
nei rapporti umani, per assurgere da ultimo ad attributo del volere che tale ordine naturale attua nell'operare. Per primi i Pitagorici
intesero la giustizia come il riflesso nel mondo morale e politico dell'armonia cosmica espressa simbolicamente nei numeri e nelle
loro combinazioni. Per essi la giustizia era simboleggiata dal moltiplicarsi di un numero per sé stesso, cioè da un numero quadrato, a
rappresentare l'equivalenza dell'azione e della reazione giuridica che ad essa deve corrispondere; concetto espresso dai Pitagorici
anche dicendo che il giusto è l'ἀντιπεπονϑός, il contrappasso di Dante.
I due concetti di armonia e di eguaglianza rivelati da Pitagora nella giustizia naturale si svolgono e si determinano in Platone e in
Aristotele. Per Platone la giustizia è infatti l'armonia sia tra le diverse facoltà dell'anima, sia tra le diverse classi di cittadini, in
quanto assegna ad ogni facoltà, ad ogni ceto quello che a ciascuno spetta, come "attuazione del proprio compito" (τὰ αὑτοῦ
πράττειν). La dottrina aristotelica svolge invece e corregge l'idea pitagorica della giustizia come eguaglianza. Partecipando
dell'essenza della virtù, la giustizia dovrebbe rappresentare il giusto mezzo tra un difetto e un eccesso. Sennonché nel libro V
dell'Etica Nicomachea ove si tratta della giustizia generale in largo senso, Aristotele non parla né di medietà, né di vizî estremi, ma
contrappone alla giustizia l'ingiustizia. Ciò si spiega se si pone mente che la giustizia generale non è una virtù particolare, ma è virtù
intera che trae il suo contenuto dalle altre virtù. Il concetto di medietà si applica alla giustizia solo quando essa è intesa come virtù
particolare, ed è medietà non tra opposte tendenze soggettive, ma tra due quantità estreme che sono il troppo e il troppo poco
nell'assegnazione degli onori e beni pubblici o nello scambio privato dei beni. Perciò il mezzo in cui la giustizia in senso stretto
consiste, corrisponde all'eguale, e non è come per Pitagora una quantità fissa, ma variabile con criterio proporzionale. Non si tratta di
dare a tutti egualmente, ma di dare a ciascuno il proprio. Cfr. Treccani.
74
Ruffaldi, La tradizione filosofica.
Cfr. Come nave in tempesta, Cambiano, Laterza 2016.
76 Ibidem.
75
Filieri Andrea
38
CONFRONTO
guida della città
famiglia
educazione
proprietà privata
attività lavorativa
attività commerciale
difesa della città
religione
partecipazione
politica
alla
Repubblica
Leggi
filosofi-re
IL CONSIGLIO NOTTURNO
negata ai governanti e Ammessa per tutti ed
guerrieri
incoraggiata
comune per tutti i bambini
comune per tutti i bambini a
partire da una certa età,
diversificata per sessi
ammessa
solo
per
i i nuclei familiari pssiedono
produttori
appezzamenti di terreno
ammessa
solo
per
i i lavori manuali sono affidati
produttori
a schiavi e stranieri
riservata
solo per i fortemente limitata
produttori
riservata ai guerrieri
affidata a tutti i cittadini
importante per una corretta culto obbligatorio per tutti
conoscenza e virtù
vita limitata ai filosofi
aperta a tutti i cittadini
cheperò sono solo i proletari
terrieri
Nelle parti successive, appartenenti al periodo della maturità, Socrate suggerisce di
affrontare la tematica dello Stato considerato come “un individuo in grande”. Si stabilisce
quindi il parallelismo tra individuo e stato che caratterizza tutta l’opera.
Vediamo: i cittadini,77 così come l’anima platonica, sono divisi in tre classi, ognuna
delle quali corrisponde ad una virtù specifica. La giustizia consiste nell’armonizzazione di
queste tre classi:
- Governanti filosofi – anima razionale (sapienza)
- Guerrieri -.anima irascibile (coraggio o fortezza;
- Produttori – anima concupiscibile (temperanza) .
Tale concezione, fonte a volte di aspre critiche, produce un modello di “Stato” che si fonda
su due aspetti:
- Le classi dei custodi dello “Stato” ossia coloro che
hanno potere (governanti e guerrieri) devono
essere poste in condizione di non usare il proprio
potere per fini personali;
77
Nell'età postaristotelica e soprattutto in Roma, si conserva il significato oggettivo, naturalistico della giustizia, ma è posto in
maggiore rilievo l'aspetto soggettivo della medesima. Evidente è l'ispirazione stoica nella definizione che dà Cicerone della giustizia
nel De inventione: "Iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem". La definizione di
Ulpiano (Dig., I,1, 10 pr.) traduce in termini romani e in forma più rispondente alle esigenze del giureconsulto, la definizione di
Cicerone. "Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi". L'habitus animi diventa la constans et perpetua
voluntas; la dignitas diventa lo ius. La giustizia, conforme all'insegnamento stoico, diventa una virtù attiva; non è solo scienza o
ratio che segue la natura, ma si afferma come arte, come voluntas. D'altra parte ciò che la natura assegna a ogni essere diventa il suo
diritto, e una misura comune di giustizia, ossia di eguaglianza proporzionale, è invocata a regolare il sistema dei rapporti tra individui
aventi diritti diversi.
Filieri Andrea
39
-
Lo Stato deve controllare ed organizzare ogni
aspetto (economico, sociale ed educativo) della
vita dei cittadini
Platone in sintesi
Mondo fisico ed intelligibile
Platone, attraverso la dottrina delle Idee
distingue il mondo in due piani:
1) Fisico e materiale conosciuto attraverso
i sensi;
2) Sovrasensibile
e
comprensibile
attraverso la ragione;
Cosa sono le Idee?
Le Idee sono universali ossia sono valide per
ogni individuo, in ogni tempo ed in ogni luogo.
Sono entità intelligibili.Sono modelli del mondo
sensibile
La conoscenza avviene attraverso il processo di L’anamnesi è quel processo con cui l’anima
anamnesi
arriva a ricordare ciò che ha visto nel mondo
delle Idee, nell’Iperuranio. La conoscenza è
quindi innata.
L’anima è immortale
1) Prova dei contrari:ogni cosa si genera
dal suo contrario;
2) Prova della somiglianza: l’anima è
simile alle Idee per cui è eterna;
3) Prova della vitalità: l’anima è soffio
vitale;
La tematica dell’Eros
L’Eros platonico, manifesta l’aspetto della
ricerca di qualcosa di mancante ed appagante
nella misura in lo si trova: si tratta dell
desiderio di bellezza, intesa come armonia,
misura e proporzione.La scala dell’eros, una
volta percorsa, conduce l’uomo a conoscre la
forma più alta di bellezza; si comone sei
gradini:
1) Impulso verso la bellezza di un corpo;
2) Desiderio della bellezza corporale in
generale;
3) Amore spirituale: bellezza dell’anima;
4) Belleza delle istituzioni e delle leggi;
5) Ammirazione verso la bellezza delle
scienze;
6) Scoperta della bellezza in sé: bellezza
nel suo essere sapienza, amore supremo
oggetto della filosofia.
Tripartizione dell’anima
Prima parte: parte razionale, vivere secondo
ragione consente la saggezza;
Seconda parte: parte irascibile; essa in genre
sta dalla parte della ragione ma può anche
lasciarsi trascinare dai sensi. Se essa segue la
Filieri Andrea
40
ragione ha luogo il coraggio;
Terza parte: parte concupiscibile o appetitiva.
Desiderio delle cose dei sensi. La virtù di questa
parte è la temperanza, peraltro comune alle alle
parti.
Tripartizione dello Stato
Prima classe: governanti o re filosofi;
seconda classe: guerriri;
terza classe: produttori (artigiani, contadini,
mercanti). Lo stato è giusto se ognuno svolge il
proprio compito.
Primo tipo: sensibile ossia la dòxa, l’opinione.
Essa compredee la congettura o eikasìa, la
credenza o pìstis;
secondo tipo: razionale o episteme
La conoscenza
Eudemonismo
Bene
Filieri Andrea
Socrate
Platone
Nell’Apologia Socrate teorizza
la perfetta coincidenza di virtù
e felicità. La felicità è
l’immediata conseguenza del
comportamento virtuoso tanto
è vero che solo il pazzo o
l’ignorante agisce male.
Socrate non fornisce una
definizione
di
Bene,
limitandosi ad affermare che
esiste un bene comune.
A partire dal Gorgia è
accentuata la distanza fra vera
felicità e piacere. L’uomo
virtuoso è destinato a soffrire
in questo mondo a causa
dell’ingiustizia degli uomini e
dei governi.
il Bene è l’idea suprema , faro
che illumina la via alla
conoscenza : come il Sole per
la vista. Senza di essa nulla
può essere contemplato nel
mondo delle Idee. Esso è
quindi eterno ed imperituro
41
Le vie della conoscenza
Primo grado:
congettura
La conoscenza
sensibile (dòxa)
ha per oggetto il
mondo sensibile
Secondo grado:
credenza (pistis)
Conoscenza razionale
(epistème): ha per
oggetto il mondo delle
idee
Terzo grado:
ragione
matematica
(diànoia)
Quarto grado:
conoscenza
filosofica: nòesis
Filieri Andrea
42
Aristotele
Cosa caratterizza la filosofia di Aristotele? Potremmo dire in prima battuta che se Platone
ha riformato l’ontologia parmenidea allora Aristotele riforma l’ontologia platonica: per Aristotele
anche l’essere sensibile può essere sostanziale78 (avere fondamento in se stesso).
Non solo l’essere soprasensibile può essere sostanziale ma anche quello sensibile. Di più ancora:
in Aristotele non solo l’essere sensibile ed individuale è sostanziale ma solo
l’essere sensibile ed individuale è sostanza.79 In una battuta Aristotele critica radicalmente
Platone e ne ribalta completamente il senso della sua dottrina. In effetti per A. l’universalità non
esiste mai di per sé ma solo in relazione ad altro. Questa è la critica fondamentale. 80 Facciamo una
breve digressione verso la logica aristotelica: la proposizione Socrate è un Uomo presenta Socrate
come il soggetto mentre l’essere un uomo è il predicato della nostra preposizione. Ora, nella realtà
l’essere uomo è l’attributo di Socrate, in una battuta l’esser uomo è una caratteristica di Socrate. Di
più ancora, l’essere uomo non può esistere senza un soggetto a cui riferirsi, mutatis mutandis
l’attributo non esiste mai senza un soggetto a cui riferirsi. L’universalità dell’attributo (l’esser
uomo) può essere affermato se riferito a qualcosa di particolare, al contrario il soggetto (Socrate)
esiste di per sé. In conclusione, l’universale esiste solo come attributo del particolare. Il
soggetto è allora soggetto di inerenza. Ma, riflettiamoci un attimo, se il soggetto fosse l’uomo? Non
sarebbe questa una contraddizione? No, nell’espressione - L’uomo è un animale razionale –
stiamo parlando di una caratteristica propria degli uomini, che è comune agli uomini, per cui il
soggetto della nostra proposizione è tale solo in quanto può essere predicato, a sua volta, di uomini
78
Ed è sostanza il sostrato, cioè in un senso la materia (chiamo materia quella che, senza essere in atto qualcosa di
determinato è, però potenzialmente qualcosa di determinato), in un altro senso il concetto e la forma, ossia ciò che,
essendo qualcosa di determinato, può esistere separatamente solo per logica astrazione; in terzo luogo è sostanza il
composto di materia e forma, e di esso soltanto c'è generazione e corruzione, ed è esso soltanto quello che, in modo
assoluto, ha un'esistenza separata: infatti, tra le sostanze formali, alcune hanno esistenza separata, altre no.
Metafisica
Spieghiamoci: ousìa è il termine che A. utilizza per indicare che cos’è un ente. Ousìa è un sostantivo formato sul participio del
verbo éinai , essere. In lingua italiana il participio suona come essente o ente , in una battuta ousìa suona come l’essere un ente da
parte dell’ente. In effetti l’ente è anzitutto un essere un ente. Ora questo termine indica innanzitutto un ente determinato, non solo,
determinato in un modo tale che compete solo a quegli enti che A. chiama una ousìa e che non sono accidenti (dal participio
àccidens del verbo accìdere che significa capitare, accadere). In generale ousìa è tradotto con sostanza, dal latino sub-stantia, ciò
che sta sotto. In effetti l’ousìa è hypokéimenon ossia sub-stantia. Esemplificando : l’albero è verde dove l’essere verde è qualcosa
che accade all’albero e che esiste solo come proprietà di quest’albero o di altro. Detto altrimenti non esiste un ente diverso da
quest’albero che abbia la proprietà di essere quest’albero. A. chiama appunto sostanza ogni ente determinato che , a differenza
dell’accidente, non può essere predicato di un altro ente. In conclusione l’accidente ha bisogno di qualcosa per esistere come
accidente mentre la sostanza no. Ora l’Idea platonica non può essere sostanza visto che l’idea è in modo eminente predicato e
proprietà degli enti. Ogni sostanza , e quindi anche le sostanza sensibili, rispondono alla definizione di sostanza data da A. La
sostanza quindi è ciò che una cosa è , il che cos’è di un ente. Ma Aristotele usa anche il termine forma per indicare il che cos’è di
un ente. Se pensiamo ad una sostanza sensibile diremo che la forma essere casa ha la caratteristica di raccogliere ed unificare ,
appunto di dare una forma ad un insieme di materiali. La sostanza sensibile allora è forma di una materia, synolon, dice A. La
materia, come tale, non è ciò che un ente è, se volete i materiali non sono la casa, semmai sono materiali di una casa. Ciò che fa si
che la casa sia tale è la forma essere casa che unifica, assetta ed ordina i materiali in un modo particolare da essere una casa. Nelle
sostanze sensibili la forma non esiste indipendentemente dalla materia e d’altra parte la forma è ciò per cui quell’ente è tale. Di più
ancora la materia è una casa solo se può diventare una casa ossia se è in potenza una casa, ossia solo se la materia ha la potenza
passiva (capacità di ricevere una forma) di essere formata come casa. Ora, rispetto alla potenza della materia, la forma, e l’azione
della forma, è atto: un blocco di marmo è in potenza una statua mentre la statua compiuta è in atto una statua .
80 Vediamo meglio: gli argomenti di A. contro le Idee mirano da un lato a mettere in luce le conseguenze contraddittorie derivanti
dal postularne l’esistenza; dall’altro ad evidenziare come l’ammissione delle idee non valga a dar risposta ai problemi, alla soluzione
dei quali esse sono ritenute necessarie. Al primo tipo di argomenti è riconducibile quello rivolto a confutare le idee di negazione. Se
si ammettono le idee allora è necessario ammettere anche idee anche delle negazioni (come “non uomo”) ma ciò è impossibile
perché in tal caso avremmo un’idea unica (quella di non uomo) , per una molteplicità di cose diverse (tutte escluse gli uomini). Al
secondo tipo appartengono invece gli argomenti tesi a mostrare la critica alla concezione di enti ideali separati che siano causa di
quelli sensibili.
79
Filieri Andrea
43
particolari, di altri soggetti insomma, che fungono da fondamento della nostra proposizione iniziale.
Vediamo:
 Platone: l’individuale è attributo di un universale ossia
l’individuale esiste solo in quanto esiste un universale.
 Aristotele: è vero l’opposto. Ciò che è in sé è
l’individuale, mentre l’universale sta solo in quanto è in
relazione ad altro da sé. Non esiste l’uomo in generale
come realtà autonoma ma esistono singoli uomini
particolari che consentono all’uomo in generale di
sussistere.
In questo senso l’universale non è sostanza81 in quanto la sua esistenza dipende da altro.
Ora se in Platone il soprasensibile era condizione di esistenza dei singoli enti in Aristotele
l’universale non è sostanziale. Ma cosa intende l’autore con sostanza? In prima battuta sostanziale
deve significare:
-
ciò che è causa, principio, fondamento del proprio
essere (così come in Platone le Idee sono sostanza in
quanto fondamento della realtà). Rispetto a Platone,
Aristotele aggiunge che la sostanza deve essere
particolare in quanto l’universale esiste sempre in
relazione ad altro. In seconda battuta :
I. la sostanza è sostrato. Ciò che sta sotto , fondamento o
soggetto di inerenza (la realtà individuale di Socrate)
è colui a cui si deve la prima teorizzazione del concetto di sostanza (in greco, ousia), la concepisce come l’essenza
necessaria che sta a fondamento di ogni realtà; inoltre egli la qualifica anche come ciò che esiste in maniera indipendente e “di per
sé”. Una certa realtà, ad esempio un certo uomo, può presentare vari aspetti, talvolta mutevoli, quali l’essere grande o piccolo, buono
o cattivo, ma non può essere altro che uomo, cioè animale razionale, che è quanto costituisce la sua essenza necessaria; inoltre è
chiaro che gli aspetti suddetti non possiedono un’esistenza indipendente, ma sono presenti sempre e soltanto come aspetti secondari
(o “accidenti”) di un certo individuo. Perciò Aristotele aveva inteso la sostanza come la prima delle dieci categorie e aveva asserito
che si conosce a fondo una determinata cosa solo quando si conosca la sua sostanza, ossia “che cosa è”. Nella Metafisica, poi,
Aristotele afferma che il problema fondamentale della filosofia, ovvero “che cos’è l’essere”, si riduce in definitiva al problema di
sapere che cosa è la sostanza. Di questa Aristotele dice che può essere sia la forma di una certa realtà, ovvero quanto costituisce la
sua struttura necessaria (ad esempio l’anima razionale dell’uomo), sia il “sinolo”, cioè il composto di forma e materia: esso
corrisponde a quella che, nello scritto sulle categorie, Aristotele chiamava la “sostanza prima”, ossia l’individuo che esiste
pienamente (ad esempio, un certo uomo: Socrate, Alcibiade, oppure un tavolo, un albero). Tuttavia, in un senso meno pregnante, può
dirsi sostanza anche la materia (la carne di cui è fatto Socrate, il legno del tavolo), perché essa costituisce un aspetto da cui non si
può prescindere nella considerazione delle cose. Vi sono, inoltre, tre specie di sostanze :
81Aristotele
1) le sostanze sensibili e corruttibili, cioè le cose che esistono nel mondo sublunare;
2) le sostanze sensibili ed eterne, cioè i diversi cieli e gli astri;
3) la sostanza non sensibile ed eterna, cioè Dio.
Questa dottrina di Aristotele fu ampiamente ripresa e rielaborata nella filosofia scolastica dell’età medievale, senza
subire però trasformazioni decisive
Filieri Andrea
44
II. la sostanza è sempre soggetto e mai attributo: è vero che
Socrate è uomo ma non è vero che uomo è Socrate.
III. La sostanza è
sia ente individuale che materia
indeterminata in quanto gli enti sono costituiti da materia
che funge da sostrato. Sebbene la materia sia qualcosa di
universale essa riceve forma
che gli permette di
individuarsi .
IV. La sostanza è qualcosa di determinato.
V. Se la sostanza è qualcosa di determinato la materia non
può essere considerata veramente sostanza in quanto
indeterminata ma allora, e qui Aristotele vuole arrivare, la
sostanza potrà essere solo l’unione di materia e forma
quello che è chiamato il sinolo ossia il composto di
materia e forma. Solo il sinolo permette il darsi della
determinatezza.
VI. Per forma (eidos) non si intende la nozione platonica ,
l’universale , bensì ciò che permette alla cosa di essere
un ente particolare. In una battuta la forma è il principio
di individuazione. (ci ritorniamo).
In sostanza abbiamo etto che :
1) la sostanza è sostrato
2) la sostanza è un ente determinato
3) la sostanza è unione di materia e forma .
Ora, se la sostanza è tutto ciò, essa è soggetta al divenire. A tutte le forme del divenire che per
Aristotele sono quattro82:
82
L'oggetto della fisica aristotelica è più ristretto di quello della metafisica: questa abbracciava l'intera estensione dell'essere, l'essere
in quanto essere, la fisica invece solo una certa porzione di essere, quello in movimento, in pratica il mondo sensibile.Il movimento è
la caratteristica essenziale del mondo sensibile, fatto di sostanze composte di materia e di forma, perciò (in quanto la materia è fattore
di potenzialità, e dunque di instabilità ontologica) divenienti.
Il movimento, o divenire, implica sempre



qualcosa che cambia,
qualcosa che resta;
qualcosa che fa cambiare
e può essere di quattro diversi tipi:




locale (cioè spaziale: lo spostamento da un punto all'altro dello spazio, da un luogo all'altro)
qualitativo (ossia la alterazione, il mutare qualità)
quantitativo (la diminuzione o l'aumento di aspetti quantitativi)
sostanziale (ossia la nascita e la morte di una sostanza)
Nei primi tre tipi di movimento ciò che resta è la stessa sostanza, mentre a cambiare sono rispettivamente
l'accidente luogo, o l'accidente qualità, o l'accidente quantità; nel caso del divenire sostanziale ciò che cambia
è la forma sostanziale: una scompare e un'altra le subentra, mentre ciò che resta è la materia, sostrato
indeterminato e potenziale, recettivo delle diverse forme.
Filieri Andrea
45
divenire come movimento (spostamento da un luogo all’altro)
divenire come generazione e corruzione (nascita e morte)
divenire come alterazione e modificazione ( sostanza bianca che diventa nera)
divenire inteso come aumento e diminuzione (pianta che da piccola diventa grande)
1)
2)
3)
4)
Quindi se la sostanza
non
è intesa come in Platone, bensì come ente determinato dobbiamo
ammettere che la sostanza è soggetta al divenire. Ossia è percorsa dal non-essere. Ma come
risponde Aristotele a questa obiezione? Affermando che l’essere si dice in molti modi:
l’essere in relazione alle categorie83
l’essere come potenza e atto84
l’essere come vero e falso
l’essere come accidente.
1)
2)
3)
4)
In buona sostanza qui Aristotele risponde a Parmenide sostenendo che in questo autore l’essere era
detto in un solo modo: come opposto al niente. Diversamente in A. l’essere è detto in molti modi ed
In tutti e quattro i casi perché ci sia movimento occorre qualcosa che faccia cambiare, ossia una causa efficiente.
Le sostanze corporee sono collocate in uno spazio, e divengono nel tempo.
83
Le categorie
ente
specie [differenza
genere
specifica]
categoria
Platone
animale
uomo [bipede]
sostanza (tì esti, ousia)
la nera barba
colore
nero
qualità (poiòn)
la folta barba
foltezza o
lunghezza
lunga e folta barba
quantità (posòn)
la famiglia Platone
parentela
genitori [ascendenza]
relazione (pròs ti)
il camminare di
Platone
modificare
camminare [muoversi]
fare o azione (poiéin)
l’essere trasportato
essere modificato essere trasportato
patire (pàschein)
l’Accademia
territorio
dove [luogo] (poù)
lo scorso mese
periodo dell’anno mese [insieme di giorni]
quando [tempo] (pòte)
il portare i sandali
abbigliamento
avere (échein)
stanza o giardino
portare i sandali [scarpe]
lo star seduto di
posizione del
star seduto
stare o giacere (cheìsthai)
Platone
corpo
Le categorie, incluse le ultime due (presenti solo nelle opere di logica), danno le distinzioni (caratteri) possibili nella
realtà sensibile (individuo, qualità, quantità, luogo, tempo, azione...): non ci sono cose sensibili che siano pensabili o
che non siano determinate da questi significati dell’essere.
84
E' atto l'esistenza reale dell'oggetto in un senso diverso da come diciamo che l'oggetto è in potenza. Noi diciamo che
una cosa è in potenza nel senso che, ad esempio Ermete è presente in potenza nel legno o la semiretta è presente in
potenza nella retta intera,perché essa può essere staccata da questa, e chiamiamo scienziato anche chi non sta
contemplando, qualora, però, egli sia capace di contemplare: ma in ben altro senso noi parliamo di presenza attuale.
Metafisica, IX
Filieri Andrea
46
in nessun caso si presenta il non-essere. D’altronde già in Platone compariva il non-essere
nell’essere , Aristotele quindi coerentizza Platone presentando diversi significati dell’essere
escludendo il fantasma del non essere. Esaminiamo ora il primo di questi modi mentre definiamo
velocemente il secondo come espressione del divenire85 mediante il passaggio dalla potenza
all’atto: il divenire di qualcosa può essere compreso come un passaggio non dall’essere al non
essere bensì come passaggio dalla potenza all’atto, da un certo essere ad un altro essere. Vediamo
però il primo dei significati: l’essere si dice in relazione alle categorie. A. elenca dodici categorie:
ad esempio secondo la qualità, quando diciamo che una cosa è bella o brutta. Ma anche secondo la
quantità, quando diciamo che una cosa è grande o piccola. Allora il dirsi dell’Essere è
85
Per Aristotele lo spazio è qualitativo e finito. Qualitativo significa che esso non è omogeneo, indifferenziato, ma c'è una
differenza qualitativa tra luogo e luogo (teoria dei luoghi naturali). La terra infatti occupa il luogo più centrale nel cosmo, poi si
dispone l'acqua, poi l'aria e infine il fuoco: ognuno dei quattro elementi della fisica antica ha dunque un suo “luogo naturale”, una
casa a cui tende inevitabilmente a ritornare. Al di sopra della sfera terrestre, sublunare, sta poi il mondo celeste, fatto di un quinto
tipo di elemento, l'etere o quintessenza, che ha come caratteristica l'incorruttibilità; infatti l'unico tipo di movimento che tale mondo
conosce è quello locale, mentre non subisce altre alterazioni, né quantitative, né qualitative, né sostanziali.
Finito
Oltre che qualitativo, lo spazio è poi finito; egli infatti definisce lo spazio come il limite del corpo contenente, in quanto
è contiguo al contenuto; e non è concepibile un corpo senza una superficie, e una superficie è necessariamente
delimitata, finita. Dunque il cosmo nel suo insieme, che può essere visto come un unico, grande corpo (fatto come è di
tanti corpi), deve avere un confine, ed è perciò finito.
«Ma se si prescinde dall'intero universo, non c'è alcuna altra cosa al di fuori del tutto, e perciò tutte le
cose sono nel cielo: che il cielo, s'intende, e il tutto! Il luogo, invece, non è il cielo, ma, per cosi dire,
l'estremità del cielo, ed è [immobile limite] contiguo al corpo mobile: e per questo la terra è
nell'acqua, questa nell'aria, questa, a sua volta, nell'etere, l'etere nel cielo: ma il cielo non è affatto in
un'altra cosa.» (Fisica, D4 , 212 b)
Tempo
Aristotele lo definisce come «la misura (il numero: αριθμoς) del movimento secondo il prima e il poi»: non ci sarebbe
perciò tempo se non ci fosse il divenire, il baricentro del tempo è nella oggettività del divenire:
«L'esistenza del tempo [...] non è [...] possibile senza quella del cambiamento; quando, infatti, noi non
mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutare nulla, ci pare che il tempo non sia
trascorso affatto.» (Fisica, D11 , 219 b 1-2)
Il divenire (oggettivo) non è però l'unico ingrediente del tempo: che è misura del divenire (il che aggiunge qualcosa
alla pura fattualità del cambiamento):
«Quando [...] noi pensiamo le estremità come diverse dal medio e l'anima ci suggerisce che gli istanti
sono due, il prima, cioè, e il poi, allora noi diciamo che c'è tra questi due istanti un tempo, giacché il
tempo sembra essere ciò che è determinato dall'istante: e questo rimanga come fondamento»
«Si potrebbe [...] dubitare se il tempo esista o meno senza la esistenza dell'anima. Infatti se non si
ammette l'esistenza del numerante è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente,
neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero
che nella natura delle cose soltanto l'anima o l'intelletto che è nell’anima hanno la capacità di
numerare, risulta impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima[...]»
Il tempo non ha avuto inizio né avrà fine, poiché il mondo è eterno. Non esiste infatti un Essere trascendente,
onnipotente, intelligente e libero che lo possa aver creato (dal nulla, facendo iniziare ad essere). Dunque se il mondo
esiste, esso deve avere in sé la ragione del suo essere (il Motore Immobile, infatti, ne spiega il divenire, non l'essere ).
Filieri Andrea
47
evidentemente molteplice. Per altro verso l’unico modo affinché l’essere possa essere molteplice è
che si dica in molti modi, che abbia una molteplicità di significati.
In buona sostanza Aristotele vuol dire che la molteplicità è la dimensione originaria
dell’Essere. In effetti se intendiamo L’Essere come unità manchiamo di dar ragione della natura
dell’Essere: la molteplicità.
Ancora, l’Essere consta di una molteplicità di enti (determinazione che è) differenti. Ciò per
Aristotele non va dimostrato, è una evidenza (fenomenologica). Così come è evidente il divenire
nel senso che non va dimostrato. Dobbiamo semplicemente attrezzare il nostro apparato concettuale
per spiegare il divenire.
Abbiamo così guadagnato il senso polivoco86 dell’Essere ed è significativo che Aristotele
pervenga a questo risultato sulla base del linguaggio: l’essere si dice in molti modi. Aristotele
quindi ci ricorda che nel linguaggio sono depositati i sensi dell’essere in opposizione a Parmenide
che ne riconosceva uno solo. E tuttavia nonostante questo aspetto polisemico dell’essere tutti questi
diversi modi dell’Essere vanno ricondotti ad uno fondamentale, quella categoria fondamentale a cui
tutte le altre si riferiscono: la sostanza. Ossia l’Essere si dice in molti modi ma si riferisce a
qualcosa di unico: la sostanza. Anzi, è proprio in virtù dell’esistenza di qualcosa di unico che noi
posiamo dire che una cosa è grande o piccola, che Socrate è figlio di…, o è padre di…., perché ci
riferiamo sempre alla sostanza.
Dunque la diverse modalità di presentazione degli enti hanno in comune un qualcosa di
fondamentale, l’essere una sostanza individuale. Facciamo attenzione però: Aristotele non dice che
questo qualcosa di unico è l’essere degli enti, non è l’essere degli enti il significato fondamentale a
cui perveniamo riferendoci a qualcosa di unico bensì la sostanza. E dire sostanza non è dire
esattamente il senso parmenideo dell’essere. Il significato fondamentale che accomuna i diversi
modi di dire dell’essere non è l’opposizione al niente, ma è la sostanzialità. Ma in che cosa si
differenzia la sostanzialità dal non essere niente degli enti? Nel fatto che l’essere si dice anche in
modo non sostanziale. Quando noi diciamo che l’accidente è, secondo Aristotele non stiamo
parlando di qualcosa di sostanziale. Perché l’ente anche se è, non è detto che stia, nel senso che
non trova in sé il proprio fondamento. Anche l’essere bianco è, ma l’essere bianco non è
sostanza.
In conclusione: Aristotele ha guadagnato un significato più determinato dell’indeterminato
essere di Parmenide: la sostanza. Quindi Aristotele mantiene il senso della riforma platonica
dell’essere che prevede il non-essere al suo interno (la realtà vera in cui le cose sono deve
comprendere il non essere), superandola verso il concetto di sostanza.
E qual è il senso ultimo della sostanza? Qual è la caratteristica fondamentale della sostanza?
La permanenza. In definitiva la sostanza, proprio perché permane, ammette il non essere al
suo interno: non il non essere assoluto ma un certo senso del non essere. La sostanza in quanto
è in movimento ed in quanto si modifica ammette al proprio interno il non-essere. Se vogliamo la
sostanza è un sostrato del divenire in quanto permane nel cambiamento: dalla quiete al movimento,
dal bianco al grigio, i contrari si succedono in un sostrato che permane. Ed i contrari sono i modi in
cui le categorie si relazionano alla sostanza. Ancora di più, secondo Aristotele le categorie
Possiamo anche sprimerci in questo modo: un uomo differisce da un altro uomo solo in quanto in essi c’è qualcosa che non è
uomo: Andrea è a scuola, Caio è in officina, dove” essere in officina” ed “essere a scuola” sono propietà che non sono
espresse dal concetto “uomo”. Appunto, un uomo differisce da un altro uomo solo in quanto in essi c’è qualcosa che non è
uomo. Ora, analogamente, se il concetto di “ente” fosse predicato (b è un ente; c è un ente) di tutti gli enti in modo univoco
(con un solo significato) essi differirebbero tra loro solo in quanto in essi c’è qualcosa che non è ente, chè se non ci fosse essi
non differirebbero. Ma, e questo è il punto, il non ente (niente) non è, secondo il principio di non contraddizione, per cui
anche la differenza tra a, b, c, non sussite. In conclusione: solo l’Essere è (Parmenide). Si evita questa conclusione affermando
che non vi è nulla in a,b,c, di cui si possa dire che è non ente ossia ni-ente.In effetti l’esser ente si predica di tutto ciò che è non
niente. Cfr. E. severino, cit. pagg. 168 e sgg.
86
Filieri Andrea
48
garantiscono la pluralità dell’essere ed il riferimento ad una sostanza garantisce l’esistenza di
quella pluralità nel senso che una pluralità senza sostanza sarebbe una mera accidentalità. In una
battuta:
 si può dare un essere non sostanziale
 si può dare, all’opposto, un essere sostanziale che in un certo senso non è, nel senso che è
soggetto al divenire. E tuttavia, secondo Aristotele questo è il significato fondamentale
dell’essere per cui:
 si passa dal quel significato parmenideo in cui l’essere è opposto al niente
 a quello che in Aristotele non è l’unico significato ma è quello fondamentale: la sostanza.
La sostanza87 deve essere qualcosa di determinato e non la materia dove la sostanza va compresa
come unione di materia e forma. A questo punto possiamo chiederci se il determinato sensibile sia
l’unico modo di intendere la sostanza o se ve ne siano altri. Ebbene la sostanza sensibile in quanto
sinolo non esprime veramente il senso della sostanza. Non esprime cioè il senso della sostanza
come permanenza. Prendiamo in considerazione le specie di movimento che A. analizza: c’è un
primo senso che A. chiama della Traslazione ossia il movimento secondo il luogo. Ora questo tipo
di movimento non mette in discussione la sostanza sensibile. Un secondo senso del movimento
avviene secondo l’aumento o la diminuzione: il diventar pianta da parte del seme etc.. E’ il
movimento secondo la quantità per cui la sostanza aumenta o diminuisce. Anche in questo caso la
sostanza è la stessa sebbene cambi la quantità. Il terzo movimento è secondo l’alterazione: sostanza
bianca che diventa nera, l’albero che perde le foglie. In questo caso la crescita dell’albero presenta
due movimenti insieme: movimento secondo la qualità e secondo la quantità. Anche il movimento
del bambino che diventa grande , come tutti i processi vitali, presenta movimenti intrecciati
secondo la quantità e qualità. Questo tipo di alterazione non mette in discussione la sostanza o
meglio la permanenza della sostanza in quanto cambiano solo le qualità sensibili della sostanza.
Viceversa esista un quarto tipo di movimento in cui la sostanza muta, in cui il sinolo non riesce a
87
SOSTANZA. - Termine filosofico, che formalmente ha origine nel linguaggio del pensiero medievale, ma nel
concetto risale al pensiero greco. Etimologicamente il termine latino substantia corrisponde infatti, nel suo significato di
"realtà che sottostà, che soggiace", al greco ὐποκείμενον, nel senso per cui questo designa la realtà stabile e costante
a cui ineriscono gli attributi. Ma presso i Greci dell'età classica tale termine, che significa del resto anche il sostrato
materiale e informe su cui si imprime la forma determinata , è più propriamente sostituito nell'uso da quello di οἰσία,
per etimologia corrispondente a quello latino di essentia, a cui la tradizione terminologica, dal Medioevo in poi,
attribuisce d'altronde il significato del puro contenuto ideale costituente una qualsiasi entità a prescindere dalla sua
esistenza. La greca οὐσία e la latina substantia (come del resto anche la ὐπόστασις del pensiero ġreco più tardo, del
tutto corrispondente al termine latino anche dal punto di vista etimologico) significano invece la realtà perfettamente
costituita, la cui essenza è stabilmente concretata nell'esistenza. Così per Platone sono οὐσίαι le idee, come realtà
dotate di assoluta ed eterna essenza ed esistenza, in contrasto con le relative e mutevoli apparenze sensibili; e per
Aristotele, che considera come propriamente reale solo l'entità individuale in cui l'essenza ideale informa l'esistenza
materiale, è οὐσία la sintesi concreta della forma e della materia, risultando perciò abbassati a δεύτεραι οὐσίαι
(substantiae secundae) quei concetti di genere e di specie che per Platone invece costituivano le sole vere οὐσίαι. Di
conseguenza, l'οὐσία si presenta in Aristotele come prima fra le categorie e come soggetto della predicazione di tutte le
altre, in quanto realtà che non può essere predicata di nessun'altra, mentre ogni altra determinazione del reale appare
necessariamente come suo predicato.Questo concetto aristotelico dell'οὐσία, che si perpetua nella logica e nell'ontologia
del pensiero greco posteriore, serba valore attraverso tutta la filosofia medievale, che, come si è detto, riferendosi
all'aspetto per cui l'οὐσία si presenta come ὑποκείμενον, cioè come sostrato ultimo di tutti gli attributi possibili, traduce
quel primo termine con quello di substantia. E lo definisce perciò come ens quod per se subsistit, accentuando in tal
modo l'aspetto ontologico della relazione logica per la quale la sostanza non è predicabile di alcunché, mentre tutto si
predica di essa: infatti ciò che si predica di altro sussiste solo come suo attributo e ne è quindi dipendente, l'assoluta
indipendenza ontologica restando caratteristica della realtà che non può mai presentarsi come predicato. La substantia si
presenta così come la realtà assolutamente vera, alla cui conoscenza propriamente tende la filosofia; e viene con ciò ad
assumere in generale quel carattere di ultimo principio costitutivo dell'universo, che prima dell'adozione dei termini di
οὐσία e di substantia era stato altrimenti designato, fino dall'ἀργή dei presocratici. Cfr. Treccani on line
Filieri Andrea
49
permanere, e questo tipo di movimento è la generazione e la corruzione. Il morire di un vivente o
l’incenerirsi di un albero muta il sinolo: il sinolo albero non c’è più ed è sostituito da un altro
sinolo: la cenere. E’ questo un mutamento sostanziale in cui da una sostanza si passa ad un’altra
sostanza. Ora, che cosa permane nel mutamento sostanziale? Nel libro VII della Metafisica
Aristotele ne discute ampiamente così come nel libro V della Fisica, ed A. dice del mutamento
sostanziale che il sinolo non permane ed è sostituito da un altro sinolo. Ma cosa permane allora? La
materia, che proprio in quanto indeterminata è comune alle varie determinazioni . in una battuta: il
mutamento sostanziale coinvolge la forma88 e non la materia. La materia è il sostrato che
permane al variare delle forme. Facciamo attenzione però, A. dice che anche la forma permane. In
effetti se così non fosse (reductio ad absurdum) dovremmo pensare ad un sostrato formale che
permane tra le due forme che si generano e si corrompono in cui la prima forma è inizio e la
seconda è la fine. Dovremmo pensare allora, anche in relazione alla forma, la necessità di qualcosa
che permane al variare delle due forme. Ora, anche questo sostrato formale che permane al variare
delle due forme, che è comune alle due forme, se non lo pensiamo come permanente, rimanda a sua
volta ad un altro sostrato e così via. Ma questo è escluso da A. che ritiene che la forma permanga
nel divenire. Allora, se è vero il ragionamento esplicitato, il vero sostrato non è il sinolo, ma i suoi
componenti, in una battuta la vera ragion d’essere del sinolo sono i suoi due componenti. In effetti
se non li pensiamo come sottratti al divenire impediamo al divenire di esser intelligibile.
L’operazione aristotelica è quindi quella di arrivare ad un’intelligibilità del divenire la quale escluda
dal divenire le componenti del divenire: le componenti del divenire non divengono. Tuttavia, delle
due componenti, è chiaro che la materia, sebbene sia sostrato, sebbene sia soggetto del divenire,
ossia ciò che sta sotto, non è qualcosa di determinato. In una battuta per A. la materia è sostanza
solo in un certo senso, ossia solo secondo una definizione della sostanza, ma non secondo tutte le
definizioni della sostanza. La vera sostanza può essere solo la forma che non è la determinatezza ma
di più: è il principio di determinazione della cosa. Abbiamo già visto che in A, a differenza di
Platone, la forma non è l’universale bensì ciò che consente alla cosa di essere tale. Ora, abbiamo
bisogno di una terza definizione della sostanza che A. ci fornisce per comprendere appieno il
concetto di sostanza, abbiamo detto che la sostanza è:
 prima definizione:sostrato
 seconda definizione: cosa determinata
 terza definizione: la sostanza è atto o ciò che è in atto.
E questa terza definizione viene soddisfatta proprio dalla forma. Se in effetti il sinolo è in un certo
senso in atto, è in atto ciò che esso è ( la sua determinatezza, la sua esistenza è la sua attualità) il
sinolo è anche in potenza89, ossia è in potenza una molteplicità di cose. In buona sostanza il sinolo
è unione di potenza e atto:
Il termine forma, che per gli atomisti indicava la figura o estensione dell’atomo (σχῆμα), acquista particolare significato con
Platone per il quale la f. (εἶδος, ἰδέα) è l’essere vero, l’essenza delle cose, realtà che trascende i fenomeni sensibili. Il concetto di
forma si approfondisce con Aristotele: attraverso la critica del dualismo platonico, egli cala nella realtà sensibile le platoniche f.
separate, che, divenute immanenti al molteplice empirico, lo riducono a unità e lo rendono intelligibile. La f., che è la sostanza
secondo ragione (οὐσία κατὰ τὸν λόγον), principio d’intelligibilità, diviene così anche il principio dal quale sgorgano tutte le
proprietà di ogni singolo essere. Solo la stretta unità di f. e materia costituisce per Aristotele la realtà concreta, sinolo, che riceve il
suo essere in atto dalla prima e la sua determinazione spazio-temporale dalla seconda; in tal modo la distinzione tra materia e f. si
congiunge con altri due binomi fondamentali della metafisica aristotelica: potenza e atto, causa materiale e causa formale;
quest’ultima può essere intesa come principio intrinseco, entelechia, che si unisce alla materia per ridurne in atto la
potenzialità; oppure come principio estrinseco, quale esemplare archetipo di tutta la realtà. Questo secondo aspetto più
spiccatamente platonico della f. (o causa formale) è quello che domina nella patristica e nella scolastica svoltasi sotto l’influenza del
pensiero platonico-agostiniano: le f., principi eterni della realtà, che Platone aveva immaginato nell’iperuranio, e Plotino nel νοῦς,
sono dai teologi cristiani unificate nel Verbo come pensieri divini, paradigmi secondo i quali si è svolta l’opera di creazione. E
parallelamente l’anima non è concepita come f. della materia corporea (Aristotele), ma come principio immortale a questa
dualisticamente contrapposto (Platone). Treccani.
89
La potenza (dynamis) esprime la possibilità o la potenzialità, propria di qualcosa, di trasformarsi in qualcos’altro. Il termine
“atto” traduce due nozioni chiave della filosofia aristotelica: “entelècheia” ed “enèrgheia”. Il primo termine indica la condizione
di qualcosa che abbia raggiunto il proprio fine, realizzando la compiuta attuazione delle proprie potenzialità (della propria dynamis).
La nozione di enèrgheia significa attività e quindi , in alcuni contesti, designa il processo dell’attuarsi dell’entelècheia; in altri
88
Filieri Andrea
50
-
non è solo potenza ché non sarebbe alcunché di determinato ma solo materia
non è puro atto ché non diverrebbe altro da sé.
Allora ecco che emerge l’ultimo senso della sostanza, quello per cui la sostanza è attualità.
Ora, riprendendo il senso della sostanza sensibile che avevamo lasciato sospeso possiamo trarre una
prima conclusione: il senso dell’essere sostanziale, ossia la permanenza, può essere guadagnato
solo se andiamo al di là dell’essere sensibile. In effetti se ci teniamo fermi alla pura evidenza
fenomenologica non guadagniamo il senso della permanenza. E tutta via il senso fondamentale
della permanenza come forma, non è il senso dato da Platone alla forma, ossia l’essere universale.
Ciò che permane non può essere un qualcosa di universale.
Filosofia prima : Ontologia,
Studia l’essere in
quanto essere
afferma che
L’essere si può dire
in molti modi e
presenta una
molteplicità di aspetti
Ossia l’individuo
concreto a cui
ineriscono le varie
proprietà accidentali
L’essere
dell’ente
è la
sostanza
La sostanza è sinolo di
materia e forma dunque è
soggetta al mutamento:
dalla Potenza all’atto
La sostanza è
l’essenza o struttura
immanente e
necessaria delle cose
Ossia il soggetto
logico a cui
vengono riferiti i
predicati
Cioè le categorie :sostanza, tempo, qualità, quantità,
relazione, agire, patire, stato, situazione, luogo
contesti significa l’esplicarsi delle funzioni proprie ( dell’opera propria) di un ente che abbia attuato la propria entelècheia . (…) Il
seme è la pianta in potenza , nel senso che ha la capacità, date certe condizioni, di diventare pianta. La pianta adulta è il seme in atto
in quanto rappresenta la compiuta, la perfetta attuazione (entelècheia) delle potenzialità del seme. Compiutosi il processo attraverso il
quale la pianta si attua come pianta adulta ( questo attuarsi rinvia un primo significato del termine enèrgheia) l’organismo vegetale
perfettamente cresciuto è oramai in grado di svolgere le funzioni (riproduttiva) che gli sono proprie, la sua propria attività
(enèrgheia). Vedi, Il Testo filosofico, Cioffi, Mondatori, 1991, pagg. 510 e sgg. Si ricordi comunque che le nozioni di potenza ed
atto sono relative : il bambino è sia potenza dell’uomo adulto che atto del seme. Si pensi anche alla corrispondenza tra le nozioni
suddette e quelle di materia e forma: la materia è potenzialmente in grado di assumere una determinata forma, ad es. i mattoni,
materia della casa, possono essere pensati come casa in potenza.
Filieri Andrea
51
In conclusione:








la sostanza sensibile ha in sé la ragione della propria esistenza
il sinolo è sostanza a tutti gli effetti
la realtà fisica riceve la propria sostanzialità dalla forma e dalla materia
la forma non è mai separata dalla materia
la forma è sempre in relazione ad una cosa particolare
non esiste un universo di forme separate dalla materia
il mondo ha in sé la ragione della propria esistenza
la realtà fisica è diveniente ma il divenire non si spiega da sé (physis e movimento sono
la stessa cosa)
Ora vediamo di comprendere il senso dei termini potenza e atto in modo ulteriore: la potenza per A.
può essere compresa in due modi distinti:
 potenza attiva: possibilità di fare qualcosa da sé stessi come gli esseri viventi
 potenza passiva: possibilità di subire le azioni di qualcos’altro.
L’atto invece è l’esistenza della cosa, è la cosa in quanto questa cosa determinata. In questo senso
la potenza è sempre indeterminata rispetto all’atto perché solo l’atto dà la determinatezza alla cosa.
Facciamo un esempio: il seme è determinato in quanto seme ed è in potenza l’albero tuttavia il seme
è determinato non in quanto è qualcosa di potenziale bensì in quanto è in atto un seme. E’ l’atto ciò
che dà determinatezza alla cosa, non il suo essere in potenza, anche se ovviamente tutto il sensibile
è sia in potenza che in atto, ed ogni sensibile è in potenza indeterminato. Per A. però l’atto è
prioritario rispetto alla potenza (IX libro della Metafisica). In effetti l’atto precede la potenza in tre
sensi:
 precedenza gnoseologica per cui noi conosciamo una cosa in potenza solo se
conosciamo l’atto di quella potenza, ad es,. noi diciamo che il seme è in potenza un
albero solo se conosciamo dapprima l’albero
 precedenza ontologica: la verità del seme non è il seme bensì l’albero. La vera natura
del seme si manifesta quando esso ha dispiegato tutte le sue potenzialità. L’atto è la
verità della potenza. L’atto fonda ontologicamente la potenza. La vera natura della
cosa è espressa solo dall’atto. Nella potenza la natura della cosa è limitata . la vera
natura della cosa è solo nel suo fine, nel suo telos. A. chiama infatti l’atto entelechia
ossia essere nella fine. . L’atto è la realtà ultima della cosa e quindi la sua verità. In
questo senso l’atto è prioritario ontologicamente rispetto alla potenza: è il fondamento
della potenza.
 Precedenza temporale:l’atto avviene prima della potenza. Avviene prima però la specie
e non il singolo: è la specie in atto che precede il singolo in potenza. Deve già esistere la
specie umana perché si dia il bambino. Quanto al singolo uomo viene prima invece il
bambino ovviamente.
Ma, arrivati a questo punto, se è vero che l’atto precede la potenza, se è vero che l’atto fonda la
potenza ossia se è vero che ogni potenza esiste solo in quanto c’è un atto di cui è potenza, deve
esistere un atto che non sia potenza a sua volta. In effetti se non esistesse un atto che non fosse a
sua volta potenza dovremmo regredire ad infinitum visto che ogni potenza esiste solo in relazione
ad un atto. Insomma se questo atto fosse daccapo una potenza dovremmo proporre un altro atto di
cui esso fosse potenza e così via all’infinito…… dobbiamo insomma proporre un atto che non sia
potenza di nient’altro e che Aristotele definisce Atto puro. Allora anche per questa via dobbiamo
concludere che esiste una sostanza soprasensibile. Ma non è questo l’unico argomento che
Filieri Andrea
52
Aristotele porta a sostegno della sua teoria della sostanza soprasensibile: A. afferma che il
movimento è eterno in quanto ogni cosa mossa presuppone un movente come causa del suo
movimento. Ma attenzione: A. ci dice che noi non possiamo risalire all’indietro nel tempo sino ad
una causa prima che sia appunto causa del movimento. Pensiamoci: se noi riteniamo che esista
temporalmente una causa prima del movimento cosa ci sarà prima? Delle due risposte possibili:
 o c’era prima qualcosa in movimento ma allora da cosa era mossa essa stessa?
 o essa era immobile, visto che Aristotele pensa anche a questa possibilità, ma allora
cosa l’ha resa immobile? Qualcosa che l’ha fermata visto che la quiete è una forma del
movimento, è il fermare un movimento.
Allora se noi ipotizziamo di realizzare la nostra ricerca (la ricerca dell’eternità del movimento) nel
tempo non riusciamo a trovare nulla che abbia dato origine al movimento, sia che questo qualcosa
sia mobile sia che questo qualcosa sia immobile. Insomma, anche qui nella nostra ricerca siamo
costretti ad andare all’infinito ma , e proprio questo è il punto, questo andare all’infinito nel tempo
esprime, è, l’eternità del movimento90. Gli Scolatici saranno appassionati a questo tema. In
conclusione per A.: il movimento è eterno così come è eterno il tempo (contrariamente a Platone) .
La definizione del tempo per A. infatti è: “Il tempo è il numero del movimento secondo il prima e
il poi”. L’unica differenza tra tempo e movimento allora è che nel tempo c’è il numerare il prima
ed il poi , in qualche modo allora l’eternità del movimento implica l’eternità del tempo e l’eternità
del tempo implica l’eternità del movimento. Arrivati a questo punto però A. ci dice che il fatto che
movimento e tempo siano eterni non mette in discussione il fatto che essi abbiano una causa: non
nel senso di una causa temporale, visto che sono eterni, ma una causa che fa sì che essi siano o
meglio ciò che fa sì che le cose si muovano, nel senso di ciò che fa sì che il movimento sia. Ora se il
movimento, ossia il causato, è eterno , sarà eterna anche la causa (sempre nel senso di ciò che è
causa di, non nel senso di ciò che viene prima di. Gli Scolastici diranno propter hoc e post hoc,
ciò che è motivo di e ciò che viene dopo di). Ma, secondo aspetto, questa causa non può essere il
movimento, la causa del movimento non può essere il movimento 91 bensì un primo motore
immobile (non di tipo temporale). Ribadiamo che la causa del movimento deve essere :
Distaccandosi da Platone, Aristotele concepisce il divenire come una forma di mutamento (μεταβολή). Sotto l’aspetto ontologico,
il divenire è interpretato come passaggio dalla potenza all’atto, ed ha luogo secondo diverse categorie. I mutamenti nei quali si
articola il d. vengono divisi da Aristotele in: (1) generazione e corruzione (secondo la sostanza); (2) alterazione (secondo la qualità);
(3) aumento e diminuzione (secondo la quantità); (4) traslazione (secondo il dove). Occorre precisare che queste quattro forme di d.
riguardano essenzialmente il mondo sublunare, perché in Aristotele esistono due fisiche, una per il cielo e una per la Terra. I corpi
celesti sono costituiti di un elemento proprio, l’etere o quinta essenza, e si muovono di moto circolare puro in eterna
contemplazione del ‘motore immobile’. La teoria aristotelica divenne il fondamento di tutto il pensiero medievale finché in età
moderna non venne soppiantata dalla rivoluzione scientifica, che sulla base delle dottrine atomistiche unificò cielo e Terra in una sola
fisica, trasformando il moto, ossia il d., in uno ‘stato’ assimilabile alla quiete, e interessandosi esclusivamente alle variazioni del
moto stesso.
91 Si pensi anche a questo: abbiamo detto che il divenire è concepito come passaggio dalla potenza all’atto di un sostrato. Spieghiamo
meglio: un determinato ente, diviene da piccolo a grande, nella misura in cui è in potenza grande e non è in atto grande. Ora, il
sostrato in cui consiste l’ente non possiede, se piccolo, la forma “grande”, appunto non è in atto grande. Ma, e questo è il punto, da
cosa viene genertta la forma? Potrebbe essere generata dalla privazione della forma da parte del sostrato? Possiamo rispondere
negativamente in quanto quel corpo piccolo che è in potenza grande come di diceva, non è appunto ancora in atto, non è atto. Ora, se
la forma “grande” non può derivare dal corpo piccolo, nel senso che la grandezza non è nel corpo piccolo, dovrà derivare da altro,
chè non potrebbe scaturire dal nulla. Dovrà allora preesistere in un altro sostrato, da cui proviene ed in cui è presente in atto. Ed è
solo in quanto un altro sostrato possiede la Forma “grandezza” in atto che esso può far passare dalla potenza all’atto il corpo piccolo.
Il “far passare” è per Aristotele equivalente al “muovere” ed Aristotele chiamo motore o movente ciò che fa passare un altro sostrato
dalla privazione al possesso della forma. Solo in quanto il fuoco possiede in atto il calore , esso può far passare dalla privazione al
possesso del calore un corpo che prima era freddo. Ma di nuovo, da dove deriva il calore che possiede in atto il fuoco? Se
rispondiamo da un altro sostrato proseguiamo però indefinitamente a ritroso senza rispondere alla domanda. In effetti, dire che posso
andare sempre incerca di un altro sostrato che possegga in atto il caloro equivale a non rispondere alla domanda che chiede qual è il
sostrato che possiede già in atto la forma “calore”. E’ necessario allora presuppore un movente in atto che non passa dalla potenza
all’atto, solo così è possibile spiegare l’indefinita serie di cause efficienti movente\mosso. Ora, per estensione, ogni forma deve
preesistere in un movente non mosso che è puro atto e non passa dalla potenza all’atto.
90
Filieri Andrea
53
 eterna
 immobile.
Ora, come può ciò che è immobile causare il movimento? Come può ciò che è indiveniente essere
causa del diveniente? Sembra che abbiamo a che fare con due nature profondamente diverse: come
può una essere causa dell’altra? Per rispondere a tale questione dobbiamo riferirci alla terza
caratteristica del motore immobile: il motore immobile non è potenza o non è in potenza. In effetti
tutto ciò che in potenza può diventare qualcosa ossia può subire o fare qualcosa, quindi tutto ciò che
in potenza è soggetto al movimento. Ora il motore immobile è atto ma, attenzione, solo un atto che
non contenga nulla di potenziale (l’esperienza che noi facciamo delle sostanza sensibili è
esperienza di sostanze che sono atti ma che contengono, tutte, qualcosa di potenziale, ossia tutte
possono diventare altro da sé). Alla fine allora, il motore immobile deve essere Atto puro. Non solo:
dovrà anche essere immateriale perché la materia conferisce alla sostanza il carattere di
potenzialità, è la presenza della materia che conferisce potenzialità alla sostanza sensibile. In
conclusione : poiché questo atto puro non può contenere nulla di potenziale non può contenere
nulla di materiale. In questo senso, un atto che non può contenere nulla di potenziale deve essere
un atto che ha realizzato pienamente se stesso, questo è il significato dell’assenza di potenza. In
buona sostanza l’Atto puro è perfetto.
Spieghiamoci: l’Atto puro è perfetto nel senso che non manca di nulla. Ossia non c’è nulla che
esista al di fuori dell’Atto che manchi all’Atto puro. Chè, se così fosse, allora l’Atto sarebbe
mancante e tenderebbe a diventare questo qualcosa. All’opposto, l’Atto è proprio la realizzazione in
quanto tale, la realizzazione di tutto, il compimento del mondo, il compimento della totalità, se
vogliamo, non ci deve essere nessuna cosa del mondo che esso non abbia portato a compimento.
Esso è la realizzazione in quanto tale, la perfetta realizzazione. Solo a questa condizione può
essere atto, ma questo è anche il motivo per cui muove l’universo: perché ne rappresenta il
compimento. L’Atto attira verso di sé ciò che non ha ancora compiuto se stesso, ciò che è ancora in
potenza e vede nell’Atto puro il proprio compimento. Detto in altri termini: ogni cosa è in potenza
qualcos’altro da sé e l’Atto rappresenta la verità di ogni cosa in quanto ogni natura, ogni sostanza
naturale, tende a compiersi perché è immanente l’atto.
In questo senso ogni natura si muove nel senso che si muove verso il suo compimento ed il
motore immobile attira verso di sé ciò che ancora non è compiuto. Aristotele ci parla del motore
immobile che attira il mondo fisico come l’oggetto del desiderio attira il desiderante. In effetti il
desiderante si muove perché nell’oggetto del desiderio trova il suo fine e quindi il suo compimento.
Aristotele ci dice nel XII libro della metafisica: “il motore immobile muove in quanto è amato”.
Ma allora, in questo senso capiamo perché A. ci dice che il motore immobile è causa del
movimento:
-
-
-
-
non causa nel senso della causa efficiente, nel senso del primo motore temporale, che è quello
che aveva datola prima spinta. Il motore immobile non dà nessuna spinta e non garantisce
questo tipo di causa efficiente perché dare una spinta significa muoversi;
non è paragonabile all’Idea del bene in Platone in quanto l’Idea del bene diventa strumento
del demiurgo per creare le cose ed in quanto il bene non è causa efficiente. E’ il demiurgo la
causa efficiente. Ma il bene non neanche la causa finale in Platone, è la causa che A. chiama
formale: il bene è il principio in base al quale le cose poi sono;
il motore immobile muove in quanto causa finale e tuttavia, e questo è il senso di tutta la
Fisica aristotelica, questo fine non è mai raggiunto, non c’è mai la risoluzione del divenire,
perché questo significherebbe la fine del divenire;
il motore immobile è un fine che non è la fine ossia è la condizione del movimento. In effetti il
termine fine può essere ambiguo e può farci pensare l’universo come Dio che è origine e poi
Filieri Andrea
54
-
-
fine di tutte le cose: le cose infine si riassumerebbero in Dio. Questo però è il cristianesimo e ,
per certi versi, il neoplatonismo. Qui, viceversa, non c’è una fine della physis, ed il motore
immobile è : eterno, immobile, atto puro, causa finale;
c’è una quarta caratteristica del motore immobile: la necessità. L’essere necessario è ciò che
impossibile che non sia; l’essere contingente è l’essere che può essere e non essere cioè che
ammette la possibilità del suo contrario; ora la sostanza sensibile è chiaro che sia contingente
in quanto materiale e quindi contenente la potenza di essere e di non essere. La sostanza come
atto puro invece, come pura forma, è invece sostanza necessaria dove la necessità è la
condizione della sua eternità. In effetti se l’Atto puro non fosse necessario, non sarebbe causa
del movimento, che è eterno. E solo in questo senso, nel senso della sua necessità, l’Atto puro
può essere considerato l’essere parmenideo. Ma ovviamente nell’Essere parmenideo mancano
tutta una serie di caratterizzazioni che abbiamo elencato sopra.
Aristotele afferma
che:
All’origine dei
fenomeni ci sono
quattro cause:
1. materiale;
2. efficiente;
3. formale;
4. finale
Sussitono quattro tipi di
movimento:
1. sostanziale;
(genrazione\corruzi
one)
2. qualitativo;(mutam
ento\alterazione)
3. quantitativo
4. locale
L’universo si articola in due zone
distinte :
1. mondo terrestre;(moto
rettilineo)
2. mondo celeste (moto circolare
senza inizio né fine)
Filieri Andrea
55
L’anima è la forma
del corpo:
1. vegetativa;
2. sensitiva;
3. intellettiva
Tutto il movimento
dell’universo è causato da
Dio, primo motore
immobile che agisce come
causa finale
La conoscenza in Aristotele
I sensi percepiscono le forme
sensibili degli enti ed il senso
comune cordina le percezioni
sensazione
Conoscenza
Conserva le immagini nella memoria
immaginazione
Astrae dagli enti la loro forma intellegibili
(concetto) permettendo di percepirne l'essenza
intelletto
La filosofia pratica
“Ogni arte, ogni azione ed ogni
proposito sembrano mirare a qualche bene:
perciò a ragione il bene è stato definito ciò a
cui ogni cosa tende”
Etica Nicomachea, A1, 1094 a1-3
“L’uomo che sa pensare da sé è assai
migliore;
buono è pure colui che presta ascolto a
chi ben lo consiglia;
ma chi non è in grado di pensare da sé,
né sa accogliere quanto gli dice un altro nel suo
spirito, è un buono a nulla”
Esiodo
Secondo Aristotele, tutte le azioni umane hanno come fine un bene. Ora, molte sono le
azioni e molti sono i fini. Del resto alcune azioni perseguono beni in vista di altri beni e via così. Al
fine di evitare un regressus ad infinitum, qual è il bene cercato per se stesso? Qual è il bene
supremo? Ora, diversamente da Platone che indica nell’Idea del Bene (per Aristotele Bene
immanente e non trascendente come in Platone, per cui Aristotele è in polemica antiascetica con
Platone ed antiintelletualistica con Socrate) il fine della ricerca dell’uomo, Aristotele parla di
felicità92 e l’Etica93 è la scienza che, tramite i suoi dettami, porta l’uomo alla felicità. Ora la felicità
92
Cfr. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, Rizzoli.
Si puo dire che l’Etica come scienza comincia con Socrate: e dobbiamo a Socrate se l’uomo può evadere dal suo soggettvismo per
attingerea qualcosa di universale ossia il concetto. Una conoscenza insomma universalmente valida ed oggettiva. Ancora, in Socrate
l’uomo non appetice mai il male bensì solo il bene, che va indagato in tutte le sue forme e manifestazioni. Ecco perché solo il
93
Filieri Andrea
56
è raggiungibile per lo Stagirita solo mediante la politica: scienza architettonica e legislativa del
popolo e della città in cui il singolo può raggiungere la felicità.
In effetti l’uomo, per natura, vive a contatto con il suo simile, vero animale politico, per cui
il suo bene è impensabile fuori della polis, anche se Aristotele pone delle differenze tra bene
collettivo e bene del singolo, tra singoli affetti individuali e beni di carattere politico e sociale.
Il bene supremo di carattere pratico è dunque la felicità94. Ora, il significato di tale
termine non ha tanto a che fare col piacere dei sensi, comune anche agli animali, nemmeno col
possesso di ingenti ricchezze, di onori, di glorie, piuttosto la felicità ha che fare con l’esercizio
delle più alte facoltà umane: l’intelletto e la ragione95. Attività svolte in massimo grado, secondo
Aristotele, grazie alla virtù. Dove la virtù per lo stagirita è quella disposizione acquisita mediante
lunga consuetudine ad esercitare, a livello di eccellenza, le facoltà proprie dell’uomo. In tale
disposizione consiste la felicità, ovvero il bene supremo pratico. La felicità dell’uomo consiste
dunque in una attività dell’uomo secondo virtù.
Le virtù poi si distinguono in:
 virtù etiche, virtù corrispondenti alla facoltà desiderativa dell’anima (le virtù etiche
derivano in noi dall’abitudine : noi per natura siamo potenzialmente capaci di formarle e
mediante l’esercizio traduciamo questa potenzialità in attualità).
 virtù dianoetiche, ossia le virtù delle facoltà dell’anima razionale.
Tra le virtù si segnalano:
 Etiche: la magnanimità, il coraggio, la giustizia. Virtù del carattere ossia disposizioni ad
agire secondo una certa inclinazione nella misura in cui tramite l’abitudine a compiere
azioni giuste diventiamo giusti; nella misura in cui compiamo azioni coraggiose diventiamo
coraggiosi- aquistiamo insomma un Habitus. Si badi però che questo habitus, aquisito con
l’esercizio secondo virtù, è espressione del giusto mezzo tra estremi. La virtù etica è infatti
medietà tra vizi estremi: non mediocrità, ma culmine della ragionevolezza, in quanto
segna l’affermazione della ragione sull’irrazionale.
 Dianoetiche: (le virtù della parte più elevata dell’anima: anima razionale) la saggezza
(phrònesis96) e la sapienza (sophìa; virtù intellettuali).
sapiente può essere virtuoso. Ed ecco perché la virtù si può insegnare ed apprendere. Platone, in misura diversa, inaugura il dominio
della ragione sulle passioni (Fedro, Repubblica) anche se continua Socrate nell’intenderla come sapienza. Ancora, Platone intende
la virtù come distacco della ragione dal corpo (che distrae, non consente di elevarsi alle Idee), ragione con la quale si conosce (e si
possiede) e ci si eleva alla conoscenza delle Idee.
94
G. Reale,Storia della Filosofia Antica, Vita e Pensiero, Milano 1987.
“In senso proprio, l’attività dell’uomo consiste nella sua attività virtuosa ovvero (…) nella più alta e nella più
perfetta di esse. E questa è l’attività della mente ossia il pensiero”. Cfr. Z eller Mondolfo, Aristotele III. La ragione è
dunque il divino in noi.
96
Cfr. Etica Nicomachea, Z 1. “Disposizione pratica ad agire accompagnata da ragione verace , intorno a ciò che è
bene e male per l’uomo.” Essa addita i mezzi idonei a raggiunger i fini più propri dell’uomo. Essa non indica quindi i
fini ma solo i mezzi per conseguire i fini dettati dalla sophìa.
9595
Filieri Andrea
57
Il metodo Aristotelico
Lega il piano logico a quello ontologico in quanto è convinto che il piano
logico sia intimamente legato al piano ontologico o meglio che pensiero e
linguaggio riflettano la struttura della realtà. A talfine, come metodo, A.
utilizza il metodo induttivo
che parte dal particolare per giungere
all’universale
Il metodo aristotelico, partendo dallo studio delle proposizioni, consente di
constatare che in alcune di esse il predicato esprime l’essenza propria del
soggetto della predicazione mentre in altre ne evidenzia l’accidentalità. Da
questa analisi A. ricava che vi sono una serie i generi universali: le catagorie
ossia l’insieme dei predicabili riferibili ad un oggetto.
Nell’enciclopedia del sapere la filosofia prima o meafisica è la scienza che
descrive le caratteristiche dell’Essere.
La sostanza non è costituita semplicemente da un principio materiale, né da un
principio solo fomale (Platone) essa è bensì sinolo di materia e forma.Le
sostanze sono sottoposte al divenire, ossia alla relizzazione della potenzialità
di un ente.
Le Categorie
La metafisica
La sostanza
Ogni azione è diretta ad un fine considerato
buono
Ci possono essere dei
beni che perseguiamo
per un bene superiore
Ci deve però essere un bene
ultimo che coincide con il
bene supremo
Fine e bene quindi
coincidono
L’uomo è un animale razionale dunque è felice
solo se vive secondo ragione
La felicità
L’uomo felice sa però anche godere dei piaceri che
derivano:
dall’amicizia che può essere fondata
Sul piacere che però è instabile in
quanto muta col mutare del piacere
Il bene di un ente coincide
sempre con la realizzazione
della sua essenza
Moderatamente
dalla ricchezza
Sull’utile che però è di breve
durata in quanto cessa al
cessare dell’utile
Sul bene: tipica del
saggio. Solo questa
è la vera amicizia
Poiché l’amicizia del saggio è massimamemte buona, possiamo definirla
anche massimamente piacevole ed utile
Filieri Andrea
58
La virtù
La parola “virtù” traduce indebitamente il termine “aretè”: essa significa ripondenza dei
mezzi al fine. Sì che, come l’opera propria del calzolaio è fabbricare le scarpe, e l’opera propria
del calzolaio virtuoso è fabbricarle bene, così l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima
secondo ragione. Ora, l’opera propria dell’uomo virtuoso (ossia dell’uomo chea la capacità ed i
mezzi per per raggiungere quello scopo – fine che è lo sviluppo compiuto della sua essenza) è
l’attività razionale dell’anima97. In effetti, l’essenza dell’uomo, ciò che rende l’uomo un uomo,
è espressa dalla sua attività razionale: nello specifico, l’opera propria dell’uomo virtuoso è
esprimere al massimo grado – bellamente – la sua attività razionale.
Come già espresso, esistono virtù etiche, che consistono nel sottomettere le tendenze sensitive ed
appetitive alla tendenza razionale dell’anima; e vi sono virtù dianoetiche – razionali – che
consistono nel mantenere l’anima razionale al culmine delle proprie possibilità.
La virtù etica
La virtù etica consiste nella disposizione, a lungo esercitata (Habitus), a volere fini buoni,
dove si vede come per Aristotele il tema della volontà sia molto importante.
In effetti, il voler fini buoni, quei fini dettati della retta ragione sono per Aristotele gli
aspetti essenziali delle virtù etiche. Ora, la regola della retta ragione consiste nel determinare il
giusto mezzo, sia nel campo dei desideri che delle passioni.
Se per esempio, il coraggio è una virtù etica, esso evita al contempo i suoi estremi: la paura
e la viltà, come eccessi. Come si vede Aristole contempla le passioni esortando il singolo a cercare
sempre il giusto mezzo tra gli eccessi, tra i vizi. Giusto mezzo mai stabilito definitivamente, ma
cercato in relazione a chi agisce in un determinato contesto.
Se pensiamo al coraggio, esso si pone come punto medio tra la temerarietà e la viltà. Ora il
giusto mezzo non è tanto il compromesso quanto quella sorta di equilibrio, di apice tra estremi che,
di volta in volta, il filosofo si trova a dover determinare.
In merito poi alla saggezza ed alla sapienza, Aristotele precisa che è la saggezza - tradotta
dai latini con prudentia (sebbene questa traduzione sia un po’ un tradimento del senso greco
attribuito al termine phrònesis) - a metterci in grado di cercare quale sia, caso per caso, il giusto
mezzo delle virtù etiche: la disposizione a ben deliberare intorno ai mezzi più idonei per
conseguire il fine buono. La sapienza infine, appare al filosofo come la virtù più degna d’essere
perseguita; come la virtù di chi dedica la propria vita alla teoria ed alla conoscenza. Ma si badi, la
teoria è cura per la teoria e per la conoscenza; l’uomo allora non è semplice cura disinteressata del
vero: la conoscenza della verità determina piuttosto il suo modo di vivere.
97
Cfr. Severino, cit. pagg. 199 e sgg.
Filieri Andrea
59
La sapienza riguarda allora ciò che è al di sopra dell’uomo: la saggezza riguarda
l’uomo, o meglio ciò che è mutabile nell’uomo, mentre la sapienza riguarda ciò che ha a che fare
con i principi immutabili ed eterni dell’Essere. In una battuta la Metafisica.
Ancora, l’uomo non è tanto il singolo uomo isolato da altri bensì la comunità della pòlis (da
cui la politica). Ora, se la filosofia come cura del vero si rivolge all’uomo come comunità allora sin
dall’inizio la filosofia è politica.
Vediamo un confronto:
Intento
Migliore forma di governo
Interesse preminente
Giustizia
Platone
Normativo
Sofocrazia: aristocrazia dei
sapienti
Benessere della polis che
coincide
col
benessere
individuale
Uno stato è giusto se ogni
individuo realizza al meglio il
proprio compito
Aristotele
Descrittivo
Governo della classe media
Esigenza del singolo
realizzarsi come individuo
di
Uno Stato è giusto se lo Stato
agisce nell’interesse dei singoli
Per quanto afferisce invece gli aspetti etici:
Platone
Aristotele
Le Idee sono realtà trascendenti: sono Le Idee descrivono le essenze
causa e criterio di giudizio delle cose
immanenti delle cose (non esiste il
mondo delle Idee, le cose che ci
circondano sono reali)
Concezione
Dualismo ontologico: la vera realtà sono L‘essere è uno solo e si configura
dell’essere
le Idee, il mondo empirico è mutevole ed come un insieme di enti
imperfetto
Giudizio
L’esperienza è un sapere imperfetto: il L’indagine scientifica ossia filosofica
sull’esperienza suo oggetto è mutevole
deve sempre avere una base epirica
Concezione
La ricerca filosofica è ciò che rende la vita Condivide essenzialmente la proposta
della filosofia degna di essere vissuta
platonica: la filosofia guida la vita
pratica
La felicità
I felici sono felici per il possesso della La felicità include anche il possesso
giustizia e della tempereanza; gli infelici dei beni materiali. I felici devono
son tali per il possesso della cattiveria.
possedere tutti e tre i tipi di beni:
esterni, del corpo e dell’anima.
Concezione
delle Idee
Filieri Andrea
60
“E diremo che un uomo è
prudente proprio per questa piccola parte che in lui governa e dà questi comandi, poiché possiede
in sé la scienza di ciò che giova a ognuna delle parti ed all’unità di tutte e tre insieme.
Temperante è dunque , per l’armonia di queste tre parti , quando quella che ha il governo e le
altre che obbediscono si trovano d’accordo nel riconoscere che spetta alla ragone il comando,
senza che nessuna ne disputi l’autorità?Proprio in questo disse consiste la temperanza tanto
nella città quanto nell’uomo singolo”” Platone, La Repubblica, IV
Per quanto concerne la Politica
Intento
Forma di governo migliore
Interesse preminente
Definizione di cittadino
Giustizia
Generi sommi
La dialettica
l’essere, la sostanza
la concezione dell’Essere
significato
Molteplicità
Filieri Andrea
Normativo
Sofocrazia:
forma
di
aristocrazia il cui governo è
affidato ai sapienti
Il benessere della Polis
coincide col benessere del
singolo
Sono cittadini tuttigli uomini e
le donne libere
Descrittivo
Politeia:governo moderato
Platone
Individua cinque generi sommi
della predicazione: essere,
identico, diverso, moto, quiete)
allo scopo di mettere in
relazione tra loro le Idee
soprattutto nei dialoghi della
maturità è l’arte di distinguere
le Idee ed è il modo con cui si
esprime l’essere
Aristotele
Individua dieci generi sommi
della predicazione o categorie
allo scopo di definire il che
cos’è delle cose
L’esigenza del singolo
realizzarsi come individuo
di
Sono cittadini coloro che che
hanno diritto di partecipare alle
cariche pubbliche. Esclusi gli
schiavi, i ragazzi, le donne, gli
stranieri e gli operai
Uno stato è giusto se ognuno Uno stato è giusto se loi
realizza il proprio compito
governanti agisno per il
benessere del singolo
la dilaettica è lo strumento
argomentativo più diffuso ma
partendo
da
proposizioni
probabili e non certe giunge a
conclusioni solo probabili
Le essenze delle cose sono le
Idee collocate nell’iperuranio
Parmenide
Aristotele
UNIVOCO: essere significa POLIVOCO: l’essere si dice in
solamente esistere
molti modi. La parola essere
fha mlteplici significati
a
livello logico ed ontologico
L’essere è unico poiché L’Essere è uno solo (non
ammettere l’esistenza di più dualismo platonico) ma si
enti implicherebbe riconoscere presenta come un insieme di
61
il non essere
Divenire
Filieri Andrea
L’essere è immobile:
divenire è un’illusione
62
sostanze per cui il molteplice è
reale, ma il suo riconoscimento
non implica dare sostanza al
non essere, se si comprende la
polivocità del termne essere
il l’Essere è caratterizzato dal
divenire
che è continuo
passaggio dalla potenza all’atto
La metamorfosi culturale
Dopo la caduta dei confini tra gli stati greci e gli altri stati denominati “barbari” si assiste
ad una fusione tra diversi popoli di diverse culture: l’Ellenismo. Si tratta dell’affermazione della
cultura greca sulle altre. La diffusione della cultura greca tra i barbari è avviata - in primis – da
Alessandro, sebbene non sia solo la sua volontà a determinare il diffondersi dell’Ellenismo, bensì il
valore intrinseco della paidèia greca, l’aspetto formativo della cultura greca in grado di sviluppare
le capacità e le attitudini personali. Dal punto di vista storico\politoco va peraltro sottolineato il
decadere della città stato greche a cui subentrano Stati più ampi e complessi: governati da sovrani
assoluti. Nuovi aspetti economici, la stessa estensione dei territori impongono nuovi problemi che
non più risolvibili secondo il modello classico della assemblee di cittadini. Nascono nuovi
organismi statali, la concentrazione del potere, una complessa amministrazione burocratica, un
esercito regolare.
Da un punto di vista storico, l’enorme impero costruito da Alessandro si disgregò subito dopo la
sua morte, a causa delle lotte dei suoi generali. Con la battaglia di Ipso (301 a.C.), che pose fine al
tentativi di Antigono di ricostituire a unità l’impero di Alessandro, ebbe inizio il sistema politico
dei vari regni ellenistici:





la Macedonia, sotto i successori di Antigono;
l’Egitto, sotto i discendenti di Tolomeo;
la Siria, comprendente anche la Mesopotamia
la Persia, sotto i discendenti di Seleuco.
alla metà del 3° secolo a.C. si aggiunse, nella Misia, il regno di Pergamo, con la dinastia
degli Attalidi. A tutti i regni pose termine la conquista romana.
La società
L’assenteismo dei singoli dalla vita pubblica, che già agli inizi del 4° sec. a.C. aveva provocato il
graduale soccombere delle libere poleis dinanzi allo Stato macedone, fu favorito dalle tendenze
assolutistiche dei sovrani. Spenta la libertà e con essa la creatività che aveva caratterizzato i Greci
del 5° sec., il primato delle poleis della madrepatria non tardò a trasferirsi alle capitali e metropoli
ellenistiche protette e beneficate dai nuovi sovrani: Alessandria, Antiochia, Efeso, Pergamo. La
coesione della cittadinanza, caratteristica della polis ellenica, si perse negli immensi conglomerati
ellenistici dove la popolazione proletaria era molto maggiore che nell’Atene del 5° o del 4° sec.
a.C. Nelle città libere, dal 2° sec. in poi, vi fu una classe ristretta di grandi ricchi e cominciò a
delinearsi la distinzione tra persone di ‘società’ e popolo. Cfr. Treccani on line
La cultura ellenistica
Linguisticamente si creò un dialetto unico, la koinè, che fu mirabile strumento della
diffusione della cultura greca su un’area enormemente più estesa di quanto non fosse ancora nel 5°
e 4° sec. a.C. Ma il progressivo distaccarsi dei singoli dalla vita collettiva causò l’abbandono di
quei generi letterari che maggiormente aderivano all’animo delle masse nell’età precedente: la
tragedia e la commedia. La prima manca quasi del tutto nella letteratura ellenistica, la seconda perse
Filieri Andrea
63
mordente, fissandosi nell’elaborazione di tipi e caratteri. I generi letterari più coltivati furono i
poemetti mitologici, la lirica amorosa o bucolica, l’epigramma, tutti profondamente pervasi da
psicologismo
Le scienze - Di contro, le scienze esatte furono coltivate intensamente e su basi rigidamente
scientifiche: fu fondata la filologia, furono elaborate la cronologia e la geografia, e i rifacimenti e le
forma originale sono giunte opere di matematica e meccanica.
Una delle caratteristiche principali dell’ellenismo è che l’arte non rappresentò più la voce di una
comunità, ma si pose al servizio di committenti privati, come i sovrani dei vari Stati ellenistici o i
collezionisti. Allo stesso tempo si andò costituendo una categoria particolare di intellettuali, della
quale partecipavano anche pittori e scultori che acquistarono una nuova dignità, differenziando il
loro opus artistico dalla produzione artigiana che, contemporaneamente, metteva in atto un processo
di industrializzazione. L’arte era considerata un ornamento, piuttosto che l’espressione della
devozione civile e religiosa dei cittadini, e l’artista acquistò una autonomia di invenzione mai
raggiunta prima. L’opera d’arte ebbe quindi un valore nuovo: rivolta al piacere dei sensi (vista e
tatto) e a stimolare l’intelletto, si concentrò nell’espressione di un linguaggio di estrema eleganza e
raffinatezza. CFr. Treccani on line.
La filosofia ellenistica :
epicureismo
scetticismo
stoicismo
Dal punto di vista politico\sociale è
caratterizzata da :
 frantumazione dell’impero
macedone in diversi regni
 crisi delle Pòleis greche
 crisi del modello del
cittadino
Dal punto di vista culturale è caratterizzata da :
 sviluppo degli studi scientifici
specialistici (Aessandria d’Egitto);
 primato della teoria sulla pratica;
 isolamento degli studiosi
Si concentra su interrogativi
esistenziali e morali in quanto
mira a condurre l’uomo alla
serenità
Filieri Andrea
64
Virtù e felicità
Da un punto di vista filosofico, la domanda fondamentale dell’età ellenistica è relativa al
tema della felicità: cos’è la felicità? Cosa deve fare l’uomo per essere felice? La risposta a questa
domanda dipende da cosa si intende per felicità. Ora per i Greci, il raggiungimento della felicità
dipende dall’esercizio della virtù: l’uomo virtuoso è felice. L’uomo virtuoso realizza infatti le
attitudini e le potenzialità della natura umana. Virtù e felicità coincidono dunque.
Platone afferma che solo l’uomo giusto può essere felice mentre chi agisce male è infelice.
Ma per agire bene bisogna sapere come agire: il bene infatti è ciò che la ragione ri-conosce come
tale. Esattamente come affermava Socrate: il male deriva da una distorsione della ragione, da una
erronea distorsione del fine. La rilessione socratica è dunque una forma di razionalismo , così come
quella di Platone e Aristotele: nel primo l’etica è scienza universale e necessaria; nel secondo la
vita pratica, regno del possibile, è guidata dalla phrònesis che conduce alla scelta del giusto mezzo.
Ma anche in Aristotele la scelta del retto comportamento è una operazione precipuamente
intellettuale. Infine in entrambi, la felicità piena si realizza nella vita contemplativa, nella
conoscenza dell’universale ossia nell’esercizio stesso della filosofia: nella beatitudine. In questo
senso la filosofia è fine. Diversamente, nella filosofia stoica ed epicurea, la filosofia è mezzo, non
rappresenta in sè la realizzazione delle vita felice.
Secondo Epicuro: “vano è il discorso di quel filosofo che non sappia curare qualche umana
passione, infatti come l’arte medica non è di alcun giovamento se non ci libera dalle malattie dei
corpi, così non è di alcun giovamento neppure la filosofia se non ci libera dalle malattie
dell’anima”. E l’anima è malata se non conosce la verità, verità illuminata dalla filosofia. E cos’è
vero? Ciò che è evidente: sia esso sensazione, affezione dell’anima,piacere o dolore. E’ necessario
allora limitarsi ad affermare ciò che è presente senza interpretare: ciò che è evidente.
Vediamo: la teoria della conoscenza di Epicuro mette la sensazione, l’esperienza sensibile, a
capo dell’atto conoscitivo. In particolare, la sensazione – aìsthesis – è contatto: i corpi che si
trovano fuori dell’esperienza tattile emettono, a causa del movimento vibratorio degli atomi, delle
immagini – simulacri – eìdola – che colpiscono gli organi di senso. La rappresentazione è dunque
registrazione (sempre vera) degli oggetti . Nel caso l’oggetto non sia presente, sussiste per Epicuro
la prolessi, che grazie alla memoria anticipa la rappresentazione di un oggetto prima di farne
esperienza. Sembra dunque che ogni sensazione sia sempre vera: il bastone che appare spezzato
nell’acqua secondo Epicuro, non costituisce una smentita della sua teoria, piuttosto è l’opinione –
hypòlepsis - che erra nell’attribuire un qualsiasi giudizio. Se da lontano credo di riconoscere un
caro amico e da vicino mi rendo conto del contrario l’errore sta nel giudizio: “A è un mio amico” è
un giudizio erroneo, non la prima sensazione - A da lontano - nè la seconda - A da vicino - 98.
Intorno all’etica ed alla condotta che porta alla felicità, Epicuro fa riferimento alla natura
dell’uomo: il piacere non si aggiunge alla natura umana, qualcosa che va inseguito per mezzo della
vita: il piacere è la vita. É l’esistenza liberata dal turbamento e dal dolore: assenza di dolore fisico
e spirituale.
98
Cfr. Cioffi. Cit. pagg730 e sgg.
Filieri Andrea
65
Piacere e dolore
Individua il
piacere come
motore e fine
dell’azione
umana
L’Etica
epicurea
Esalta l’amicizia
che nasce dalla
ricerca dell’utile
ma di per sé è un
bene
Distingue tra :
Piacere autentico
ossia stabile :
 aponia
 atarassia
Bisogni
Naturali
necessari
Piacere in
movimento:
 gioia
 letizia
Bisogni
Naturali
non
necessari
Da
soddisfar
e a volte
Soddisfare
sempre
In base ad
un
calcolo
Non
naturali
non
necessari
Da
soddisfar
e mai
Secondo Epicuro, lo scopo della filosofia è il conseguimento della felicità. Ora la felicità si
identifica col piacere: questo è un dato indiscutibile. Piacere distinguibile in piacere cinetico (il
mangiare) e catastematico (la sazietà che ne deriva). Ora, al di là di tale distinzione, Epicuro insiste
su una definzione di piacere in senso negativo: è cioè l’assenza di dolore e di turbamento la
condizione necessaria affinchè si possa parlare di dolore , come dire che il piacere è mancanza di
dolore.
In merito poi ai diversi piaceri quali quelli naturali e necessari e non naturali, Epicuro parla
anche di amicizia ed amore : due aspetti essenziali per il Filosofo. Ora, il raggiungimento di tali
piaceri, essenziali all’essere felici, senz’altro vedono la filosofia in primo piano come esercizio di
ragione secondo il lògos: la retta ragione che consente di allontanare la paura della morte, del
dolore, degli Dei o del raggiungimento del piacere, in primis quello naturale. Un esercizio di
ragione dunque che garantisce anche la possibilità della scelta: la possibilità di astrarre dalle leggi
fisiche materiali per comprendere il livello dei propri comportamenti ed atteggiamenti. L’azione
dunque, lungi dall’essere determinata da leggi fisiche materiali è libera da condizionamenti, se
questi non susssitono ovviamente (costrizioni, etc). In ciò, in quanto detto sebbene per motivi
diversi, il motivo della libertà umana si tocca anche negli stoici: in effetti per lo stotico, l’uomo ,
attraverso la ragione, attraverso il suo esercizio, può controllare le passioni, le può , come si suol
dire, gestire. In effetti per lo stoico il fondamento di una vita felice risiede nella retta ragione e nel
suo uso che consente un allontanamento dalle passioni: ancora la passione eccede la ragione o
meglio la passione è un impulso che eccede i limiti naturali della ragione. La passione dunque, per
Filieri Andrea
66
gli stoici, si sviluppa allorquando in presenza di un qualcosa di preferibile per la propria vita, ossia
utile ed eventualmente necessario per la propria vita, noi reagiamo in misura eccessiva tale da
alterare il nostro normale corso di vita: in effetti per lo stoico l’unico vero bene che devo sempre
tenere in vista della ragione è la virtù, come assenza o gestione e regolatezza delle passioni. E tale
gestione accade per lo stoico nella misura in cui egli è in grado di blocare il valore attribuito ad un
evento rappresentato. Lo stoico dunque oppone all’impulso collegato ad un determinato evento la
ragione: ragione che controlla lo stato emotivo ed affettivo legato ad eventi ed accadimenti che
possono turbare la vita dell’uomo.
Lo Stoicismo: Tutto è Logos – 300 a.c.-180 d.c.
Anche per gli stoici, la fonte della conoscenza è la sensazione: l’anima in orgine è come una carta,
ben disposta alla scrittura: per gli sotici infatti gli oggetti colti dai sensi lasciano le loro impronte .
Tali impronte sono per gli stoici rappresentazioni, fissate nella mente per mezzo della
memoria.l’insieme della rappresentazioni costituisce l’esperienza.99Ma quale sarà il criterio che
garantisce la corretta rispondenza tra le rappresentazioni e le cose a cui rimandano tali
rappresentazioni? Tale criterio è l’assenso per gli stoici.In effetti il soggetto può negare o accordare
l’assenso alla propria rappresentazione, e solo l’assenso ad una rappresentazione trasforma la
propria rappresentazione in rappresentazione catalettica ossia una rappresentazione vera. Ed è
l’evidenza la forza che spinge il singolo a dare l’assenso alla propria rappresentazione. Evidenza
empirica si intende. Come in epicuro dunque l’errore nasce dall’assenso alla rappresentazione. Per
altro verso gli stoici concepiscono il cosmo, ossia la totalità dell’esistente, come un immenso
organismo pulsante, i cui processi dinamici sono governati dal logos o pneuma o fuoco. Principio
immanente alla realtà ed inseparabile da essa. Esiste dunque un unico piano dell’essere : quello
della corporeità. Tutto è corpo: Dio, l’anima, il vizio. Ora, non solo tutto è corpo ma anche tutto
ha una causa: ciò comporta una conseguenza inaggirabile: che ogni cosa è inserita nell’ordine del
tutto che è logos, ragione provvidenziale. Ancora, la visione stoica del cosmo esclude la contigenza
che trova invece spazio nell’epicureismo.
In effetti per gli stoici il caso non esiste. Semmai il caso è frutto del nome che gli uomini danno a
ciò che non riescono a spiegare. In questo senso negli stoici non trova spazio la libertà: in realtà in
Crisippo, ad esempio, sebbene il sorgere in noi delle rappresentazioni sia necessario in quanto opera
di una causa è però libero l’assenso che possiamo dare a tale rappresentazione.
In misura più specifica l’uomo è natura, natura che abbiamo visto essere logos: tale natura è
secondo gli stoici precipuamente di ordine intelletuale e razionale per cui l’uomo farà il bene se e
solo se sceglierà\delibererà in vista della propria natura razionale. Morale sarà dunque quel
comportamento che spinge l’uomo a fare il proprio bene ossia a seguire la propria natura razionale.
In questo senso le passioni sono vere e proprie malattie dell’anima che richiedono una adeguata
terapia: si tratta di estirparle. Il saggio staoico è infatti apatico ed impassibile. Un’etica quindi
rigorosa o meglio rigoristica: bene\male; virtù\vizio; niente posizioni intermedie.
99
Il testo filosofico, Cioffi, cit. pag. 739
Filieri Andrea
67
La
natura
È Dio
È
razionalità
È
pervasa
dal
logos
Teoria cognitiva delle
passioni
(non esiste una
componente irrazionale
nell’uomo
Visione
etica
Fisica
deterministica
Tempo
ciclico
È possibile
liberarsi
dalle
passioni
100
Come
Pneuma
Dovere
Poiché tutto è razionale
ciascuno deve assecondare il
suo destino
Atarassia: assenza di
turbamento
Felicità
Atarassia: Termine già usato da Democrito, ma che venne particolarmente in uso nella
terminologia delle scuole postaristoteliche, epicurea, stoica e scettica, per designare lo stato di
serenità indifferente del saggio, che contempla il mondo senza più subirne la pressione affettiva. Il
termine equivale ad apatia e adiaforia, più propriamente cinico-stoici
Adiaforia: Generale disposizione di spirito di chi, bastando a sé stesso, e non chiedendo nulla alla
natura e agli uomini, non ha alcun motivo per giudicare gli eventi del mondo buoni o cattivi,
desiderabili o indesiderabili, e mantiene in ogni caso immutata la propria serenità e autosufficienza
d’animo. È l’ideale etico del cinismo e dello stoicismo, e coincide per gran parte, nel suo contenuto,
con l’apatia e atarassia epicuree
100
Filieri Andrea
68
Verifica che i
contenuti
corrispondano alla
realtà
Teoria della
conoscenza
Sensazione
che
produce :
A questo livello
è impossibile
l’errore
Impressione
che è
sottoposta
a:
Assenso
che
conduce a:
A questo livello :
elaborazione mentale e
possibilità di errore
Rappresentazione
catalettica
Filieri Andrea
69
In Platone ed Aristotele, l’orizzonte di riferimento è l’agire nella Polis: la felicità è pensata
come esercizio di facoltà (Platone) o di abiti (Aristotele) in un contesto politico.
Le filosofie ellenistiche si rivolgono invece a sudditi e non a cittadini.
Ora, secondo Epicuro è necessario tenersi lontano dall’attività politica, viceversa lo
stoicismo ritiene che la società sia espressione della phisys universale che lega tutti gli uomini: non
vieta perciò al saggio l’impegno politico e prescrive all’uomo comune il rispetto del dovere che
viene indicato dalle leggi.101
Resta comunque in entrambe le filosofie l’accento della dimensione individuale slegata
dall’ambito politico, un uomo che a volte arriva alla autoesclusione dal mondo. Un ideale questo
perlopiù inaccessibile. Un abisso separa quindi il saggio dal popolo: un abisso separa l’ideale del
saggio da colui che vive nelle false opinioni. Un carattere aristocratico questo, dell’etica greca
dell’età ellenistica. Si affaccia allora nella temperie culturale dell’epoca una idea di cosmopolitismo
scarsamente presente nell’età precedente: l’individuo è visto come facente parte di una comunità
universale, una Humanitas che si impone al di là delle barriere etiche, sociali e poliche.
Per altro verso, il lascito del messaggio ellenistico, del saggio, risiede nella esaltazione della
dimensione privata come ambito decisivo della vita pratica. In buona sostanza un’etica della
salvezza o di sopravvivenza nel turbolente ed instabile mondo ellenistico. Si tratta quindi di una
ricerca di sicurezza.
101
Ibidem.
Filieri Andrea
70
Lessico ellenistico
Adiaforia: termine cinico e stoico per indicare le cose né buone né cattive ossia moralmente
indifferenti. Tra queste, alcune sono assolutamente indifferenti come il numero delle stelle pari o
dispari, altre sono desiderabili, corrsipondendo alla cosiddetta sfera dei beni esterni quali ingengno,
salute, ricchezza.
Afasia: termine scettico che indica la rinucia a pronunciare affermazioni dogmatiche sulla
realtà: l’afasia consegue all’epochè ed è condizione per il raggiungimento dell’imperturbabilità del
saggio detta anche atarassia.
Affezione o passione: in genere la condizione per cui un soggetto subisce una azione che ne
modifica lo stato:
 fisico : percezioni sensibili o sentimenti del piacere o del dolore. In tal senso era
inteso da Epicuro che utilizzava il termine “tarachai” - turbamento - per indicare le
passioni quali ira, dolore, gioia.
 Psichico: tendenze o inclinazioni dell’anima - passioni - di particolare intensità o
durata considerate dagli stoici come momenti di perversione - diastrophè – del
logos dell’individuo. Tali passioni sono considerate frutto dell’assenso dato a false
rappresentazioni da un logos debole o malato, o traviato dall’ambiente esterno. da
qui la concezione del saggio come colui che atraverso il rafforzamento del logos è
capace di estirpare le passioni – apatia - cui non è riconosciuto alcun aspetto
positivo.
Logos: termine fondamentale nella filosofia greca: negli stoici il logos è principio di razionalità che
governa gli eventi naturali ed umani ed al tempo stesso fonte normativa delle azioni virtuose. Esso
coincide con:
 natura - physis - ;
 pneuma –soffio vitale che anima il mondo;
 legge immanente al cosmo;
 destino–eimarmène –
 provvidenza102 – prònoia, concatenazione necessaria degli eventi orientata al bene degli
eventi.103
102
Fato: originariamente, presso i Latini, la parola, il detto della divinità, quindi il destino irrevocabile fissato fin dal
principio e a cui nessuno si può sottrarre, e perciò la morte; al plurale, i detti del veggente che indicava il futuro e le
personificazioni del destino, le Moire, le Parche, chiamate appunto anche Fata o tria Fata. Storicamente, i vari modi di
intendere il fato si intersecano e si confondono, collegandosi, nel mondo antico, anche alla concezione della causalità
dei cieli nel corso degli eventi terrestri. Fatalismo è in generale, ogni concezione che consideri il mondo come
governato da un f. irrevocabile. Nella storia, il fatalismo ha assunto diverse forme, presentandosi in rapporti diversi con
la religione e la morale, secondo la concezione stessa del f., inteso anche come legge irrazionale. Strettamente connesso
è il problema del rapporto tra f. e libertà umana, ora contrapposta al fato, ora, all’opposto, identificata con la piena
accettazione della suprema legge di razionalità che si presume regoli il corso degli eventi. Nel mondo ellenistico il fato
fu oggetto di ampia discussione fra gli aristotelici, gli stoici, gli gnostici, i neoplatonici e nelle religioni
soteriologiche, con una ricca fioritura di trattati De fato (come quello di Alessandro di Afrodisia). Le religioni
monoteistiche escludono l’idea di un fato e alcuni scrittori cristiani si opposero all’uso del termine; in s. Tommaso
tuttavia esso sta a significare il complesso delle cause finite preordinate, per il conseguimento di un dato effetto, da Dio
che nella sua onnipotenza è però libero di agire quando e come alla sua sapienza paia opportuno. Il problema,
trasformato in quello della predestinazione, è stato lungamente discusso dai teologi del cristianesimo e dell’islamismo.
103
Ora, se il fato razionale e provvidenziale estende veramente la sua azione a tutto l'universo, come potrà sfuggirgli
l'attività umana? Anche questa sarà governata dalla stessa necessità inevitabile e si attuerà con la medesima perfezione,
senza peraltro averne più merito di quanto ne abbia la pietra che perfettamente cade secondo la verticale: e il
problema morale non avrà la più lontana ragion d'essere, giacché in un mondo in cui tutto è naturalmente buono, nulla è
moralmente buono, non sussistendo la possibilità del male e quindi neppure il merito del bene. A tale difficoltà, che in
Filieri Andrea
71
Apatia – apàtheia - :termine stoico che indica la liberazione dalle passioni ottenuta dal
saggio attraverso l’esercizio della virtù. Esso non indica tanto l’indifferenza assoluta bensì la non
dipendenza dalle affezioni e quindi la condizione di possibilità per l’esercizio di una vita razionale.
L’apatia quindi non indica la rinucia all’attività come nell’atarassia – ataraxia, securitas,
tranquillitas animi. Nello specifico, l’atarassia indica l’imperturbabilità dell’epicureo che
coincide con il superamento della paura degli dei e della morte, nonché con l’acquisizione del
piacere catastematico.
Dovere o azione conveniente - kathèkon – officium: azione conforme a norma razionale .
Nel primo stoicismo, azioni doverose sono quelle secondo natura – onorare i genitori, servire la
patria.
Piacere – hedoné – voluptas : fondamento della vita morale e della felicità in Epicuro. Egli
distingue tra:
 piacere cinetico –in movimento : soddisfazione di un bisogno;
 piacere stabile – catastematico : assenza di dolore fisico (aponia) e di turbamento
spirituale (atarassia) necessario al conseguimento della felicità o eudaimonia.
Scepsi –skèpsis, ricerca, indagine: dal greco skèeptomai ossia mi guardo intorno, osservo rifletto.
La scepsi solleva innzitutto il dubbio circa conoscenze, credenze, valori. Il dubbio è la premessa
stessa della ricerca. Nellomscetticismo il dubbio non è tanto o solo il punto di partenza della ricerca
filsofica ma anche il punto di arrivo: negazione totale e radicale circa la possibilità di conoscere il
reale.
Virtù: la virtù come disposizione, modo d’essere costante ed uniforme , richiama l’abito
aristotelico, -Aristotele però ammette una gradazione delle virtù . Ora la virtù negli stoici è premio a
se stessa, non è mezzo per alcun fine come in Epicuro. Si tratta insomma di un ritorno al rigorismo
platonico contro Aristotele che predicava anche la necessità di soddisfare necessità fisiche e
“benessere” di tipo economico.
In che senso il tema della felicità è interesse unificante nelle filosofie
ellenistiche?
A dispetto di una pluralità di indirizzi nettamente definiti, spesso in contrasto su aspetti
specifici, la preferenza accordata all’etica costituisce una costante della riflessione tra IV e III
secolo a.c. Ora. Per quanto le scuole ellenistiche rigettassereo il socratismo platonico, ne
riprendevano:
 l’idea della filosofia come cura dell’anima;
 l’identificazione di virtù e scienza;
 in qualche caso: l’apertura alla ricerca implicita del “non sapere” (scetticismo).
un panteismo assolutamente inteso è a rigore insolubile, lo stoicismo (specialmente per opera di Crisippo) cerca di
ovviare ammettendo, entro certi limiti, una libertà dell'uomo, non totalmente determinato dalla necessità cosmica nella
realizzazione della sua attività e quindi capace, sempre entro quei ristretti limiti, di reluttare ad essa o di adeguarlesi
libertà ha carattere soltanto negativo,
la virtù consistendo proprio nella rinuncia ad essa e nella
sottomissione completa al destino cosmico.
pienamente. S'intende con ciò che tale
Filieri Andrea
72
Paradigmatico però, della figura del filosofo, fu la manifestazione della coerenza, anche estrema
nel non farsi turbare dalle opinioni del volgo. Una base su cui fondare quella riflessione
sull’esistenza umana ed in particolare su quel bene umano cui ogni sforzo umano tende (bene
sommo): la felicità o eudaimonia.
In cosa cosiste la felicità per Epicuro?
Epicuro propone un modello di vita per tutti: liberi e schiavi, uomini e donne. Modello che ha per
fine la felicità individuata in una condizione di perfetto equilibrio psicofisico cui sono connessi :
 l’assenza di pena (aponia) nel corpo,
 l’assenza di turbamento nell’animo (ataraxia).
 il piacere connesso all’attività spirituale essenziale per una vita beata.
Ora per Epicuro il piacere si conquista anche attraverso una sistematica razionalizzazione dei
timori e paure, connessi all’ignoranza dei fenomeni naturali. Per altro verso va fatta una scelta
virtuosa dei piaceri e dolori: nello specifico l’hedoné (piacere)è, in natura, il fine in sé di ogni
sforzo, così come il dolore (ponòs) rappresenta ciò che la natura rifugge. Sulla base di tali
premesse, Epicuro può affermare che per conseguire la felicità è necessario valutare gli affetti sia
per ottenere una buona soddisfazione fisica che una giusta tranquillità nella consapevolezza di tale
soddisfazione. Tale capacità è espressa dalla phrònesis ossia virtù connessa alla ricerca della
felicità, del quieto godimento di quel bene pieno che è la vita.
Filieri Andrea
73
Lo scetticismo
La sensazione
produce solo
fenomeni
La conoscenza
produce solo
opinioni
La
filosofia
produce
solo dogmi
Sospensione
del giudizio:
epoché
Dubbio
sistematico
perché non c’è
certezza
Afasia perché di
nulla si può
parlare con verità
Atarassia
Filieri Andrea
74
Conformismo perché tutti
i valori si equivalgono per
cui è meglio riferirsi alle
ttadizioni
Filone di Alessandria
L’accenno a Filone di Alesandria si giustifica per la sua figura, potremmo dire di rottura, a
cavallo di due epoche e culture: recuperò la dimensione dell’incorporeo di contro al materialismo
delle scuole ellenistiche; contrappose alla visone immanentistica precedente la sua visione
trascendentistica; ridemensionò la fiducia nell’autarchia dell’uomo e “mostrò la necessità di
trascendere la ragione e di agganciarla a Dio ed alla divina Rivelazione per poter veramente
risolvere i problem ultimativi”.104Tali aspetti sono essenziali per comprendere lo sviluppo del
pensiero greco successivo. In buona sostanza Filone D’Alesandria inaugura quell’alleanza tra fede
biblica e ragion filosofica ellenica che era destinta ad avere così larga fortuna con la diffusione del
pensiero cristiano e dalla quale dovevano scaturire le categorie del pensiero successivo.105
Le fonti
I testi che costituiscono il punto di partenza della formazione di Filone D’Alessandria sono
senz’altro le Sacre Scritture, vero fondamento del suo pensiero. In particolare, la traduzione greca
dei Settanta (che costituiva già una prima mediazione tra ebraismo ed ellenismo), iniziata ad
Alessandria sotto il regno di Tolomeo Filadelfo (285\246 a.c.). Egli privilegiò il Pentateuco, La
Legge (Torah in ebraico, Nomos in greco) che a suo avviso contiene tutta la verità su Dio. Ancora,
egli ritiene che la Bibbia abbia un senso e respinge l’assimilazione del racconto biblico al mito,
sebbene il senso letterale si collochi su piano inferiore rispetto al valore ed al senso del messaggio
mosaico. L’interpretazione allegorica si colloca su un piano decisamente superiore. In effetti Filone
fu il primo ad applicare una lettura allegorica della Bibbia che gli consentì di far convergere
tradizione ebraica e tradizione greca: suppose infatti che parte della dottrina greca derivasse da
Mosè, ovvero dalla sapienza ebraica rivelata da Dio106.
Fede e Ragione
In quale maniera possono rapportarsi il termine “Fede” con il termine “Ragione”? A quale
delle due spetta una priorità?: per primo Filone interpreta i rapporti tra filosofia e Rivelazione
(parola divina) in termini di subordinazione ancillare della prima alla seconda. Tale subordinazione
passerà indenne alla Patristica e alla Scolastica. Certo anche nell’Ellenismo le scienze particolari
erano ancelle della filosofia, ora Filone ripropone tale asservimento della filosofia alla sapienza
(: come le scienze su cui si basa la cultura generale (contribuiscono
all’apprendimento della filosofia, così anche la filosofia contribuisce all’apprendimento della
sapienza (. Infatti la filosofia è lo sforzo per raggiungere la sapienza, e la sapienza è la
scienza delle cose divine ed umane e delle cause di queste. Dunque come la cultura generale è
104
Cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, IV, pag. 248.
Ibidem.
106
Cfr. Geymont. Cit. pag. 564.
105
Filieri Andrea
75
ancella della filosofia, così anche la filosofia è ancella della sapienza.107. Ed è la fede la
convinzione salda ed incrollabile che fa da fondamento alla sapienza. Essa dischiude nuovi
orizzonti preclusi alla ragione solo che essa sia disposta a seguirLa.
Per altro verso Filone, contrariamente a tutta la tradizione greca, scioglie la concezione di
Dio da quella del cosmo per collegarla a quella dell’uomo: la teologia è sciolta dalla fisica per
essere trasportata sul piano dell’etica (la conoscenza del Creatore) da cui deriva la santità.108 Filone
ripudia dunque la concezione materialistica ed immanentistica di Dio e del Divino, sostenuta dalle
scuole elleniche, e ridimensiona il senso e la portata della cosmologia109.
Ma anche la concezione ellenistica della phronesis (saggezza) come superiore alla sophia è
respinta: è la sapienza infatti a dare spessore alla saggezza
La metafisica e la teologia
Filone afferma dunque la realtà dell’incorporeo: nell’incorporeo risiede la causa del
corporeo. Al corporeo, viene dunque negata ogni autonomia ontologica ossia ogni capacità di dare
ragione di sé. Platone è dunque recuperato ancorchè superato, in funzione di alcuni elementi
essenziali della Scrittura. Per Filone, Dio è incorporeo come il Logos, le Potenze, le Idee, ed il
mondo delle Idee così come le anime. Nelle Legum Allegoriae: “Invece Dio non è un composto, è
una natura semplice ( mentre ciascuno di noi e tutte le altre cose che sono state
generate siamo molteplici. Io sono molte cose: anima, corpo (...) Dio non è un composto, nè è
costitutito da molte parti ma è privo di mescolanza con altro.110
Dio è allora semplice (mancanza di parti) nonchè assoluta incorruttibiità. Ancora:
“Neppure il cosmo potrebbe costituire un luogo adeguato ed una dimora di Dio, perchè Lui è luogo
a se stesso, ed è Lui che è pieno di se stesso, ed è Lui, Dio, che è bastevole a se stesso. (...) Egli è
l’Uno ed il Tutto.”111
Ora però, la stessa descrizione di Dio è forse una conoscenza di Dio? E che tipo di
conoscenza? Tralasciando la conoscenza mediata di Dio sulla base di aspetti a posteriori – partenza
dalle cose per ritenerle incacapaci di dar ragione di loro stesse ed arrivare a Dio – Filone parla di
conoscenza immediata di Dio: “Come possa avvenire questa visione diretta mette conto chiarirlo
con una immagine. Questo sole sensibile forse che non lo vediamo con nient’altro se non con il
sole? (...) la luce con la luce?Nello stesso modo anche Dio , che è luce di se stesso, è contemplato
mediante Lui solo, senza che null’altro cooperi alla chiara comprensione della sua esistenza”112
Ciò che l’uomo fa allora, non è vedere Dio, bensì è Dio che si dà a vedere all’uomo: un dono
come gesto d’amore. Un dono che ci consente di intuire la sua esistenza, non la sua essenza: “La
comprensione della mia essenza non solo la natura umana ma neppure il cielo potrebbero
contenerla” risponde Dio a Mosè. Una trascendenza ontologica che comporta ovviamente una
trascendenza gnoseologica di Dio, sebbene Filone parli di alcuni aspetti di Dio quali l’incorporeità,
semplicità, perfezione, infinitezza - Dio è quindi non nominabile -.
Filone prosegue l’elenco delle proprietà di Dio puntando però su un aspetto centrale: quello
del poiein o meglio dell’agire. E questo agire è creazione: creazione dal non essere all’essere.
VEDIAMO: secondo l’autore, Egli non è solo Demiurgo bensì Creatore. Creatore a cui tutto
appartiene, infatti ogni cosa è gratuitamente e liberamente donata dalla sua bontà. Tutte le cose
107
Congr., 79, in Giovanni Reale, cit, pag. 265.
Cfr. REale, cit. pag. 267.
109
Ibidem 268.
110
Leg. All., I,44, in Giovanni Reale, cit., pag. 270.
111
Ibidem .
112
Ibidem.
108
Filieri Andrea
76
sono una grazia di Dio113. Ora, la novità dell’introduzione del concetto di creazione comporta una
ri-trattazione: il nuovo senso del Logos divino. Logos inteso apparentemente come attività pensante
di Dio,come Nous di Dio: Filone fa quasi del Logos una sorta di ipostasi, denominato figlio
primigenito del Padre.114 Altre volte il Logos è un Dio secondo, comunque il Logos per Filone
esprime la valenza fondamentale della biblica sapienza, della parola di Dio. Parola creatrice e
fattrice.115
Logos come una realtà incorporea trascendente dunque, archetipo di tutta la realtà, anche
immanente alla realtà sensibile: un Pensiero che racchiude in sè l’intero cosmo intelligibile e che
contemporaneamente regola il mondo sensibile che su quello si modella.
Potenza
Abbiamo visto che Dio è attività creatrice, di cui il Logos esprime un aspetto, una modalità
di attività. In particolare il Logos è una Potenza, come altre. Non una Potenza come infinita
potenzialità, bensì forza ed azione: attività.
Le altre Potenze per Filone sono la potenza creatrice e la potenza regale: creatrice come
Elohim – secondo la tradizione ebraica – e regale come Jehovah. La potenza della creazione come
forza del bene ma anche come forza legislatrice e punitrice.
Plotino
La filosofia di Plotino, in linea con tradizione platonica, si propone di approfondirne il senso
sviluppandone alcuni aspetti essenziali: la molteplicità delle Idee, l’idea del Bene, la relazione con
la materia inanimata.
Plotino osserva innanzitutto come nessuna cosa potrebbe essere , nessuna Idea potrebbe
essere se non fosse unica. L’unità sembra essere quindi il fondamento dell’essere delle cose, delle
Idee. L’ente in quanto tale è unico. L’unità è quindi fonte d’essere, condizione d’essere delle cose e
della loro concepibilità. Per Plotino, l’unità è espressione dell’Uno assoluto che fonda l’essere e
l’intelligibilità dell’essere: “Tutti gli enti sono enti in virtù dell’Uno, sia quelli che sono enti in
senso originario, sia quelli di cui si dice che in un senso qualsiasi rientrano tra gli enti.Infatti che
cosa potrebbe esserci se non ci fosse unità?” Enneadi, VI,9,1. Ma da che cosa riceve\deriva l’unità
degli enti?116 Gli enti fisici per Plotino derivano la loro unità dall’Anima la quale è plasmatrice,
formatrice, di tutte le cose sensibili. Ossia causa e fondamento della loro unità. Ora, anche l’anima
che dà l’unità ai corpi non è essa stessa l’unità117: “...essa non è l’Uno in sè”. Enneadi IV,9,1.
L’anima introduce dunque l’unità nel mondo fisico ma la riceve essa stessa da ciò che le sta
al di sopra: il Nous, dallo Spirito e dall’Essere. Ma anche l’Essere e lo Spirito , per quanto abbiano
un grado superiore di unità rispetto all’anima non sono l’Uno in quanto implicano molteplicità:
dualità di pensante e pensato e molteplicità di Idee ossia la totalità delle realtà intelligibili. In effetti
Plotino afferma: “Non certo dal molto deriva il molto, ma questo nostro molto deriva dal non
113
Ibidem.
Ibidem.
115
Ibidem 285.
116
Cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, IV, pag. 504.
117
Ibidem.
114
Filieri Andrea
77
molto. Se infatti anch’esso fosse molto, non sarebbe principio questo molto, ma vi sarebbe un altro
principio prima di questo molto. (Enneadi,VI,9,2).
Ora,dell’Uno possiamo parlare solo in termini negativi: non è essere, nè pensiero, nè causa.
Piuttosto esso è àmorphon , àpeiron, incomposto. Per altri versi, l’Uno è perfezione, autonomo e
distinto da ciò che da esso deriva: l’Uno non intrattiene rapporti con gli enti, sono reali invece le
realzioni degli enti con l’Uno.
Se ogni ente è come esso è quindi, il suo fondamento sta nella sua unità, sebbene tale unità
non sia l’Uno in sè – l’Idea dell’Uno – perchè l’Uno trascende tanto il mondo sensibile quanto
quello intelligibile. L’Uno in sè è allora la prima ipostasi118 – ciò che sta sotto - tutto ciò che esiste
e che crea tutto l’ente.
Non è qualcosa di finito -àpeiron –perchè il finito è determinato, ossia ha dei limiti, dei confini, per
cui è anche qualcosa di molteplice. Nè l’uno come numero minimo della matematica, peraltro
immisurabile, anzi semmai massimo per potenzialità. Non potenzialità passiva, contrapposta
all’atto, bensì attività illimitata e creatrice nella misura in cui l’Uno non è limitato da nulla di
indipendente da esso.119 Potremmo anche dire che, come in Anassimandro, la divisione dell’Uno è
118
IPOSTASI (gr. ὑπόστασις, da ὑπό "sotto" e ἵστημι "sto"). - Dal punto di vista etimologico, questo termine coincide
pienamente con substantia, che la tarda latinità coniò per esprimere il concetto della realtà esistente, e indipendente nella sua
esistenza individuata. E infatti, se il termine substantia traduceva nell'uso quello greco di οὐσία - al quale propriamente
corrispondeva invece quello molto meno usato di essentia - esso esprimeva poi esattamente l'aspetto onde quella "essenza" si
presentava come "soggiacente" (ὑποχείμενον, o subiectum) e cioè come sostrato per sé sussistente e sorreggente gli attributi, i quali
invece non avrebbero potuto esistere senza quel sostegno. Con lo stesso significato (ma con la particolare intonazione onde la realtà
"sottostante" appariva, rispetto alle sue soprastrutture, più profonda, vera e insieme arcana), "ipostasi" entrò invece nell'uso più tardi,
specialmente col neoplatonismo, che designò con esso le supreme nature dell'Uno, dell'intelletto e dell'anima, e con la teologia
patristica, che se ne valse nell'elaborare la definizione del dogma trinitario. E fu precisamente nel corso delle controversie trinitarie
e cristologiche che si palesò il bisogno di distinguere il termine d'ipostasi da quelli, considerati tra loro equivalenti, di sostanza ed
essenza. Si definirono infatti le tre Persone divine come consustanziali, cioè della medesima essenza (ὁμοούσιος), distinguendo
ciascuna di esse come ipostasi, e parlando di "unione ipostatica" della natura divina e umana in Gesù Cristo (v. arianesimo; gesù
cristo, XVI, pp. 868 segg. e 872 segg.; trinità). Da questo uso derivò il carattere di maggior solennità oggettiva che contraddistingue
ipostasi a paragone di sostanza; e, di conseguenza, la maggior forza che, di fronte al termine "sostanzializzare", assunse il termine
"ipostatizzare" per designare il processo per cui, lecitamente o no, s'innalzano al grado dell'oggettiva esistenza enti concettuali o
ideali, che vi possono essere elevati solo per astrazione.
In un senso derivato da quello teologico di "persona", il termine ipostasi è usato anche nella mitografia e nella scienza delle religioni
per indicare la "personificazione" di concetti astratti pertinenti al mondo soprannormale e concepiti come altrettante personalità
definite. Tuttavia conviene distinguere la semplice personificazione di fenomeni della vita e della natura (o anche, col progresso del
pensiero e della cultura, di qualità o proprietà astratte) dalle ipostasi divine vere e proprie. Nel primo caso - di cui ci porgono esempî i
Romani con le divinità degli Indigitamenta, lo zoroastrismo con i sei "santi immortali" (Amesha Spenta; v.) - è possibile scorgere il
legame con elementi naturistici o animistici.
Ipostasi vere e proprie si possono ritenere le divinità astratte dei Romani, quali Virtus, Pietas, Pudicitia, ecc., e meglio
ancora quelle di certe dottrine gnostiche (v. gnosticismo) o del manicheismo e in genere di tutte quelle concezioni religiose che, per
spiegare il passaggio dall'unità della natura divina trascendente alla molteplicità che regna nel mondo contingente, ricorrono a un
emanatismo del tipo, appunto, di quelli di cui la gnosi ci porge numerosi esempî. Ipostasi di questo genere sono state considerate da
varî studiosi anche le personificazioni della Sapienza - che troviamo in libri dell'Antico Testamento (Proverbî, Ecclesiastico,
Sapienza) - e della Parola, Presenza, Gloria, ecc., di Jahvè, nel giudaismo dell'epoca ellenistica. Ma altri studiosi hanno fatto
osservare che in realtà la Sapienza personificata ed esaltata nella cosiddetta letteratura sapienziale non è altro, in sostanza, che la
stessa Legge; e che gli altri supposti attributi di Dio ipostatizzati non sono se non metonimie, grazie alle quali si evitava di
pronunciare il nome sacro di Dio: onde, dato il concetto di Dio personale, l'apparente ipostatizzazione. Comunque, poiché nel
giudaismo il concetto di Jahvè è stato sempre quello di un Dio vivente e personale, la cui azione è immediata (in contrasto con la
concezione metafisica e impersonale che ha di Dio la filosofia greca), non potrebbe mai trattarsi d'ipostasi o d'intermediarî tra Jahvè
e il mondo, nel senso proprio di questi termini.Treccani on line
119
Cfr. Severino, Cit. pagg. 190 e sgg.
Filieri Andrea
78
la stessa generazione del molteplice. Ora l’Uno dividendosi non perde la sua unità, piuttosto l’Uno
dividendosi, il dividersi dell’uno, è la stessa produzione della molteplicità; ma l’Uno non è l’Uno
indeterminato di Parmenide, non è il semplice vuoto, il semplice manchevole, piuttosto è l’unità di
tutte le cose: “Egli è tutte le cose”. L’Uno non è quindi il Nulla: è tutte le cose, ivi compreso il
pensiero e la vita che in quanto enti sono distinti - sebbene non separati - come unità, da altro.
L’Uno di Plotino, si vuole com’è, creatore di sè, non potendo voler altro che sè. Ed in questo
volersi l’Uno produce il molteplice e l’intero universo. L’Uno allora non vuole l’altro da sè, nè
altro da sè, in quanto contiene anche il principio per cui egli è produttore: il senso plotiniano della
produzione, del portare ad essere, che in Platone ha il valore dela causa formale, in Plotino assume
il valore della causa formale ed efficiente.
L’uno e le tre ipostasi
Il principio ultimo del reale, per Aristotele, era l’ousia e l’intelligenza del Motore immobile;
per Plotino il principo è ancora ulteriore: l’Uno , al di là dell’essere e dell’essenza ed al di là
dell’intelligenza: l’Uno trascende la stessa ousia e lo stesso Nous. Vediamo:
ogni ente è tale solo in virtù della sua unità, la cosa si spezza se si rompe l’unità. Ora, da che
cosa deriva l’unità degli enti? Secondo Plotino, gli enti fisici ricevono la loro unità dall’anima che
esplica una attività plasmatrice e formatrice e coordinatrice di tutte le cose sensibili.Eppure l’anima
non coincide con l’unità in quanto per Plotino vi sono diversi gradi di unità: l’anima introduce nel
mondo fisico l’unità ma la riceve essa stessa da ciò che le sta al di sopra ossia dal Nous, dallo
Spirito e dall’Essere. Per Plotino però, anche sia l’Essere che lo Spirito, per quanto abbiano un
grado superiore di unità rispetto all’anima, non son l’Uno, perchè implicano molteplicità: dualità di
pensante e di pensato e molteplicità di Idee, vale a dire la totalità delle realtà intelligibili.
In conclusione: nel ricercare il fondamento delle cose, che è l’unità, noi siano costretti a
risalire dal mondo fisico all’anima (che è l’ipostasi più bassa),quindi dall’anima che ha ma non è
unità, allo Spirito (che è la seconda ipostasi) e dallo Spirito ( che include la molteplicità) ad uno
assolutamente semplice: l’Uno, la prima ipostasi, l’Assoluto. 120
Ora, le caratteristiche dell’UNO PLOTINIANO QUALI SONO? Senz’altro l’infinitudine
ma nella dimensione immateriale (Filone D’Alessandria). Come in Filone D’Alessandria infatti,
l’infinito plotiniano non è l’infinito dello spazio, nè l’infinito della quantità, bensì come infinita ed
inesauribie, immateriale potenza produttrice.In questo contesto la parola “Potenza” non assume il
significato di potenzialità, in quanto lgato al corporeo e materiale, bensì alla attività. L’uno è
insomma infinita energia creatrice, creatore di sè medesimo e di tutte le altre cose.
Conseguenze:
 l’Uno non è Idea, ousia nel senso platonico, in quanto implicano finitudine e
limite;
 l’Uno non è la sostanza immobile , eterna e separata, Intelligenza autopensantesi
finita.
L’Uno è allora, al di là dell’Essere, una trascendenza che ha antecedenti solo in Filone
d’Alessandria. Il principio supremo trascendente quindi non solo il mondo fisico, ma ogni forma di
finitudine, risultando quasi ineffabile. Diremo piuttosto che l’Uno non è una semplice unità, ma
l’Uno in sè, ossia la causa e ragion d’essere dell’unità delle cose. Esso è assolutamente semplice,
sebbene non una semplicità povera ma, al contrario, infinita potenza di tutte le cose. Nel senso che
120
Storia della Filodofia antica; Reale, Vol. IV
Filieri Andrea
79
tuttel le cose le porta all’essere e nell’essere le mantiene. L’Uno è anche il Bene, non il Bene per
sè, visto che non abbisogna di nulla, ma per tutte le altre cose: un Bene assolutamente trascendente.
Sulla base di quanto si è detto è forse possibile chiarire perchè l’Uno, per Plotino, è al di sopra
dell’Essere, al di sopra del pensiero: non nel senso che l’uno sia il non-essere, il non-pensiero,
piuttosto l’Uno sussiste non al modo delle Idee, in quanto molteplici, o al modo del pensiero,
sdoppiantesi in pensante e pensato.
La libera attività produttrice dell’Uno
Perchè c’è l’Assoluto e non il nulla? Vediamo:
1) L’Uno non è per caso, solo le cose divenienti sono per caso;
2) Non sussiste per libera scelta, quale quella che possa scegliere tra contrari;
3) Non esiste per necessità visto che è Lui la necessità degli altri Enti, la necessità gli è infatti
posteriore.
Potremmo o forse dovremmo dire invece che, per Plotino, essere ed operare nell’Assoluto
coincidono in quanto il primo principio si autopone, crea se medesimo ed è attività produttrice. 121
Ancora, per Plotino, la volontà corrisponde al suo atto: egli è volontà di essere quello che è, è
libertà totale ed assoluta: “L’espressione “Egli vuole ed agisce secondo la sua natura” non vale più
dell’altra “l’essere di lui corrisponde alla sua volontà ed al suo atto”Di conseguenza Egli è in tutto
padrone di sè, poiche fa rientrare anche l’essere nel suo libero arbitrio (...) Egli non è così com’è
perchè non poteva essere diverso, ma perchè questo suo “così com’è” è quanto di più alto si possa
immaginare . Da ciò deriva anche che Egli è amore di sè .
La processione di tutte le cose dall’Uno
Plotino risponde alla domanda sul perchè le cose procedano dall’Uno con alcune immagini di cui la
più celebre è quella della luce:come l’irraggiarsi di una luce da una fonte luminosa in forma di
cerchi successivi via via digradanti in luminosità. IL ptimo cerchio è il Nous o Spirito, ossia la
seconda ipostasi. Il cerchio che segue segna il momento dello spegnersi della luce e simboleggia la
meteria.
Vediamo: da tutte le immagini proposte si ricava già questo: il principio rimane e, rimanendo
genera , nel senso che il suo generare non lo impoverisce. Ancora, possiamo chiederci se il
generante è necessitato a generare: Plotino risponde ponendo una distinzione.
Esistono due tipi di attività:
1) L’attività dell’ente
2) L’attività che deriva dall’ente.
La prima è immanente all’ente, la seconda esce dall’ente e si dirige al di fuori122.
Analogamente, si dovrà parlare di una attività dell’Uno e di una attività che deriva dall’Uno,
121
Ibidem.
Tutti gli esseri, afferma Plotino, fino a che permangono, producono ntorno a loro e dalla loro sostanza, una realtà che
tende verso l’esterno e dipende dalla loro attualità presente. Questa realtà è come un’immagine degli archetipi dai quali
è nata: così il fuoco fa nascere il calore, e la neve non trattiene in sè il freddo. Inoltra tutti gli esseri giunti alla
perfezione generano; perciò l’essere che che è sempre perfetto genera sempre: genera un essee eterno che da meno di
lui. (Enn. V,1,6)
122
Filieri Andrea
80
quella attività che fa sì che dall’Uno derivi o meglio proceda un’altra realtà. Orbene, alla
fine di questo ragionamento, possiamo affermare che, come abbiamo visto, l’attività
dell’Uno consiste nel voler esser ciò che è, ossia nella libertà di essere ciò che è, cosicchè
l’attività che procede dall’Uno e che consegue necessariamente all’atttività dell’Uno,
(l’emanazione) costitutisce una necessità, in un certo senso voluta, ossia una necessita posta
da un atto libero, o meglio la conseguenza di un atto libero. In una battuta: la volontà
dell’Uno di essere la propria natura è la causa diretta dell’emanazione dalla sua natura. In un
certo senso, la creazione è libera o meglio la processione è una necessità che consegue da un
atto libero.
Lo spirito
Quando parliamo di Spirito, in Plotino, non possiamo semplicemente affermare che Esso è
la potenza che procede dall’Uno. Plotino, in riferimento a questo punto è assai preciso. Egli
parla:
1) Il rivolgersi della potenza all’Uno, il quale feconda riempie e colma la potenza
medesima;
2) Il riflettere di questa potenza su se medesima già fecondata.
3) Tale duplicità di momenti spiega, per Plotino, la nascita del molteplice o
meglio la molteplicità delle Idee. (Cosmo intellegibile).
Vediamo meglio: l’Uno è la potenza di tutte le cose; lo Spirito, a sua volta, è tutte le cose. Tale
affermazione significa che lo Spirito di Plotino è l’Essere Puro di Platone, quell’Essere che è
pienamente e in alcun modo affetto dal non essere. Plotino, in minura ancora maggiore fa dello
Spirito la dimora di tutti gli esseri ideali. Di più ancora, le Idee sono pensieri di Dio. Infatti nel
contesto plotiniano le Idee vengono ad essere non solo il contenuto del Pensiero, ma, esse stesse,
pensiero: ciascuna e tutte le Idee non sono solo nello Spirito ma sono esse stesse spiriti.
Lo Spirito poi è anche vita, il Vivente perfetto, Vita infinita. La vita della seconda Ipostasi è dunque
vita nella dimensione immateriale, è vita spirituale, al di fuori della temporalità. Del resto già
Aristotele aveva caratterizzato il suo motore immobile come la più alta forma di vita possibile, la
vita propria del pensiero e dell’intelligenza, appunto nella dimensione dell’eternità.
La terza Ipostasi
Lo Spirito, come abbiamo visto, è potenza infinita, inesauribile, ed in quanto tale trabocca e genera
un’altra realtà, gerarchicamene inferiore: l’Anima.
Ma qual è la caratteristica specifica dell’anima?. Ora, se la caraterisica principale dello Spirito
consiste nel pensare (Nous) , da cui la sua dualità Essere\Pensare, ed anzi la sua molteplicità (
(L’Essere è una molteplicità di Idee), va anche detto che l’Uno, se vuol pensare, deve farsi Spirito:
dato che l’Uno come tale, non può pensare. Orbene, anche l’Anima pensa, contempla lo Spirito che
l’ha generata, ma la sua essenza consisite non nel pensare, ma nel dare vita a tutte le cose sensibili,
nell’ordinarle e governarle. Essa è la primgenia causa produttrice , il principio creatore e vificatore
di tutte le cose: “Compito dell’Anima, a dir il vero, si è di creare tutte le cose, poichè ella è ragione
e principio”.
In conclusione, come l’Uno doveva diventare spirito per pensare, così doveva diventare Anima per
generare tutte le cose del mondo vsibile: l’incorporeo genera il corporeo.
Filieri Andrea
81
Il problema della generazione del mondo fisico
L’elemento caratteristico del mondo corporeo è la materia sensibile. Ora, secondo Plotino,
caratteristica di ogni materia è l’essere indefinita, indeterminata, illimitata. La materia sensibile, in
Plotino, presenta una differenza ontologica con la materia intelligibile.
Vediamo: in Plotino la materia sensibile diventa esempio di lontananaza e privazione estrema
rispeto all’originaria dell’Uno. In breve, Plotino definisce la materia sensibile come non essere.
Ossia non tanto come il nulla ma come il diverso dall’Essere.
Nello specifico, il mondo sensibile è costituito da materia e forma , ma a differenza della materia
intelligibile che è forza o potenza, la materia sensibile non è positiva capacità di ricevere la forma,
ma solo inerte possibilità di rifletterla , senza esserne a fondo veramente informata. Insomma, la
materia sensibile è tale da essere incapace di costituire una vera unità con la forma.123
In questo senso allora possiamo affermare che l’Anima crea il mondo fisico :
1) Dapprima pone la materia, che è come l’estermità del cerchio di luce che si spegne e diventa
oscurità
2) Successivamente dà forma a questa materia , quasi squarciandone l’oscurità e ricuperandola
alla luce.
3) Detto in altri termini le Idee che costituiscono lo Spirito sono contemplate e pensate
dall’anima come Forme e poi calate nel mondo fisico come determinazine razionale, come
logos o disegna razionale del mondo
L’Uno è l’origine di tutte le cose- Esso
è realtà suprema trascendente ed
ineffabile che irradia oltre se stesso per
la propria sovrabbondanza d’essere
originando:
Uno :
realtà
suprema
123
Intelletto:
essere e pensiero
sede dei modelli
eterni (Idee)
Ibidem.
Filieri Andrea
82
È possibile solo dire ciò
che non è:
1. demiugo;
2. motore immobile;
3. Dio ebraico;
4. causa delle cose;
5. pensiero o
essere;
6. Bene
Anima :
 si moltiplica nelle
singole anime
umane;
 si volge verso la
materia
vivificandola ed
organizzandola
sulla base dei
modelli ideali.
L’uomo ed i rapporti tra anima e corpo
Secondo Plotino, l’uomo vero, è solo l’anima, anzi l’anima separata. Permeglio dire, Plotino insiste
nella dimensione di tre anime: o meglio tre potenze dell’anima.
 La prima non è se non l’anima considerata nella sua tangenza con lo Spirito (Tangenza che
non viene mai meno);
 il secondo uomo, per così dire, è l’anima o il pensiero discorsivo, che è in mezzo tra
l’intellegibile ed il sensibile;
 il terzo uomo, per così dire, è l’anima che vivivifica il corpo terreno.
L’uomo dunque è comprensibile solo nell’unione di questi tre momenti. A seconda che noi
lasciamo predominare la parte sensibile, oppure trascndiamo il sensibile tenendoci stretti a questa
partte superiore , decidiamo i nostri destini. Ma in che cosa consiste l’attività più alta dell’anima?
Riprendendo Socrate , Plotinio ritiene che l’attività più alta dell’anima consista nella libertà. Nello
specifico,per Plotino, la libertà, non può consistere nell’attività pratica, ossia nell’agire esteriore,
ma nella virtù e soprattutto nelle più alte virtù ed in paticolar modo nel pensiero: nella
contemplazione e nell’estasi. In buona sostanza, quello che nell’Ellenismo poteva essere trovato
nell’immanenza (la ricerca della felicità epicurea e stoica) per Plotino, diversamente, può senz’alro
essere cercato in questa vita, ma distaccandosi con lo spirito da tutto ciò che è materialee, per questa
via entrando in intima unione (sia pure solo qualche volta e solo per breve tempo con l’Assoluto
trascendente).
Plotino elabora il concetto
di Unità assoluta: l’Uno
Principio
originario
della
realtà
Che è:
 infinito;
 informe;
 indeterminato;
 trascendente;
 indefinibile.
Filieri Andrea
Infinita
potenza
83
Termine
finale del
“ritorno “
Compiuto dall’uomo attraverso:
 le virtù etiche;
 l’arte;
 l’amore;
 la filosofia;
 l’estasi
Da cui tutte le cose procedono
per :
emanazione
differenziandosi secondo una
scala gerarchica
Che comprende il
mondo intelligibile
Prima
ipostasi:
l’Uno che
emana
l’Intelletto
Seconda ipostasi:
l’Intelletto che
contempla l’Uno;
che emna
L’Anima
L’uno è al di
là della
possibilità di
definizione
E
Che comprende il mondo
sensibile ea arriva sino al
grado più basso
Quindi
Le parole e l’intelligenza
non sono in grado di
esprimerlo
Filieri Andrea
Terza ipostasi:
l’Anima che
contempla
l’Intelletto e che
vivifica la
Materia
quindi
Di esso non si
può dire ciò
che è, semmai
ciò che non è
La
materia
infatti
L’anima che libra
verso l’Uno
trascendere esperienza
e ragione
84
L’Uno è senza forma, al di
fuori del tempo e dello spazio,
della quiete e del movimento
e
La pura
contemplazione
dell’Uno è possibile
solo trascendendo i
limiti umani
Porfirio
Porfirio, noto discepolo di Plotino, e grande commentatore degli scritti di Aristotele e
Platone, risulta importante nel panorama filosofico per la sua codifica dei cinque predicabili
(genere, specie, differenza, proprio ed accidente) che vanno a costituire una struttura logica
gerarchica nota come albero di Porfirio (scala praedicamentalis): la subordinazione dei
generi e delle specie, distinte attraverso differenze, procedendo dal genere sommo sino alle specie
infime
e
quindi
agli
individui.124
In
ordine
al
senso
di
predicabile
(praedicabilis), questo termine è stato coniato da Boezio nella sua traduzione
dell’Isagoge di Porfirio. In effetti sia Aristotele che Porfirio usano il termine sia
per indicare il il predicato che per indicare il modo in cui viene predicato ossia il predicabile. In
breve, il predicabile si riferisce nell’Isagoge a cinque termini (genere, specie, differenza, proprio ed
accidente) che esprimono cinque modi in cui un predicato si predica di un soggetto. Nello specifico,
il genere (genus) è il primo dei cinque predicabili: “il genere è ciò che si predica di più
realtà che differiscono per specie, per quel che riguarda l’essenza”. Porfiro esprime quindi
l’essenza delle specie con questa definizione, ponendo al vertice dell’albero porfiriano il genere
sommo ossia la “sostanza” e tutte le altre categorie.
Il secondo dei cinque predicabili è : “specie” (species). Termine non incluso da
Aristotele tra i predicabili. Consideradola solo come soggetto. Porfirio così la definisce: “ciò che è
subordinato al genere e di cui il genere si predica in relazione all’essenza”. In buona sostanza
Porfirio qui intende la specie come essenza dove l’essenza si definisce a sua volta in riferimento al
genere ed alla differenza, definita come “ciò che per natura divide le realtà comprese in uno
stesso genere”. Il circolo quindi si chiude: il genere “animale” (ad es.) si predica di più realtà:
uomini, scimmie, etc., che differiscono in quanto specie diverse. Tutte queste specie, a loro volta,
sono animali, se ne può predicare l’animalità; l’essenza di queste diverse specie si rintraccia nella
loro differente animalità le une dalle altre.
124
Cfr. Isagoge, Porfirio, Bompiani, 2014
Filieri Andrea
85
Felicità nell’ellenismo
Scettici : la felicità si
raggiunge grazie
all’esercizio del dubbio
(sképsis) rifiutando ogni
convinzione o dottrina
perché la verità ed il bene
assoluti sono
inconoscibili
Felicità: Atarassia o
impertubabilità che si ottiene
grazie all’epoché o
sospensione di giudizio (ed
afasia sulle cose oscure)
conseguente all’esercizio del
dubbio su ogni cosa. La
felicità implica l’indifferenza
verso le emozioni (atarassia)
Epicurei : la felicità si
raggiunge atraverso
l’esercizio della filosofia
ossia atraverso un
quadrifarmaco che
agisce contro:
 il timore degli dei
 il timore della
morte
 l’idea che il
piacere sia
irragiungibile
 il dolore
Felicità: piacere inteso come
assenza di dolore nel corpo e
di turbamento nell’anima che
si ottiene grazie al
tetrafarmaco
Pirrone di Elide: è il fondatore dello
scetticismo che si basa sull’esercizio del
dubbio.Egli afferma che tutte le dottrine sono
ugualmente fallaci e quindi conviene non
affannarsi nella ricerca della verità che è
inafferrabile per cui assume l’attaggiamento
Filieri Andrea
86
dell’epochè
ossia SOSPENSIONE DEL
GIUDIZIO
Stoici : la felicità si
raggiunge grazie alla
virtù mediante la
sapienza che è
conoscenza
dell’ordine cosmico
Felicità: apatia ossia
liberazione\distacco
dalle emozioni che
possono turbare
l’animo e renderlo
inquieto. Essa si
ottiene grazie
all’accettazione della
necessità del destino
ossia grazie
all’esercizio del
dovere che è un
comportamento
conforme all’ordine
razionale
L’etica stoica identifica:
 il bene con l’agire
secondo natura ossia
secondo ragione;
 il dovere con la virtù
ossia la disposizione ad
agire secondo ragione;
 la vita buona e felice con
La filosofia romana
È una forma di eclettismo che
comporta l’adattamento delle
dottrine greche ai bisogni della
società romana
Cicerone: esprime il
bisogno di ricercare la
verità ovunque essa si
trovi
Seneca: esalta i valori della vita spirituale e della
solidarietà interpretando lo stoicismo in modo quasi
religioso
Epitteto: ha una visione tragica dell’esistenza dell’uomo
combattuto tra una vita secondo ragione ed una vita
dominata dalle passioni
Marco Aurelio: accentua i temi dell’interiorità e
dell’introspezione riconocendo che la realtà non
ha significato indipendentemente dall’uomo
Filieri Andrea
87
La cultura romana :I sec A.c.
Nella cultura romana, la filosofia assegna a se stessa il compito di delineare uno stile di vita:
una indicazione morale politica del singolo e della collettività. In questo senso, nella cultura
romana si radicalizza il tema della problematica morale tipico dell’età ellenistica125.
In particolare, dallo Stoicismo la cultura romana eredita la figura normativa del saggio: colui
che persegue la sapientia126ossia la conoscenza delle cose umane e divine (Cicerone).
125
CFr. Il testo filosofico, Cit. pagg. 840 e sgg.
Sapienza: Possesso di profonda scienza e dottrina. Il termine (dal lat. sapientia, der. di sapiens -entis «sapiente,
saggio») traduce il greco σοφία, vocabolo che nel pensiero filosofico presocratico e ancora in Platone viene impiegato
per indicare quella concezione della s. che è insieme abilità tecnica, conoscenza razionale ed equilibrata prudenza nel
distinguere bene e male, lecito e illecito, utile e dannoso. In quest’ultima accezione esso è utilizzato come equivalente di
φρόνησις, «saggezza» (phronesis), che, espressione anch’essa di perfezione spirituale, riguarda più specificamente il
comportamento pratico e l’agire morale. La distinzione nel concetto e nell’uso dei due vocaboli si pone con chiarezza in
Aristotele che nell’Etica Nicomachea definisce la saggezza come «una disposizione vera, accompagnata da
ragionamento, che dirige l’agire e concerne le cose che per l’uomo sono buone e cattive» (VI, 5, 1140 b, 4-6) e la s.
invece come «scienza delle realtà che sono più degne di pregio coronata dall’intelligenza dei supremi principi»
(VI, 6, 1140 b 17-20). La prima attiene quindi la sfera del comportamento morale, l’economia e la politica, la s. è invece
«la più perfetta delle scienze», che comprende sia il sapere dimostrativo della scienza propriamente detta, sia
l’intellezione dei principi; il suo oggetto sono le realtà metafisiche (gli astri e il primo motore), cioè le realtà immutabili,
mentre la saggezza, avendo come oggetto l’uomo, vale a dire una realtà imperfetta e mutevole, non è una scienza
suprema. A differenza di quest’ultima, infine, la s. non concerne ciò che è utile; tale concetto si ritrova anche nella
Metafisica (I, 981 b, 13-20), dove della s. si ricorda l’attinenza con le «prime cause e i principi» (981 b, 28), profilando
la sua coincidenza con la «filosofia prima».
Nella filosofia ellenistica che riporta l’uomo e la sua felicità al centro dell’interesse del filosofo, la s. tornerà a
essere il sapere che attiene il bene e che spinge ad agire per il bene, conseguendo la felicità. Questi tratti si ritrovano in
Cicerone, che nel De officiis (i, 43, 153) la distingue esplicitamente dalla saggezza:
«Princeps omnium virtutum est illa sapientia, quam Graeci σοφίαν vocant. Prudentiam etiam, quam Graeci φρόνησιν,
aliam quamdam intelligimus: quae est rerum expetendarum fugiendarumque scientia» Poi, quella sapienza, signora di
tutte le virtù, che i Greci chiamano sofia da non confondersi con la prudenza, che i Greci chiamano fronesis e che io
definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare o fuggire;
«[sapientia] si maxima est, ut est, certe necesse est, quod a communitate ducatur officium, id esse maximum. Etenim
cognitio contemplatioque manca quodam modo atque inchoata sit, si nulla actio rerum consequatur» (ibid.). quella
sapienza, dunque, che ho chiamato signora, altro non è che la scienza delle cose divine e umane e in sé
comprende gli scambievoli rapporti tra gli dèi e gli uomini e le relazioni degli uomini tra di loro alla vita
dell’uomo, pena l’inutilità del sapere stesso
126



Nelle filosofie fortemente connotate in senso religioso dell’età alessandrina e oltre, invece, si
sottolinea il carattere ‘divino’ della s. e si afferma quindi la tendenza a ‘ipostatizzarla’, facendone una
sorta di medio tra l’essere supremo e il mondo sensibile, come accade, per es., in Filone di
Alessandria, che la identifica con il Logos divino (Legum Allegoriae, I, 65).
In Plotino essa rivela anche un’intrinseca potenza creatrice, grazie alla quale è all’origine di tutte le
cose e coincide con la natura dell’essere (Enneadi, V, 8, 4-5).
Nello gnosticismo Sapienza è una ipostatizzata potenza mondana inferiore a Dio; nella corrente
valentiniana, essa – presumendo audacemente di conoscere da vicino il Padre, oppure tentando di
spezzare la legge che regola la gerarchia del Pleroma divino e generare da sola – determina al tempo
stesso la propria caduta e l’origine del mondo materiale.
Filieri Andrea
88
Cicerone (seguendo Panezio) non ripropone però il rigore etico e morale della Stoa, né
quello inarrivabile di Zenone. Per altro verso, Cicerone si trova ad ereditare le ricerche di Antioco,
che si muove in una direzione dogmatica contro lo scetticismo assoluto. Egli riporta il pensiero di
Platone verso una ricerca della verità contro il parere dei sensi.
Ecco che allora, dinanzi a Cicerone si profila una linea del pensiero o piuttosto della vita che
deve conciliare PLATONISMO, ARISTOTELISMO, STOICISMO. Egli riformula allora la sua
concezione filosofica secondo quanto espresso nelle Tuscolane: “pensi pure ciscuno ciò che vuole,
vi deve essere libertà di giudizio: noi ci atteremo sempre ai nostri principi: ricercheremo sempre
in ogni questione quello che quello che abbia ma ggior carattere di probabilità. Senza essere
vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità. (Tuscolane disputationes,
IV, 4).
Si tratta, in buona sostanza, di adottare un metodo argomentativo – pro et contra – un
confronto tra diversi punti di vista e libera scelta fra questi.127Non si tratta però, in Cicerone, di
aderire ad uno scetticismo assoluto che non reca nulla con sé: “Io non sono uno di quelli, il cui
animo vaga nell’incertezza e non segue principi costanti. Che mai ne sarebbe del pensiero e
della vita stessa se togliessimo non solo di ragionare ma anche di vivere?” (De Officis, II,/)
Il probabilismo è dunque l’attegiamento di pensiero più accettabile in quanto evita il
fanatismo e lo scetticismo più assoluto:evita sia il dogmatismo più assoluto che lo scetticismo più
marcato senza per questo precludere all’azione. Cicerone fu quindi figura complessa, che teorizzò e
cercò di realizzare un ideale di humanitas: l'ideale cioè di un uomo di cultura capace di coniugare
sapienza teorica ed esperienza pratica, impegno di studio e attività politica.
Le opere filosofiche documentano quindi lo sforzo di divulgare a Roma la filosofia greca, la cui
conoscenza Cicerone riteneva importante per la formazione della classe dirigente romana. Fu un
eclettico, cercò, cioè, di conciliare filosofie diverse: polemizzò con l'epicureismo, che predicava il
disimpegno politico e sociale, e fu invece vicino alle posizioni dello stoicismo, che tendeva a
valorizzare le virtù civiche. Tra le opere filosofiche ricordiamo Le dispute accademiche, Il sommo
bene e il sommo male, Le tusculane (cioè le discussioni di Tuscolo, così chiamate dalla villa di
Tuscolo dove si immaginano tenute), Sulla natura degli dei, Dei doveri, La vecchiaia, L'amicizia128.


127
128
Nella scolastica medievale sembra riaffermarsi la posizione aristotelica rinnovata dalle riflessioni di
Tommaso d’Aquino, il quale, se da una parte riprende la nozione della s. come virtù speculativa
somma derivata dallo Stagirita, dall’altra introduce la nozione di s. come dono di Dio, sapere che
l’uomo riceve attraverso la grazia e gli permette di accedere alle verità che altrimenti accetta per fede
(Summa theologiae, Ia IIae, q. 68, a. 4-5).
Nel pensiero moderno il termine conserva il significato di conoscenza piena e perfetta affermatosi già
nell’aristotelismo. Cr. Treccani.
Ibidem.
Treccani
Filieri Andrea
89
Morale ed etica del dovere
“Questa è la
verità, o Ateniesi:
ovunque un uomo si
sia posto, giudicando questo
il suo meglio, o dovunque
sia posto da colui che lo
comanda, ivi egli deve
restare, qualunque sia il
pericolo da affrontare, non
tenendo in alcun conto nè la
morte, nè altro in confronto
della vergogna” Platone,
Apologia di Socrate
In ordine poi all’aspetto morale, che qui ci interessa più da vicino, Cicerone, nel De Officiis,
ispirandosi al Perì tou kathèkonthos di Panezio, parla del vir bouns romano: si tratta della antica
concezione della virtus romana unita alla humanitas (ideale civile). Cicerone tratta nello specifico
dell’honestum e del decorum: ciò che moralmente è buono e bello (il kalòn greco) o meglio di
ciò che è buono, bello e conveniente. Egli è grande d’animo, ma non ostenta onore e potenza e si
rapporta con i suoi simili con mitezza ed equità; è il saggio capace di operare con mitezza, misura
e signorilità nella città.
Vediamo: “Nessuna azione della nostra vita, si tratti di atti pubblici a privati, forensi a
domestici, di rapporti con noi stessi a con altri, è esente dal dovere; anzi nell'osservanza e nella
trascuratezza di questo si pone tutta 1'onorevolezza a la infamia della vita” (…)“Anzi, come
nell'adempimento del dovere consiste tutta l'onestà della vita, cosi nell'inosservanza, di che ardisca
chiamarsi filosofo, senza dare alcun precetto d'ordine morale? Ma ci sono alcune scuole che, con
la loro definizione del sommo bene e del sommo male, sovvertono ogni moralità. Chi definisce il
sommo bene come affatto disgiunto dalla virtù, e lo misura non col criterio dell'onestà, ma con
quello del proprio vantaggio, costui, se vuol esser coerente a se stesso, e non è vinto talora dalla
bontà della propria indole, non potrà coltivare né l'amicizia, né la giustizia, né la liberalità: certo
non può essere in alcun modo forte, giudicando sommo male il dolore, né temperante, ponendo
come sommo bene il piacere.” (…) “Bellissima, dunque, quella sentenza di Platone: «Non solo
quel sapere, che è disgiunto da giustizia, va chiamato furfanteria piuttosto che sapienza, ma anche
il coraggio che affronta i pericoli, se è mosso non dal bene comune, ma da un suo proprio
interesse, abbia il nome di audacia piuttosto che di fortezza». Noi vogliamo pertanto che gli uomini
forti e coraggiosi siano, nel medesimo tempo, buoni e schietti, amanti della verità e alieni da ogni
impostura: qualità queste che scaturiscono dall'intima essenza della giustizia.” (…) Forti e
magnanimi, adunque, si devono stimare non quelli che fanno, ma quelli che respingono
l'ingiustizia. E la vera e sapiente grandezza d'animo giudica che quell'onestà, a cui tende sopra
tutto la natura umana, sia riposta non nella rinomanza, bensì nelle azioni, e perciò non tanto vuol
parere quanto essere superiore agli altri. In verità, chi dipende dal capriccio d'una folla ignorante,
non deve annoverarsi fra gli uomini grandi. D'altra parte, l'animo umano, quanto più è elevato,
tanto più facilmente è spinto a commettere azioni ingiuste dal desiderio della gloria; ma questo è
Filieri Andrea
90
un terreno assai sdrucciolevole, perché è difficile trovare uno che, dopo aver sostenuto fatiche e
affrontato pencoli, non desideri, come ricompensa delle sue imprese, la gloria. La fortezza e la
magnanimità si manifestano soprattutto in due cose:
 nel disprezzo dei beni terreni, persuaso che uno sia che 1'uomo non deve ammirare o
ricercare nulla che non sia l'onesto e il decoro
 ma che non deve lasciarsi vincere dalle passioni a dalla fortuna. (…)
Invero, il far sapiente uso della ragione e della parola, il meditare ogni azione, e in ogni cosa
cercare e osservare la verità, e ad essa attenersi, è decoroso, mentre al contrario l'ingannarsi e
l'errare, il cadere in fallo e il lasciarsi gabbare è altrettanto indecoroso quanto l'uscir di strada e
l'essere fuor di senno; e così ogni azione giusta è decorosa, e ogni azione ingiusta, com'è disonesta,
così è anche indecorosa. Allo stesso modo si comporta la fortezza: tutte le azioni generose e
magnanime appaiono degne dell'uomo e informate al decoro; le azioni contrarie, invece, come
sono disoneste, così offendono il decoro. Quindi questo decoro riguarda tutte le parti dell'onestà e
le riguarda in modo che non si vede solo per via di ragionamenti reconditi, ma balza agli occhi. Vi
è un qualche cosa di decoroso the si presuppone in ogni virtù; ma questo può essere separato dalla
virtù più in teoria the in pratica. Allo stesso modo che la grazia a la bellezza del corpo non possono
essere disgiunte dalla buona salute, così il decoro è strettamente congiunto con la virtù, ma può
esserne disgiunto solo per astrazione a teoricamente. Ora, il decoro è di due specie, giacché per
decoro intendiamo tanto un carattere generale che risiede in tutto l'onesto, quanto un carattere
particolare, a quello subordinato, che appartiene alle singole parti dell'onesto. Del primo si suol
dare pressappoco questa definizione:
 «E' decoro ciò che è conforme all'eccellenza dell'uomo, in quanto la sua natura differisce da
quella degli altri esseri viventi»;
 la parte speciale, invece, è definita così: «Decoro è ciò che è conforme alla particolare
natura di ciascuno, sempre che in esso appaia moderazione e temperanza con un certo
aspetto di nobiltà».
“Ora la prima strada che si presenta al dovere derivante dal decoro, è quella che conduce a
una piena e stabile armonia con le leggi della natura: poiché, se prenderemo la natura per guida,
noi non ci partiremo mai dalla retta via, e conseguiremo quelle tre virtù che abbiamo già
esaminate:
 la naturale perspicacia ed acutezza della mente,
 una condotta adeguata alla convivenza civile,
 la forza ed il vigore del carattere.
Ma la maggior forza del decoro risiede in questa parte della quale ragioniamo, cioè nella
temperanza. Perché, se sono da lodare i movimenti del corpo, quando sono conformi a natura,
tanto più sono da lodare quelli dell'animo, quando egualmente si accordano con la natura.”
De Officiis, Cicerone.
In merito poi alla tematica delle passioni: “Est efficiendum autem, ut appetitus oboediant
rationi et neque praecurrant, eam propter temeritatem nec deserant propter pigritiam aut
ignaviam sintque tranquilli atque careant omni perturbatione animi;” Bisogna fare in modo poi
che gli appetiti obbediscano alla ragione e nè precorrano essa per temerità né abbandonino per
Filieri Andrea
91
pigrizia o per dappocaggine e sieno tranquilli e sieno esenti da ogni turbamento dell’animo. Cfr.
De officiis, Libro primo, Dante Alighieri, Roma 1981.
La filosofia Cristiana
nasce con :
L’avvento e la diffusione
della religione cristiana
L’esigenza della Chiesa delle
origini di far comprendere il
significato della Rivelazione
Gli elementi di novità del messaggio
cristiano sono
universalità
Filieri Andrea
L’invito a
rinunciare
ai legami
terreni
L’annuncio del
regno di Dio come
realtà spirituale
92
La legge
dell’amore
L’immgine
di Dio come
Padre
autorevole
I primi scritti filosofici
cristiani sono :
Le lettere
di Paolo
Il
Vangelo
di
Giovanni
Che diventano punti di
riferimento per
l’interpretazione del
messagio cristiano
Che costituisce un
tentativo di intendere in
modo filosofico la figura di
Cristo
Il quale è presentato
come Lògos divino
Il quale è presentato
come il figlio di Dio
e salvatore
La Patristica è il periodo di
elaborazione dottrinale del
Cristianesimo e si divide in
Sino al 200: difesa del
cristianesimo contro i
pagani
Filieri Andrea
Dal 200 al 450 circa :
formulazione dottrinale delle
credenze cristiane
93
Dal 450 al 735
rielaborazione
delle dottrine
A questo punto:
Problemi di
partenza
Qual è la
natura
dell’uomo?
Qual è il
destino
dll’anima
dopo la
morte
Come deve
essere
pensata la
divinità
Come si
spiega
l’esistenza
del male?
Potrà mai
la scienza
spiegare la
totalità dei
fenomeni
I nuovi
problemi
Come si
configura il
rapporto tra
fede e
reagione?
Filieri Andrea
Come di
devono
interpretar
e le sacre
scritture
Con quali mezzi
l’uomo può
avvicinarsi a
Dio
94
Come deve
vivere un
credente
In che modo è
possibile
conquistare la
salvezza
etena?
Eredita da:
lascia in eredità
Socrate e Platone:dialogo come modalità Agostino trasforma il dialogo interpresonale
di ricerca filosofica
socratico\platonico in dialogo interiore
condotto con Dio. L’introspezione è la
chiave d’accesso per trovare Dio il quale si
rivela nell’animo umano.
Scettici: l’invito a sottoporre al dubbio Del dubbio scettico Agostino fa il punto di
qualunque conoscenza
partenza della sua speculazione, ma lo
supera
individuando
una
certezza
indubitabile proprio nella consapevolezza di
esistere in quanto soggetto che dubita
Platone: l’idea che conscre sia ricordare
Agostino è convinto che conoscere
significhi trarre la verità dal profondo della
propria anima, la quale però può
riconoscerla grazie all’illuminazione divina
Socrate: l’idea che i maestri non Agostino condivide l’idea che i maestri in
trasmettano conoscenze masi limitano a realtà non insegnino nulla, poiché ad
favorire la ricerca dell’allievo
insegnare davvero è solo Dio. Maestro
interiore di chiunque si lasci illuminare dalla
sua luce.
Plotino: l’idea della non sostanzialità del Convinto che tutto ciò che esiste sia un
male
bene, in quanto creato da Dio, Agostino
identifica il male in una privazione di bene
Stoici: Idea di un ordine provvidenziale del La nozione di un ordine razionale del
cosmo
mondo si traduce in A. nella nozione
cristiana di provvidenza intesa come
disegno salvifico dell’umanità
Filone d’Alessandria:l’idea che il mondo sia Concetto cristiano di creazione dal nulla
stato creato da Dio dal nulla
Filieri Andrea
95
Il messaggio cristiano
Dopo la predicazione di Cristo in Palestina, l’area di diffusione del Cristianesimo fu
l’impero romano, in particolare la sua parte orientale. Da Oriente, provenivano San Marco e San
Paolo. Ma la diffusione della Parola di Dio si estese ben presto alla penisola italica e all’Africa
settentrionale, dove nasce Agostino. Tuttavia è Roma a costituire il maggior centro della Cristianità
in Occidente. Città su cui si riverbera il messaggio cristiano non solo nelle classi meno agiate, ma
nache in quelle elevate. Inizialmente il messagio cristiano viene visto con sospetto: in riferimento
al modello di povertà e pace proclamato. Iniziano così le prime accuse contro i cristiani e le loro
pratiche (I sec. d.c.: accusa di Nerone per l’incendio di Roma; Domiziano contro il monotesimo
cristiano avverso alla tradizione pagana). Solo nel 313 l’editto di Milano – Costantino- consente
di professare liberamente la religione cristiana chiudendo così, de facto, l’epoca delle persecuzioni.
Con Teodosio I, il Cristianesimo diverrà poi religione di stato. Si apre così l’era degli imperatori
cristiani: la Chiesa rafforza così il suo potere. In un impero quale quello romano oramai in crisi ed
in difficoltà, la nuova religione offre al singolo una via di salvezza e di solidità. Mentre il mondo
antico si dissolve, si apre una nuova visione della vita che caratterizzerà il nuovo medioevo
cristiano129.
In particolare, in via riassuntiva possiamo affermare che se l’ideale greco della virtù
coincideva con la contemplazione della verità, diversamente per il Cristianesimo la virtù dell’uomo
coincide con la fede. Fede accompagnata dalle operre cristiane e dalla carità. Ora, il sapere greco, la
sophìa, per il Cristianesimo è stoltezza presso Dio (Paolo). E’ l’annuncio di Dio ai credenti che
consente all’uomo la salvezza, non la sophìa greca130.
Quadro sinottico
.
Filosofia
397-401 Agostino, Confessioni
Storia
410 Sacco di Roma: Visigoti
413-427 Agostino, La città di Dio
476 Caduta Impero Romano Occidente
529Giustinianochiude la scuola di Atene
525 Boezio, Consolazione della filosofia
129
130
540 Regola di Benedetto da Norcia;
622Maometto abbandona la Mecca
728: nasce lo Stato Pontificio
732CarloMartello sconfigge gli arabi a Poitiers
800 Carlo Magno è incoronato imperatore
Cfr. Roberta De Monticelli, l’Espresso.
Cfr. E. Severino, cit. pagg 50 e sgg.
Filieri Andrea
96
860 Scoto Eriugena, De Divisione Naturae
1076\77 Anselmo, Monologion e Proslogion
La patristica
Nei primi secoli dopo Cristo la tradizione occidentale vede il delinearsi di una nuova
corrente di pensiero: la Patrisitca dal termine “Padre” ossia fondatori della Chiesa. Le teorie
filosofiche di qusta epoca sono ancora derivanti dalla Grecia classica: il platonismo e lo stoicismo.
Il Cristianesimo vi attinge sia sul piano dei contenuti che del lessico.
Agostino afferma che il platonismo si avvicina al cristianesimo per la concezione dell’anima e per
l’oggettiva conoscenza del Bene: oggetto di conoscenza e supremo principio morale. Inoltre i
platonici mettevano in evidenza l’assoluta trascendenza di Dio sebbene il Cristianesimo si
distaccasse da queste impostazioni per la tematica della Rivelazione e della Fede che conduceva alla
salvezza. Il rapporto con il pensiero greco va quindi lentamente distaccandosi dalle premesse
platonico\stoiche sino a considerare la filosofia una premessa della verità.
Cristianesimo
Subisce influenze dal:
 platonismo;
 gnosticismo
Nasce
all’interno
dell’ebraismo
Condividendone:
Dio\Uno;
teologia negativa;
Filieri Andrea
Si sviluppa con Paolo
di Tarso e la Patristica
A sua volta
influenzato da:
culti misterici;
pitagorismo;
97
Agostino
Agostino, considerato homo religiosus e uomo di pensiero dalla tradizione successiva, nasce
nel 354 a Tagaste in Algeria. Sedotto dai piaceri in giovane età, scopre la filosofia e la letteratura.
In giovane età,nella sua ricerca dell’Assoluto, si lega al manicheismo che predicava l’esistenza di
due principi cosmici - Bene e Male - che reggono l’evolversi del Tutto. Successivamente decide di
dedicarsi totalmente a Dio, battezzato da Ambrogio, e ordinato sacerdote nel 391, poi vescovo di
Ippona sino alla morte.
Vero genio del Cristianesimo Agostino è noto per le Confessioni: il viaggio\percorso di un
anima attraverso il mondo verso Dio. Se vogliamo, l’esistenza concreta è posta da Agostino come
base e fondamento del pensiero di Dio. Come dire che nella propria vita, nella propria interiorità,
l’uomo deve trovare Dio. Anzi, solo nella propria ricerca interiore l’uomo trova Dio: “nosce te
ipsum” afferma socraticamene Agostino nella scoperta di Dio. Ancora: “noli foras ire, in te
ipsum redi” . E questo perchè “ in interiore homine habitat veritas”.
Agostino modifica dunque la nozione greca di conoscenza, di cui il saggio imperturbabile è
l’emblema: nozione quindi impersonale di conoscenza. Agostino è invece turbato nella propria vita
dalla ricerca di Dio: la conoscenza è dunque intesa come viaggio verso Dio e salva l’uomo nella
sua ricerca di Assoluto. In definitiva, l’homo christianus non vuole solamente la salvezza di
qualcosa dal tempo e dalla morte: è l’esistenza concreta che deve trovare salvezza (passioni,
sapere). E ciò che salva, che ci salva, è la Verità: una verità però personale131 che porta alla felicità:
Nulla est homini causa philosophandi, nisi ut beatus sit. In questa finalizzazione della
conoscenza alla felicità, Agostino è senz’altro erede della filosofia ellenistica, come pure
dell’identificazione tra beatitudo e sapientia. Ma la sapientia deve essere conoscenza del vero
bene: l’oggetto d’amore per eccellenza, ossia Dio. Un Bene non solo conosciuto ma goduto e
posseduto ed amato: questa è la felicità.
In effetti, in riferimento ad Aristotele, che parla di un Assoluto conosciuto in maniera
impersonale, conosciuto dalla pura intelligenza distaccata da questo mondo, dalle passioni,
<dall’Amore, Agostino oppone un percorso personale che discute e disputa con Dio stesso. E la
ricerca personale che arriva a Dio è anche una forma di beatitudine, di felicità:
inquietudo (mancanza e desiderio) e beatitudo (pienezza ed appagamento) sono le note
fondamentali delle Confessioni.
131
Cfr. Lezioni di Filosofia, L’Espresso, Roberta De Monticelli
Filieri Andrea
98
Pelagio
350\427: monaco sassone che
ricevendo l’influsso stoico matura
un atteggimento antimanicheo
Agostino
Il peccato originale è
stato annullato dalla
venuta di Cristo
Il peccato originale è
sempre attuale e tutt’ora
operante
Allora in ogni individuo
esiste una predisposizione
al male
Allra ogni individuo può
scegliere tra bene e male
per libero arbitrio
Di conseguenza le opere
buone sono necessarie
ma insufficienti per la
salvezza
Perciò ogni uomo può
salvarsi da solo
compiendo buone
opere
Perciò la salvezza è un
dono che Dio concede
per motivi personali
Filieri Andrea
99
Essere e non essere
Se faccio quello che non voglio,
ammetto che la legge è buona; allora
non sono più io che lo faccio, ma il
peccato che abita in me. Difatti,io so
che in me,vale a dire nella mia carne,
non abita alcun bene, poichè il volere si
trova in me, ma il modo di compiere il
bene no. Perchè il bene che voglio non
lo faccio, ma faccio il male che non
voglio.
Paolo, Romani,7, 17-20.
Agostino viene tradizionalmente considerato colui che ha introdotto il peccato originale
nella Teologia: Agostino legge un passo paolino in una traduzione probabilmente erronea in cui ciò
che Adamo porta nel mondo è il peccato ma, con il peccato, la morte. Morte come eredità del
peccato che si trasmette in forza del peccato stesso. Ecco che allora Agostino può inizare le
Confessioni affermando che ognuno si porta dietro la sua morte, la sua finitudine. Ancora, ognuno
è responsabile della propria morte e lo è in forza della propria scelta, del deliberare in ogni
momento della propria vita: dalle scelte più banali alla scelta suprema tra Dio e Diavolo, tra
Essere e non essere. Tra l’Essere per eccellenza: necessario, atemporale e l’essere contingente,
temporale, finito (finitudine percettiva, temporale), transeunte, dipendente (mancanza d’essere).
In buona sostanza, la scelta dell’uomo risulta essere allora tra Dio ed il Nulla. Nulla verso
cui l’uomo, in quanto creato da Dio, tende inevitabilmente.
Ora, nella scelta dell’uomo verso Dio gioca un concetto essenziale per Agostino: la volontà.
Voluntas per Agostino, a differenza del mondo greco132, è quella sequenza sempre
rinnovata del filo dei giorni: l’intentio profunda di una vita. Il singolo quindi è sempre in gioco,
in quanto responsabile, del proprio essere secondo la voluntas che lo individua come singolo nel
mondo. E’ questo un tema fondamentale: ciò che ci individua come singoli, non è tanto
l’intelligenza, il sapere, quanto la voluntas che indizza il nostro esistere. Voluntas dettata da
Amor per Agostino, non verso la concupiscentia carnis, verso la curiositas (avidità di sapere) o
verso sè stessi (amor inordinatus, di tipo demoniaco) ma Amor ordinatus verso l’Altissimo che
orienta la creatura in direzione ascensionale come persona. Persona non solo collocata tra i savi o
dannati ma persona come scintilla di Dio, specchio dell’Universo .
La volontà allora è quella forza che interviene determinatamente nella conoscenza: per
conoscere alcunchè occorre volerLo. E si vuole ciò che si ama.133Si cerca per trovare l’Amato.
“pondus meum amor meus: eo feror quocunque feror” – il mio peso è il mio amore. DA LUI SON
MOSSO dovunque io muova .
La volontà è dunque principio di individuazione della persona, come desiderio universale di
felicità che ha come oggetto la beatitudo: ma sinchè la volontà non si decide alla conversione è
destinata all’inquietudo. In una battuta : la volontà tende alla conoscenza dell’oggetto d’amore,
che però può incorrere nell’errore, ossia nell’inquietudine, o nella verità ossia nella beatitudine.
132
133
Vediamo:
Il Testo Filosofico, Cioffi, Luppi, Mondadori 2000.
Filieri Andrea
100
Tempo
Nel mondo greco la concezione del tempo era ciclica: vi è dunque una ragione intrinseca per
cui tutto accade, così come ad una stagione succede un’altra. Viceversa, nel Cristianesimo, la
tematica delle Creazione e dell’Apocalisse produce un’altra visione: il tempo lineare, rettilineo e
progressivo. Questa idea suggerisce la progressione irrevocabile delle epoche storiche, così come
quella di progresso, una idea questa fondamentale in tutta la cultura occidentale.
Per Agostino, Dio prima della creazione, preparava un bastone per coloro che
avessero posto la domanda sull’origine del Tempo: il tempo infatti inerisce la creatura, non c’è
precisamente nell’eterno. Il modo d’essere dell’Assoluto non è il tempo. Dunque tra tempo ed
eternità quale rapporto sussiste? Agostino ha presente Platone quando il filosofo cita il tempo come
immagine mobile dell’eternità. Platone aveva probabilmete in mente il moto ciclico delle stelle che
sempre ritorna, potremmo dire partecipando dell’eterno. Ora, con Agostino, con la cristianità ed il
mondo biblico, il tempo ciclico si sfalda a a favore di un tempo storico: - il mondo fu creato per
essere un inizio.
Per altro verso l’eternità per Agostino134 non è un tempo senza fine bensì il presente di Dio.
L’oggi di Dio non scorre è presente eterno: Interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio
ossia il possesso simultaneo pieno di una vita interminabile che non passa e sfugge.
Il tempo vissuto è invece quello dell’esistenza umana: vive nell’incompiutezza e nel
rimpianto e nella preoccupazione del futuro fuggendo il presente. Qui c’è l’idea dell’aderire al qui
ed ora come ascesi: la resurrezione infatti non è prima\\dopo il tempo. Si tratta di nuovo quindi di
scegliere tra l’essere ed il non essere. Come Amleto nel suo monologo, noi siamo responsabili della
nostra morte in quanto scelta verso l’Assoluto
Con la caduta dell’Impero romano d’occidente, si apre lo spazio per la formazione dei
regni romano barbarici, nei quali si assite ad una compresenza di continuità e rottura tra istituzioni e
cultura –filosofica\religiosa.
Boezio, romano e cristiano nel regno gotico di Teodorico, è nel IV secolo
Anselmo, Padre della Chiesa Latina, compie senz’altro una operazione quasi unica nel suo
genere : la fusione\intersezione tra Filosofia ed Teologia: Fides quaerens intellectum.
La dimostrazione del’esistenza di Dio prodotta da Anselmo d’Aosta - 354 d.c. - nel
“Proslogion” - unum argumentum - è comunemente conosciuta come argomento ontologico. Essa
consiste in una prima parte in cui, riferendosi all’idea di Dio, si sostiene che non sia possibile
pensare nulla di più grande. Una volta ideata, pensata tale Idea, intuitivamente, l’esistenza di Dio si
mostra da sè come qualcosa che non possa essere negata vista la grandezza di Dio.
Ora, ad Anselmo, questo non basta135 scendendo su un piano dimostrativo e confutativo piuttosto
che intuitivo. L’obiezione evidente risulta essere quella che attribuisce ad una Idea, qualsiasi essa
134
135
Roberta De Monticelli, Citato.
Lucio Cortella, Storia della Metafisica, Cafoscarina 2015
Filieri Andrea
101
sia, la sua natura: la soggettività. Per cui, proprio in virtù della natura di Idea, non è possibile
pretendere che un’idea si riferisca necessariamente ad un reale esistente.
Vediamo: dal punto di vista confutativo, “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”
non esiste nel solo intelletto, ché, se così fosse, si potrebbe pensare qualcosa di ancora più grande.
Qualcosa che esiste sia nell’intelletto che nella realtà. Per cui, colui che nega l’esistenza di Dio, in
realtà non pensa a Dio come nulla di cui si possa pensare qualcosa di maggiore: il suo sarebbe un
concetto falso ed autocontraddittorio (PROSLOGION, capitoli II,III,IV).
Prova ontologica
di Anselmo XI
secolo (capitoli IIIV) del Proslogion
Obiezione di
Gaunilone
Risposta
di
Anselmo
Filieri Andrea
Chi pensa Dio
pensa ciò di cui
non si può
pensare nulla di
maggiore
Un simile essere deve
esistere, chè altrimneti
sarebbe inferiore ad
esseri imperfetti che
del resto esistono
L’attributo dell’esistenza
tramite il pensiero non
implica la condizione della
sua esistenza
Dio non è perfetto solo
nel suo genere ma è ciò
di cui non si può
pensare nulla di
maggiore
Quindi un
simile essere
deve esistere
anche fuori
dalla mente di
chi lo pensa
Pensare un’isola
perfetta nn ne implica
l’esistenza
Quindi il pensiero di un
tale essere ne implca
necessariamente
l’esistenza
102
Anima\corpo
Destino dell’anima
cos’è il tempo psicologico?
Esiste una dimensione
temporale dell’universo?
La materia può nascere e
perire?
Come si può concepire la
divinità?
Cos’è un uomo?
La materia è male?
L’uomo può salvarsi con le
proprie forze?
Qual è l’origine del male?
Filieri Andrea
Aristotele
L’uomo è sinolo di corpo
(materia) ed anima (forma)
cotituendo un tutto inscindibile
In quanto forma del corpo,
l’anima è destinata a
dissolversi alla morte di questo
Agostino
L’anima possiede coscienza di
se stessa ed è capace di agire
autonomamente dal corpo
Il fatto che l’anma riesca ad
intuire le verità immutabili ed
eterne dimostra la sua
immortalità
E la misura del movimento:
Il tempo è una dimensione
ossia uno dei modi con cui
dell’anima: memoria degli
l’uomo interpreta il divenire
eventi passati ed aspettativa di
dei processi naturali
quelli futuri
Il mondo esiste da sempre e
Il mondo è nato con la
sempre esisterà . E’ eterno
creazione di Dio e cesserà
nonostante il perenne divenire
d’esistere , almeno in questa
delle sue parti
forma, alla fine dei tempi
No, nascono e periscono i
Tutta la materia che compone
composti (enti ed individui) ma l’universo è stata creata dal
la materia che li compone è
nulla da Dio, quindi prima
eterna
della creazione
l’uomo può concepire la
Dio è a tutti gli effetti una
divinità solo come una nozione persona, essendo dotato di
filosofica paradossale, come
volontà, di una capacità di
Motore immobile
agire ed amare
Platone
Agostino
la vera natura dell’uomo
anche il corpo è stato reato da
consiste solo nella sua
Dio, quindi partecipa della
spiritualità, mentre il corpo
bontà del creato, Anima e
rappresenta un elemento
corpo, sebbene distinti tra loro,
estraneo, è come un carcere dal sono incredibilmente uniti
quale l’anima desidera evadere nell’uomo
sì, esa non partecipa delle vera No, la materia non va
realtà e quindi del Bene. Non
considerata negativamente,
ha esistenza propria, come il
perché anch’essa è stata creta
buio.
da Dio
sì, egli può intraprendere un
No, per la sua natura corrotta
cammino di ritorno all’Uno
dal peccato originale l’uomo
raggiungendo con le proprie
non può salvarsi senza essere
forze livelli sempre maggiori di aiutato in modo determinante
spiritualità
dalla grazia divina
Cultura greca
Agostino
Il male non ha una vera natura La creazione divina del mondo
autonoma: consiste sempre in
è perfetta quindi il male non
un errore della ragione che
esiste. Ciò che può apparire
scambia ciò che è vantaggioso tale è frutto solo dell’umana
con ciò che non lo è
ignoranza , della nostra
incapacità di cspire ls logica
della Provvidenza
103
Manicheismo
Il male esiste ed è potente
quanto il bene. E’ stato creato
da un dio malvagio che si
oppone ad un dio buono.
L’uomo è campo di battagli tra
questi dèi opposti
Fides
Credo quia absurdum
Tertulliano (De carne Christi)
Il tema della Fede religiosa è stato efficacemente riassunto da S.Paolo con le celebri parole :
“Fede è sostanza delle cose sperate ed argomento delle non parventi”.
Nella frase citata compare il termine argomento: con tale termine, secondo S. Tommaso, si
intende distinguere la fede dall’opinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle quali cose manca la
ferma adesione dell’intelletto al suo oggetto (ossia in quanto l’oggetto pensato dall’intelletto è
messo in dubbio nella sua esistenza, validità, veridicità). In effetti:




l’opinione non include normalmente il il proprio valore di validità e verità, ED IN QUESTO SENSO
SI OPPONE ALLA ENUNCIAZIONE DI CARATTERE SCIENTIFICO (scientificità che assumerà
un aspetto autonomo con Galileo)
S Tommaso diceva infatti che l’opinione: “ è l’atto che si porta su una parte della contraddizione
con la paura dell’altra”.
In ordine poi al dubbio, sempre Tommaso, lo ritiene privo di informazione o comunque in relazione
ad una scarsa conoscenza.
Il sospetto poi, è tema di ordine psicologico, più un atteggiamento che un fatto di ordine linguistico o
semantico, per cui non attinente in questo senso.
Si diceva “argomento delle cose non parventi” in quanto l’oggetto di studio della scienza è
manifesto e parvente ossia chiaro e determinato.
Per quanto concerne poi il rapporto tra fede e ragione, l’impostazione prevalente nel
Medioevo è quella di Agostino136, centrata sulla circolarità137 tra il credere e il comprendere. Anche



136"Fides
quaerit, intellectus inventi", la fede cerca, l'intelletto trova;
"Praecedis fides, sequitur intellectus", la fede precede, ma alla fine segue l'intelletto;
"Craedendo cogiti, et cogitando credi", nsi credendo e credendo pensi.
137credo
ut intelligam Espressione lat. («credo per [poter] comprendere») ripresa dal Proslogion di Anselmo, e invocata per
affermare la priorità della fede sulla ragione anche nei processi conoscitivi; nel contesto anselmiano comporta una concezione del
conoscere come ‘intelligenza della fede’, e dell’intelletto come guidato da quella stessa verità eterna che si manifesta nella
rivelazione.
Del resto, lo stesso Anselmo afferma: “Neque enin quaero intellegere ut credam, sed credo ut intellegam” ossia non cerco di
ccapire per credere ma credo per capire. Anche nella versione dei Settanta, in Isaia, era del resto affermato “ se non credete non
Filieri Andrea
104
se la ricerca intellettuale risulta in questo caso intrinseca alla f. (fides quaerit, intellectus invenit),
essa resta però sempre aperta nello sforzo di intelligere le profondità della f. stessa.
Tocca allora ad Anselmo d’Aosta ritrovare il senso di una indagine teologica guidata
dalla ratio dialettica, ma sempre a partire dalla f.: la ricerca di Dio è compito dell’intelligenza (fides
quaerens intellectum). La ragione ha però cominciato a ricavarsi, all’interno della f., una sua
specifica autonomia. La scolastica prosegue sulla stessa linea, accentuando l’autonomia delle
scienze con la riscoperta del pensiero aristotelico: da una impostazione in cui le diverse forme di
conoscenza erano considerate anche come modalità attraverso le quali l’intelligenza risale a Dio,
ora le scienze assumono valore in sé stesse. Il punto di equilibrio è raggiunto da Tommaso
d’Aquino: la distinzione dei principi della conoscenza in naturali e rivelati non ne inficia infatti
l’unità, poiché anche i naturali derivano da Dio, dunque non può esserci contrasto tra la conoscenza
naturale e quella rivelata. La filosofia, ancora intesa come strumento per la sacra doctrina, si evolve
verso una nuova sintesi che si svilupperà nel tomismo. Parallelamente però, alla fine del 13° sec.,
alcuni filosofi della facoltà delle arti, come Sigieri di Brabante, riprendendo Averroè affermano la
necessità delle conclusioni filosofiche, anche se contrarie alla fede. Si avvia così quel percorso di
separazione tra f. e ragione che caratterizzerà l’epoca moderna.
Quanto poi al tema della verità, connesso al tema dele fede, possiamo affermare che esso è
determinante sia per il mondo greco che per quanto si afferma nei Vangeli: dove forse più che di
verità si parla di testimonianza della verità ossia la testimoninanzadi Dio fattosi Uomo che con il
suo, diremmo oggi, comportamento offre supporto alla Parola di Dio enunciata nella Bibbia. Certo
non è una verità di ragione, non è una verità pagana, che si fonda su una epistème, ossia su una
scienza incontrovertibile che letteralmente “sta e resta vera sopra“ la mole delle semplici credenze,
bensì una verità di fede: la fede in un Dio Padre che attraverso Cristo può salvare l’uomo. D’altro
canto Gesù non è un filosofo, non a rgomenta in modo incontrovertibile ma offre attraverso la sua
Parola la possibilità della salvezza: una salvezza non dimostrabile razionalmente.
Filosofia e Fede
Per la filosofia greca, la conquista suprema nella sua vita terrena è la contemplazione della verità;
per il cristianesimo invece, in terra, la conquista suprema è la fede, accompagnata dalle opere e
dalla carità. Nella fede, l’uomo di fede, crede in qualcosa che non si mostra nell’episteme, nella
sophìa, che secondo l’apostolo Paolo esprime solo la sapienza dell’uomo. Dio infatti, per i credenti,
è annunciato , detto , non compreso dalla sapienza greca. Semmai, le categorie ontologiche del
pensiero greco (Logos, Essere, Niente) saranno utilizzate per fornire al concetto di Creazione
(Vangelo di Giovanni) ciò di cui ancora mancava nel Vecchio Testamento: il Logos è Dio ed è ciò
per cui esiste ogni cosa.
Libertà
Sebbene i Greci non ignorano il concetto di libertà, all’interno della cultura cristiana, da Agostino a
Tommaso, la creazione libera del mondo è un tema dominante: la creazione del mondo da parte di
Dio non è infatti necessaria come in Plotino, è, lo ripetiamo libera, chè, se così non fosse, Dio
sarebbe unito al divenire del mondo, ma ciò non sarebbe possibile. L’immutabile non può essere
unito al divenire del mondo.
potetete nemmeno capire”. Anche S. Agostino : “Credimus enim ut cognoscamus non cognoscimus ut credamus” ossia crediamo
per conoscere non conosciamo per credere.
Filieri Andrea
105
Tommaso (XIII sec.)
muove dalla definizione di
“ente” che può essere
Reale ossia ciò che
esiste nella realtà
Il quale è
composto di:
- Esistenza
ossia l’atto
d’essere
Il quale è composto di: essenza: la sua natura o forma ossia ciò
che è espresso nella sua
definizione
Filieri Andrea
106
Logico ossia ciò che
virene espresso in una
proposizione
affermativa
Tommaso d'Aquino
L’oggeto dell’intellleto è più semplice e più assoluto
dell’oggetto della volontà, infatti è la ragione stessa del
bene appetibile.138
Possiamo affermare che l'aristotelismo costituisce il punto di partenza del pensiero di
Tommaso. Da questo punto di vista è fondamentale l'accoglimento della metafisica di Aristotele
con la sua concezione139:
1. dell'essere;
2. la dottrina della causalità;
3. la distinzione tra potenza e atto;
4. sostanza e accidente;
La composizione di atto e potenza è propria di tutti gli esseri finiti, anche delle nature
puramente spirituali. La potenza, ossia l'essere della possibilità, non rappresenta una mera
possibilità logica nel senso di una mancanza di contraddizione intrinseca, bensì alcunché di reale
nel senso d'un essere incompleto, che può diventare un determinato ente, pur non essendo ancora
tale. Ciò che è in potenza, non si può realizzare da sé stesso ma presuppone un essere in atto dalla
cui causalità viene attuato.140
Su questa dottrina di atto e di potenza si basa anche la concezione di T. della reale
distinzione fra essenza ed esistenza141 nelle cose create e finite.142
138
Objectum enim intellectus est simplicius et magis absolutum quam objectum voluntatis, nam est ratio boni
appetibilis. Tommaso. Da qui il principio che quanto più una cosa è semplice ed astratta, tanto più è per sè nobile.
139
Treccani, vol X ed on line.
140
Ibidem.
141
essenza La realtà propria e immutabile delle cose, intesa soprattutto come la forma generale, l’universale natura delle
singole cose appartenenti allo stesso genere o specie.
Da Aristotele alla tarda antichità: nella Metafisica Aristotele, trattando la questione generale della determinazione di cosa sia la
sostanza , indica, in relazione a essa, l’e. come «τὸ τί ἦν εἶναι» (VII, 3, 1028 b 34), espressione traducibile con «che cos’era essere» e
che i latini renderanno con la formula «quod quid erat esse». E. è ciò che la cosa è considerata «per sé» (καϑ᾿ αὑτό), al modo in cui
Filieri Andrea
107
per definire, rispetto a un uomo concreto, l’e. dell’uomo, non si può rispondere è musico o è bianco, poiché tali determinazioni sono
‘accidentali’.
E. di una cosa è ciò che la definisce al di là dei suoi caratteri peculiari e accidentali (VII, 4, 1029 b 13-18). In tal senso l’e. indica
quel particolare significato di οὐσία (di cui il termine italiano essenza costituisce il calco, ma non rende il significato) che coincide
con la ‘quiddità’, la ‘forma’, ossia ciò che fa sì che una cosa sia quella e non un’altra. La connessione fra e. e definizione
(qualcosa è e. in quanto è possibile definirla) riconduce l’e. ‘primariamente’ alla sostanza e ‘secondariamente’, in modo derivato, alle
altre categorie (1030 a 7-b 3). Nei Topici, trattando la questione del rapporto fra predicabili e categorie, Aristotele afferma che «chi
esprime l’e. talora significa una sostanza, talora una qualità, talora una delle altre categorie» (I, 9, 103 b 28-29). A partire dalla
domanda su ‘cosa sia una cosa’ (τί ἐστι) la definizione può determinare l’e. come quello che essa è in sé (τὸ τί ἐστι) o come
espressione di una delle categorie cui è riconducibile qualcosa. Nella logica proposizionale stoica il problema dello statuto ontologico
degli elementi che concorrono alla definizione non ha luogo, mentre nel medio platonismo l’e. intesa come ‘forma’ viene a
coincidere con l’εἶδος platonico, che ne costituisce l’universale natura, conferendo all’e. realtà oggettiva. Plotino, nelle Enneadi ,
parla dell’e. come ‘perché’ della cosa: «coloro che cercano in tal modo di conoscere l’e. di una cosa ci riescono in pieno. Infatti
ciascuna cosa è in quanto è il suo ‘perché’» (VI, 7, 2). L’Uno genera l’e. intelligibile (e. prima o generale) di cui l’e. sensibile (e.
seconda o particolare) partecipa (VI, 6, 13-18). L’Isagoge e le Sentenze sugli intelligibili di Porfirio potenziano e divulgano nel
successivo pensiero medievale il concetto di e. come prima forma determinata dell’Uno che coincide con la seconda ipostasi, dunque
con le idee e, in tal senso, con l’intelligibile. La nozione di e. considerata come forma (εἶδος) rientra in quella di specie «che si dice
della forma di ogni realtà» (Isagoge 3) e si declina secondo il genere e la differenza.
Il Medioevo. In Agostino il concetto di e. viene esteso a Dio stesso. In Esodo (3, 14) è scritto «ego sum qui sum» (io sono colui che
sono); ciò significa, per Agostino, che Dio è la sola vera e. e che il termine più appropriato per definirlo è: «e., termine giusto
e proprio, al punto che forse solo Dio si deve chiamare essenza. Infatti lui solo ‘è’ veramente, perché è immutabile, e
con questo nome ha designato sé stesso al suo servitore Mosè, quando gli disse: lo sono colui che sono» (De Trinitate, VII, 5). Nel
definire Dio come e. Agostino modifica profondamente tesi platoniche come quelle di Plotino avviando, al tempo stesso, una
riflessione sull’e. che involge anche il problema dell’essenzialità di Dio.
Questo tema sarà ancora al centro del pensiero di Anselmo, che concepisce Dio come somma e. («Ergo summa essentia et summe
esse et summe ens, id est summe existenssive summe subsistens, non dissimilitersibiconvenient, quam lux et lucere et
lucens»; Monologion, 6), di Alessandro di Hales e di Bonaventura. In tale contesto, il problema della definizione dell’essenza si
rapporta direttamente a quello dell’esistenza, come avviene altresì nei dibattiti sviluppatisi a partire dalla distinzione posta da Boezio
fra «esse» (essere) e «id quod est» (ciò che è): «diversum est esse et id quod est» (De Hebdomadibus). Boezio separa il quod est,
soggetto sussistente, e l’esse, ciò in virtù di cui qualcosa è (ossia la forma), per poi distinguere ulteriormente, nell’esse, l’essere
qualcosa in senso assoluto («tantum esse aliquid»), caratterizzazione della sostanza, dall’essere qualcosa in un ente («esse aliquid in
eoquod est») che invece si rapporta all’accidente. Si tratta di un nucleo di problemi che avranno lungo corso nel pensiero medievale e
dal cui insieme origina anche l’antitesi fra e. ed esistenza, centrale, per es., nella formulazione della prova anselmiana dell’esistenza
di Dio del Proslogion. Tommaso d’Aquino, che raccoglie il lungo dibattito sviluppatosi da Aristotele in avanti, avendo presenti gli
apporti delle tradizioni avviate da Boezio, Agostino e Anselmo, come anche tesi ricondotte ad Avicenna, Averroè, Avicebron,
Maimonide, e problematiche legate alla questione del ‘realismo degli universali’, ridefinirà lo statuto dell’essenza in rapporto a
quello dell’ente nel De ente et essentia.
L’essenza è, come l’ente, una delle nozioni prime del nostro intelletto. Essendo l’essenza quel che è espresso nella definizione, essa
è la ‘quiddità’, oppure la ‘forma’, nell’accezione avicenniana di certezza concernente il contenuto oggettivo di ogni cosa, o ancora la
‘natura’, nel senso conferitole da Boezio di «tutto ciò che può essere conosciuto dall’intelletto». L’e. nelle sostanze composte
coincide con il composto stesso, mentre nelle sostanze semplici è costituita dalla forma :
«L’essenza della sostanza composta differisce dunque da quella della sostanza
semplice per il fatto che la prima non è la sola forma, ma comprende la forma e la
materia, mentre l’essenza. della sostanza semplice è soltanto la forma», cap. 4°).
L’e. di Dio è invece l’essere stesso: («Vi è infatti qualcosa, come Dio, la cui e. è il
suo stesso essere», cap. 5°).
Anche gli accidenti, allo stesso modo in cui posseggono una definizione, possiedono un’essenza che risulta dal loro comporsi con
un soggetto; poiché il soggetto cui l’accidente sopravviene è già completo e «può essere pensato senza questo», l’accidente
«possiede un’e. in senso relativo» e non assoluto (cap. 6°). L’e. in senso assoluto non è né universale né particolare; quanto alla sua
esistenza fisica è singolare, mentre in merito alla sua esistenza mentale è universale. Guglielmo di Occam, collocandosi lungo la
tradizione nominalista avviata da Roscellino, nella sua logica (Summa totiuslogicae) risolve il problema dell’e. in modo
profondamente rinnovato, escludendo dall’analisi dei termini che compongono le proposizioni le implicazioni ontologiche (come
avviene nelle teorie ‘realiste’). In una proposizione il predicato non rinvia a un’e., per es. quella di uomo (o a un universale, quello di
‘umanità’); il soggetto come il predicato si connettono a ciò che significano mediante la ‘supposizione’ (suppositio), ossia essi non
‘sono’ qualcosa, ma ‘stanno per’ qualcosa, secondo le regole della logica.
Per altri versi, l’Essere in Tommaso D’Aquino assume una posizione particolare, sebbene sempre di più ontico e statico. Ad
esprimerlo sono i termini subsistere ed exsistere, Nello specifico il termine existentia, riferito all’ente che è e non è nulla, è causato
da Dio. Dio quindi è causa essendi dell’ente, in senso efficiente. Come se si parlasse isomma di due enti, di cui uno causa, in modo
efficiente, l’altro. Non l’Essere e l’ente allora, ma due enti di cui uno è sommo (Dio) e l’altro creato.
142
Treccani.
Filieri Andrea
108
Questa distinzione, già chiara nei primi scritti di T., è sviluppata attraverso la ripresa di un
tema proprio della metafisica di Avicenna, inserito su una concezione del concreto che prende le
mosse da un ripensamento originale di Boezio: le creature sono esseri per partecipazione143 la cui
essenza non coincide con l'esistenza (l'essenza partecipa all'essere per esistere) e questa struttura
composita del concreto ne segna la caratteristica, distinguendo radicalmente le creature dal
creatore, perfezione pura in cui essenza ed esistenza coincidono. A questa dottrina si ricollega
quella dell'analogia dell'essere: l'essere non è un concetto di specie, univoco, bensì analogo e si
estende dai limiti del più tenue esistere partecipato fino a Dio, essere assoluto. La metafisica
aristotelica viene così approfondita e in più punti coerentemente sviluppata: di particolare
importanza da questo punto di vista è la teoria dell'unità della forma sostanziale con cui, eliminando
ogni tipo di dualismo platonico-agostiniano, T. giunge fino all'affermazione che anche nell'uomo
unico è il principio formale per cui egli vive, sente e intende, e questo principio (l'anima) si unisce
immediatamente al corpo come sua forma144, senza intermediarî. È lo sviluppo coerente del
concetto di sinolo145 e la più rigorosa difesa dell'unità sostanziale dell'uomo.).
La metafisica
La metafisica si corona nella dottrina di Dio. L'esistenza di Dio non è dimostrabile a priori (con
l'argomento di s. Anselmo, detto poi ontologico) perché tale argomento comporterebbe un illecito passaggio
dall'ordine del pensiero all'ordine dell'essere. L'esistenza di Dio si dimostra, per T., a posteriori,
attraverso cinque vie:
 la prima via procede dalla considerazione che ogni mosso richiede un motore, e che nella
catena dei mossi si deve giungere a un primo motore immobile perché non si può andare
all'infinito;
 la seconda via procede dalla connessione delle cause efficienti disposte verticalmente: anche
qui si deve arrivare a una prima causa perché è impossibile un processo all'infinito;
 la terza via è dalla distinzione del possibile e del necessario: ciò che è possibile (cioè che
può essere e non essere, che è contingente) presuppone un necessario, e così via via fino a
un necessario assoluto, libero da potenza e che ha in sé la ragione della sua necessità, puro
atto;
Significato metafisico. La p. o metessi ; (dal gr. μέϑεξις) rappresenta – insieme alla parusia e alla mimesis – uno dei
concetti con i quali Platone cerca di risolvere il difficile problema del rapporto tra la realtà delle idee (trascendente,
unica, indivisibile) e quella delle cose (sensibile, molteplice, divisibile). Impiego analogo dell’idea di p. si avrà nella
filosofia cristiana e in quella araba, una volta accolta l’identificazione del platonico mondo delle idee con il νοῦς
neoplatonico e risolto questo nel verbo di Dio: la p. avrà lo scopo di esplicare, in questo caso, il rapporto tra Creatore e
creature. Queste ultime sono in quanto ‘partecipano’ delle idee presenti nella mente divina: il loro è un essere per p., a
143
differenza di quello divino che è un essere per essenza (come dirà Tommaso d’Aquino,
Dio «è» l’essere,
mentre le cose «hanno» l’essere
La posizione di Tommaso d’Aquino è di particolare rilievo per una ripresa del concetto aristotelico di f. nella maniera
più coerente per quanto potevano permettere le implicazioni teologico-religiose. Egli concepisce l’anima come f. del
corpo, che costituisce con questo un tutto inscindibile (la resurrezione dei corpi viene così a completare lo stato
temporaneamente incompleto in cui l’anima vive dopo la morte dell’individuo). Correggendo secondo preoccupazioni
teologiche l’aristotelismo, Tommaso accentua la divisione tra f. spirituale, che può avere un’esistenza indipendente
dalla materia (pur restando sostanza incompleta come l’anima umana dopo la morte), e f. materiale, che esiste solo
in ragione del sinolo
145
sinolo Dal gr. σύνολον, comp. di σύν «con» e ὅλος «tutto»: «tutto insieme». In Aristotele, la sostanza individuale,
cioè l’oggetto concreto composto di materia e di forma
144
Filieri Andrea
109
 la quarta via è dalla gradualità delle perfezioni (bene, buono, ecc.): questa gradualità
presuppone un valore assoluto di cui i varî gradi partecipano;
 la quinta via è dall'ordine e finalità dell'universo che rinvia a un principio di questo ordine e
di questa finalità.
Dio è creatore146 in quanto trae dal nulla tutti gli esseri, formandoli secondo le idee che sono in lui
(esemplarismo platonico-agostiniano da tempo definitivamente acquisito nella teologia cristiana); ma gli
esseri creati, sospesi all'atto della libera volontà147 creatrice (creazione continua), costituiscono un ordine
naturale retto dalle leggi della causalità.
T. respinge decisamente la dottrina di coloro che negano azioni proprie agli esseri naturali togliendo
ogni autonomia alle cause seconde e l'accettazione della dottrina aristotelica lo sorregge nella difesa di un
ordine naturale che non può essere semplice epifania del divino: anzi proprio nell'esser dotato di una reale
capacità causativa esso manifesta la potenza e la carità di Dio che quella capacità ha concesso agli esseri
creati. Tale difesa del concetto di natura, della sua attività e iniziativa, è di grande importanza anche in tutti i
problemi in cui si discute del rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale, come nel problema della
libertà e della grazia. Con T., un'idea di natura schiettamente aristotelica si sostituisce all'idea di natura
platonico-agostiniana tutta permeata di Dio.
Materia e forma
Gli enti creati o sono composti di materia e forma, o sono forme pure (puri spiriti): nei primi, il
principio d'individuazione è la materia (materia quantitate signata); gli esseri spirituali invece costituiscono
ciascuno una specie .
Coerente con la fisica e la metafisica è la psicologia; abbiamo accennato alla tesi dell'unità
della forma sostanziale; dobbiamo qui ricordare la polemica sull'unità dell'intelletto sostenuta contro
gli averroisti. Il processo della conoscenza in T., come in Aristotele, rientra sotto le generali leggi
del movimento, ed è quindi inteso come passaggio dalla potenza all'atto; così nella sensazione
l'organo di senso (in potenza a sentire) è attuato dal sensibile esterno; le sensazioni unificate dal
senso interno passano nella fantasia e formano l'immagine sensibile dell'oggetto: questo
contiene, in potenza (perché limitato dalle caratteristiche particolari della sensibilità),
l'intelligibile, che, smaterializzato e universalizzato cioè "astratto" dalle condizioni individuanti
per opera dell'intelletto agente, diviene intelligibile in atto e come tale capace di attuare
l'intelletto in potenza (l'intelletto coglie direttamente solo gli universali). Ma è appunto attorno
all'intelletto in potenza che si apre la polemica con gli averroisti: questi accettavano l'interpretazione
“ Il distinguersi ed il precisarsi della Volontà nel pensiero occidentale prende avvio dalla riflessione greca sul Bene,
(tò Agathòn), sia pure in quei termini di inceretezza ed ambiguità precedentemente sottolineati, e dalla mediazione
cristina che, diffondendo nel mondo antico i concetti di creazione, grazia e carità, offre un vasto campo di esperienza
in cui la volontà emerge all’inizio (creazione) ed alla fine (savezza) di tutta la vicenda ontologica”. Cfr. Galimberti, Il
tramonto dell’Occidente,Feltrinelli, Milano 2006.
147
Secondo Heidegger, “Intelletto e Volontà sono determinazioni spiccatamente antropologiche, riferile all’Essere
significa ridurre l’Essere a misura d’uomo, anche se il riferimento è a Dio. Una riduzione di questo tipo era sconosciuta
al mondo greco. Lògos e nòesis sono parole greche che non esprimono una ricerca di logica o di psicologia, nè l’analisi
di un processo mentale, ma il modo necessario in cui l’Essere è. Tale è il Lògos di Eraclito, in cui si compone
l’invisibile armonia del cosmo. (...) là dove Kòsmos non significa mondo ma invisibile armonia sottesa al chàos.Con
Filone d’Alessandria il Lògos si ipostatizza, diventa l’archetipo, di ogni cosa, la sintesi di tutte le realtà intermedie che
per Filone sono le Idee, la Sapienza, gli Angeli, lo Spirito, le Potenze. Con il cristianesimo infine il Logòs è Dio stesso:
In principio era il Lògos, ed il Lògos era presso Dio, , e il Lògos era Dio.” Cfr. Galimberti, cit. pagg. 208 e sgg.
146
Filieri Andrea
110
del commentatore di Cordova per cui l'intelletto possibile è una sostanza separata unica per tutta la
specie umana. Contro questa interpretazione T. polemizza nel corso di varie opere e scritti, e infine
nel De unitate intellectus contra Averroistas indirizzato, sembra certo, contro Sigieri di Brabante: la
tesi centrale dell'Aquinate, che vuole salvare l'individualità dell'atto dell'intendere, è che se
l'intelletto fosse uno non si potrebbe spiegare come "questo uomo" (hic homo) intenda, e tutti
verrebbero a coincidere nell'identico atto dell'intendere; anzi, se l'unità e universalità dell'oggetto
inteso richiedesse, come diceva Averroè, l'unità dell'intelletto, unico dovrebbe essere l'intelletto
per tutti gli esseri intelligenti in tutto l'universo.
A garantire l'individualità del conoscere interviene poi (oltre la teoria della sensazione) la
dottrina tomista dell'intelletto agente, inteso come facoltà dell'anima che è forma del corpo (non
quindi unico, come, sia pure secondo diverse prospettive, si sosteneva dagli avicennisti-agostiniani):
all'intelletto agente spetta la funzione di smaterializzare la specie intelligibile presente
nell'immagine della fantasia perché, resa intelligibile in atto, si imprima nell'intelletto in potenza.
Ed è l'intelletto agente, luce divina impressa nell'anima, secondo una similitudine cara alla
tradizione agostiniana, che contiene i principî primi del conoscere, evidenti per sé stessi.
Ente
Può essere :
Logico:
possiede
una
essenza
Reale :
possiede una essenza
(potenza) ed una
esistenza (atto)
Conferita
nelle
creature da
Dio
creatore
In Dio
coincidono
L’Etica
Dalla metafisica discende anche l'etica tomista: Dio, fine ultimo dell'uomo, è il termine
della beatitudine che si risolve nella visione di Dio concessa ai beati. Dio come bonum
universale muove la volontà necessariamente, ma nella vita terrena non si è innanzi a questo bene
assoluto, bensì a una molteplicità di beni, e la libertà del volere si fonda sulla possibilità di scelta
tra questi beni relativi, ed è strettamente connessa alla loro affermazione intellettuale: vi è una
valutazione oggettiva dei beni che diviene misura, misura della bontà degli atti morali.
Ma la moralità presuppone anche la presenza nel soggetto di "abiti" delle virtù naturali e
soprannaturali, e, fuori di lui, di una legge divina. Un'impronta di questa legge è però anche
nell'uomo (morale naturale), che conosce, se ha l'uso di ragione148, i principî fondamentali della
legge morale: l'abito della ragione che permette la scoperta dei principî dell'agire morale è
Ragione: l’anima umana può cogliere l’universale proprio in quanto è unita ad un corpo che, a differenza di quello
animale, non può dirsi perfetto, in quanto privo degli strumenti naturali di cui sono forniti i corpi animali (corpori
imperfecto tanquam talibus auxiliis privato). Questa valutazione libera l’anima da valutazione istintive . Cfr. U.
Galimberti, Psiche e Techne, feltrinelli, Milano 2003.
148
Filieri Andrea
111
chiamato synteresis. L'etica naturale si corona poi nell'etica cristiana ispirata al principio dell'amore
di Dio.
In effetti, nel cristianesimo Dio e l’uomo emergono come amore: nell’amore l’uomo trova
la sua realizzazione morale attraverso quelle virtù che non esprimono solo un impegno etico, ma si
profilano come determinazioni di quell’amore salvifico che è la carità149.
La Politica
La politica di T., elaborata muovendo dalla Politica di Aristotele che egli è il primo a
commentare, si fonda nella naturale socievolezza della natura umana, che conduce gli uomini a
costituire gli stati; il potere politico ha la competenza nell'ordine temporale e come tale è distinto
dal potere della Chiesa, di ordine spirituale, ma poiché anche le cose temporali interessano al fine
ultimo dell'uomo e dello stato, che è la vita eterna, lo stato è in questo subordinato alla Chiesa.
La ripresa dell'aristotelismo da parte di T. non si limita all'ambito della filosofia naturale e
della metafisica: essa ispira anche il metodo teologico e la sua opera rappresenta una tappa
fondamentale nella teorizzazione della teologia come scienza. Proseguendo lo sviluppo che la
speculazione teologica aveva avuto nel sec. 12° (quando, vicino alla semplice lectio divina e alla
meditazione sullasacra pagina, si era iniziata una teologia sistematica), T. utilizza in teologia la
teoria aristotelica della scienza e della dimostrazione scientifica. La speculazione teologica ha per
oggetto i dati della Rivelazione (accettati per fede); da questi dati il discorso teologico muove
secondo il metodo della dimostrazione aristotelica per dedurre dalle premesse rivelate altre verità
che traggono la loro certezza dai principî da cui muovono e dal rigore del ragionamento apodittico.
La teologia è scienza: in questo il distacco dalla tradizione agostiniana è notevolissimo, ed è di
fondamentale importanza per il successivo sviluppo teologico. Con la teologia di T., assunta poi
nelle scuole cattoliche, una particolare filosofia (con i suoi fondamentali concetti: sostanza,
accidente, atto, potenza; e i suoi metodi) è inserita all'interno della teologia cattolica: di qui i
complessi problemi per la storia del dogma e per il valore di formulazioni dogmatiche espresse in
termini di filosofia aristotelica. Ma resta comunque mirabile la sistematicità del pensiero teologico
di T., la volontà di distinguere ragione filosofica e fede (quindi anche natura e soprannatura), come
pure la massima utilizzazione della filosofia e delle sue tecniche nell'elaborazione delle formule
dogmatiche e nella dimostrazione dei praeambula fidei che rientrano completamente nel dominio
della ragione.
Confronto tra filosofi, Agostino, Tommaso
Come ci si deve porre nei confronti dell’eredità Agostino: Platone e Plotino anticipano , in
greca?
qualche modo, la spiritualità cristiana;
Averroisti: Aristotele rappresenta la vetta
massima ed insuperabile del sapere. Possiede
una auctoritas superiore alla stessa Bibbia.
Bisogna quaindi ritornare alle sue dottrine.
Tommaso: proprio perche la dottrina aristotelica
rappresenta il massimo delle potenzialità
intellettuali, i suoi risultati possono essere solo
in accordo con le verità di fede.
Come avviene il processo della conoscenza Agostino: tramite l’illuminazione ossia un
umana?
gratuito dono divino che ci mette in grado di
percepire le verità all’interno della nostra
149
Galimberti, cit. pag. 220. Cionostante per Tommaso, le virtù intellettuali sono superiori alle virtù morali.
Filieri Andrea
112
Come ci si può avvicinare a Dio?
Da chi e cosa eredita
Avicenna: ente\essenza
Aristotele:
passivo\attivo
Potenza\Atto;
coscienza.
Agostino: attraverso un colloquio interiore con
la propria anima, nella quale Dio ci parla
direttamente.
Cosa lascia in eredità
Ente come ciò che esiste o è realmente ed
essenza ossia ciò che è, ovvero la sua
quidditas
intelletto Potenza ed atto sono associati all’azione
creatrice di Dio in virtù della quale le creature
che hanno l’essre in potenza passano
all’essere in atto ossia all’esistenza;
Aristotele: analogia dell’essere
Anselmo: la ragione procede in maniera
autonoma rispetto alla fede
Agostino: l’idea che l’uomo sia predestinato da
Dio
LA RAGIONE Può PROVARE L’ESISTENZA DI Dio?
Plotino
Anselmo
Tommaso
Filieri Andrea
Sebbene non sia affatto necessario
cercare una prova scientifica dell’esistenza
dell’Uno, la riflessione razionale cerca di
affermare che la molteplicità degli enti che
compongono il mondo si radichi in un ente
trascendente, una unità produttiva del
molteplice.
Ancora, per quanto concerne il problema
dell’origine del mondo, il rapporto che
lega l’uomo all’Uno è riassumibile nel
concetto di emanazione: un processo
attraverso il quale l’Uno produce tutta la
realtà (della quale non fa parte la materia)
per effetto della sovrabbondanza del suo
essere.
Anselno, risponde che è possibile
attraverso un corretto ragionamento
ontologico. In effetti l’esistenza di Dio è
implicita nella sua definizione.
Tommaso, non concorda con Anselmo: la
dimostrazione anselmiana infatti dimostra
l’esistenza di Dio solo nella mente di chi la
pensa. Diversamente, se si applica la
ragione all’esperienza è possibile affermare
che il mondo ha cinque caratteristiche che
rendono necessaria l’esistenza di Dio:
 il movimento dimostra Dio come
motore immobile;
113
 le cause rimandano ad una causa
prima incausata;
 la possibilità rimanda ad un Ente
necessario;
 i gradi di perfezione ad una
perfezione somma;
 il fine ad una intelligenza ordinatrice.
In che modo si articolano i rapporti tra filosofia e cristianesimo nel Medioevo?
La filosofia medioevale trova la sua dimensione prioritaria nella religione cristiana. E’ la
rivelazione a dettare le linee guida del pensiero e dei problemi ed è la teologia ad avere
un ruolo indiscusso. La riflessione sviluppatasi nelle Scholae determina la produzione e
la trasmissione del sapere. Sapere fondato su una auctoritas: la Bibbia ed il Vangelo
trasmessi dai Padri della Chiesa.
La svalutazione della ragione
Nel xiv secolo si assiste alla
crisi della scolastica in quanto
viene meno la fiduxia nella
ragione e si afferma una
posizione fideistica i cui
principali esponenti sono:
Si afferma la via mistica come alternativa
all’indagine razionale su Dio ossia una
forma di religiosità in cui l’uomo mira a
farsi assorbire completamente da Dio
nell’esperiena dell’estasi
Duns scoto:
1. Dio è oggetto di rivelazione e
non di ragione;
2. la rivelazione è fondata sulla
parola di Dio
3. la fede garantisce conoscenze più
attendibili rispetto alla ragione
che è confinata ai ragionamenti
sull’essere
Filieri Andrea
Ockham:assume una posizione di
empirismo radicale da cui seguono:
1. inconciliabilità tra fede e ragione;
2. impotenza della ragione in ambito
religioso dal momento che la
verità di fede è indimostrabile
3. Dio è assoluta libertà;
4. Apertura alla ricerca naturale;
5. Nominalismo moderato: gli
universali sono segni di insiemi di
cose particolari;
114
Guglielmo di Ockham
La fede
Solastica : tramite
La ragione
ne deriva: nominalismo
ossia le nozioni
metafisiche sono nomi
Come si
conosce la
verità?
Ockham : tramite
Filieri Andrea
L’esperienza:
empirismo radicale
115
Da cui il principio del rasoio:
eliminazione di enti e nozioni non
empiriche
Quindi: volontarismo ossia credere
in Dio è un atto di volontà
Il rapporto tra fede e ragione in Guglielmo di Ockham deve essere inquadrato nel contesto
più generale del rapporto tra teologia e filosofia150.
La posizione di Ockham si caratterizza per una forte radicalità. Per Ockham, filosofia e
teologia sono discipline distinte e complementari, con ambiti di studio indipendenti.
La filosofia è la scienza dell’essere, mentre la teologia è la scienza di Dio. Da una parte, il
filosofo studia l’essere basandosi sulla ragione e sull’esperienza; dall’altra, il teologo tratta di Dio a
partire dalla Rivelazione. La conclusione di Ockham è che solo la filosofia è una scienza
speculativa. La teologia rivelata, invece, è una scienza pratica.
La teologia non è una scienza speculativa
La visione che Ockham ha della teologia si basa su un principio generale che altro
non è che una variante del famoso ‘rasoio di Ockham’ o principio di economia. Secondo Ockham,
Dio non fa niente in modo vano o superfluo; di conseguenza, se alcune verità sono state comunicate
all’uomo tramite la Rivelazione, questo significa che esse non potevano essere conosciute
dall’uomo tramite la ragione naturale. Stando a questo principio, Ockham intende stabilire due
punti:
 primo, che i contenuti della Rivelazione non possono essere dimostrati dalla ragione
naturale;
 secondo, che, dal canto suo, la Rivelazione non aggiunge niente alla capacità che
l’uomo possiede di ricostruire in modo razionale l’esperienza comune.
La ragione di questa simmetrica limitazione è che, per Ockham, si può avere scienza solo di
quelle cose di cui si può avere intuizione.
In particolare, nella sua principale opera teologica, il Commento alle Sentenze, Prologo, q. 1
(1317-1319), Ockham descrive l’intuizione come quella conoscenza in virtù della quale si può
sapere con evidenza che una cosa esiste, se esiste, e che una cosa non esiste, se non esiste.
150
Treccani.
Filieri Andrea
116
L’intuizione, cioè, richiede l’esistenza (o quantomeno la presenza) della cosa intuita, per
questo l’intuizione è una conoscenza evidente e quindi certa151.
Di Dio, però, non abbiamo nessuna conoscenza certa ed evidente; prova ne è, osserva
Ockham, che si discute della sua esistenza e di come dimostrarla. Di conseguenza, se non si può
avere una conoscenza intuitiva di Dio, che è l’oggetto proprio della teologia, allora non si può
provare niente riguardo a Dio. Questa ulteriore conseguenza è comprensibile se uno tiene presente
l’idea di scienza che Ockham aveva ereditato da Aristotele: conoscere scientificamente una cosa
di cui si può avere intuizione equivale a spiegare la connessione causale che sussiste tra la cosa
e le proprietà che la cosa esibisce. 152
Ammessa questa idea di scienza, la conclusione che Ockham tira è molto netta: se non si
può avere conoscenza intuitiva di Dio, allora non si possono provare di Dio proprietà come ‘essere
trino e uno’, ‘essere onnipotente’, ‘essere infinito’, e così via per le altre proprietà che
tradizionalmente sono attribuite a Dio. Anche il tema più delicato, l’esistenza di Dio, è da Ockham
svuotato di significato scientifico: si può provare che esiste una prima causa incausata dell’essere
di cui abbiamo esperienza, ma non si può provare che tale causa sia il Dio di cui ci parla la
Rivelazione.
Fede e ragione in Ockham153
Per Ockham il termine ‘ragione’ fa riferimento a quella facoltà tipicamente umana di procedere in
modo razionale partendo da dati ricavati per intuizione dall’esperienza. Anche la fede ha
ovviamente una dimensione razionale e argomentativa, ma la mancata verificabilità empirica delle
‘proposizioni credibili’ impedisce qualsiasi serio dialogo teoretico tra fede e ragione.
Con Ockham la prospettiva agostiniana viene abbandonata: non è necessario credere per
comprendere né tanto meno comprendere per credere. Attraverso la separazione tra fede e
ragione, Ockham non vuol sminuire la fede rispetto alla ragione ma al contrario valorizzarle
entrambe, ciascuna nel proprio ambito. La ragione rinuncia a ogni velleità di parlare di ciò che
trascende l’esperienza. La ragione non può provare l’esistenza del Dio della Rivelazione ma non
può nemmeno provare la non-esistenza di un tale Dio. La ragione semplicemente non può decidere,
perché non può verificare, una proposizione credibile come ‘Dio esiste’. Tale limitazione vale
anche dal punto di vista dell’uomo di fede, che assume come tratto caratteristico della divinità
l’onnipotenza. Da teologo, Ockham collega l’onnipotenza alla volontà divina, al suo poter fare tutto
ciò che non implica contraddizione. Dio crea con un atto di libera volontà il quale resta, in quanto
atto volontario, inconoscibile all’uomo. In assoluto, il mondo creato non è il migliore dei mondi
possibili, ma è solo uno dei mondi che Dio poteva creare. Tuttavia, se la volontà divina non è
obbligata a scegliere quello che l’intelletto divino le presenta possibilmente come il migliore dei
mondi possibili, è comunque vero che il mondo voluto e scelto da Dio diventa, per il fatto stesso di
essere voluto da Dio, il migliore dei mondi possibili. Così dicendo, Ockham rinuncia all’idea che la
ragione possa risalire al progetto originario dell’intelletto divino o alla motivazione originaria della
volontà divina. Qual è la conclusione di questo ragionamento? Il progetto di Ockham è ambizioso:
mostrare che non vi sono argomenti per provare che la fede sia giustificabile razionalmente. Se la
fede potesse essere provata, osserva Ockham seguendo una massima di Gregorio Magno, la fede
sarebbe priva di valore. Se così è, la fede viene a essere, per Ockham, niente più che un sentimento
esterno alla ragione. La ragione può certamente aiutare l’uomo a definire e a dar conto dei contenuti
151
Treccani.
Treccani.
153
Treccani.
152
Filieri Andrea
117
della fede. Ma il valore della fede risiede interamente nell’atto con cui l’uomo dà il suo assenso
incondizionato alle verità della Rivelazione.154
Vediamo: “ In un primo senso scientia è: conoscenza certa di verità, dove la cosa
preminente è la certezza conoscitiva. In questo senso, scientia comprende soprattutto quella che
chiamiamo anche credenza (fides) o, in alttre parole, il convincimento certo. In questo senso
sappiamo (scientia certa)ad esempio che Roma è una grande città senza che l’abbiamo mai vista.
Questo nostro sapere che Roma è una grande città senza averla mai vista, ma per altrui notizia o
resoconto, è credenza, certezza convinzione: ossia scientia in questo primo senso, di mera certezza.
Ancora, nello stesso senso, ad esempio, abbiamo scientia (credenza, convinzione certa) che
quest’uomo qui è mio padre. Come si vede, il fondamento di questo tipo o stato di scientia non è
per niente l’evidenza della cosa stessa in carne ed ossa; è invece l’assenza di ogni ragionevole
dubbio circa la verità di un fatto, e d’altra parte, è la esistenza di motivi estrinseci ma fondati i
quali portano ad aderire fiduciosamente ad una o ad un’altra verità: motivi come la testimonianza
di uomini e di cose degli di fede.
In un altro senso scientia è conoscenza evidente. Si tratta di un piano o strato di conoscenza
il quale si costituisce del tutto indipendentemente da altrui testimonianze e non poggia su alcun
motivo estrinseco per quanto fondato155. Tale tipo di scientia, è costituito invece da atti diretti e
semplici di conoscenza. Quanto a dire: nella evidenza (conoscenza evidente o scientia evidente) ci
troviamo: ci groviamo, o perché vi siamo immediatamente coinvolti, o perché vi giungiamo da
evidenze. Eswmpio: posto di fronte ad una parete bianca la conoscenza (scientia) della bianchezza
della parete non si costituisce per testimonianza d’altri o per motivi del genere ma perché qui ed
ora vedo in prima persona quel bianco. La scientia dunque, in questo secondo tipo è costituita
allora dalla evidenza conoscitiva .In tale senso scientia è conoscenza evidenente sia di oggetti,
eventi, verità contingenti in carne ed ossa, sia anche di oggetti, verità, eventi che mi presentano
immediatamente come evidenti.
Identità
Rapporto tra
ragione e
fede
Scoto Eriugena ;
Anselmo D’Aosta
(teologia razionale)
Superiorità
della fede
Bernardo di Clairvaux; Gioacchino
da Fiore:
approdano al misticismo
Averroismo
influenzato
dall’aristotelismo
Superiorità
della
ragione
154
Treccani.
La conscenza intuitiva della realtà sta a fondamento della conoscenza experimentalis nella quale la realtà concreta
si manifesta nella sua evidenza e costituisce la base della scienza. L’experientia intesa qui come osservazione
costituisce il momento essenziale della edificazione del sapere.
155
Filieri Andrea
118
Alberto Magno
Tommaso D’Acquino
Accordo
Distinzione
Duns Scoto: elabora la teologia pratica ;
Guglielmo di Ockham: la teologia non è una scienza
Nel
divenire
del mondo
cosa non
muta?
fisici
ionici
le cose
mutano
ma
l’archè
non muta
eraclito
tutto
muta
tranne
il
divenir
e
qual è
l’origine
del
mondo?
parmenid
e
Il
mutamen
to è
apparenz
a:
L’Essere
non muta
democrito
protagora
socrate
il mondo
deriva dal
movimento
casuale
degli atomi
aristotele
mutano le
cose non
le Idee
ossia le
loro
essenze
le cose
mutano
sulla base di
forme
immutabili
è opera di
una
intelligenz
a divina
cosa sono
il bene e la
felicità?
il bene coincide
con l’esercizio
della conoscenza
donde
viene il
male?
l’esistenza
dell’individ
uo coincide
con quella
del
cittadino
rapporto
individuo\
stato
platone
origine
della
conoscenz
a
l’uomo si
realizza solo in
quanto
pienamente
cittadino
bene e
felicità
consistono
nell’eserci
zio della
ragione
il made
deriva
dalla
materia
l’individu
o esiste
solo nello
Stato
la
conoscenz
a deriva
dal fondo
della
nostra
anima
Filieri Andrea
119
la vita
buona e
felice è una
vita
secondo
ragione
l’uomo è un
animale
politico
la
conoscenza
deriva dalla
esperienza
Epicuro
Nel
divenire
del mondo
cosa non
muta?
qual è
l’origine
del
mondo?
cosa sono
il bene e la
felicità?
bene e
felicità
coincido
no col
piacere
Stoici
Filone di
Alessand
ria
Plotino
Agostino
Il mondo
è
creazion
e di Dio
il mondo è
una
emanazione
dell’Uno
Il mondo è
creazione
di Dio dal
nulla
il male è
una forma
di non
essere
il male è
privazione
di bene
Anselmo d’Aosta
Tommaso
Ockham
bene e
felicità
consist
ono nel
dovere
donde
viene il
male?
rapporto
individuo\
stato
origine
della
conoscenz
a
la
conoscenza
è
illuminazio
ne divina
la fede
orienta la
ragione e la
ragione
fortifica la
fede\ragio
ne
Filieri Andrea
120
lo Stao
èper
l’indivuo
una
società
naturale
la
conoscenz
a comincia
dai sensi
la fede deve
essere indagata
con la ragione
verità di
fede e
ragione
non sono
in
fede eragione
si occupano d
ambiti diversi
fede
Filieri Andrea
121
contraddiz
ione