Filosofia Che resterebbe d’altro senza Altri? E. Lévinas Mito ( )1 :narrazione di carattere fantastico2poetico avente per oggetto, normalmente, quelle od alcune cose su cui indaga la filosofia3.In sostanza il mito può essere considerato: rivelazione\presentazione del senso del mondo 4 Mythos:in questo termine compare infatti il senso della parola, dell’annuncio di qualcosa di importante ed essenziale . Legato al sacrificio: atto col quale l’uomo conquista il favore degli Dei che regnano nell’universo Scopo: ma qual è il fine del mito? Identificarsi e dominare5 ciò che appare nel mito; identificarsi con ciò che ha suprema potenza nel governare gli eventi del mondo Ma cosa accade nel VI secolo a.c.? Accade6 l’ apparire della filosofia come sapere che pretende superare il mito mediante un sapere incontrovertibile, e questo sapere è espresso dalla Filosofia [Mŷthos]. In Omero (i poemi omerici rappresentano la trascrizione operata presumibilmente nell’VIII secolo a.c. di preesistenti narrazioni stratificatesi nel corso dei secoli trasmesse di generazione in generazione per via orale) la parola “mito” significa in alcuni casi “parola, notizia, novella” […], in altri significa addirittura la cosa stessa […]. Successivamente, proprio per la comparsa di un altro tipo di racconto o discorso chiamato “lógos”, le narrazioni mitiche, fino allora accolte con la stessa serietà con cui più tardi lo saranno quelle filosofiche, assumono il carattere fabulatorio di “leggenda, favola, fola, mito”, come appunto noi ancora oggi lo impieghiamo […]. Il mito ha in comune col lógos l’intento di conoscere e spiegare il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è un passaggio dalla favola alla verità, ma tra due diversi modi di perseguire quell’intento. 2 Fantastica non nel senso di fantasiosa bensì una invenzione che pretende essere rivelazione del senso complessivo del mondo. Solo più tardi il senso della parola mito diventa quello della “fola”, della leggenda (vedi sopra). 3 Giovanni Reale - Storia della filosofia antica - Vita e Pensiero – Milano 1983 4 E. Severino - Storia della Filosofia Antica - Rizzoli 5 Pur nella loro elementarietà, i miti fornirono all’uomo un quadro del mondo in cui orientarsi e anche l’indicazione dei modi per dominarlo”. Il pensiero Filosofico e la società, Geymont, Boncinelli, DEA Scuola, Garzanti 2014. Pag. 16. 1 Filieri Andrea 1 Filosofia: philo-sophia7: cura del sapere e della verità. Sapere che utilizza la forza della ragione per dire qualcosa di inaudito fino ad allora: la verità del mondo abitato dall’uomo, sulla base di un sapere che non può essere negato né da dei né da uomini Che tipo di sapere? Un sapere che si rivolge al Tutto8, alla Totalità, indagandone: il senso ; il principio, gli elementi; il fondamento , le cause ; le conseguenze. Contrariamente Mito: si rivolge al chaos: disordine, magma, all’illimitato. Tutti i mondi e gli dei si originano al suo interno . Nel mito greco quindi, tutti gli dei sono originati dal Chaos originario che è la dimensione più ampia che il mito greco sia riuscito a pensare. Dal disordine del chaos emerge il kosmos come insieme delle cose ordinate , come mondo. Esiodo: Teogonia9: gli Dei sono originati dal chaos primordiale\originario. Dal chaos si origina successivamente un kosmos come insieme delle cose ordinate e finite . Nella Teogonia dunque, dall’immensità del chaos si generano tutti gli Dei e tutte le fasi del mondo che però rimangono sullo sfondo mentre l’attenzione è attratta dal modo in cui le vicende e le lotte tra i divini rispecchiano le lotte e le vicende umane10 “Quali sono i fattori che spiegano il sorgere del pensiero greco? (…) le civiltà pre-greche sono (…) monarchiche , stataliste, e accentratrici, con potenti caste sacerdotali e guerriere che detengono le chiavi del potere (…). In Grecia (..) innanzitutto, all’antica monarchia patriarcale sono per lo più succedute, fin dai tempi omerici, governi e repubbliche di tipo aristocratico. In secondo luogo , al posto di uno stato accentratore si è costituita una variopinta e frazionata costellazione di città stato. In terzo luogo, le aristocrazie dominanti non sono assimilabili alle caste guerriere o sacerdotali orientali poiché in Grecia (…) hanno poco importanza.” Abbagnano, pagg. 21 e sgg. In effetti nella Polis greca dell’VIII\VII sec. a.c. emergono alcuni tratti tipici dell’argomentazione razionale: confronto di opinioni,discussione,argomentazione,sviluppo delle tecniche, definizione di ambiti privato\pubblico.Non ultima una oggettivazione della natura distaccandosi da una concezione animistica di essa: una realtà che l’uomo sente estranea e che cerca di dominare. 7 “.la sapienza greca si presenta, in quanto filosofia, come una ricerca razionale che nasce da un atto fondamentale di libertà di fronte alla tradizione…” Abbagnano, pagg. 20 e sgg 8 Termine filosofico che designa l’assoluto ossia la totalità del reale. Il soggetto pensante è ovviamente parte del tutto. Vedi Atlante di filosofia , Hoepli, Milano 2006. 9 Rappresentazione fantastico poetica della generazione degli dei e, di conseguenza, di tutte le cose che dipendono dagli Dei (alla teogonia è quindi connessa una cosmogonia). Ibidem, pag. 280 10 Retroterra culturale della filosofia greca sono quindi le cosmologie mitiche ma anche le dottrine religiose dei Misteri ed i motti dei Sette Savi 6 Filieri Andrea 2 Problema dello stato originario da cui le cose sono uscite e della forza che le ha prodotte (Abbagnano pag. 23) TEOGONIA DI ESIODO (VIII secolo a.C.) COSMOLOGIE MITICHE Prima distinzione tra la materia e la forza organizzatrice del mondo (Abbagnano pag. 23) FERECIDE DI SIRO (VI secolo a.C.) Culto di Dioniso (Tracia): i travestimenti ferini, le danze sfrenate, l’eccitazione erotica, lo stato d’ebbrezza che contraddistinguono lo svolgimento dei riti dionisiaci esprimono una spontaneità non epurata da aspetti violenti e cruenti. Orfismo (Tracia): setta filosofico-religiosa fondata dal poeta tracio Orfeo (VI sec. A.c.). Per l’orfismo in ogni uomo vi è un demone o un anima di natura divina ed immortale. Nel corpo l’anima si trova come in una tomba, il suo fine è liberarsene. (Cioffi, Il Testo filosofico, Mondadori, 1999). La morte rappresenta quindi una prospettiva di liberazione. Solo però chi si è purificato in vita (mediante una condotta moralmente ineccepibile) può sperare in tale liberazione. RELIGIONE DEI MISTERI VI SEC. A.C. Culto di Demetra, divinità collegata al culto del grano : misteri celebrati ad Eleusi :località greca ,nei pressi di Atene ,dove si celebravano i misteri eleusini, una forma di culto antichissima e tra le più importanti di tutta l’età antica. Concetti fondamentali per la filosofia successiva: 1) legge che dà unità al mondo ossia una legge che dia giustizia di cui sono custodi gli dei. Esiodo la personifica in Díke: la figlia di Zeus che, sedendo accanto al padre, vigila affinché siano puniti gli uomini che commettono in-giustizia, per cui il giusto trionfa e l’ingiusto (o un suo discenden-te) viene infallibilmente punito. POESIA Hýbris: infrazione alla Legge di Giustizia, dovuta allo sfrenamento delle passioni e delle forze irrazionali Primo presentarsi della riflessione morale:motti di natura pratico-morale che riflettono sulla saggezza della vita e che preludono a un’indagine sulla condotta dell’uomo nel mondo. Abbagnano, Storia della Filosofia, UTET, 1982. Chilone: bada a te stesso: Solone: nulla troppo. SETTE SAVI Filieri Andrea 3 Dimensioni o aspetti del mito: - dimensione più ampia ed originaria(chaos) - apertura illimitata (chaos) - unità che raccoglie in sé cose differenti: tribù, clan familiari - non pulviscoli di parti La filosofia, a differenza del mito, pensa al Tutto, come ciò che non ha nulla fuori di sé. Viceversa, nel chaos di Esiodo, non è escluso che altri mondi possano irrompere, che oltre il chaos si estendano altri mondi imprevisti ed imprevedibili11. La filosofia allora apre una serie di dimensioni quali: l’arte, le matematiche, la morale, l’educazione, etc. vediamo: 1) niente esiste al di fuori del Tutto12 2) tutto il molteplice si raccoglie in Unità: l’identità del diverso. Non c’è una cosa che non sia identica, per un qualche aspetto, con le altre cose : se è cosi le cose sono ri-unite in Un insieme . Lo sguardo su questo unico insieme è la filosofia dimensioni della totalità: 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) presente passato futuro cose visibili cose invisibili cose reali cose possibili sogni e fantasie veglia e sonno 11 Anche nella sapienza orientale e nelle parti più antiche del Vecchio testamento. Vedi Severino, cit. pag. 19 Non si tratta quindi, di descrivere minuziosamente tutto il reale (cosa evidentemente impossibile per il pensare umano, finito) bensì di pensare a qualcosa di inoltrepassabile che contiene, appunto, Tutto. 12 Filieri Andrea 4 In conclusione: pensare al Tutto significa pensare-a le cose e riflettere-su le cose, comprendendo che tutte appartengono alla totalità oltre la quale non c’è ni (non) -ente (nessun ente) quindi La filosofia nega che il mito comprenda il vero senso della totalità e nei primi pensatori presocratici indaga la totalità come physis () la physis non contiene dunque le vicende degli Dei e del loro rapporto con gli uomini (mito) bensì il cielo stellato, il sole e la terra , l’acqua ed il vento, le azioni umane ed il loro dipanarsi 13 la filosofia vede quindi nella totalità come physis che le cose diverse hanno qualcosa in comune: il loro essere identiche abitatrici del Tutto (tutti gli x hanno la medesima proprietà T). Tutte le cose diverse sono identicamente nel Tutto ed il Tutto, per converso, si mostra come insieme di tutte le cose proprio grazie all’evidenza che tutte sono unite da una medesima proprietà: il loro far parte della physis come unità primordiale ed incorruttibile ma come fanno parte le cose della Totalità? Le cose che nascono e periscono cosa hanno a che fare con la totalità delle cose? I primi filosofi tendono ad identificare : 1) ciò che vi è di identico nelle cose: la proprietà T 2) con ciò da cui le cose sono costituite, ossia ciò di cui sono fatte , la loro sostanza od elemento. In questo modo ciò che le accomuna, l’identità del diverso, non è nient’altro che l’unità da cui provengono ed a cui ritornano. Es: l’acqua del mare è sia ciò che le onde hanno di identico sia ciò da cui esse provengono ed in cui si dissolvono. In questo senso i primi filosofi si domandano dunque, qual è il principio di tutte le cose , ossia si domandano cosa vi sia di identico in tutte le cose in quanto elemento che le accomuna. Si aggiunga che questo principio (arché-) è anche la forza che determina il divenire ed i nascere\perire di tutte le cose. Questo divenire è eterno e quindi divino. E. Severino, ibidem. Vedi anche Abbagnano pag. 13 cit.: “La filosofia presocratica è dominata dal problema cosmologico. Essa non esclude l’uomo dalla sua considerazione ma nell’uomo vede solo un parte della natura. Per i presocratici gli stessi principi che spiegano la costituzione del mondo fisico spiegano la costituzione dell’uomo. (…) il compito della filosofia presocratica è quello di rintracciare (…) l’unità che fa della natura un mondo.(…) la materia di cui le cose sono fatte ma anche la forza che spiega la loro composizione. (…) sostanza come principio di azione e di intelligibilità del molteplice ed in divenire”. 13 Filieri Andrea 5 Possiamo dire allora che per i fil. Presocratici, la physi14s, va indagata sulla base di un principio che spiega come le cose non solo non si originano dal niente ma il divenire stesso delle cose è retto da una forza (principio) che le governa. “l’uomo ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza” S. Freud Talete Il sole non è la Luna ma sono identici nel loro essere qualcosa che fa parte del Tutto: ma che cos’è l’identità dei diversi? In che consiste l’elemento unificatore (determinato) delle cose? Meglio ancora: qual è l’arché – l’inizio - delle cose? Acqua: motivi di carattere biologico e chimico Vediamo: non dobbiamo soffermarci sull’acqua sensibile e sui motivi che hanno condotto Talete a pensare all’acqua come substrato sensibile del nutrimento dei viventi, sì che la filosofia apparirebbe rudimentale e rozza.15 Dobbiamo far riferimento piuttosto all’acqua (tutte le cose sono acqua) come elemento identico da cui si generano ed in cui si corrompono tutte le cose : physis come acqua .L’acqua allora non è tanto una sostanza sensibile, non fosse altro perché la terra ed il sole non ne hanno le medesime caratteristiche, bensì ciò che vi è di identico in tutte le cose. Come farebbe infatti una delle diverse cose del mondo ad essere identica in tutte le cose diverse? L ‘”acqua” appare allora come una sorta di metafora che non 14 L’identità del diverso va intesa come elemento da cui le cose sono costitutite. Ma l’elemento degli enti è anche il loro principio ossia il principio da cui le cose si generano ed in cui si dissolvono. L’identificazione di “elemento” e “principio” è espressa dalla parola “physis”. La parola “physis” allora nomina sia il principio delle cose che l’elemento delle cose . In effetti per i primi pensatori l’elemento\principio delle cose è la materia da cui sono costituite e che quindi è ciò che vi è di identico in ognuna. La physis(Essere) è eterna e le cose sono espressioni della physis. Vediamo meglio: il termine stoichéion fu utilizzato da Aristotele per la sua ricostruzione della storia del pensiero presocratico. Ora, mentre il principio e la causa possono essere anche esterni a ciò di cui sono causa e principio, l’elemento è sempre un costitutivo immanente. 15 E. Severino, ibidem, pagg. 30 e sgg. Filieri Andrea 6 riesce ad esprimere ciò che essa intende16 sebbene possiamo affermare che Talete vedeva nell’acqua quel qualcosa di empirico che unificava il reale, un qualcosa di naturale dotato di proprietà divine. Anassimandro17: ma come fa un diverso (cosa finita e limitata) ad essere l’unità della molteplicità del reale? Ad essere l’identità di tutti i diversi? Ad essere physis? La physis allora è àpeiron (): il- limite.18 In effetti se la physis è principio (arché) ed elemento (stoichéion) del reale, del molteplice finito e limitato, non può essere a sua volta finita e limitata in quanto non sarebbe ciò in cui e da cui si generano tutte le cose: dal nulla nulla (ex nihilo nihil). Tutto ciò che è generato potremmo dire, deve provenire da qualcosa di ingenerato ed incorruttibile che è il principio di tutte le cose : ciò che è causa di tutte le cose non può essere causato da altro, è eterno e divino. Banalizzando: l’àpeiron non invecchia. Ed in effetti l’àpeiron è illimitato, inesauribile e completamente indeterminato. Forse potremmo aggiungere che l’àpeiron è amorfo e proteiforme: assume infatti qualsiasi forma deterninata. Anassimene. Senonchè l’àperion è un concetto solo negativo (ciò che non è limitato) ma che cos’è l’apeiron? (concetto positivo ). E’ aria: soffio vitale (anima) che ci sorregge. Rarefacendosi e condensandosi l’àpeiron diventa tutte le cose. Di più: principio vivo e vitale, non cieco ed insensibile, che governa tutte le cose anche se l’”aria” non rende esplicito il senso di ciò che vuole dire. In effetti, solo rifacendosi a concetti fisici e materiali quali rarefazione e condensazione non si comprende il senso dell’”aria” che è invece anima di tutte le cose. Ancora una volta l’àpeiron resta senza risposta esplicita19. 16 Ibidem, pagg. 34 e sgg. Physis significa natura. Il Tutto che i filosofi presocratici pensano come 0ggetto di indagine razionale è natura. Ma qual è l’elemento caratteristico della natura? In una battuta è il divenire, l’incessante movimento delle cose divenienti. Il fatto stesso insomma che il Tutto è costituito da una molteplicità di cose di cui facciamo esperienza, e questa esperienza si caratterizza anche per essere esperienza di contrasti: lo stesso oggetto attraversa stati differenti e contrastanti a volte opposti tra loro: acqua, divenire degli enti naturali, etc.. Il divenire è allora anche esperienza di contrasti, e proprio questa esperienza contraddittoria caratterizza il Tutto. In effetti il Tutto , ossia ciò per cui le stanno insieme, ciò che unifica le cose in un Tutto, fa sì che le cose siano in contrasto tra loro: Principio di tutte le cose o arché. Si faccia attenzione però: l’indagine sul principio non è solo una indagine che ci dice da dove ha origine il cosmo (ad esempio la teoria de big bang iniziale), non è solo questo ma anche questo. Non è solo la ricerca di qualcosa che sia temporalmente prima del cosmo, che sia all’inizio del cosmo temporalmente, ma è la ricerca di un principio primo che sia a fondamento di tutte le cose cioè che sia ragione di tutte le cose e della loro esistenza così come appare nell’esperienza che ne possiamo avere. La ricerca sull’arché è allora due cose insieme: - la ricerca di un principio che viene temporalmente prima delle cose - la ricerca di un fondamento che contenga la ragione dell’esistenza delle cose così come appaiono e questa ragione non può che essere di tipo fisico: la totalità infatti è natura. Il principio ha la stessa natura delle cose. Se la physis è totalità, l’origine della phyisis non può che essere di natura fisica e questa natura fisica è espressa dall’elemento che è comune a tutte le cose. 18 Limite in greco péras: confine, ciò che ci permette di dire che una cosa sia delimitata e finita. Anassimandro ritiene che all’origine delle cose ci sia un qualcosa che sia priva di questa caratteristica di finitezza o determinatezza. All’origine delle cose c’è dunque un principio che non ha confini e che per questo motivo contiene tutte le cose. Detto in altri termini, l’origine delle cose determinate non può essere a sua volta determinata. Le cose, staccandosi, se così si può dire, da questo indeterminato hanno ricevuto un confine: l’indeterminato per Anassimandro è il divino. Ma il passaggio fondamentale che si vuole sottolineare è che benché Anassimandro sia un filosofo della physis e si 17 avvalga di concetti di tipo fisico, alla luce di riflessioni successive, l’indeterminato non può essere un principio fisico. 19 Si badi che in Anassimandro non si può ancora parlare di un superamento della fisica: ciò appare solo in Platone. In buona sostanza anche in Anassimandro non c’è un ambito della physis ed un ambito soprafisico o metafisico. Filieri Andrea 7 Monismo Talete Ilozoismo L’arché è l’acqua Tutto è pieno di dei Panteismo Anassimandro Anassimene L’arché l’àpeiron è L’aria è la forza che anima il mondo L’àpeiron ha L’aria ha carattere divino carattere divino Eraclito di Efeso (550\480 a.c. circa): “Tutte le cose sono uno” afferma Eraclito. Ossia hanno qualcosa di identico pur essendo diverse. “questa identità non può essere una cosa particolare e limitata”20 ma è il-limitata come abbiamo visto (Anassimandro). D’altro lato dovremmo anche essere in grado di dire cos’è l’àpeiron (Anassimene). Eraclito dà un’ulteriore risposta: l’identità del diverso, ciò che le rende per un verso identiche pur differendo per altre proprietà (colore, forma, peso, etc.) è la contrapposizione alle altre: è il loro opporsi alle altre cose ciò che hanno in comune tra loro. Se la vita non si opponesse alla morte, se se il caldo non si opponesse al freddo, tutte queste determinazioni non esisterebbero. La discordanza ed il contrasto (pòlemos) governano il mondo, in una battuta: il non essere altro da sé è àpeiron , l’opporsi di ogni cosa alle altre. Ecco che allora ogni cosa viene sopraggiunta dal suo opposto, la gioventù dalla vecchiaia, la guerra dalla pace.Nel divenire delle cose, ogni cosa diventa il suo contrario21, una sorta di armonia nascosta che esprime il senso della physis come legge ed ordine delle cose. Ma se non vi fosse opposizione esisterebbe il Tutto ? Non per Eraclito. Nel sogno di chi non comprende la Parola (Logos) del Tutto, che si offre all’ascolto di tutti , il contrasto delle cose tra loro è la stessa condizione dell’armonia del Tutto. La vita ed il Tutto sono tali proprio in virtù dell’armonia del contrasto che non permette a nessuna cosa di esistere per sempre al posto di un’altra. Nessuna prevaricazione quindi , nessuna ingiustizia, pensata da chi vive e vede le cose come isolate dalle altre non comprendendone la propria relazione alle altre: un contrasto che tutto regola ed ordina. 20 Ibidem, pagg. 42 e sgg. Vediamo di approfondire: non solo ogni cosa si oppone alle altre ma ogni cosa diventa altro da sé. Ogni cosa è potenzialmente il contrario di sé. In questo senso è impossibile definire l’identità della cosa in un preciso momento. Ogni cosa è una molteplicità di stati diversi tra loro. In questo senso diventa difficile dire che cos’è una cosa proprio per questa continua variazione della cosa stessa . Per Eraclito anzi dovremmo dire che una cosa non si riduce ad uno stato determinato e preciso ma la una cosa è una molteplicità di cose. In sintesi potremmo dire che una cosa consiste nella molteplicità di variazioni a cui è sottoposta . E ciò per Eraclito non è problematico anzi: è proprio perché le cose sono intimamente in contrasto che possono divenire, la ragione che sta all’origine del divenire delle cose è il contrasto delle cose. Diciamolo in altro modo: il fatto che la natura sia attraversata da questi processi dinamici di cambiamento non è motivo di dissoluzione della natura bensì è la ragione della sua esistenza. In effetti la struttura delle cose, la loro ragion d’essere sta nel loro intimo contrasto con se stesse. Se vogliamo, proprio 21 perché le cose sono l’identità dei contraddittori, proprio per questo divengono . Ecco, in questo Eraclito supera ciò che si vede nell’esperienza concreta per andare al di là, verso il nascosto ed il profondo delle cose m a bisognerà aspettare Platone per introdurre la distinzione tra sensi ed intelletto. Filieri Andrea 8 La Filosofia di Eraclito Lògos Simbolo: fuoco Realtà Legge universale che governa il mondo Conoscenza Ragione umana Identità Filieri Andrea 9 Linguaggio Discorso filosofico La scuola eleatica (dal perché al che cosa) “due sole cose ti dico: l’una che l’essere è e non può non essere; e questa è la via della persuasione perché è accompagnata da verità. L’altra, che l’essere non è ed è necessario che non sia, e questo ti dico è un sentiero sul quale nessuno può persuadersi di nulla.”(fr. 4,Diels) Parmenide (VI – V sec. A.c.): abbiamo visto come l’opposizione tra le cose si presenti come il passo in avanti, fatto da Eraclito su Anassimandro ed Anassimene . Ora, con Parmenide , dobbiamo compiere un ulteriore passo in avanti, l’opposizione non di qualcosa ad altro bensì l’opposizione suprema: della totalità delle cose (physis o Essere) al Niente . In effetti, percorrendo la molteplicità delle cose, non troviamo mai il Niente, che resta sempre inteso e pensato come nonessere, nulla, Niente assoluto. Se la physis è essere22 , se la totalità23 delle cose che sono, appunto, è (non è nulla), allora il niente è non essere, fuori dall’essere, opposto all’essere. Ora, se l’Essere non è non-essere, non è il Nulla, non può neanche darsi il caso che l’Essere sia generato. Si faccia attenzione attenzione: Parmenide si domanda che cos’è la phyisis mentre precedentemente la domanda era sul perché della physis: Talete si chiedeva il perché di tutte le cose cioè faceva una domanda sull’origine di tutte le cose, sul principio di tutte le cose (archeologia. come domanda sull’archè) mentre Parmenide si chiede cosa sia la physis (l’essenza della physis). Certo Talete rispondeva che l’acqua era origine delle cose perché era l’essenza delle cose e tuttavia la domanda prima era sul senso del perché di tutte le cose, sull’origine, sul principio primo da cui le cose provenivano. Parmenide invece ritiene che una volta compreso che cosa sia la physis non avremo più 22 bisogno di pensare ad una origine delle cose. E Parmenide ritiene che la prima risposta che dobbiamo dare è : - la physis è (l’essenza della physis è il fatto di essere) L’essere è allora l’elemento comune(ed in questo Parmenide si mantiene in stretto contatto con i pensatori presocratici) a tutte le cose sicché prima di conoscere se sussistano elementi specifici come l’acqua, l’aria o il fuoco, se siano in contraddizione o in armonia, è opportuno riflettere sul carattere comune a tutte le cose : l’essere. Ed il significato del termine essere che deriva dal frammento due è questo: l’impossibilità di non essere. Insomma noi guadagniamo il significato dell’essere solo attraverso la negazione del suo contrario. Detto in altri termini: il significato dell’essere è la negazione del non- essere e questo non è né ovvio né scontato nella storia della metafisica. L’Essere è il Tutto (frammento 8) e non è divisibile: noi non possiamo pensare alle parti (una parte non è l’altra) dell’Essere perché ancora una volta introdurremmo il non essere nell’essere, in effetti ciò che distingue un essere dall’altro è il non- essere. (Qui però dobbiamo fare una precisazione, Platone ed Aristotele hanno penato che Parmenide pensasse l’essere come Uno, come non molteplice. Eppure in Parmenide non si trova una sola volta il termine Uno nel suo poema. . In effetti Parmenide, più specificatamente, non intende dire che l’essere non si possa articolare al suo interno, piuttosto intende dire che l’essere non è divisible. Pensiamoci: se noi affermiamo che l’essere non è la molteplicità escludiamo dall’Essere come Uno la Molteplicità: in realtà la chiave della comprensione del problema sta nel fatto che l’Essere come Uno è piuttosto la posizione di Melisso e non di Parmenide. Parmenide afferma che tutto è pieno di essere ed è questa la condizione dell’Essere come totalità: non ci può essere nulla che non abbia un essere, che non sia essere. Vediamo meglio: molte interpretazioni insistono sul fatto che l’Essere sia il soggetto della proposizione : “due sono le possibili vie di ricerca : che è ed è impossibile che non sia”. Ma in realtà una modalità interpretativa più sofisticata ritiene che il soggetto di questa proposizione sia qualsiasi ente, qualsiasi x. E perché questo?. Perché Parmenide non distingue tra ente ed Essere. Anche quando parla dell’essere come tutto intero ed uguale intende parlare del fatto che sono tutti degli esseri.. Ancora:Tutto è pieno di essere, ossia l’essere è totalità nel senso che non c’è nulla che non sia essere. In conclusione, il soggetto della proposizione “l’una che è ed è impossibile che non sia, l’altra che non è ed è necessario che non sia” è qualsiasi ente, sia nella prima parte che nella seconda. 23 Filieri Andrea 10 Vediamo meglio: L’essere non è il Nulla abbiamo detto, ma se l’Essere fosse generato, ci sarebbe stato un momento in cui l’Essere era Nulla (Niente), cosa che abbiamo escluso poc’anzi perché contraddittorio. In buona sostanza l’essere è: eterno24, ingenerato ed incorruttibile. Ma, e qui veniamo al fondo del ragionamento parmenideo, se l’Essere è ed il non essere non è come possiamo pensare la totalità degli enti divenienti, le cose insomma? Ogni cosa determinata, ad esempio un fiore, non ha lo stesso significato della parola “Essere” evidentemente, ma allora, e questa è l’estrema conseguenza del ragionamento sin qui condotto, il fiore non è l’essere ossia è nonessere25. (cioè non esiste, è una illusione). Ancora, se io affermo che quel fiore esiste affermo che ciò che non è l’essere è, esiste, è essere, ma questa è una palese contraddizione per cui sembra che per Parmenide il molteplice delle cose divenienti debba essere negato.26(l’immobilità è una caratteristica dell’essere) In conseguenza al problema posto da Parmenide sembra che il mondo della esperienza debba essere negato, sembra che il divenire delle cose finite sia illusorio perché non-essere e quindi Nulla. Il momento della esperienza, dell’apparire del molteplice diveniente e cangiante, sembra inconciliabile con il momento della ragione che afferma la verità dell’ Essere e della sua in generabilità ed incorruttibilità. Parmenide tiene dunque ferma la verità di ragione27 (L’Essere è ed il nulla non è) e ritiene illusoria la verità dell’esperienza: le cose appaiono molteplici e divenienti. Ancora, per tornare alla questione dell’essere parmenideo è interessante far notare che con Se noi introduciamo il tema della temporalità, dobbiamo fare attenzione a non introdurre il non essere nell’essere: introducendo il tempo affermiamo che l’Essere era, è stato e sarà. In realtà non c’è nessun passato per l’essere, non c’è nessun futuro, semplicemente perché introducendo passato e futuro si introduce la variazione all’interno dell’ Essere ossia inseriamo il non essere. Ma allora perché l’essere deve essere eterno? Perché se noi ammettessimo che l’essere abbia una fine , un limite, oltre il quale l’essere non è, ammetteremmo un tempo in cui l’essere non è. Ma, come si diceva, l’essere è, è sempre presente, è sempre nella dimensione del tempo presente, e questa eterna presenza è derivata dalla radicale opposizione al non –essere. In questo senso, per Parmenide, non ha più senso una domanda sull’origine, sul perché delle cose, l’Essere non ha una origine. Né sussiste differenza tra principio delle cose e le cose principate ossia derivate, causate, dal principio. 25 Ib. pagg. 76 e sgg. 24 Se introduciamo nell’essere la variazione, il mutamento, il divenire (ogni cosa diviene altro da sé: il legno brucia, l’uomo invecchia, l’acqua cambia di stato, etc.) dobbiamo introdurre il non essere nell’Essere quindi dobbiamo predicrer anche l’immobilità dell’essere. Facciamo attenzione: in conclusione Parmenide non intende negare la molteplicità degli enti divenienti, intende piuttosto negare la posizione che interpreta la variazione nei termini del passaggio dall’essere al non essere, che è una posizione teorica, e non empirica. Si badi anche a questo: non esiste il puro empirismo bensì esiste una teoria che interpreta la datità. Insomma, il problema è interpretare l’esperienza. 27 Si aggiunga che il non essere è impensabile. E’ possibile pensare solo l’Essere. In effetti se noi affermiamo di pensare al non-essere affermiamo che l’oggetto del pensiero è il Nulla: cosa impossibile. Certo possiamo dire che l’Essere non è, possiamo utilizzare un linguaggio per parlare di ciò che è impossibile dal punto di vista logico, ma, e questo è il punto, nella misura in cui diciamo che l’essere non è noi non pensiamo al nulla bensì all’Essere. Si aggiunga che in Parmenide logica ed ontologia stanno insieme: la struttura del pensiero è la struttura dell’essere (la logica del pensiero è logica dell’essere per i greci in genere) mentre nei moderni le cose vanno un po’ diversamente. Andiamo ancora più a fondo: perché il pensiero non si può contraddire? Perché la contraddizione non possibile? Semplicemente perché per l’essere è impossibile l’introduzione del non essere. Per altro verso possiamo d ire che per Parmenide non esiste separazione tra Essere e logica e questo vale per tutti i greci. In effetti se il pensiero fosse separato dall’essere allora non sarebbe ma daccapo questo è impossibile. Di conseguenza la logica delle cose è presupposta dalla logica del pensiero. In Platone lo vedremo: l’essere è origine della logica e la logica è tale (non contraddizione) perché l’Essere non si contraddice. In un abattuta l’orgine della logica è un’origine ontologica. In seconda battuta, il soggetto non deve essere inteso come nei moderni come cogito cartesiano, il soggetto non ha un natura diversa dall’oggetto : il soggetto manifesta l’essere. Compresenza di essere e della sua manifestazione. 26 Filieri Andrea 11 Parmenide nasce l’ontologia, come studio di ciò che è radicalmente opposto al nulla, cosa che la tradizione posteriore riterrà caratteristica del divino. Il divino sarà infatti pensato come incorruttibile, ingenerato, ed immobile. Se vogliamo, con Parmendide, nasce la teologia, se ammettiamo che la teologia si interessi dell’essere eterno. Certo, in Parmendide, non si parla ancora di questo visto che si interessa a tutto l’essere. Immobil e eterno immutabile ingenerato unico necessario L’Essere è e non può non essere per cui Esso è: Finito come una sfera perfetta continuo omogeneo indivisibile I fisici posteriori Nei pensatori preparmenidei “la verità è l’apparire della physis intesa come unità delle cose molteplici, fonte del loro generarsi e termine del loro corrompersi.”28Le cose appaiono sebbene Parmenide ne affermi l’illusorietà e la contraddittorietà con la ragione. Ma se appaiono come conciliare questo apparire con l’eternità dell’essere ingenerato ed incorruttibile? Possiano dire che in Empedocle la nascita e la morte delle singole cose non è mera apparenza in quanto esprime la mescolanza e separazione degli elementi primi dell’essere quali: acqua, terra, aria, fuoco. Tale mescolanza avviene in una vicenda ciclica che vede di volta in volta il sopravvento dell’Amicizia (che tiene unite le quattro radici in cui è contenuto l’essere dell’universo diveniente) o della Contesa( che separa le radici dell’essere producendo il divenire cosmico)29. L’Amicizia e la Discordia producono e distruggono quindi le diverse configurazioni delle cose. Del resto già in 28 29 Severino, ib. pag. 55 Ib. Filieri Andrea 12 Eraclito il logos è anche la forza che produce e distrugge le cose ed in Anassimandro l’arché è anche la forza che le governa.30 In Democrito del resto, è presente l’esigenza di affermare con decisione l’esistenza dei fenomeni negati dall’eleatismo. L’esperienza insomma non può essere più negata. Del resto Democrito ritiene con l’eleatismo che l’esistenza dei fenomeni implichi il non essere. A questo punto Democrito ritiene di poter conciliare i due aspetti citati affermando che anche il non-essere è: l’esistenza del non-essere è la condizione del molteplice. E come interpreta l’atomismo questa affermazione? Se l’essere dei fenomeni corporei non può essere negato esso è ritenuto, in quanto esteso e corporeo: pieno. Il non-essere sarà allora il vuoto inteso come non corporeo e pura estensione non riempita. Il vuoto divide la compattezza del molteplice in una molteplicità di parti e quindi è ciò che rende possibile il molteplice. In questo senso anche il nonessere esiste. Di più ancora, è l’estensione dei corpi, ossia la determinazioni quantitativa , ad indicare il criterio di verità dell’essere. Dal punto di vista della verità infatti l’essere è estensione piena(ossia l’essere è ciò che rende piena l’estensione31) mentre il non-essere è estensione vuota. Gli aspetti qualitativi sono invece opinione illusoria. 32 Ci eravamo imbattuti nel pensiero di Eraclito con cui le cose vivono in una essenziale contrapposizione e contraddizione per poi incontrate Democrito che affermava che il non-essere è quando riteneva che ogni corpo fosse un insieme di essere e non-essere (pieno e vuoto). Ora proprio queste affermazioni inerenti il carattere contraddittorio della realtà (ogni ente è pieno e vuoto, ogni ente è e non è, in vista della aggregazione di atomi e della differenza tra atomo e atomo) portano i sofisti a interpretare la relazione tra ragione (verità logica) ed esperienza (verità di fatto) come contraddittoria. In una battuta l’opposizione interna alle cose e tra le cose porta i sofisti a negare L’autosufficienza dei quattro elementi impone il ricorso ad un duplice principio attivo a loro esterno che dia ragione dei movimenti di associazione e dissociazione della sostanza. Per quanto concerne la dottrina di Democrito che afferma l’esistenza degli atomi e del vuoto come spiegazione del divenire, è possibile parlare di meccanicismo: - in riferimento all’esclusione di menti ordinatrici del cosmo in riferimento all’esistenza di legami meccanici di tipo causale tra i corpi. Una metafora spesso usata è quella dell’orologio in cui ogni ingranaggio è connesso con tutti gli altri sicché il movimento di ognuno è compreso riferendosi anche agli altri . Sviluppando questa metafora si può arrivare a pensare Dio come l’orologiaio che regola il flusso del tempo dell’orologio. Diversamente il determinismo , vede nella natura lo svolgersi di leggi necessarie che si fondano sul rapporto di causa effetto. In questo senso ciascun evento è frutto di una rete di cause che lo determinano. Non è quindi presente il caso in una natura regolata da principi meccanici di sola causa\effetto. In effetti gli eventi casuali presenti nel meccanicismo non sono logicamente deducibili dagli eventi precedenti nel tempo e nello spazio. Sempre in relazione a Democrito è possibile parlare di vuoto e pieno: vuoto è il non essere e pieno è l’essere, precisando però che lo spazio non è né assoluto pieno né assoluto vuoto. Per altro verso la materia per D. è il pieno concepita come indivisibile in quanto non composta da parti (a-tomo) contrapposta al vuoto dello spazio. In questo senso per Democrito il non-essere è pensabile come vuoto inteso come reale e possibile (Parmenide nega il vuoto assimilato al non-essere, mentre l’atomismo e lo stoicismo lo considerano al pari della materia con cui non interagisce uno degli elementi dell’essere) nell’unico spazio inteso come detto. Questa operazione è resa possibile dal fatto che per l’autore in oggetto il linguaggio va inteso come un insieme di segni convenzionali privo (come dicevano gli eleati) di rapporti necessari con l’oggetto designato dal segno. Ecco allora che Democrito rifiuta l’alternanza secca delle due vie di parmenide (opinione e verità) nonché LA VIA ERACLITEA della giustezza del logos. La conoscenza per D. è oscura se intesa come esperienza dei cinque sensi ma diventa chiara non appena si procede alla riflessione sulle cose invisibili mediante la ragione. 31 Questa è la posizione materialistica di Democrito: la concezione che non esiste altro essere che quello da cui lo spazio è riempito, posizione nuova nel panorama sin qui delineato nella storia del pensiero filosofico. In modo ancora più deciso D. ritiene che il divenire sia spiegato nei termini di un movimento degli atomi urtati da altri atomi. La causa del moto sta in altri atomi che li urtano escludendo così qualsiasi finalismo, ossia qualsiasi fine di una mente ordinatrice del divenire in vista di un determinato fine. In effetti solo una mente può ordinare ad un fine ma questo è escluso. Anche la mente umana allora non potrà esser altro che un aggregato di atomi mentre la sensazione ed il pensiero sono movimento di atomi. 32 Severino, cit. pag. 67 30 Filieri Andrea 13 una verità uguale per tutti. Anche l’esistenza di una molteplicità di dottrine contrastanti è la prova evidente che l’essere non si manifesta nella verità ma solo nella discordia tra gli uomini. 33 Il movimento sofistico È caratterizzazto da attività di insegnamento a pagamento È rappresentato da : Protagora: relativismo morale; Gorgia : scetticismo metafisico Credenze, costumi, leggi, valori possiedono una verità relativa al contesto culturale per cui unico criterio di verità l’utile mentre strumento di consenso è la parola 1. L’Essere non c’è, è inconoscibile o inesprimibile; 2. non esiste alcun criterio di verità oggettivo per cui: 1. la parola ha potere assoluto; 2. l’esistenza è una dimensione irrazionale e misteriosa. Protagora (sofisti): a differenza di Parmenide, Protagora (V sec. A.c.) tiene ferma l’esperienza affermando il carattere illusorio della ragione. Per Protagora dunque non esiste una verità34 definitiva ed incontrovertibile (l’Essere è ed il non essere non è) semplicemente perché “l’Uomo è misura (métron) di tutte le cose”. La ragione allora non è più la ragione universale delle 33 Severino, cit. pag. 66 Filieri Andrea 14 verità incontroverbili bensì l’espressione della singola esperienza individuale che sola stabilisce l’essere ed il non essere di ciò che si afferma. Una critica dunque, radicale, al valore assoluto della conoscenza. In buona sostanza il criterio di verità e falsità è derivato dall’esperienza soggettiva posta a fondamento del conoscere, ecco che allora tale criterio non può essere posto esser determinato in modo univocamente universale, vista la diversità ed eterogeneità delle esperienze. in questo senso possiamo arrivare a dire che nessuno pensa il falso vista la verità soggettiva di ciò che il soggetto sperimenta. (ciò che è bello per uno non è bello per l’altro). Tale criterio però non si dà nel caso della politica dove è necessario trovare l’utile collettivo come condizione per lo sviluppo armonico della polis. Vediamo: se ad un uomo il cibo appare amaro allora quel cibo è amaro; e così via per tutto ciò che l’uomo afferma. Se ad un altro uomo quel cibo appare dolce allora il cibo è semplicemente sia amaro che dolce, insieme sia dolce che amaro. Gorgia Gorgia era un grande sofista siciliano che insegnò retorica ad Atene ai tempi di Socrate . Pare che nella sua opera - Sul non essere –Gorgia confutasse una ad una tutte le tesi di Parmenide per mezzo di argomentazioni dialettiche molto simili, nella struttura, a quelle inventate da Zenone. 35 Se il non essere è non essere (ossia non esiste, come sostiene Parmenide), allora il non ente non sarà nulla di meno dell’ente , perché il non ente è non ente e l’ente è ente, sicché il fatto che le cose siano non sarà nulla di più del fatto che le cose non siano. Se dunque il non essere è, allora l’essere, che è l’opposto, non è. “Quando vado a tradurre Platone trovo il termine "alètheia", che è il termine con cui gli antichi intendevano la verità. Andando poi al fondo a vedere la cosa, trovo tradotto "alètheia" con "veritas", cominciando da Cicerone e dai traduttori latini. Mi sono reso conto che, se Platone li avesse sentiti, si sarebbe arrabbiato moltissimo.. Infatti il nostro termine "veritas" non vuol dire affatto quello che era, per i greci, la verità. Alètheia, senza voler fare nessun accenno ad Heidegger, viene da lanthano che vuol dire "coprire". Da lanthano proviene Lete, che è il fiume dell'oblio, il fiume che copre. Alètheia, con l'alfa privativo, è il contrario di ciò che si copre: è ciò che si scopre nel giudizio. Nel nostro ambito latino, veritas è un termine che proviene dalla zona balcanica e dalla zona slava, e vuol dire tutt'altro che verità. Vuol dire, in origine, "fede"; fede nel significato più ampio della parola, tant'è vero che in russo ad esempio vara vuol dire fede. Tutti noi sappiamo benissimo che l'anello della fede si chiama anche la vera, proprio perché questa origine balcanica, slava è penetrata fino da noi: la vera è la fede. Andando avanti nello studio, ci si rende conto che ci troviamo di fronte ad una doppia verità. In ciò che diceva Averroè, che parlava di "doppia verità", vi è una sottilissima visione storica e critico-filologica del significato di verità. Qual è la doppia verità? Da un lato la verità di fatto è ciò in cui ho fede, per cui l'assumo come vera senza nessuna riflessione critica: questa è la nostra veritas. L'altra verità è quella che Leibniz - altrettanto dotto - aveva chiamato la "verità di ragione", per la quale sufficit la ragione; la ragion sufficiente, distinta dalla verità di fatto. Ecco le due verità: l'una è una fede, che è una cosa, e quindi dovrebbe entrare in tutto un altro ambito; l'altra è quella logica che scaturisce attraverso il saper pensare: si scopre la condizione che permette di definire la cosa e quindi questa diventa vera nel giudizio, nel logos, nel ragionamento che la viene determinando. 34 Tratto dall'intervista "Parole chiave della filosofia greca" - Napoli, 1998 35 E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Bari, 2008. Filieri Andrea 15 Biblioteca Marotta, martedì 31 maggio Cerchiamo di esaminare la forma del discorso presentato da Gorgia: esso deduce dalla tesi di Parmenide – solo l’essere è e quindi il non essere non è- la conseguenza che il non essere, per il fatto di essere identico a se stesso, esattamente come l’essere, non ha nulla di meno dell’essere. Detto altrimenti, non c’è nessuna ragione per dire che le cose sono, più di quanta ve ne sia per dire che le cose non sono. Da ciò deriva la conclusione che nulla è. La tesi di Parmenide dunque, contraddice se stessa. 36 Veniamo alla seconda parte del ragionamento di Gorgia: Le cose pensate (per Parmenide) devono essere, ed il non ente, se non è, non deve poter essere pensato. Ma, se è così, nessuno dirà più nulla di falso, neppure se dirà che dei carri gareggiano sul mare, poiché tutte queste cose saranno. Infatti le cose viste e le cose udite sono per questa ragione, cioè perché ciascuna di esse è pensata. Se invece non sono per questa ragione, ma le cose viste per nulla di più sono, allora allo stesso modo le cose viste non sono per nulla di più di quelle pensate; infatti , come in quel caso molti potrebbero vederle, così in questo caso molti potrebbero pensarle. Dunque il “di più” è di questo tipo. Ma allora non è chiaro quali siano le cose vere ; sicché , se le cose stanno così, le cose sono per noi inconoscibili Se solo l’essere può essere pensato, ci dice Gorgia, allora tutto ciò che può essere pensato è, cioè sono anche i carri che gareggiano sul mare. Se infatti le cose sono perché possono essere pensate, allora non solo le cose che sono viste da molti devono essere, ma anche quelle che sono pensate da molti. Ma in tal modo non c’è nessuna differenza tra il vero ed il falso e noi non riusciamo più a sapere che cosa è vero, dunque non riusciamo più a conoscere nulla: ciò equivale a dire che l’essere non può essere pensato. Se anche le cose fossero conoscibili , come potrebbe qualcuno manifestarle a qualcun altro?ciò che uno ha visto, come potrebbe dirlo con una parola (logos)?E come potrebbe quello diventare chiaro a chi ha ascoltato senza avere visto?Come infatti la vista non conosce i suoni così anche l’udito non conosce i colori, ma i suoni, e chi parla dice,ma non dice colore né cosa, poiché non dice un colore, ma una parola (logos); sicché non è possibile pensare un colore, ma solo vederlo, né un suono, ma solo udirlo. Solo le parole possono essere dette , ma le cose non sono parole, quindi le cose non possono essere dette: i colori non possono essere detti ma solo visti ed i suoni non possono essere detti ma solo uditi.37 36 37 Ib. pag. 32 Ib. pag. 33 Filieri Andrea 16 Ipotesi iniziale: qualcosa esiste, quindi è: O essere Quindi è: O eterno Quindi è: Infinito Quindi : Non è in alcun luogo O non essere ma questo : O generato Quindi è: O nato dall’Essere, ma questo : È impossibile Perché se è nato non è essere (in quanto prima non era) O eterno e generato insieme , ma questo: O nato dal non essere ma questo : Impossibile perché contraddittorio È impossibile perché il non essere non è e non può generare Per cui non esiste Filieri Andrea È impossibi le perché il non essere non esiste 17 O essere e non essere insieme , ma questo: È impossibile perché è contradditori o Socrate “So di non sapere” Socrate Se nei sofisti la critica ad ogni forma di sapere è radicale, Socrate ristabilisce un rapporto positivo con la verità differenze affinità Sofisti Socrate esercizio della filosofia esercizio della filosofia come mestiere ; come attività disinteressata a relativismo conoscitivo beneficio della ed etico; collettività; uso della dialettica al esigenza di superare il fine di persuadere, relativismo in direzione talora anche della ricerca di una indipendentemente dai verità condivisa; contenuti uso della dialettica come strumento di ricerca della verità; oggetto dell’indagine filosfica: oggetto dell’indagine filosfica: uomo e mondo; uomo e mondo; orientamento razionalista ed orientamento razionalista ed approccio critico approccio critico So di non sapere dice Socrate in quanto le leggi, le consuetudini sociali e le credenze religiose non gli consentono di sapere veramente qualcosa perché gratuite ed infondate. In questo senso nemmeno le verità filosofiche si presentano come incontrovertibili per cui Socrate è ancora più critico dei sofisti verso la conoscenza. Eppure lui sa di non sapere. Sa cioè che tutto quanto è intorno a lui è privo di verità e gratuito. Ma sapere di non sapere è ben più di non sapere e permette il salto qualitativo verso un piano superiore: il piano delle critica e della consapevolezza della propria ignoranza e della non verità del proprio sapere (come il sapere sofistico) In effetti Filieri Andrea 18 Socrate è il più sapiente dei greci perché possiede un sapere superiore: il sapere che tutto ciò che è oggetto di giudizio non è vero. La sua è quindi una critica al principio di autorità, educando così i suoi concittadini: - alla conoscenza di sé: “conosci te stesso” alla cura della propria anima al dubbio su tutto ciò che è oggetto di riflessione. Tale critica viene esercitata mediante il continuo ricorso alla domanda “che cos’è” su ogni cosa, (si tratta insomma di cogliere l’essenza dell’oggetto del discorso) ossia mediante una continua richiesta di definire38 ciò di cui si parla. Nello specifico, non si tratta tanto di definire obbligatoriamente tutto ciò di cui si parla quanto di procedere alla sistematica messa in discussione di ogni oggetto d’indagine fino a rivelarne l’infondatezza ed i pregiudizi sottesi. In questo senso Socrate avvia il Dialogo tra gli interlocutori come ricerca viva di ogni cosa e come via per il sapere . Sapere che, se raggiunto, può portare al bene dell’individuo ossia alla virtù. La virtù, in effetti, per Socrate, è sapere: sapere come e cosa fare ogni volta che si tratta della nostra condotta, del nostro agire, del nostro stare con noi stessi e con gli altri. Conosci te stesso recita sempre Socrate. Si tratta allora di esaminarsi continuamente alla ricerca delle proprie virtù e del proprio bene mediante un processo di messa in discussione delle proprie credenze e dei propri valori: “ per l’uomo il bene più grande e quotidianamente ragionare della virtù e (…) la vita senza esame è vita indegna d’essere vissuta.” In questo senso Socrate richiama la filosofia dal cielo alla terra (Cicerone) ponendo l’attenzione della sua ricerca non sulla ricerca naturalistica bensì sulla ricerca del senso della realtà umana. Ma come ricerca Socrate la verità e la virtù? Mediante l’ironia (aspetto inventao da Socrate): arma dialogica che come la torpedine comunica la scossa a chi la tocca, la scossa del dubbio che emerge dalle false credenze e dalla false certezze. Si tratta allora di rimuovere le false certezze acquisendo un metodo d’indagine che non pretende insegnare nulla (Socrate) ma solo far partorire a colui che dialoga con Socrate, come una levatrice (arte maieutica), la virtù ed il bene. Ecco che allora se Socrate accetta, da un lato, la critica di non sapere insegnare nulla, permette d’altro canto al singolo, mercè il dialogo, di giungere alla verità: la virtù, la giustizia, il bene. Sapere insomma cos’è il bene per l’uomo, è il risultato della ricerca socratica. Si tratta insomma, per Socrate, di vivere conformemente alla verità con saputa, di vivere nella conoscenza suprema del bene per l’uomo. Chi non vive in questo modo, non è chi non vuole vivere nelle virtù (volontarismo etico)39 bensì chi non sa quale sia la verità (intellettualismo etico nel senso che per Socrate sapere ed essere sono una cosa sola40). In effetti che sapere possiede chi resta sopraffatto dalle passioni? Tale sapere è un non sapere. Vediamo: le cose che danno piacere non sono male in quanto danno piacere, ma in Definire l’oggetto d’indagine: cos’è giusto? Cos’è bello? La risposta a questa domanda non va ricercata nelle singole azioni particolari che possono essere testimoniate dai sensi o dalle sensazioni bensì dal pensiero:ossia dal concetto che il pensiero coglie come generale o universale. Non allora alle singole azioni giuste per il singolo uomo sofisti) ma non 38 per l’altro, ma la giustizia come universale concetto (l’idea) che nel pensiero si manifesta come identico nei diversi individui e perciò fonte di accordo. 39 In questa prospettiva si ritiene che a dominare le azioni umane siano le passioni e gli istinti e che il sapere sia sempre sopraffatto da questi. 40 Vediamo: sapere ed esser virtuosi , per Socrate, sono la stessa cosa. Siamo cattivi dunque solo in quanto non sappiamo. Come si afferma spesso: non sanno quello che fanno per cui sono cattivi. In buona sostanza, una volta ottenuto il sapere si diventa buoni. Eppure, un aspetto poi codificato da Aristotele, è quello della debolezza della volontà. Alla fine, all’interno della Scuola di Atene, posiamo trovare un identico interesse per la morale(sapere\morale) ma declinato in forme differenti: Socrate identifica il sapere con la bontà; Platone identifica il vero col bene; Aristotele identifica il sapere con la felicità. Non il sapere con la virtù, visto che sussistono esempi contrari, ma il possesso di un saper correlato al raggiungimento della felicità per l’uomo. Filieri Andrea 19 quanto son seguite da dolore ed infelicità. Le azioni buone, viceversa, sono buone in quanto seguite dalla felicità anche se dolorose al momento. Ma allora come ci poniamo di fronte alla domanda rivolta a chi fa il male pur sapendo che è male? Non è forse un assurdo? In realtà, per Socrate, nessuno fa il male essendone veramente consapevole. Chi fa il male, ossia chi compie azioni che procurano danno a lui ed al prossimo, lo fa perché non sa che il piacere che gli deriva immediatamente da quell’azione sarà seguito da un dolore peggiore. . Insomma non sa, incontrovertibilmente, la verità. Chi compirebbe mai una azione che, alla fine , procura più dolore che piacere? Allora è quel sapere veramente le cose che dobbiamo cercare. Se Socrate trovasse quella verità certa che afferma di non sapere essa costituirebbe la virtù di cui si accennava in precedenza. La filosofia per Socrate: È incessante esame di sé e degli altri Condotto con atteggiamento critico Filieri Andrea Studia l’essere umano Nel quale infividua i criteri del pensiero e dell’azione 20 Cerca la verità Nel tentativo di superare il relativismo sofistico Virtù. Essa è: unica Scienza Assume forme diverse nei differenti ambiti Cioè è la conoscenza del bene che si fonda sulla ragione ricerca insegnabile Richiede un incessante esame di sé nelle diverse situazioni concrete È frutto dell’educazione Si realizza nella dimensione politica Data la natura sociale dell’uom o Coicide con la felicità Intesa cme la realizzazione della natura umana Della fortezza “virtus est quae bonum facit habentem, et opus eius bonum reddit” Tommaso, De fortitudo. I primi filosfofo Greci , nella loro concezione pagana41, diedero alla fortezza il nome di andrèia, che noi diremmo virilità. . E’ la virtù con la quale l’uomo dimostra di essere tale: anèr. Una fermezza d’animo di fronte alla morte. Accanto a questa dimensione c’è l’atteggiamento fermo dell’uomo di fronte alle avversità della vita: carterìa o perseveranza forse durezza42. Ora, l’uomo che vuole affermare positivamente il suo dominio sul mondo, ha bisogno di espandersi in grandi propositi attraverso la magnanimità. Ecco, questei tre aspetti o caratteristiche sono assunte dagli stoici come requisiti necessari per il dominio di sé, delle passioni. 41 42 Tommaso d’Aquino, La somma Teologica. Ibidem. Filieri Andrea 21 Platone (427\347 a.c.) Abbiamo detto che nella filosofia presocratica ci si rivolge al Tutto come ciò che vi è di identico in tutte le cose (l’identità presente in tutte le cose) ma il Tutto si può presentare come tale solo nel concetto(Socrate) che noi abbiamo della totalità: andando alla ricerca del Tutto, lo possiamo comprendere, ossia ci è intelligibile, solo se si manifesta, solo se si presenta inequivocabilmente nel concetto che ne abbiamo: il Tutto è pensato come Idea. L’acqua, l’aria, l’Essere, sono dunque concetti , o meglio, sono contenuti di concetti di volta in volta assunti come il concetto più universale del molteplice cangiante e diveniente. 43 Severino, ib. Pag. 83. Si pensi anche a questo: Platone deve anche poter formulare una teoria dell’essere diveniente che Parmenide , nella sua fisica, aveva tentato di pensare senza introdurre il non-essere. In effetti il problema di Platone è quello di dare una teoria dell’essere diveniente senza incorrere nel problema parmenideo dell’introduzione del non essere al fine di spiegare l’essere diveniente: una otologia dell’essere diveniente . la risposta di Platone sta nell’introdurre un nuovo senso del niente : - nulla assoluto come negazione dell’Essere - nulla relativo come eteron, come altro dall’essere senza negare l’essere. Altro nel senso che anch’esso è essere sebbene non l’Essere. 43 Allora Platone quando parla dell’ente intende dire due cose: - che questo oggetto ha alcune caratteristiche - che questo oggetto è ossia esiste. Nell’affermazione che un oggetto è un ente ci sono entrambe le cose dette. Ed è il NON che mi permette di dire che una cosa è tale: x NON è y. Solo attraverso la negazione (non essere) arrivo a dire che cosa è x. D’altro lato se predico di tutte le cose solo l’essere, le cose non si differenziano. Insomma la cosa non è solo un ente ma anche altro. Allora devo dire che la cosa è un ente (predico l’essere della cosa) e che la cosa è qualcosa (ciò che la cosa è) di definito (la sua essenza o il suo significato diremmo noi moderni). Ma io posso dire tutto ciò solo se introduco il non essere differenziando l’essere dalla determinazione. Detto in altri termini quando dico che la deterninazione non è essere intendo dire che la determinazione implica, al tempo stesso: - l’essere della cosa ossia che la cosa è il non essere della cosa ossia che la cosa è qualcosa di diverso dal semplice Essere perché se fosse solamente, non ci sarebbe la differenza. Devo dire quindi che la cosa è diversa dall’Essere e di conseguenza introdurre il non –essere al fine di spiegare l’esistenza del molteplice diveniente. Se questa cosa è chiara possiamo dire allora che le caratteristiche della cosa sono sebbene non siano Essere: essere(della cosa) come eteron, come altro(dall’Essere) e non come Nulla. Altro qui significa che esso è un essere senza essere l’Essere. Quindi un non-essere relativo e non assoluto (Nulla).Platone introduce quindi il non essere relativo come altro dall’essere senza essere nulla. il fatto che la cosa sia determinatamente questa cosa , la determinatezza della cosa non è un niente, è essere essa pure, non c’è dubbio, le caratteristiche della cosa sono e tuttavia non sono identiche con l’Essere, ché se non ci fosse distinzione si avrebbe solo il puro Essere indistinto. Allora le caratteristiche della cosa non sono essere e al tempo stesso sono. Se comprendiamo questa cosa capiamo la nozione di essere relativo o di non essere relativo in Platone e comprendiamo come per Platone sia necessario introdurre il non-essere proprio per comprendere la nature dell’Essere. In effetti , secondo Platone, senza il non-essere non saremmo neppure di fronte all’Essere. In conclusione, per Platone, se vogliamo capire la natura dell’Essere dobbiamo introdurre il non essere, questo è il contributo filosofico fondamentale rispetto a Parmenide. Ma, arrivati a questo punto, dobbiamo chiederci, se l’ente sensibile e diveniente è caratterizzato sia dall’essere che dal non essere , direbbe Platone, da una via di mezzo tra l’essere e il niente, (non è Essere in quanto diviene, è generato e si corrompe, non è nulla in quanto è altro dall’Essere senza essere niente) qual è il fondamento dell’ente sensibile e diveniente? Ossia , se l’ente sensibile non è un ente - Filieri Andrea 22 Vediamo: quale relazione sussiste tra un concetto e le cose a cui si riferisce? Quale relazione sussiste tra la bellezza e le cose belle? Alcune cose belle possono sfiorire, o per altro non lo sono state sempre, possono perire come cose, etc..La bellezza, viceversa, non potrà avere queste caratteristiche, si è mai vista una bellezza in precedenza brutta? Se vogliamo la bellezza non si modifica, le cose belle sì. Ora, il contenuto del concetto, ciò che in ogni concetto viene concepito, viene chiamato da Platone Idea.44 Ma l’Idea non è diveniente e mutevole e pertanto è eterna e imperitura: l’Essere per eccellenza. L’Idea non è allora quel contenuto della mente che ritroviamo in noi stessi alla fine di un ragionamento (valenza psichica o mentale), l’Idea non è il contenuto mentale del concetto, ché se così fosse non esisterebbe fuori dalla mente, l’Idea esprime piuttosto l’Essere nel suo manifestarsi al pensiero, allo sguardo concettuale della 45 conoscenza. Ancora, l’Idea è pensata secondo Platone, non è sentita attraverso i sensi. Noi vediamo le singole cose ma non l’Idea, noi non riusciamo attraverso i sensi a toccare l’Idea. Possiamo anche dire che l’Idea è un significato46 (l’esser uomo) che è pensato all’interno della conoscenza. Il pensato (il contenuto del concetto, l’Idea) non è qualcosa di irreale bensì è Essere, complesso di Idee (essere uomo, bellezza, etc.) che si manifesta nella conoscenza concettuale. Il mondo delle Idee è dunque massimamente reale ed oggettivo anzi è più reale degli enti che appaiono ai sensi in quanto gli enti divengono altro da sé. L’Idea dunque appare alla ragione e si vede47: si vede inequivocabilmente senza misteri o pratiche esoteriche con gli occhi della ragione48. Ancora, l’Idea , per Platone, si manifesta nel dialogo: solo nel Dialogo io posso verificare attraverso le obiezioni del mio interlocutore se quanto affermo corrisponda al vero. Ed attraverso il Dialogo io arrivo a pensare l’Idea. Ma qual è allora la caratteristica dell’Idea? Vediamo. 1) struttura oggettiva del mondo delle Idee e non contenuto soggettivo dell’anima 2) massima realtà dell’Idea, più reale degli oggetti che appaiono ai sensi assoluto come l’essere parmenideo dove trova l’origine della sua esistenza? Non in se stesso in quanto non assoluto ossia in quanto caratterizzato dall’essere e dal non essere, sebbene relativo bensì in altro. E cos’altro se non nel soprasensibile? Ad esempio qul è il fondamento di una singola cosa bella?Una singola azione buona? Il Bello in quanto tale o il Buono in quanto tale: una realtà universale ossia l’idea. 44 Severino, Ib. Pag. 85 45 vediamo: una lettura moderna di Platone riconoscerebbe nella connessione tra il mondo ideale delle Idee ed il pensiero il prodotto dell’attività del pensare. In una battuta: il pensiero produce l’universalità dei concetti. In Platone è vero l’opposto: il pensiero può arrivare ai concetti , all’univerale, proprio in quanto l’universale esiste oggettivamente. La nostra capacità di astrarre dalle singole cose determinate ed arrivare al concetto universale è resa possibile questte strutture universali esistono. 46 Il significato mostra in effetti che cos’è una determinata cosa sensibile. In buona sostanza il procedimento socratico del che cos’è e dell’universale viene fatto proprio da Platone e superato nella concezione del mondo delle Idee come Essere visto dal pensiero. Ma che cos’è il pensiero? Per tutto il pensiero antico il pensiero non si costituisce se non all’interno della propria unità con la realtà. Potremmo anche dire che il pensiero è lo stesso venire alla luce della realtà. . Io penso nel momento in cui la realtà ha consentito di manifestarsi. Ancora potremmo dire che proprio in quanto la realtà si manifesta, proprio in quanto la realtà è Idea, io posso pensare . Se la realtà non fosse Idea, tutti i miei sforzi sarebbero inutili. 47 Se in Socrate vale il detto “so di non sapere”, in Platone vale il contrario: so di sapere, ossia so si conoscere l’Essere intelligibile al pensiero 48 Le Idee sono dunque soprasensibili in quanto appaiono primariamente all’intelletto . In quanto appaiono all’intelletto senza velature sono intelligibili. Ma se sono soprasensibili allora esiste una separatezza tra i due mondi, sensibile e soprasensibile. Per Platone, tra i due mondi c’é korismos, separatezza . I latini tradurranno questo termine con trascendente. Nasce qui allora quella separatezza del mondo intelligibile rispetto al mondo sensibile. In buona sostanza la divisione tra spirituale e materiale. Prima di Platone del resto non è possibile pensare Dio come qualcosa di metafisico e immateriale. Filieri Andrea 23 3) non fisicità dell’Idea: non sta in un luogo o in uno spazio 4) essenza della realtà: una volta che noi abbiamo astratto dalla sua particolarità di cosa reale e determinata ci resta che cos’è quella cosa: l’Idea 5) realtà dell’Idea: le Idee si vedono, sono massimamente visibili agli occhi dell’intelletto, sono totalmente trasparenti al pensiero anzi, le Idee sono reali proprio in quanto si manifestano al pensiero attraverso il Dialogo 6) il pensiero si compie solo nel Dialogo: Io penso solo se dialogo, anche con me stesso, perché introietto le obiezioni possibili del mio interlocutore. E quando penso, inevitabilmente mi appare l’Idea. 7) Il pensiero raggiunge sempre la verità: nell’epoca moderna il problema , ad esempio di Cartesio, sarà quello di capire se il pensiero raggiunge la realtà. Platone, viceversa, ritiene che non si sia pensato sino a quando non si sia raggiunta la realtà sicché, quando penso, inevitabilmente, raggiungo la realtà. Semmai io non penso se sento, ossia se sono all’interno della sensibilità dove , appunto, ancora non penso. 8) Universalità dell’Idea: l’idea del bello, del bene etc. è universale.Se non sapessi cos’è la bellezza potrei mai riconoscere una cosa bella?(aspetto gnoseologico Le Idee Costutuiscono una zona dell’Essere diversa dalla nostra: l’iperuranio Si distinguono in: idee\valori idee matematiche idee di cose naturali idee di cose artificiali organizzate secondo una gerarchia con a capo l’Idea del Bene Ripetto alle cose sono in un rapporto di : Mimesi (imitazione) Metessi Partecipano dell’essere delle idee Parusia contengono le idee Ora, se noi consideriamo che cos’è un ente qualsiasi, abbiamo sempre a che fare con un’idea. Alla domanda “cos’è Atene” dovremo rispondere che è una città. Ed è l’Idea di città ciò che è Atene. Possiamo anche dire che l’Idea costituisce il mondo sensibile. Il mondo sensibile è, in virtù dell’Idea. Se vogliamo, l’Essere delle cose sensibili, e divenienti non è costituito né dagli atomi democritei, né dalle quattro radici empedoclee bensì dalle Idee ed è questa la vera risposta Filieri Andrea 24 platonica. L’universale esiste oggettivamente49. Vediamo: se una cosa è bella lo è per la presenza della bellezza, o del bello in sé, e per nessuna altra causa Socrate è uomo se non per la presenza dell’essere uomo. In questo senso Platone non ha l’intento si stabilire in che modo l’idea sia presente nel sensibile bensì, più semplicemente, di affermarne la presenza. Tale affermazione conduce Platone, nel Timeo, ad introdurre da un lato il Demiurgo (Dio), artefice dell’universo sensibile, dall’altro una natura informe che è “madre” e ricettacolo di tutto ciò che viene generato. In effetti il demiurgo esprime la forza che ha la capacità di realizzare la partecipazione dell’Idea al sensibile. Ossia di produrre il sensibile ad immagine e somiglianza (mimesi) dell’intelligibile. . Non una forza cieca ma una potenza che è insieme anche suprema sapienza. La sapienza di chi conosce il mondo delle Idee e le assume come modello50 nella produzione sensibile. L’Idea allora è la vera “causa” del mondo sensibile: il reale è tale perché modellato sull’intelligibile ad opera del Demiurgo. Ora, se l’Idea è presente nel mondo sensibile ad opera del Demiurgo, il costituirsi del sensibile, il suo farsi concretamente qui ed ora, richiede anche ciò che riceve forma dall’intelligibile: le Idee di bello, Buono; Giusto, Uomo, etc., sono i modelli di ciò che riceve l’Idea. L’immagine esiste, è tale, solo se “qualcosa” è trasformata dal Dio in immagine dell’Idea. Ma se questo “qualcosa” è ciò che può ricevere ogni impronta dell’intelligibile (ossia del regno delle Idee), proprio per questo non avrà nessuna intelligibilità. Ciò posto, la chora (il “qualcosa” assolutamente indeterminato”) non è né terra, né aria, né fuoco, etc.51, ma è assolutamente indeterminata: è la pura capacità di assumere ogni forma, il caos originario, ingenerato ed eterno, che viene trasformato in cosmo ordinato dall’intelligenza divina del Demiurgo. Ancora, potremmo dire che la chora non è nient’altro che la physis in quanto materia (ciò di cui le cose sono fatte) mentre il Demiurgo che produce le cose sensibili ad immagine dell’Idea è la physis in quanto arché. In questo senso la cosa sensibile che è immagine dell’idea, corrompendosi ritorna all’idea nel senso che l’idea resta immutata ed eterna mentre la parte sensibile di ciò che è fatta la cosa sensibile ritorna alla materia madre. Ciò che è (idea intelligibile); Il che cos’è dell’ente , l’essere dell’ente (e di se stessa) Cosa sensibile Ciò di cui è fatto (materia) Vediamo: il mondo delle Idee eredita la caratteristica dell’essere parmenideo: la necessità. L’Idea è forma dell’oggetto e quindi sua ragion d’essere (perciò logicamente ed ontologicamente preesistente agli oggetti sensibili, che non sono se non copie di essa in un rapporto di presenza, partecipazione, imitazione e comunanza). Vedi Atlante della Filosofia, cit, pag. 345 51 Severino, La filosofia antica e medioevale, Bur, Milano, 2006 49 50 Filieri Andrea 25 Dall’opinione alla verità L’anima è come un libro, in cui un interno scrivano annota i pensieri, ricordi e ragionamenti. L’anima non deve essere troppo dura per trattenere le impressioni, nè troppo tenera per lasciar sfuggire le impressioni. Platone Ora, la conoscenza del mondo delle Idee, la conoscenza dell’Essere (genitivo oggettivo) viene a formarsi secondo Platone alla fine di un laborioso processo che porta al di là del comune modo di pensare. I più ritengono che la realtà consista nel solo mondo sensibile non arrivando a concepire le Idee, non arrivando a comprendere come le cose siano immagini delle Idee. Insieme a Parmenide, Platone chiana doxa (opinione) il sogno in cui permangono coloro che si fermano al solo mondo sensibile. I più insomma si relazionano al mondo diveniente che ora è, esiste, è qualcosa, ed ora non è più, è non essere, non essere più il qualcosa di prima, o, per converso, non ancora. Platone elabora a questo proposito un mito, il mito della caverna, al fine di rendere chiaro il senso del processo conoscitivo: inizialmente l’uomo vive nello stadio (fase) dell’opinione, in una sorta di prigione che non consente di muoversi verso la verità. Un’opinione riferita, rispettivamente, ai corpi sensibili ( fede) o alle immagini di questi (immaginazione): prodotti dell’arte umana, sogni, fantasie. Successivamente, nello stadio dell’intelligenza, l’uomo si può trovare nuovamente all’interno di due fasi: il raziocinio e la intuizione (noùs). Il raziocinio è costituito dalle conoscenze afferenti il mondo geometrico\matematico: il quadrato sensibile e le altre figure della geometria sono oggetto di comprensione razionale così come i principi da cui muovono per i ragionamenti matematici quali il concetto di numero, pari, dispari, etc. Ma tali principi non sono oggetto d’indagine da parte della geometria, che li utilizza al fine di dimostrare i diversi teoremi matematici e geometrici. Viceversa, nella fase dell’intuizione, non vi deve essere nulla di ipotetico o dubitativo, nulla che si rifaccia ad altri principi o idee. La verità e la scienza si costituiscono piuttosto solamente nell’ultima fase: in quest’ambito avviene la conoscenza dovuta al nous, all’intuizione, che permette l’accesso al principio non ipotetico di ogni cosa, il principio da cui dipende l’intera conoscenza del mondo intelligibile: il Bene. In effetti non si dà conoscenza del mondo sensibile ed intelligibile se non si è in grado di conoscere il suo “Bene” e quindi se non si conosce il Bene in se stesso52 . Possiamo anche dire che ogni cosa è un certo bene: ogni cosa è un essere che risponde o meno a ciò che costituisce il suo Bene ed in questo senso è un certo “bene”. Ora l’Idea del Bene (rappresentata dal sole nel mito della caverna) è insieme, causa per la quale le singole cose sono conosciute (piano gnoseologico) e causa per la quale ogni conoscibile esiste (piano ontologico) ed è ciò che è. VEDIAMO MEGLIO: l’idea di uomo è ciò che vi è di identico nei diversi uomini sensibili53 (ogni uomo, per essere tale, possiede l’idea di uomo) mentre l’idea del Bene è ciò che vi è di identico (ogni idea presuppone, è partecipata, dall’idea del Bene) nelle diverse idee (molteplice ideale) che sono partecipate dagli enti sensibili. Ora, gli enti sensibili, come risulta evidente fenomelogicamente, sono molti e diversi tra loro. Questa molteplicità variegata di enti è negata da Parmedide in quanto non essere ossia ognuno degli enti determinato, ad. es. l’albero, non significa essere per cui è non essere. 52 53 Ib. Pag. 93 E’ l’unità del molteplice. Filieri Andrea 26 Ma se dico che l’albero esiste allora affermo che il non essere esiste ossia affermo che l’essere è non essere ma questo è impossibile per la ragione. Ora in Platone, tale impossibilità viene superata sia in riferimento alla molteplicità delle Idee che in riferimento alla molteplicità del reale. Nel Sofista Platone distingue due sensi del non essere: il “non essere “ come opposto o contrario dell’essere (non essere assoluto); il “non essere” come diverso dall’essere (non essere relativo). In buona sostanza: il contrario dell’essere è il nulla assoluto ed è anche impossibile pensare che il non essere sia, ma, in un altro senso, ogni determinazione sensibile possiede un significato che non equivale al contrario dell’essere. Ognuna delle Idee e delle determinazioni sensibili può dunque essere affermata nella sua esistenza senza cadere nella contraddittorietà parmenidea. In sintesi: il “non essere” è il molteplice come diverso dall’essere. Ora, il passo avanti che dobbiamo compiere per intendere appieno Platone consiste nel comprendere che “essere” significa ciò che è o meglio ogni determinazione che è. Ma allora, eccoci al passo conclusivo, se nella filosofia presocratica, ciò che vi è di identico nel molteplice è l’elemento di cui sono fatte le cose, in Platone, ciò che vi è di identico è l’essere una determinazione che è. E nel pensare al Tutto la filosofia pensa ad ogni determinazione (qualcosa) che è come un ente. L’ente è appunto un qualcosa che è ed ogni cosa ha di identico con tutte le altre il fatto di essere un qualcosa che è e non è un niente. In questa identità io come essere pensante riesco a pensare il tutto che solo mi appare nello scorgere l’identità di ogni diverso. In conclusione: il Demiurgo platonico produce (porta ad essere) le cose sensibili ad immagine delle idee. Il Demiurgo è la physis come arché ossia come principio che governa il mondo. La Madre (ricettacolo delle idee ) è la physis come materia (ciò di cui le cose sono fatte). La relazione tra il Demiurgo, le Idee e la materia madre è la physis come essere da cui ed a cui provengono e ritornano tutte le cose dell’universo. Ancora di più: in ogni ente, l’idea è ciò che l’ente è ossia il che cos’è dell’ente. L’idea di scolaro è ciò che uno scolaro è, il che cos’è dello scolaro, il suo essere questa determinazione sensibile o intelligibile. Una volta compreso il senso della filosofia platonica si comprende come grazie ad essa sia possibile l’ascesa dalla opinione alla verità. Si badi che però , grazie alla filosofia, non si perfeziona solo il nostro modo di pensare ma anche il nostro modo di vivere. La verità, una volta acquisita, non conduce al semplice godimento nella vita sensibile bensì alla contemplazione della verità ossia alla contemplazione del mondo delle Idee coglibile col pensiero. Piuttosto la vita sensibile porta ad un disturbo alla contemplazione della verità. In effetti non con i sensi bensì col pensiero si coglie la verità e l’idea del BENE. Ecco che allora la morte del corpo permette all’anima (immortale) di godere della contemplazione del mondo delle idee una volta liberata dall’impedimento del corpo. In questo senso Socrate e la sua morte assumono un senso positivo: ci si rallegra dell’imminenza della morte perché imminente è il viaggio verso il mondo intelligibile che l’anima, per sua natura immortale come dimostra Socrate, potrà compiere. Ancora, per Platone, non solo l’anima è immortale, ma preesiste anche alla sua unione col corpo: prima di vivere nel mondo sensibile l’uomo vive come anima ed ha la possibilità di contemplare l’eterno mondo intelligibile al quale il filosofo ritorna dopo la morte del corpo. Platone dimostra la tesi della preesistenza dell’anima con un argomento gnoseologico: quando noi percepiamo due cose uguali a livello sensibile dobbiamo già disporre del criterio di uguaglianza per confrontarle: in buona sostanza noi ci ricordiamo di quanto già sapevamo. Filieri Andrea 27 Hanno sede nel’Iperuranio (al di là del cielo) Le Idee sono delle entità intellegibili ossia realtà che avvertiamo solo con la ragione, non con i sensi Ne consegue quindi, con la seconda navigazione, che esistono le Idee Mondo sensibile Dualismo ontologico (l’essere delle idee è strutturalmente diverso dall’essere delle cose) Immanente e costituito da oggetti fisici e reali Cose conoscibili per mezzo dei sensi e dell’opinione Piano della doxa: imperfetta e mutevole (immaginazione, credenza) Trascendente e costituito da realtà sovrasensibili:entità intelligibili, incorporee e perfette Dualismo gnoseologico Quale funzione hanno le Idee? Sono cause delle cose: il mondo sensibile senza di esse non esisterebbe ; Filieri Andrea Mondo intelligibile 28 Idee conoscibili mediante la ragione Piano della scienza I filosofi possono accedere alla verità:grazie alla dialettica Platone ritiene che la conoscenza sia reminescenza Sono criteri di giudizio: per esprimere un qualsiasi giudizio dobbiamo riferirci ad esse Idea di bellezza Partecipazione Una cosa è bella se partecipa dell’Idea della bellezza sofisti umanismo: l’uomo è fondamento di verità e valori relativismo: verità e valori sono relativi e non assoluti Presenza Una cosa è bella perché in lei è presente l’idea della bellezza Imitazione Una cosa è bell perché imita l’idea della bellezza socrate platone umanismo:l’uomo è fondamento di Antiumanismo: la verità ed i valori verità e valori non hanno un fodamento umano; superamnto del relativismo: è Antirelativismo: verità e valori sono possibile un accordo razionale su universali ed assoluti verità e valori L’Esistenza delle Idee: Obiezione: Quindi, l’idea, che è Una, verrà a trovarsi nelle molte cose che partecipano di essa Ipotesi di partenza: Esistono Idee di cui le cose partecipano Ma allora sarà una e molte contemporaneamente, oppure ciò che per natura è uno dovrà dividersi in più parti Ma entrambe queste definizioni contraddicono la definizione di Idea Obiezione: Per altro verso, se esiste l’Idea di Grandezza, la relazione tra questa Idea e le cose grandi implica un’altra idea di Grandezza che contenga il loro rapporto, e così via…. Filieri Andrea 29 Ma se le cose stanno come affermato nelle obiezioni, ossia se le idee sono modelli fuori dal mondo ed estraneo ad esso, allora sono inconoscibili e non si possono imitare; e poi non potrebbe esserci alcun rapporto tra cose ed Idee (Idee con Idee e cose con cose) La tematica dell’anima Secondo Platone “L’anima è interamente legata ai lacci del corpo, e ad esso congiunta, costretta a considerare gli enti attraverso il corpo, come attraverso una prigione, e non da se stessa e per se stessa, per cui è avvolta in una forma di ignoranza. Si rende conto inoltre che la cosa tremenda del carcere è prodotta dalle passioni, e chi ne è avvinghiato contribuisce esso stesso a farsi incatenare. Orbene, coloro che amano il sapere sanno che la filosofia, accogliendo la loro anima che si trova in questo stato, la consiglia cercando di scioglierla dalle catene, mostrando che l’indagine che si coglie attraverso gli occhi è piena di inganni, e così anche l’indagine che si conduce mediante gli orecchi e gli altri sensi. Perciò la persuade ad abbondonarli, e a non ricorrervi se non per quel tanto che è necessario farne uso, e la esorta a raccogliersi e a concentrarsi tutta in se stessa e non credere a nient’altro che a se stessa e a tenere per vero solo ciò che da sè essa intende, quale che sia quall’essere in sè e per sè che da sè essa sola pensa e a non prendere per vero ciò che ciò che vede con altri mezzi e che continuamente muta col mutare delle circostanze, perchè mentre questo è sensibile e visibile, ciò che da sè essa vede è immutabile ed eterno”54. Da quanto espresso si comprende come, in Platone, sia possibile la nascita dell’uomo occidentale come normalmente lo intendiamo: raccolto presso di sè e concentrato intorno a quella unità razionale che è l’anima . Anima che deve controllare o meglio dominare le passioni del corpo che la imprigionano. In effetti l’anima razionale dell’uomo è s-passionata, espressione della retta conoscenza e della razionalità più pura. Per questo la Paideia greca, in particolare quella platonica, sarà la messa a punto di regole che, attraverso il dominio delle passioni, consentirà di raggiungere la verità 55. Per questo l’anima deve star sola con se stessa, ed “astenersi il più possibile dalle passioni, dai desideri e dai dolori”56. Astenersi quindi dal mondo sensibile verso la conoscenza dell’intelligibile, delle Idee. L’’anima allora è connotata dalla sola ragione; una ragione che caratterizza essenzialmente l’anima secondo una modalità autosufficiente che La porta , in quanto consapevole di sè, a pensarsi oramai per sè. Si tratta insomma di comprendere come in Platone sia anticipata la nascita di un Soggetto consapevole di sè ed individuale, separato da un corpo portatore di disordine e follia57. Ancora l’anima, grazie alla sua natura razionale sganciata dai sensi, può intrattenersi con la verità, con il mondo delle Idee. In una battuta: l’anima è il luogo della verità. Si ricordi inoltre che la verità in Platone ha carattere pratico, come in tutta la filosofia antica: essa guida l’uomo nella vita che egli vuole vivere, in vista del fine\scopo supremo della vita ossia la contemplazione della verità. Chi ama la verità allora non pone come scopo della propria vita il godimento sensibile, visto che la vita sensibile disturba la contemplazione della verità. Anzi, in misura maggiore la morte del corpo rende accessibile l’approccio al divino: così Socrate muore nell’attesa della visione dell’intelligibile ossia in compagnia degli dei. Fedone, 82e – 83b. Cfr. Galinberti, Psiche e Techne, Feltrinelli, Milano, pagg. 126 e sgg. 56 Ivi 83b. 57 Cfr. Galimberti, cit. pag. 127. 54 55 Filieri Andrea 30 L’anima Abbiamo visto come le Idee non possono derivare dai sensi, in quanto questi ci rendono solo conto del mondo materiale, inafferabile a causa del suo mutamento58. Piuttosto le Idee devono “essere viste “ con gli occhi della mente, così come esprime la radice id- del verbo - idèin – vedere, da cui deriva il termine - idea. Il corrispettivo latino di - idea è – species – che possiede la medesima radice di - spectare – ossi contemplare, o anche assistere ad uno spettacolo59. Ora, secondo Platone, noi possiamo conoscere il mondo delle Idee grazia all’anima: un anima che si ricorda – teoria della REMINESCENZA – di quanto ha già visto, giacchè per confrontare il sensibile all’intelligibile è necessario che l’intelligibile sia conosciuto prima ed indipendentemente dal sensibile. Nella vita sensibile la conoscenza è dunque reminescenza. L’anima insomma, prima di calarsi nel nostro corpo, ha già vissuto nel mondo delle Idee, e tra una vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose sensibili. Una volta discesa nel mondo sensibile l’anima si rammemora del già visto: conoscere è allora ricordare (aspetto innatistico). Patone comunque non ritiene che noi ricordiamo perfettamente quanto già visto, siamo insomma in una forma di ignoranza che necessità di svelare la completezza del già visto: dobbiamo allora “tirare fuori “- Socrate – la nostra conoscenza vera e propria. Per altri versi Platone ritiene che l’anima sia immortale (Fedone), e giustifica questa affermazione con alcune argomentazioni: 1) Teoria dei contrari: ogni cosa si genera dal suo contrario, per cui l’anima rivive dopo la morte del corpo; 2) Teoria della somiglianza: l’anima è simile alle Idee sterne, per cui sarà anch’essa eterna; 3) Teoria del soffio vitale: l’anima in quanto soffio vitale, è vita e partecipa dell’idea di vita. Se è così non può partecipare dell’idea di morte ad essa opposta. . Ecco che allora l’anima, attraverso l’esercizio della filosofia e del Dia-logos, può alla fine ricordare pienamente il senso dell’essere: la complessità delle Idee con a capo l’idea del Bene. Un Bene che, in quanto superiore ad ogni ente, è come afferma Platone, al di là dell’Essere, che supera in dignità potenza60. Ora, in Platone, l’idea di anima risale etimologicamente al termine Psychè, che in verità copre un’area semantica più vasta: anima, vita , spirito, coscienza. Egli definisce l’anima naturalisticamente, da un lato, come principio di automovimento del mondo corporeo. Dall’altro Platone sembra accoglire l’idea dell’Orfismo religioso di una sopravvivenza dell’anima rispetto al corpo. In Aristotele, che riprende e modifica la tripartizione platonica, sembra accentuarsi l’aspetto della dipendenza funzionale della psychè dal corpo61. 58 Abbagnano, Paravia, 2015, pagg. 222 e sgg. Ibidem. 60 Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b. 61 Cioffi, Il testo filosofico, Mondadori. 59 Filieri Andrea 31 Successivamente Platone, si occupa del destino dell’anima, una volta acclarata la sua immortalità. E a seconda del tipo di anima, buona o catttiva, diverso sarà il viaggio nell’Ade. Ora l’anima che si sarà macchiata di azioni ingiuste andrà vagando da sola sino al tempo designato dalla Necessità, quando sarà portata nella prigione toccatale in sorte; viveversa l’anima temperante e saggia, vissuta nella purezzza e nella misura, sarà accolta nel luogo che le si addice: nella parte più alta del cielo. In questo senso ciascuno è responsabile della propria sorte (l’anima vive quindi la vita essa vuole): la filosofa è la via che consente all’uomo di salvare la propria anima perchè gli insegna la verità ed il Bene. In misura più specifica Platone riconosce all’anima una tripartizione: 1) Razionale:sede del ragionamento logico e della argomentazione rigorosa; 2) Irascibile; passionale, essa si sdegna spesso per le azioni compiute dalla parte concupiscibile per cui è soggetta all’influsso della parte razionale. (coraggio ed eroismo) 3) Concupiscibile: sede degli istinti. Esa è spesso ribelle, sede degli appettiti, brame, desideri. Platone designa quindi un essere, l’uomo, diviso tra l’aspirazione alla visione dell’incorrutibile e la tendenza a restare nel mondo sensibile. L’uomo giusto è colui nel quale la ragione esercita il compito che le è proprio: dominare istinti e passioni. E la ragione va intesa precipuamente come conoscenza della verità attraverso la liberazione dall’opinione. In questa dicotomia, Platone cerca di evidenziare quale sia la possibilità per l’uomo di unire questi due aspetti o meglio di risolvere il conflitto in cui l’anima di dibatte: l’amore o Eros secondo Platone consente di ottenere quella forza che consente all’anima di elevarsi dall’esperienza sensibile alla Bellezza ideale ed eterna62. Si badi che la tematica dell’amore platonico esprime un aspetto profondo ed innovativo della filosofia platonica: l’amore è follia sebbene non sempre la follia sia un male. Si tratta infatti di divina follia. E dal divino procede e proviene il bene per l’uomo. In effetti l’amore per la bellezza del mondo delle Idee è dolcissima pazzia divina. L’innamorato può infatti percorrere tutte le tappe che lo porteranno a riconquistare il mondo intelligibile. Platone delinea gli effetti dell’amore con grande precisione: quando un uomo vede un corpo di fattezze “divine” lo venera con passione, con tremito e palpito63. Ora, quest’aspetto di Eros – vera forza mediatrice tra sensibile e soprasensibile - spinge l’anima a superare il mondo sensibile e fisico, dirigendo l’anima al soprasensibile, dove potrà “vedere” ed amare la bellezza (il Bello coincide con il Bene: ideale estetico e morale) soprasensibile. 62 63 La meraviglia delle Idee, Massaro, Paravia, pag. 161. Ibidem. Filieri Andrea 32 La scala dell’Eros Sesto gradino: Bellezza in sé; la bellezza nel suo essere sapienza che coincide con l’amore filosofico L’Eros è desiderio di bellezza che è il Bene nel suo manifestarsi. Per questo la Bellezza , unica tra le Idee, ha avuto il privilegio di essere strordinariamente amabile . Eros è dunque l’immagine del filosofo che non possiede la sapienza ma la desidera Bellezza delle scienze: si giunge così ad ammirare le scienze, un sapere che ha i caratteri dell’ordine, della simmetria, della perfezione Bellezza delle istituzioni e delle leggi: a questo punto si prova il desiderio di dar vita a valide istituzioni e leggi in quanto sono creazioni dell’anima Bellezza dell’anima: successivamente si capisce che quella dell’anima è una bellezza più grande di quella fisica che decade. Bellezza corporea: la bellezza è uguale in tutti i corpi e si ama la bellezza corporea nella sua totalità Primo Gradino - Bellezza di un corpo: l’amore si manifesta innanzitutto come desiderio di generare da un corpo bello un altro corpo bello Filieri Andrea 33 Felicità e giustizia64 La politica è stata la passione dominante della mia vita. Platone, Lettera VII Secondo Platone, la virtù dell’anima è vivere bene, secondo giustizia – virtù morale- , (equilibrio delle parti dell’anima)65 che è appunto la virtù dell’anima e la condizione della felicità. Una concezione questa, autarchica della felicità: la felicità dipende solo dal singolo, sebbene inserito in un contesto politico a lui affine: una città ( la traduzione di – Polis – con – Stato – non sembra essere corretta66) che fonde il concetto individuale di felicità in quello sociale (ma forse sarebbe meglio dire comunitario), in cui tutti operano secondo giustizia, ossia svolgono al meglio il proprio compito. Una felicità quindi, alla fine, soprattutto sociale, sebbene nella misura in cui la natura concede67 ossia nella misura in cui ognuno, per nascita, presenta una propria natura. (una concezione quasi pessimistica questa) per cui non tutti possono essere realmente felici. L’uomo è la sua anima Socrate Afferma Platone: “Ora, non abbiamo affermato che virtù68 dell’anima è la giustizia e viziol’ingiustizia? - Sì, l’abbiamo Affermato Socrate – Perciò l’anima giusta e l’uomo giusto vivranno bene e l’ingiusto male. – E’ evidente disse.” (Repubblica, II, 601b). 64 Cfr. Jager, Paideia, II, pp.129, in cui il problema politico di Platone è ritenuto il punto fondante della sua filosofia. E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, pagg. 255 e sgg. 66 Ibidem. 67 Ibidem. 68 Virtù: il termine non ebbe originariamente quel significato specificamente morale che ha avuto in seguito nelle dottrine filosofiche e religiose. Il termine greco ἀρετή e quello latino virtus stanno, infatti, a indicare una particolare capacità o una condizione di eccellenza. Cfr. Treccani on line. Per Omero è la v. militare, cioè coraggio e destrezza, Cicerone fa derivare virtus da vir («uomo») e la identifica con la fortitudo («forza d’animo»), chiamata a sostenere due ardui compiti: il disprezzo della morte e del dolore (Tusculanae disputationes, II, 18). Virtù e mondo morale. La v. diviene oggetto di indagine filosofica con Socrate, che si pone il problema di «che cosa è» la v. e lo risolve nel senso della stretta dipendenza della v. dal sapere, per cui la conoscenza è momento intrinseco della stessa volontà. Cfr. Treccani on line. 65 Sviluppando l’impostazione socratica, Platone concepisce la v. come capacità di attendere a una funzione determinata: «in ciascuna cosa cui è attribuita una data funzione ci deve essere pure una v.»; così, se la funzione degli occhi è quella di vedere, la possibilità di vedere è la v. degli occhi. Egli individua quindi tante v. quante sono le funzioni fondamentali dell’anima: temperanza; 2. coraggio; 3. prudenza o σωφροσύνη; 4. giustizia come armonia delle precedenti ; Platone le pone alla base dell’organismo statale 1. ;(Repubblica, I, 353 a-d; IV, 440-445). Filieri Andrea 34 Aristotele, in corrispondenza delle due parti dell’anima, l’una razionale e l’altra priva di ragione, distingue tra due specie di v.: 1. dianoetiche (arte, τέχνη; scienza, ἐπιστήμη; saggezza pratica o prudenza, φρόνησις; intelletto, νοῦς; e sapienza, σοφία) e le 2. etiche (coraggio, temperanza, liberalità, magnanimità, mitezza, affabilità, sincerità, urbanità, giustizia, equità, continenza e amicizia). Le prime sono legate al prevalere della ragione discorsiva o conoscitiva, o διάνοια (Etica Nicomachea, 1103 a; 1139 b), e le seconde al dominio sull’impulso sensibile (Etica Nicomachea, 1102 b) secondo il criterio del «giusto mezzo» fra gli estremi (Etica Nicomachea, 1106 a). Lo Stagirita, inoltre, presenta la v. etica come un «abito», cioè una stabile disposizione o qualità dell’anima che l’uomo non possiede per natura ma che acquisisce operando fattivamente e compiendo gli atti corrispondenti a ciascuna v. (Etica Nicomachea, 1103 a). Significative, nell’ambito delle dottrine antiche sulla v., le concezioni stoica ed epicurea che attribuiscono centralità alla v. della saggezza (φρόνησις) o prudenza, intesa dagli stoici come capacità di contrapporsi alla forza irrazionale e incontrollabile delle passioni in una prospettiva ascetica; e dagli epicurei come calcolo razionale dei «piaceri» in vista di una condizione di atarassia . In partic. gli stoici costruiscono sul loro concetto fondamentale dell’identità di ragione e natura una grandiosa e ricchissima casistica delle v. e dei vizi, che si riassume nell’antitesi «saggezza-stoltezza» e si articola nella dottrina delle passioni superate dalla v.; l’analisi stoica delle v. e dei vizi avrebbe poi fornito materia e argomenti alla letteratura moralistica dei secoli successivi. Cfr. Treccani on line. Le virtù cristiane. Con il cristianesimo la v. cessa di essere un ideale di perfezione puramente umana e, in aggiunta alle quattro virtù platoniche – denominate nel mondo cristiano v. cardinali – entrano in campo le v. teologali (fede, speranza e carità) che portano l’uomo verso Dio. Queste sono v. soprannaturali, cioè abiti infusi nell’individuo da Dio, che ne è d’altronde l’oggetto. Per Agostino l’unica vera v. è l’amore di Dio, dalla quale deriva la capacità dell’uomo di vivere rettamente; tale v. non è una conquista dell’uomo, bensì «Dio la produce in noi senza di noi». Tommaso, riprendendo tale definizione (Summa theologiae, I-IIae, q. 55, a. 4), sottolinea che la causa efficiente della v. infusa è Dio, ma che per il resto la definizione di v. è comune a tutte, sia infuse sia acquisite. In questo modo egli conserva la distinzione tra due tipi di v. e tutela il valore (sia pure non assoluto) delle v. raggiunte dall’uomo grazie al proprio impegno; a quest’ultimo riguardo – come per altri problemi filosofici – il suo riferimento è ad Aristotele e all’Etica Nicomachea. Per Tommaso l’uomo è caratterizzato da un lato dalla finitezza (e quindi dalla fragilità e dal continuo pericolo di disordine morale e di peccato), dall’altro da un desiderio che non può essere soddisfatto da nessun bene finito; pertanto l’uomo non potrà realizzare sé stesso in una dimensione autarchica, ma dovrà aprirsi al bene infinito, cioè a Dio, per raggiungere il traguardo ultimo della salvezza. A tal fine Dio fa dono della grazia, un aiuto decisivo per vincere il peccato. L’obiettivo finale dell’uomo, dunque, non può essere conseguito per mezzo del solo impegno etico, e le v. morali, anche se necessarie, non sono sufficienti senza le v. teologali donate da Dio. Cfr. Treccani on line. Virtù mondana e virtù naturale. Sarà poi l’Umanesimo, mettendo l’accento sulla dignità dell’uomo, a riportare in auge il tema antico della v. mondana. Nel Rinascimento importante è la fortuna del termine nelle pagine di Machiavelli, dove la v., sganciata da un significato morale, consiste nella capacità dell’uomo di non subire passivamente i casi della «fortuna», ma di dominarli. La v. consiste quindi nella forza dell’individuo di tradurre in atto il proprio volere, indipendentemente dalla valenza morale e religiosa degli scopi che egli si propone. Insieme alla fortuna, o complesso delle condizioni oggettive in continuo mutamento in cui l’uomo si trova a operare, e in contrapposizione con essa, la v. costituisce il fattore determinante del divenire storico. Successivamente, nelle definizioni spinoziane, la v. è nuovamente ricondotta a potenza o facoltà insita nelle cose e nelle persone (come capacità, attitudine, o disposizione naturale): «Per v. e potenza intendo la stessa cosa: cioè la v., in quanto si riferisce all’uomo, è la stessa essenza o natura dell’uomo, in quanto ha il potere di fare certe cose che possono spiegarsi con le sole leggi della sua stessa natura» (Ethica, 1677, IV, def. VIII). Nel Seicento è soprattutto il proposito di un esame razionale e scientifico del mondo morale ad accomunare la riflessione etica, sia nella forma di un’analisi meccanicistica dell’uomo e di una dimostrazione geometrica delle norme etico-politiche (Hobbes), sia in quella dell’esame della base fisiologica delle passioni dell’anima (Cartesio) Filieri Andrea 35 Ora, se per Platone l’uomo è fondamentalmente la sua anima, solo l’uomo giusto può essere felice. In effetti i piaceri del corpo non sono tenuti in conto da Platone, o meglio da Socrate, genialmente espresso da Platone69. Proseguendo nella disanima della Repubblica, Platone analizza il senso della giustizia arrivando ad affermare che l’uomo può essere felice solo in una città ove ognuno svolge al meglio il propio compito: ogni categoria sociale infatti deve svolgere al meglio il proprio compito secondo la propria virtù: - per i guerrieri sarà il coraggio, per i governanti la sapienza, quella di ognuno sarà la misura, il contenimento delle passioni ossia la temperanza. La giustizia è espressa dalla “somma di tutte queste virtù”.70Di nuovo una concezione quasi ascetica. In questo senso, ed in riferimento ai passi della Repubblica citati, sembra che in questa vita, il filosofo, colui che secondo un ideale ascetico conosce la verità ed è temperante, non possa essere veramente felice. E questo non tanto perchè non vive nella città ideale, fondata sulla giustizia di tutti e di ognuno, ma perchè prigionero del corpo che ottunde la via alla felicità (Repubblica). In verità, questo aspetto della felicità legata in particolare ai filosofi, ossia a coloro che in questa vita conoscono la verità, sembra essere controverso: Platone infatti, alla fine della Repubblica, concede che il filosofo sia felice in questa vita ed anche nella vita futura mentre il Tiranno non sembra essere felice nè ora ne dopo. Ora, se è cosi, secondo il mito di Er che pone premi e punizioni per la vita condotta, perchè il filosofo dovrebbe essere premiato dopo la morte per la vita praticata se già era felice? E perchè il secondo dovrebbe essere punito se già era infelice?71 Per dare una risposta è necessaria una breve disanima dei dialoghi ulteriori: nel Fedone, si affaccia maggiormente la tematica dell’anima come prigioniera del corpo di cui si libera dopo la morte, per cui nemmeno il filosofo può essere veramente felice in questa vita. In questo senso, sembra che in questa vita, il filosofo, colui che secondo un ideale ascetico conosce la verità ed è temperante, non possa essere veramente felice. E questo non tanto perchè non vive nella città ideale, fondata sulla giustizia di tutti e di ognuno, ma perchè prigionero del corpo che ottunde la via alla felicità. Viceversa nel Simposio, non pare che dimensione autarchica ed ascetica della Repubblica e del Fedone sia dominante. Piuttosto la dimensione della carnalità e della conteplazione si dispongono in un crescendo che già in questa vita consentono la felicità. AMORE PASSIONALE E SPIRITUALE COME ASPETTI SUCCESSIVI DI UN MEDESIMO PERCORSO. Percorso che si invera nel momento culminante della contemplazione del Bello in sè: felicità dunque già in questa vita per il filosofo: Eros (Amore) dunque come dimensione stessa della filosofia, meglio del filosofare come amore della verità. 69 Ibidem. Ibidem. 71 Ibidem. 70 Filieri Andrea 36 V’è però da dire che anche nel Filebo, uno degli ultimi dialoghi di Platone, l’aspetto autarchico e quindi di responsabilità del singolo in questa vita, non viene mai meno: il singolo è sempre responsabile di ciò che fa e sceglie, o meglio di ciò che vuole72, per cui la sua vita può essere vissuta in un modo o in altro. Ogni riferimento alla Fortuna è assente, mentre l’organizzazione della Polis è la dimensione che consente al singolo la via della verità, della contemplazione e della felicità. Ancora, il senso del piacere intellettuale nella contemplazione del Bello in sè è più manifesto e presente unitamente ai piaceri del corpo: certo i piaceri sono puri e non, per cui i piaceri intellettuali sono preferibili. Hanno sede nell’iperuranio: un’immaginre mitica e metaforica Le Idee sono delle entità intelligibili ossia realtà che avvertiamo solo con la ragione, non con i sensi. Ne consegue Mondo sensibile immanente e costituito da oggetti fisici e materiali Conoscibili mediante i sensi Dualismo ontologico: l’essere delle idee è strutturalmente diverso dall’essere delle cose Mondo intelligibile trascendente e costituito da realtà sovrasensibili: le idee Conoscibi li mediante la ragione Dualismo gnoseologico Sono cause delle cose. Il mondo sensibile è una imitazione del mondo intelligibile Quali funzioni hanno le idee Sono criteri di giudizio in quanto per formulare un giudizio dobbiamo riferirci ad esse 72 Cfr, Severino, cit. pag. 108. Filieri Andrea 37 La giustizia73 “Voi, invece, sostenete che gli ingiusti sono tali, non per mancanza di istruzione o per ignoranza, ma perché lo vogliono, e inoltre avete il coraggio di dire che l'ingiustizia è cosa turpe e che è odiata dagli dèi; come sì può scegliere volontariamente un tale male? Voi dite perché si è sottomessi ai piaceri. Ebbene anche questo è involontario, se ? è vero che il vincere è volontario Così la ragione dimostra, in ogni modo, che l'ingiustizia è involontaria, e che di ciò bisogna darsi pensiero, più di quanto non facciano oggi ogni persona privatamente e tutte quante le città ». pubblicamente Platone, Carmide La riflessione platonica sullo stato è, in Platone, un’analisi sulla giustizia 74. Nella Repubbica, dialogo incentrato sulla tematica dello giustizia e della concezione dello Stato, (I libro), Trasimaco definisce la giustizia come l’utile del più forte, sino ad affermare che il tiranno (imponendo il proprio volere) ancorché ingiusto è senz’altro considerato felice. Trasimaco enuncia infatti la tesi che il giusto è l’utile (symphéron) di chi è più forte (kreitton), come mostra il fatto che in ogni Polis ciò che domina (krateì) è l’arché. Ora ogni arché75 indipendentemente dalla forma di governo - di uno o di molti – pone le leggi, i nomoi, che mirano ad assicurare il proprio utile. Le leggi infatti proclamano giusto ciò che è utile ai governanti76. 73 GIUSTIZIA (lat. iustitia; fr. ing., justice; sp. justicia; ted. Gerechtigkeit). - Nella speculazione greco-romana il concetto di giustizia è ancora essenzialmente naturalistico, poiché di esso si cerca il fondamento non nell'uomo, ma nella realtà naturale comunque concepita, come principio materiale o come principio ideale. Da concetto esprimente la fisica necessità che mantiene ogni cosa nel proprio ordine e nel proprio corso, la giustizia passa a significare un principio naturale di coordinazione e di armonia nei rapporti umani, per assurgere da ultimo ad attributo del volere che tale ordine naturale attua nell'operare. Per primi i Pitagorici intesero la giustizia come il riflesso nel mondo morale e politico dell'armonia cosmica espressa simbolicamente nei numeri e nelle loro combinazioni. Per essi la giustizia era simboleggiata dal moltiplicarsi di un numero per sé stesso, cioè da un numero quadrato, a rappresentare l'equivalenza dell'azione e della reazione giuridica che ad essa deve corrispondere; concetto espresso dai Pitagorici anche dicendo che il giusto è l'ἀντιπεπονϑός, il contrappasso di Dante. I due concetti di armonia e di eguaglianza rivelati da Pitagora nella giustizia naturale si svolgono e si determinano in Platone e in Aristotele. Per Platone la giustizia è infatti l'armonia sia tra le diverse facoltà dell'anima, sia tra le diverse classi di cittadini, in quanto assegna ad ogni facoltà, ad ogni ceto quello che a ciascuno spetta, come "attuazione del proprio compito" (τὰ αὑτοῦ πράττειν). La dottrina aristotelica svolge invece e corregge l'idea pitagorica della giustizia come eguaglianza. Partecipando dell'essenza della virtù, la giustizia dovrebbe rappresentare il giusto mezzo tra un difetto e un eccesso. Sennonché nel libro V dell'Etica Nicomachea ove si tratta della giustizia generale in largo senso, Aristotele non parla né di medietà, né di vizî estremi, ma contrappone alla giustizia l'ingiustizia. Ciò si spiega se si pone mente che la giustizia generale non è una virtù particolare, ma è virtù intera che trae il suo contenuto dalle altre virtù. Il concetto di medietà si applica alla giustizia solo quando essa è intesa come virtù particolare, ed è medietà non tra opposte tendenze soggettive, ma tra due quantità estreme che sono il troppo e il troppo poco nell'assegnazione degli onori e beni pubblici o nello scambio privato dei beni. Perciò il mezzo in cui la giustizia in senso stretto consiste, corrisponde all'eguale, e non è come per Pitagora una quantità fissa, ma variabile con criterio proporzionale. Non si tratta di dare a tutti egualmente, ma di dare a ciascuno il proprio. Cfr. Treccani. 74 Ruffaldi, La tradizione filosofica. Cfr. Come nave in tempesta, Cambiano, Laterza 2016. 76 Ibidem. 75 Filieri Andrea 38 CONFRONTO guida della città famiglia educazione proprietà privata attività lavorativa attività commerciale difesa della città religione partecipazione politica alla Repubblica Leggi filosofi-re IL CONSIGLIO NOTTURNO negata ai governanti e Ammessa per tutti ed guerrieri incoraggiata comune per tutti i bambini comune per tutti i bambini a partire da una certa età, diversificata per sessi ammessa solo per i i nuclei familiari pssiedono produttori appezzamenti di terreno ammessa solo per i i lavori manuali sono affidati produttori a schiavi e stranieri riservata solo per i fortemente limitata produttori riservata ai guerrieri affidata a tutti i cittadini importante per una corretta culto obbligatorio per tutti conoscenza e virtù vita limitata ai filosofi aperta a tutti i cittadini cheperò sono solo i proletari terrieri Nelle parti successive, appartenenti al periodo della maturità, Socrate suggerisce di affrontare la tematica dello Stato considerato come “un individuo in grande”. Si stabilisce quindi il parallelismo tra individuo e stato che caratterizza tutta l’opera. Vediamo: i cittadini,77 così come l’anima platonica, sono divisi in tre classi, ognuna delle quali corrisponde ad una virtù specifica. La giustizia consiste nell’armonizzazione di queste tre classi: - Governanti filosofi – anima razionale (sapienza) - Guerrieri -.anima irascibile (coraggio o fortezza; - Produttori – anima concupiscibile (temperanza) . Tale concezione, fonte a volte di aspre critiche, produce un modello di “Stato” che si fonda su due aspetti: - Le classi dei custodi dello “Stato” ossia coloro che hanno potere (governanti e guerrieri) devono essere poste in condizione di non usare il proprio potere per fini personali; 77 Nell'età postaristotelica e soprattutto in Roma, si conserva il significato oggettivo, naturalistico della giustizia, ma è posto in maggiore rilievo l'aspetto soggettivo della medesima. Evidente è l'ispirazione stoica nella definizione che dà Cicerone della giustizia nel De inventione: "Iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem". La definizione di Ulpiano (Dig., I,1, 10 pr.) traduce in termini romani e in forma più rispondente alle esigenze del giureconsulto, la definizione di Cicerone. "Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi". L'habitus animi diventa la constans et perpetua voluntas; la dignitas diventa lo ius. La giustizia, conforme all'insegnamento stoico, diventa una virtù attiva; non è solo scienza o ratio che segue la natura, ma si afferma come arte, come voluntas. D'altra parte ciò che la natura assegna a ogni essere diventa il suo diritto, e una misura comune di giustizia, ossia di eguaglianza proporzionale, è invocata a regolare il sistema dei rapporti tra individui aventi diritti diversi. Filieri Andrea 39 - Lo Stato deve controllare ed organizzare ogni aspetto (economico, sociale ed educativo) della vita dei cittadini Platone in sintesi Mondo fisico ed intelligibile Platone, attraverso la dottrina delle Idee distingue il mondo in due piani: 1) Fisico e materiale conosciuto attraverso i sensi; 2) Sovrasensibile e comprensibile attraverso la ragione; Cosa sono le Idee? Le Idee sono universali ossia sono valide per ogni individuo, in ogni tempo ed in ogni luogo. Sono entità intelligibili.Sono modelli del mondo sensibile La conoscenza avviene attraverso il processo di L’anamnesi è quel processo con cui l’anima anamnesi arriva a ricordare ciò che ha visto nel mondo delle Idee, nell’Iperuranio. La conoscenza è quindi innata. L’anima è immortale 1) Prova dei contrari:ogni cosa si genera dal suo contrario; 2) Prova della somiglianza: l’anima è simile alle Idee per cui è eterna; 3) Prova della vitalità: l’anima è soffio vitale; La tematica dell’Eros L’Eros platonico, manifesta l’aspetto della ricerca di qualcosa di mancante ed appagante nella misura in lo si trova: si tratta dell desiderio di bellezza, intesa come armonia, misura e proporzione.La scala dell’eros, una volta percorsa, conduce l’uomo a conoscre la forma più alta di bellezza; si comone sei gradini: 1) Impulso verso la bellezza di un corpo; 2) Desiderio della bellezza corporale in generale; 3) Amore spirituale: bellezza dell’anima; 4) Belleza delle istituzioni e delle leggi; 5) Ammirazione verso la bellezza delle scienze; 6) Scoperta della bellezza in sé: bellezza nel suo essere sapienza, amore supremo oggetto della filosofia. Tripartizione dell’anima Prima parte: parte razionale, vivere secondo ragione consente la saggezza; Seconda parte: parte irascibile; essa in genre sta dalla parte della ragione ma può anche lasciarsi trascinare dai sensi. Se essa segue la Filieri Andrea 40 ragione ha luogo il coraggio; Terza parte: parte concupiscibile o appetitiva. Desiderio delle cose dei sensi. La virtù di questa parte è la temperanza, peraltro comune alle alle parti. Tripartizione dello Stato Prima classe: governanti o re filosofi; seconda classe: guerriri; terza classe: produttori (artigiani, contadini, mercanti). Lo stato è giusto se ognuno svolge il proprio compito. Primo tipo: sensibile ossia la dòxa, l’opinione. Essa compredee la congettura o eikasìa, la credenza o pìstis; secondo tipo: razionale o episteme La conoscenza Eudemonismo Bene Filieri Andrea Socrate Platone Nell’Apologia Socrate teorizza la perfetta coincidenza di virtù e felicità. La felicità è l’immediata conseguenza del comportamento virtuoso tanto è vero che solo il pazzo o l’ignorante agisce male. Socrate non fornisce una definizione di Bene, limitandosi ad affermare che esiste un bene comune. A partire dal Gorgia è accentuata la distanza fra vera felicità e piacere. L’uomo virtuoso è destinato a soffrire in questo mondo a causa dell’ingiustizia degli uomini e dei governi. il Bene è l’idea suprema , faro che illumina la via alla conoscenza : come il Sole per la vista. Senza di essa nulla può essere contemplato nel mondo delle Idee. Esso è quindi eterno ed imperituro 41 Le vie della conoscenza Primo grado: congettura La conoscenza sensibile (dòxa) ha per oggetto il mondo sensibile Secondo grado: credenza (pistis) Conoscenza razionale (epistème): ha per oggetto il mondo delle idee Terzo grado: ragione matematica (diànoia) Quarto grado: conoscenza filosofica: nòesis Filieri Andrea 42 Aristotele Cosa caratterizza la filosofia di Aristotele? Potremmo dire in prima battuta che se Platone ha riformato l’ontologia parmenidea allora Aristotele riforma l’ontologia platonica: per Aristotele anche l’essere sensibile può essere sostanziale78 (avere fondamento in se stesso). Non solo l’essere soprasensibile può essere sostanziale ma anche quello sensibile. Di più ancora: in Aristotele non solo l’essere sensibile ed individuale è sostanziale ma solo l’essere sensibile ed individuale è sostanza.79 In una battuta Aristotele critica radicalmente Platone e ne ribalta completamente il senso della sua dottrina. In effetti per A. l’universalità non esiste mai di per sé ma solo in relazione ad altro. Questa è la critica fondamentale. 80 Facciamo una breve digressione verso la logica aristotelica: la proposizione Socrate è un Uomo presenta Socrate come il soggetto mentre l’essere un uomo è il predicato della nostra preposizione. Ora, nella realtà l’essere uomo è l’attributo di Socrate, in una battuta l’esser uomo è una caratteristica di Socrate. Di più ancora, l’essere uomo non può esistere senza un soggetto a cui riferirsi, mutatis mutandis l’attributo non esiste mai senza un soggetto a cui riferirsi. L’universalità dell’attributo (l’esser uomo) può essere affermato se riferito a qualcosa di particolare, al contrario il soggetto (Socrate) esiste di per sé. In conclusione, l’universale esiste solo come attributo del particolare. Il soggetto è allora soggetto di inerenza. Ma, riflettiamoci un attimo, se il soggetto fosse l’uomo? Non sarebbe questa una contraddizione? No, nell’espressione - L’uomo è un animale razionale – stiamo parlando di una caratteristica propria degli uomini, che è comune agli uomini, per cui il soggetto della nostra proposizione è tale solo in quanto può essere predicato, a sua volta, di uomini 78 Ed è sostanza il sostrato, cioè in un senso la materia (chiamo materia quella che, senza essere in atto qualcosa di determinato è, però potenzialmente qualcosa di determinato), in un altro senso il concetto e la forma, ossia ciò che, essendo qualcosa di determinato, può esistere separatamente solo per logica astrazione; in terzo luogo è sostanza il composto di materia e forma, e di esso soltanto c'è generazione e corruzione, ed è esso soltanto quello che, in modo assoluto, ha un'esistenza separata: infatti, tra le sostanze formali, alcune hanno esistenza separata, altre no. Metafisica Spieghiamoci: ousìa è il termine che A. utilizza per indicare che cos’è un ente. Ousìa è un sostantivo formato sul participio del verbo éinai , essere. In lingua italiana il participio suona come essente o ente , in una battuta ousìa suona come l’essere un ente da parte dell’ente. In effetti l’ente è anzitutto un essere un ente. Ora questo termine indica innanzitutto un ente determinato, non solo, determinato in un modo tale che compete solo a quegli enti che A. chiama una ousìa e che non sono accidenti (dal participio àccidens del verbo accìdere che significa capitare, accadere). In generale ousìa è tradotto con sostanza, dal latino sub-stantia, ciò che sta sotto. In effetti l’ousìa è hypokéimenon ossia sub-stantia. Esemplificando : l’albero è verde dove l’essere verde è qualcosa che accade all’albero e che esiste solo come proprietà di quest’albero o di altro. Detto altrimenti non esiste un ente diverso da quest’albero che abbia la proprietà di essere quest’albero. A. chiama appunto sostanza ogni ente determinato che , a differenza dell’accidente, non può essere predicato di un altro ente. In conclusione l’accidente ha bisogno di qualcosa per esistere come accidente mentre la sostanza no. Ora l’Idea platonica non può essere sostanza visto che l’idea è in modo eminente predicato e proprietà degli enti. Ogni sostanza , e quindi anche le sostanza sensibili, rispondono alla definizione di sostanza data da A. La sostanza quindi è ciò che una cosa è , il che cos’è di un ente. Ma Aristotele usa anche il termine forma per indicare il che cos’è di un ente. Se pensiamo ad una sostanza sensibile diremo che la forma essere casa ha la caratteristica di raccogliere ed unificare , appunto di dare una forma ad un insieme di materiali. La sostanza sensibile allora è forma di una materia, synolon, dice A. La materia, come tale, non è ciò che un ente è, se volete i materiali non sono la casa, semmai sono materiali di una casa. Ciò che fa si che la casa sia tale è la forma essere casa che unifica, assetta ed ordina i materiali in un modo particolare da essere una casa. Nelle sostanze sensibili la forma non esiste indipendentemente dalla materia e d’altra parte la forma è ciò per cui quell’ente è tale. Di più ancora la materia è una casa solo se può diventare una casa ossia se è in potenza una casa, ossia solo se la materia ha la potenza passiva (capacità di ricevere una forma) di essere formata come casa. Ora, rispetto alla potenza della materia, la forma, e l’azione della forma, è atto: un blocco di marmo è in potenza una statua mentre la statua compiuta è in atto una statua . 80 Vediamo meglio: gli argomenti di A. contro le Idee mirano da un lato a mettere in luce le conseguenze contraddittorie derivanti dal postularne l’esistenza; dall’altro ad evidenziare come l’ammissione delle idee non valga a dar risposta ai problemi, alla soluzione dei quali esse sono ritenute necessarie. Al primo tipo di argomenti è riconducibile quello rivolto a confutare le idee di negazione. Se si ammettono le idee allora è necessario ammettere anche idee anche delle negazioni (come “non uomo”) ma ciò è impossibile perché in tal caso avremmo un’idea unica (quella di non uomo) , per una molteplicità di cose diverse (tutte escluse gli uomini). Al secondo tipo appartengono invece gli argomenti tesi a mostrare la critica alla concezione di enti ideali separati che siano causa di quelli sensibili. 79 Filieri Andrea 43 particolari, di altri soggetti insomma, che fungono da fondamento della nostra proposizione iniziale. Vediamo: Platone: l’individuale è attributo di un universale ossia l’individuale esiste solo in quanto esiste un universale. Aristotele: è vero l’opposto. Ciò che è in sé è l’individuale, mentre l’universale sta solo in quanto è in relazione ad altro da sé. Non esiste l’uomo in generale come realtà autonoma ma esistono singoli uomini particolari che consentono all’uomo in generale di sussistere. In questo senso l’universale non è sostanza81 in quanto la sua esistenza dipende da altro. Ora se in Platone il soprasensibile era condizione di esistenza dei singoli enti in Aristotele l’universale non è sostanziale. Ma cosa intende l’autore con sostanza? In prima battuta sostanziale deve significare: - ciò che è causa, principio, fondamento del proprio essere (così come in Platone le Idee sono sostanza in quanto fondamento della realtà). Rispetto a Platone, Aristotele aggiunge che la sostanza deve essere particolare in quanto l’universale esiste sempre in relazione ad altro. In seconda battuta : I. la sostanza è sostrato. Ciò che sta sotto , fondamento o soggetto di inerenza (la realtà individuale di Socrate) è colui a cui si deve la prima teorizzazione del concetto di sostanza (in greco, ousia), la concepisce come l’essenza necessaria che sta a fondamento di ogni realtà; inoltre egli la qualifica anche come ciò che esiste in maniera indipendente e “di per sé”. Una certa realtà, ad esempio un certo uomo, può presentare vari aspetti, talvolta mutevoli, quali l’essere grande o piccolo, buono o cattivo, ma non può essere altro che uomo, cioè animale razionale, che è quanto costituisce la sua essenza necessaria; inoltre è chiaro che gli aspetti suddetti non possiedono un’esistenza indipendente, ma sono presenti sempre e soltanto come aspetti secondari (o “accidenti”) di un certo individuo. Perciò Aristotele aveva inteso la sostanza come la prima delle dieci categorie e aveva asserito che si conosce a fondo una determinata cosa solo quando si conosca la sua sostanza, ossia “che cosa è”. Nella Metafisica, poi, Aristotele afferma che il problema fondamentale della filosofia, ovvero “che cos’è l’essere”, si riduce in definitiva al problema di sapere che cosa è la sostanza. Di questa Aristotele dice che può essere sia la forma di una certa realtà, ovvero quanto costituisce la sua struttura necessaria (ad esempio l’anima razionale dell’uomo), sia il “sinolo”, cioè il composto di forma e materia: esso corrisponde a quella che, nello scritto sulle categorie, Aristotele chiamava la “sostanza prima”, ossia l’individuo che esiste pienamente (ad esempio, un certo uomo: Socrate, Alcibiade, oppure un tavolo, un albero). Tuttavia, in un senso meno pregnante, può dirsi sostanza anche la materia (la carne di cui è fatto Socrate, il legno del tavolo), perché essa costituisce un aspetto da cui non si può prescindere nella considerazione delle cose. Vi sono, inoltre, tre specie di sostanze : 81Aristotele 1) le sostanze sensibili e corruttibili, cioè le cose che esistono nel mondo sublunare; 2) le sostanze sensibili ed eterne, cioè i diversi cieli e gli astri; 3) la sostanza non sensibile ed eterna, cioè Dio. Questa dottrina di Aristotele fu ampiamente ripresa e rielaborata nella filosofia scolastica dell’età medievale, senza subire però trasformazioni decisive Filieri Andrea 44 II. la sostanza è sempre soggetto e mai attributo: è vero che Socrate è uomo ma non è vero che uomo è Socrate. III. La sostanza è sia ente individuale che materia indeterminata in quanto gli enti sono costituiti da materia che funge da sostrato. Sebbene la materia sia qualcosa di universale essa riceve forma che gli permette di individuarsi . IV. La sostanza è qualcosa di determinato. V. Se la sostanza è qualcosa di determinato la materia non può essere considerata veramente sostanza in quanto indeterminata ma allora, e qui Aristotele vuole arrivare, la sostanza potrà essere solo l’unione di materia e forma quello che è chiamato il sinolo ossia il composto di materia e forma. Solo il sinolo permette il darsi della determinatezza. VI. Per forma (eidos) non si intende la nozione platonica , l’universale , bensì ciò che permette alla cosa di essere un ente particolare. In una battuta la forma è il principio di individuazione. (ci ritorniamo). In sostanza abbiamo etto che : 1) la sostanza è sostrato 2) la sostanza è un ente determinato 3) la sostanza è unione di materia e forma . Ora, se la sostanza è tutto ciò, essa è soggetta al divenire. A tutte le forme del divenire che per Aristotele sono quattro82: 82 L'oggetto della fisica aristotelica è più ristretto di quello della metafisica: questa abbracciava l'intera estensione dell'essere, l'essere in quanto essere, la fisica invece solo una certa porzione di essere, quello in movimento, in pratica il mondo sensibile.Il movimento è la caratteristica essenziale del mondo sensibile, fatto di sostanze composte di materia e di forma, perciò (in quanto la materia è fattore di potenzialità, e dunque di instabilità ontologica) divenienti. Il movimento, o divenire, implica sempre qualcosa che cambia, qualcosa che resta; qualcosa che fa cambiare e può essere di quattro diversi tipi: locale (cioè spaziale: lo spostamento da un punto all'altro dello spazio, da un luogo all'altro) qualitativo (ossia la alterazione, il mutare qualità) quantitativo (la diminuzione o l'aumento di aspetti quantitativi) sostanziale (ossia la nascita e la morte di una sostanza) Nei primi tre tipi di movimento ciò che resta è la stessa sostanza, mentre a cambiare sono rispettivamente l'accidente luogo, o l'accidente qualità, o l'accidente quantità; nel caso del divenire sostanziale ciò che cambia è la forma sostanziale: una scompare e un'altra le subentra, mentre ciò che resta è la materia, sostrato indeterminato e potenziale, recettivo delle diverse forme. Filieri Andrea 45 divenire come movimento (spostamento da un luogo all’altro) divenire come generazione e corruzione (nascita e morte) divenire come alterazione e modificazione ( sostanza bianca che diventa nera) divenire inteso come aumento e diminuzione (pianta che da piccola diventa grande) 1) 2) 3) 4) Quindi se la sostanza non è intesa come in Platone, bensì come ente determinato dobbiamo ammettere che la sostanza è soggetta al divenire. Ossia è percorsa dal non-essere. Ma come risponde Aristotele a questa obiezione? Affermando che l’essere si dice in molti modi: l’essere in relazione alle categorie83 l’essere come potenza e atto84 l’essere come vero e falso l’essere come accidente. 1) 2) 3) 4) In buona sostanza qui Aristotele risponde a Parmenide sostenendo che in questo autore l’essere era detto in un solo modo: come opposto al niente. Diversamente in A. l’essere è detto in molti modi ed In tutti e quattro i casi perché ci sia movimento occorre qualcosa che faccia cambiare, ossia una causa efficiente. Le sostanze corporee sono collocate in uno spazio, e divengono nel tempo. 83 Le categorie ente specie [differenza genere specifica] categoria Platone animale uomo [bipede] sostanza (tì esti, ousia) la nera barba colore nero qualità (poiòn) la folta barba foltezza o lunghezza lunga e folta barba quantità (posòn) la famiglia Platone parentela genitori [ascendenza] relazione (pròs ti) il camminare di Platone modificare camminare [muoversi] fare o azione (poiéin) l’essere trasportato essere modificato essere trasportato patire (pàschein) l’Accademia territorio dove [luogo] (poù) lo scorso mese periodo dell’anno mese [insieme di giorni] quando [tempo] (pòte) il portare i sandali abbigliamento avere (échein) stanza o giardino portare i sandali [scarpe] lo star seduto di posizione del star seduto stare o giacere (cheìsthai) Platone corpo Le categorie, incluse le ultime due (presenti solo nelle opere di logica), danno le distinzioni (caratteri) possibili nella realtà sensibile (individuo, qualità, quantità, luogo, tempo, azione...): non ci sono cose sensibili che siano pensabili o che non siano determinate da questi significati dell’essere. 84 E' atto l'esistenza reale dell'oggetto in un senso diverso da come diciamo che l'oggetto è in potenza. Noi diciamo che una cosa è in potenza nel senso che, ad esempio Ermete è presente in potenza nel legno o la semiretta è presente in potenza nella retta intera,perché essa può essere staccata da questa, e chiamiamo scienziato anche chi non sta contemplando, qualora, però, egli sia capace di contemplare: ma in ben altro senso noi parliamo di presenza attuale. Metafisica, IX Filieri Andrea 46 in nessun caso si presenta il non-essere. D’altronde già in Platone compariva il non-essere nell’essere , Aristotele quindi coerentizza Platone presentando diversi significati dell’essere escludendo il fantasma del non essere. Esaminiamo ora il primo di questi modi mentre definiamo velocemente il secondo come espressione del divenire85 mediante il passaggio dalla potenza all’atto: il divenire di qualcosa può essere compreso come un passaggio non dall’essere al non essere bensì come passaggio dalla potenza all’atto, da un certo essere ad un altro essere. Vediamo però il primo dei significati: l’essere si dice in relazione alle categorie. A. elenca dodici categorie: ad esempio secondo la qualità, quando diciamo che una cosa è bella o brutta. Ma anche secondo la quantità, quando diciamo che una cosa è grande o piccola. Allora il dirsi dell’Essere è 85 Per Aristotele lo spazio è qualitativo e finito. Qualitativo significa che esso non è omogeneo, indifferenziato, ma c'è una differenza qualitativa tra luogo e luogo (teoria dei luoghi naturali). La terra infatti occupa il luogo più centrale nel cosmo, poi si dispone l'acqua, poi l'aria e infine il fuoco: ognuno dei quattro elementi della fisica antica ha dunque un suo “luogo naturale”, una casa a cui tende inevitabilmente a ritornare. Al di sopra della sfera terrestre, sublunare, sta poi il mondo celeste, fatto di un quinto tipo di elemento, l'etere o quintessenza, che ha come caratteristica l'incorruttibilità; infatti l'unico tipo di movimento che tale mondo conosce è quello locale, mentre non subisce altre alterazioni, né quantitative, né qualitative, né sostanziali. Finito Oltre che qualitativo, lo spazio è poi finito; egli infatti definisce lo spazio come il limite del corpo contenente, in quanto è contiguo al contenuto; e non è concepibile un corpo senza una superficie, e una superficie è necessariamente delimitata, finita. Dunque il cosmo nel suo insieme, che può essere visto come un unico, grande corpo (fatto come è di tanti corpi), deve avere un confine, ed è perciò finito. «Ma se si prescinde dall'intero universo, non c'è alcuna altra cosa al di fuori del tutto, e perciò tutte le cose sono nel cielo: che il cielo, s'intende, e il tutto! Il luogo, invece, non è il cielo, ma, per cosi dire, l'estremità del cielo, ed è [immobile limite] contiguo al corpo mobile: e per questo la terra è nell'acqua, questa nell'aria, questa, a sua volta, nell'etere, l'etere nel cielo: ma il cielo non è affatto in un'altra cosa.» (Fisica, D4 , 212 b) Tempo Aristotele lo definisce come «la misura (il numero: αριθμoς) del movimento secondo il prima e il poi»: non ci sarebbe perciò tempo se non ci fosse il divenire, il baricentro del tempo è nella oggettività del divenire: «L'esistenza del tempo [...] non è [...] possibile senza quella del cambiamento; quando, infatti, noi non mutiamo nulla entro il nostro animo o non avvertiamo di mutare nulla, ci pare che il tempo non sia trascorso affatto.» (Fisica, D11 , 219 b 1-2) Il divenire (oggettivo) non è però l'unico ingrediente del tempo: che è misura del divenire (il che aggiunge qualcosa alla pura fattualità del cambiamento): «Quando [...] noi pensiamo le estremità come diverse dal medio e l'anima ci suggerisce che gli istanti sono due, il prima, cioè, e il poi, allora noi diciamo che c'è tra questi due istanti un tempo, giacché il tempo sembra essere ciò che è determinato dall'istante: e questo rimanga come fondamento» «Si potrebbe [...] dubitare se il tempo esista o meno senza la esistenza dell'anima. Infatti se non si ammette l'esistenza del numerante è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto l'anima o l'intelletto che è nell’anima hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima[...]» Il tempo non ha avuto inizio né avrà fine, poiché il mondo è eterno. Non esiste infatti un Essere trascendente, onnipotente, intelligente e libero che lo possa aver creato (dal nulla, facendo iniziare ad essere). Dunque se il mondo esiste, esso deve avere in sé la ragione del suo essere (il Motore Immobile, infatti, ne spiega il divenire, non l'essere ). Filieri Andrea 47 evidentemente molteplice. Per altro verso l’unico modo affinché l’essere possa essere molteplice è che si dica in molti modi, che abbia una molteplicità di significati. In buona sostanza Aristotele vuol dire che la molteplicità è la dimensione originaria dell’Essere. In effetti se intendiamo L’Essere come unità manchiamo di dar ragione della natura dell’Essere: la molteplicità. Ancora, l’Essere consta di una molteplicità di enti (determinazione che è) differenti. Ciò per Aristotele non va dimostrato, è una evidenza (fenomenologica). Così come è evidente il divenire nel senso che non va dimostrato. Dobbiamo semplicemente attrezzare il nostro apparato concettuale per spiegare il divenire. Abbiamo così guadagnato il senso polivoco86 dell’Essere ed è significativo che Aristotele pervenga a questo risultato sulla base del linguaggio: l’essere si dice in molti modi. Aristotele quindi ci ricorda che nel linguaggio sono depositati i sensi dell’essere in opposizione a Parmenide che ne riconosceva uno solo. E tuttavia nonostante questo aspetto polisemico dell’essere tutti questi diversi modi dell’Essere vanno ricondotti ad uno fondamentale, quella categoria fondamentale a cui tutte le altre si riferiscono: la sostanza. Ossia l’Essere si dice in molti modi ma si riferisce a qualcosa di unico: la sostanza. Anzi, è proprio in virtù dell’esistenza di qualcosa di unico che noi posiamo dire che una cosa è grande o piccola, che Socrate è figlio di…, o è padre di…., perché ci riferiamo sempre alla sostanza. Dunque la diverse modalità di presentazione degli enti hanno in comune un qualcosa di fondamentale, l’essere una sostanza individuale. Facciamo attenzione però: Aristotele non dice che questo qualcosa di unico è l’essere degli enti, non è l’essere degli enti il significato fondamentale a cui perveniamo riferendoci a qualcosa di unico bensì la sostanza. E dire sostanza non è dire esattamente il senso parmenideo dell’essere. Il significato fondamentale che accomuna i diversi modi di dire dell’essere non è l’opposizione al niente, ma è la sostanzialità. Ma in che cosa si differenzia la sostanzialità dal non essere niente degli enti? Nel fatto che l’essere si dice anche in modo non sostanziale. Quando noi diciamo che l’accidente è, secondo Aristotele non stiamo parlando di qualcosa di sostanziale. Perché l’ente anche se è, non è detto che stia, nel senso che non trova in sé il proprio fondamento. Anche l’essere bianco è, ma l’essere bianco non è sostanza. In conclusione: Aristotele ha guadagnato un significato più determinato dell’indeterminato essere di Parmenide: la sostanza. Quindi Aristotele mantiene il senso della riforma platonica dell’essere che prevede il non-essere al suo interno (la realtà vera in cui le cose sono deve comprendere il non essere), superandola verso il concetto di sostanza. E qual è il senso ultimo della sostanza? Qual è la caratteristica fondamentale della sostanza? La permanenza. In definitiva la sostanza, proprio perché permane, ammette il non essere al suo interno: non il non essere assoluto ma un certo senso del non essere. La sostanza in quanto è in movimento ed in quanto si modifica ammette al proprio interno il non-essere. Se vogliamo la sostanza è un sostrato del divenire in quanto permane nel cambiamento: dalla quiete al movimento, dal bianco al grigio, i contrari si succedono in un sostrato che permane. Ed i contrari sono i modi in cui le categorie si relazionano alla sostanza. Ancora di più, secondo Aristotele le categorie Possiamo anche sprimerci in questo modo: un uomo differisce da un altro uomo solo in quanto in essi c’è qualcosa che non è uomo: Andrea è a scuola, Caio è in officina, dove” essere in officina” ed “essere a scuola” sono propietà che non sono espresse dal concetto “uomo”. Appunto, un uomo differisce da un altro uomo solo in quanto in essi c’è qualcosa che non è uomo. Ora, analogamente, se il concetto di “ente” fosse predicato (b è un ente; c è un ente) di tutti gli enti in modo univoco (con un solo significato) essi differirebbero tra loro solo in quanto in essi c’è qualcosa che non è ente, chè se non ci fosse essi non differirebbero. Ma, e questo è il punto, il non ente (niente) non è, secondo il principio di non contraddizione, per cui anche la differenza tra a, b, c, non sussite. In conclusione: solo l’Essere è (Parmenide). Si evita questa conclusione affermando che non vi è nulla in a,b,c, di cui si possa dire che è non ente ossia ni-ente.In effetti l’esser ente si predica di tutto ciò che è non niente. Cfr. E. severino, cit. pagg. 168 e sgg. 86 Filieri Andrea 48 garantiscono la pluralità dell’essere ed il riferimento ad una sostanza garantisce l’esistenza di quella pluralità nel senso che una pluralità senza sostanza sarebbe una mera accidentalità. In una battuta: si può dare un essere non sostanziale si può dare, all’opposto, un essere sostanziale che in un certo senso non è, nel senso che è soggetto al divenire. E tuttavia, secondo Aristotele questo è il significato fondamentale dell’essere per cui: si passa dal quel significato parmenideo in cui l’essere è opposto al niente a quello che in Aristotele non è l’unico significato ma è quello fondamentale: la sostanza. La sostanza87 deve essere qualcosa di determinato e non la materia dove la sostanza va compresa come unione di materia e forma. A questo punto possiamo chiederci se il determinato sensibile sia l’unico modo di intendere la sostanza o se ve ne siano altri. Ebbene la sostanza sensibile in quanto sinolo non esprime veramente il senso della sostanza. Non esprime cioè il senso della sostanza come permanenza. Prendiamo in considerazione le specie di movimento che A. analizza: c’è un primo senso che A. chiama della Traslazione ossia il movimento secondo il luogo. Ora questo tipo di movimento non mette in discussione la sostanza sensibile. Un secondo senso del movimento avviene secondo l’aumento o la diminuzione: il diventar pianta da parte del seme etc.. E’ il movimento secondo la quantità per cui la sostanza aumenta o diminuisce. Anche in questo caso la sostanza è la stessa sebbene cambi la quantità. Il terzo movimento è secondo l’alterazione: sostanza bianca che diventa nera, l’albero che perde le foglie. In questo caso la crescita dell’albero presenta due movimenti insieme: movimento secondo la qualità e secondo la quantità. Anche il movimento del bambino che diventa grande , come tutti i processi vitali, presenta movimenti intrecciati secondo la quantità e qualità. Questo tipo di alterazione non mette in discussione la sostanza o meglio la permanenza della sostanza in quanto cambiano solo le qualità sensibili della sostanza. Viceversa esista un quarto tipo di movimento in cui la sostanza muta, in cui il sinolo non riesce a 87 SOSTANZA. - Termine filosofico, che formalmente ha origine nel linguaggio del pensiero medievale, ma nel concetto risale al pensiero greco. Etimologicamente il termine latino substantia corrisponde infatti, nel suo significato di "realtà che sottostà, che soggiace", al greco ὐποκείμενον, nel senso per cui questo designa la realtà stabile e costante a cui ineriscono gli attributi. Ma presso i Greci dell'età classica tale termine, che significa del resto anche il sostrato materiale e informe su cui si imprime la forma determinata , è più propriamente sostituito nell'uso da quello di οἰσία, per etimologia corrispondente a quello latino di essentia, a cui la tradizione terminologica, dal Medioevo in poi, attribuisce d'altronde il significato del puro contenuto ideale costituente una qualsiasi entità a prescindere dalla sua esistenza. La greca οὐσία e la latina substantia (come del resto anche la ὐπόστασις del pensiero ġreco più tardo, del tutto corrispondente al termine latino anche dal punto di vista etimologico) significano invece la realtà perfettamente costituita, la cui essenza è stabilmente concretata nell'esistenza. Così per Platone sono οὐσίαι le idee, come realtà dotate di assoluta ed eterna essenza ed esistenza, in contrasto con le relative e mutevoli apparenze sensibili; e per Aristotele, che considera come propriamente reale solo l'entità individuale in cui l'essenza ideale informa l'esistenza materiale, è οὐσία la sintesi concreta della forma e della materia, risultando perciò abbassati a δεύτεραι οὐσίαι (substantiae secundae) quei concetti di genere e di specie che per Platone invece costituivano le sole vere οὐσίαι. Di conseguenza, l'οὐσία si presenta in Aristotele come prima fra le categorie e come soggetto della predicazione di tutte le altre, in quanto realtà che non può essere predicata di nessun'altra, mentre ogni altra determinazione del reale appare necessariamente come suo predicato.Questo concetto aristotelico dell'οὐσία, che si perpetua nella logica e nell'ontologia del pensiero greco posteriore, serba valore attraverso tutta la filosofia medievale, che, come si è detto, riferendosi all'aspetto per cui l'οὐσία si presenta come ὑποκείμενον, cioè come sostrato ultimo di tutti gli attributi possibili, traduce quel primo termine con quello di substantia. E lo definisce perciò come ens quod per se subsistit, accentuando in tal modo l'aspetto ontologico della relazione logica per la quale la sostanza non è predicabile di alcunché, mentre tutto si predica di essa: infatti ciò che si predica di altro sussiste solo come suo attributo e ne è quindi dipendente, l'assoluta indipendenza ontologica restando caratteristica della realtà che non può mai presentarsi come predicato. La substantia si presenta così come la realtà assolutamente vera, alla cui conoscenza propriamente tende la filosofia; e viene con ciò ad assumere in generale quel carattere di ultimo principio costitutivo dell'universo, che prima dell'adozione dei termini di οὐσία e di substantia era stato altrimenti designato, fino dall'ἀργή dei presocratici. Cfr. Treccani on line Filieri Andrea 49 permanere, e questo tipo di movimento è la generazione e la corruzione. Il morire di un vivente o l’incenerirsi di un albero muta il sinolo: il sinolo albero non c’è più ed è sostituito da un altro sinolo: la cenere. E’ questo un mutamento sostanziale in cui da una sostanza si passa ad un’altra sostanza. Ora, che cosa permane nel mutamento sostanziale? Nel libro VII della Metafisica Aristotele ne discute ampiamente così come nel libro V della Fisica, ed A. dice del mutamento sostanziale che il sinolo non permane ed è sostituito da un altro sinolo. Ma cosa permane allora? La materia, che proprio in quanto indeterminata è comune alle varie determinazioni . in una battuta: il mutamento sostanziale coinvolge la forma88 e non la materia. La materia è il sostrato che permane al variare delle forme. Facciamo attenzione però, A. dice che anche la forma permane. In effetti se così non fosse (reductio ad absurdum) dovremmo pensare ad un sostrato formale che permane tra le due forme che si generano e si corrompono in cui la prima forma è inizio e la seconda è la fine. Dovremmo pensare allora, anche in relazione alla forma, la necessità di qualcosa che permane al variare delle due forme. Ora, anche questo sostrato formale che permane al variare delle due forme, che è comune alle due forme, se non lo pensiamo come permanente, rimanda a sua volta ad un altro sostrato e così via. Ma questo è escluso da A. che ritiene che la forma permanga nel divenire. Allora, se è vero il ragionamento esplicitato, il vero sostrato non è il sinolo, ma i suoi componenti, in una battuta la vera ragion d’essere del sinolo sono i suoi due componenti. In effetti se non li pensiamo come sottratti al divenire impediamo al divenire di esser intelligibile. L’operazione aristotelica è quindi quella di arrivare ad un’intelligibilità del divenire la quale escluda dal divenire le componenti del divenire: le componenti del divenire non divengono. Tuttavia, delle due componenti, è chiaro che la materia, sebbene sia sostrato, sebbene sia soggetto del divenire, ossia ciò che sta sotto, non è qualcosa di determinato. In una battuta per A. la materia è sostanza solo in un certo senso, ossia solo secondo una definizione della sostanza, ma non secondo tutte le definizioni della sostanza. La vera sostanza può essere solo la forma che non è la determinatezza ma di più: è il principio di determinazione della cosa. Abbiamo già visto che in A, a differenza di Platone, la forma non è l’universale bensì ciò che consente alla cosa di essere tale. Ora, abbiamo bisogno di una terza definizione della sostanza che A. ci fornisce per comprendere appieno il concetto di sostanza, abbiamo detto che la sostanza è: prima definizione:sostrato seconda definizione: cosa determinata terza definizione: la sostanza è atto o ciò che è in atto. E questa terza definizione viene soddisfatta proprio dalla forma. Se in effetti il sinolo è in un certo senso in atto, è in atto ciò che esso è ( la sua determinatezza, la sua esistenza è la sua attualità) il sinolo è anche in potenza89, ossia è in potenza una molteplicità di cose. In buona sostanza il sinolo è unione di potenza e atto: Il termine forma, che per gli atomisti indicava la figura o estensione dell’atomo (σχῆμα), acquista particolare significato con Platone per il quale la f. (εἶδος, ἰδέα) è l’essere vero, l’essenza delle cose, realtà che trascende i fenomeni sensibili. Il concetto di forma si approfondisce con Aristotele: attraverso la critica del dualismo platonico, egli cala nella realtà sensibile le platoniche f. separate, che, divenute immanenti al molteplice empirico, lo riducono a unità e lo rendono intelligibile. La f., che è la sostanza secondo ragione (οὐσία κατὰ τὸν λόγον), principio d’intelligibilità, diviene così anche il principio dal quale sgorgano tutte le proprietà di ogni singolo essere. Solo la stretta unità di f. e materia costituisce per Aristotele la realtà concreta, sinolo, che riceve il suo essere in atto dalla prima e la sua determinazione spazio-temporale dalla seconda; in tal modo la distinzione tra materia e f. si congiunge con altri due binomi fondamentali della metafisica aristotelica: potenza e atto, causa materiale e causa formale; quest’ultima può essere intesa come principio intrinseco, entelechia, che si unisce alla materia per ridurne in atto la potenzialità; oppure come principio estrinseco, quale esemplare archetipo di tutta la realtà. Questo secondo aspetto più spiccatamente platonico della f. (o causa formale) è quello che domina nella patristica e nella scolastica svoltasi sotto l’influenza del pensiero platonico-agostiniano: le f., principi eterni della realtà, che Platone aveva immaginato nell’iperuranio, e Plotino nel νοῦς, sono dai teologi cristiani unificate nel Verbo come pensieri divini, paradigmi secondo i quali si è svolta l’opera di creazione. E parallelamente l’anima non è concepita come f. della materia corporea (Aristotele), ma come principio immortale a questa dualisticamente contrapposto (Platone). Treccani. 89 La potenza (dynamis) esprime la possibilità o la potenzialità, propria di qualcosa, di trasformarsi in qualcos’altro. Il termine “atto” traduce due nozioni chiave della filosofia aristotelica: “entelècheia” ed “enèrgheia”. Il primo termine indica la condizione di qualcosa che abbia raggiunto il proprio fine, realizzando la compiuta attuazione delle proprie potenzialità (della propria dynamis). La nozione di enèrgheia significa attività e quindi , in alcuni contesti, designa il processo dell’attuarsi dell’entelècheia; in altri 88 Filieri Andrea 50 - non è solo potenza ché non sarebbe alcunché di determinato ma solo materia non è puro atto ché non diverrebbe altro da sé. Allora ecco che emerge l’ultimo senso della sostanza, quello per cui la sostanza è attualità. Ora, riprendendo il senso della sostanza sensibile che avevamo lasciato sospeso possiamo trarre una prima conclusione: il senso dell’essere sostanziale, ossia la permanenza, può essere guadagnato solo se andiamo al di là dell’essere sensibile. In effetti se ci teniamo fermi alla pura evidenza fenomenologica non guadagniamo il senso della permanenza. E tutta via il senso fondamentale della permanenza come forma, non è il senso dato da Platone alla forma, ossia l’essere universale. Ciò che permane non può essere un qualcosa di universale. Filosofia prima : Ontologia, Studia l’essere in quanto essere afferma che L’essere si può dire in molti modi e presenta una molteplicità di aspetti Ossia l’individuo concreto a cui ineriscono le varie proprietà accidentali L’essere dell’ente è la sostanza La sostanza è sinolo di materia e forma dunque è soggetta al mutamento: dalla Potenza all’atto La sostanza è l’essenza o struttura immanente e necessaria delle cose Ossia il soggetto logico a cui vengono riferiti i predicati Cioè le categorie :sostanza, tempo, qualità, quantità, relazione, agire, patire, stato, situazione, luogo contesti significa l’esplicarsi delle funzioni proprie ( dell’opera propria) di un ente che abbia attuato la propria entelècheia . (…) Il seme è la pianta in potenza , nel senso che ha la capacità, date certe condizioni, di diventare pianta. La pianta adulta è il seme in atto in quanto rappresenta la compiuta, la perfetta attuazione (entelècheia) delle potenzialità del seme. Compiutosi il processo attraverso il quale la pianta si attua come pianta adulta ( questo attuarsi rinvia un primo significato del termine enèrgheia) l’organismo vegetale perfettamente cresciuto è oramai in grado di svolgere le funzioni (riproduttiva) che gli sono proprie, la sua propria attività (enèrgheia). Vedi, Il Testo filosofico, Cioffi, Mondatori, 1991, pagg. 510 e sgg. Si ricordi comunque che le nozioni di potenza ed atto sono relative : il bambino è sia potenza dell’uomo adulto che atto del seme. Si pensi anche alla corrispondenza tra le nozioni suddette e quelle di materia e forma: la materia è potenzialmente in grado di assumere una determinata forma, ad es. i mattoni, materia della casa, possono essere pensati come casa in potenza. Filieri Andrea 51 In conclusione: la sostanza sensibile ha in sé la ragione della propria esistenza il sinolo è sostanza a tutti gli effetti la realtà fisica riceve la propria sostanzialità dalla forma e dalla materia la forma non è mai separata dalla materia la forma è sempre in relazione ad una cosa particolare non esiste un universo di forme separate dalla materia il mondo ha in sé la ragione della propria esistenza la realtà fisica è diveniente ma il divenire non si spiega da sé (physis e movimento sono la stessa cosa) Ora vediamo di comprendere il senso dei termini potenza e atto in modo ulteriore: la potenza per A. può essere compresa in due modi distinti: potenza attiva: possibilità di fare qualcosa da sé stessi come gli esseri viventi potenza passiva: possibilità di subire le azioni di qualcos’altro. L’atto invece è l’esistenza della cosa, è la cosa in quanto questa cosa determinata. In questo senso la potenza è sempre indeterminata rispetto all’atto perché solo l’atto dà la determinatezza alla cosa. Facciamo un esempio: il seme è determinato in quanto seme ed è in potenza l’albero tuttavia il seme è determinato non in quanto è qualcosa di potenziale bensì in quanto è in atto un seme. E’ l’atto ciò che dà determinatezza alla cosa, non il suo essere in potenza, anche se ovviamente tutto il sensibile è sia in potenza che in atto, ed ogni sensibile è in potenza indeterminato. Per A. però l’atto è prioritario rispetto alla potenza (IX libro della Metafisica). In effetti l’atto precede la potenza in tre sensi: precedenza gnoseologica per cui noi conosciamo una cosa in potenza solo se conosciamo l’atto di quella potenza, ad es,. noi diciamo che il seme è in potenza un albero solo se conosciamo dapprima l’albero precedenza ontologica: la verità del seme non è il seme bensì l’albero. La vera natura del seme si manifesta quando esso ha dispiegato tutte le sue potenzialità. L’atto è la verità della potenza. L’atto fonda ontologicamente la potenza. La vera natura della cosa è espressa solo dall’atto. Nella potenza la natura della cosa è limitata . la vera natura della cosa è solo nel suo fine, nel suo telos. A. chiama infatti l’atto entelechia ossia essere nella fine. . L’atto è la realtà ultima della cosa e quindi la sua verità. In questo senso l’atto è prioritario ontologicamente rispetto alla potenza: è il fondamento della potenza. Precedenza temporale:l’atto avviene prima della potenza. Avviene prima però la specie e non il singolo: è la specie in atto che precede il singolo in potenza. Deve già esistere la specie umana perché si dia il bambino. Quanto al singolo uomo viene prima invece il bambino ovviamente. Ma, arrivati a questo punto, se è vero che l’atto precede la potenza, se è vero che l’atto fonda la potenza ossia se è vero che ogni potenza esiste solo in quanto c’è un atto di cui è potenza, deve esistere un atto che non sia potenza a sua volta. In effetti se non esistesse un atto che non fosse a sua volta potenza dovremmo regredire ad infinitum visto che ogni potenza esiste solo in relazione ad un atto. Insomma se questo atto fosse daccapo una potenza dovremmo proporre un altro atto di cui esso fosse potenza e così via all’infinito…… dobbiamo insomma proporre un atto che non sia potenza di nient’altro e che Aristotele definisce Atto puro. Allora anche per questa via dobbiamo concludere che esiste una sostanza soprasensibile. Ma non è questo l’unico argomento che Filieri Andrea 52 Aristotele porta a sostegno della sua teoria della sostanza soprasensibile: A. afferma che il movimento è eterno in quanto ogni cosa mossa presuppone un movente come causa del suo movimento. Ma attenzione: A. ci dice che noi non possiamo risalire all’indietro nel tempo sino ad una causa prima che sia appunto causa del movimento. Pensiamoci: se noi riteniamo che esista temporalmente una causa prima del movimento cosa ci sarà prima? Delle due risposte possibili: o c’era prima qualcosa in movimento ma allora da cosa era mossa essa stessa? o essa era immobile, visto che Aristotele pensa anche a questa possibilità, ma allora cosa l’ha resa immobile? Qualcosa che l’ha fermata visto che la quiete è una forma del movimento, è il fermare un movimento. Allora se noi ipotizziamo di realizzare la nostra ricerca (la ricerca dell’eternità del movimento) nel tempo non riusciamo a trovare nulla che abbia dato origine al movimento, sia che questo qualcosa sia mobile sia che questo qualcosa sia immobile. Insomma, anche qui nella nostra ricerca siamo costretti ad andare all’infinito ma , e proprio questo è il punto, questo andare all’infinito nel tempo esprime, è, l’eternità del movimento90. Gli Scolatici saranno appassionati a questo tema. In conclusione per A.: il movimento è eterno così come è eterno il tempo (contrariamente a Platone) . La definizione del tempo per A. infatti è: “Il tempo è il numero del movimento secondo il prima e il poi”. L’unica differenza tra tempo e movimento allora è che nel tempo c’è il numerare il prima ed il poi , in qualche modo allora l’eternità del movimento implica l’eternità del tempo e l’eternità del tempo implica l’eternità del movimento. Arrivati a questo punto però A. ci dice che il fatto che movimento e tempo siano eterni non mette in discussione il fatto che essi abbiano una causa: non nel senso di una causa temporale, visto che sono eterni, ma una causa che fa sì che essi siano o meglio ciò che fa sì che le cose si muovano, nel senso di ciò che fa sì che il movimento sia. Ora se il movimento, ossia il causato, è eterno , sarà eterna anche la causa (sempre nel senso di ciò che è causa di, non nel senso di ciò che viene prima di. Gli Scolastici diranno propter hoc e post hoc, ciò che è motivo di e ciò che viene dopo di). Ma, secondo aspetto, questa causa non può essere il movimento, la causa del movimento non può essere il movimento 91 bensì un primo motore immobile (non di tipo temporale). Ribadiamo che la causa del movimento deve essere : Distaccandosi da Platone, Aristotele concepisce il divenire come una forma di mutamento (μεταβολή). Sotto l’aspetto ontologico, il divenire è interpretato come passaggio dalla potenza all’atto, ed ha luogo secondo diverse categorie. I mutamenti nei quali si articola il d. vengono divisi da Aristotele in: (1) generazione e corruzione (secondo la sostanza); (2) alterazione (secondo la qualità); (3) aumento e diminuzione (secondo la quantità); (4) traslazione (secondo il dove). Occorre precisare che queste quattro forme di d. riguardano essenzialmente il mondo sublunare, perché in Aristotele esistono due fisiche, una per il cielo e una per la Terra. I corpi celesti sono costituiti di un elemento proprio, l’etere o quinta essenza, e si muovono di moto circolare puro in eterna contemplazione del ‘motore immobile’. La teoria aristotelica divenne il fondamento di tutto il pensiero medievale finché in età moderna non venne soppiantata dalla rivoluzione scientifica, che sulla base delle dottrine atomistiche unificò cielo e Terra in una sola fisica, trasformando il moto, ossia il d., in uno ‘stato’ assimilabile alla quiete, e interessandosi esclusivamente alle variazioni del moto stesso. 91 Si pensi anche a questo: abbiamo detto che il divenire è concepito come passaggio dalla potenza all’atto di un sostrato. Spieghiamo meglio: un determinato ente, diviene da piccolo a grande, nella misura in cui è in potenza grande e non è in atto grande. Ora, il sostrato in cui consiste l’ente non possiede, se piccolo, la forma “grande”, appunto non è in atto grande. Ma, e questo è il punto, da cosa viene genertta la forma? Potrebbe essere generata dalla privazione della forma da parte del sostrato? Possiamo rispondere negativamente in quanto quel corpo piccolo che è in potenza grande come di diceva, non è appunto ancora in atto, non è atto. Ora, se la forma “grande” non può derivare dal corpo piccolo, nel senso che la grandezza non è nel corpo piccolo, dovrà derivare da altro, chè non potrebbe scaturire dal nulla. Dovrà allora preesistere in un altro sostrato, da cui proviene ed in cui è presente in atto. Ed è solo in quanto un altro sostrato possiede la Forma “grandezza” in atto che esso può far passare dalla potenza all’atto il corpo piccolo. Il “far passare” è per Aristotele equivalente al “muovere” ed Aristotele chiamo motore o movente ciò che fa passare un altro sostrato dalla privazione al possesso della forma. Solo in quanto il fuoco possiede in atto il calore , esso può far passare dalla privazione al possesso del calore un corpo che prima era freddo. Ma di nuovo, da dove deriva il calore che possiede in atto il fuoco? Se rispondiamo da un altro sostrato proseguiamo però indefinitamente a ritroso senza rispondere alla domanda. In effetti, dire che posso andare sempre incerca di un altro sostrato che possegga in atto il caloro equivale a non rispondere alla domanda che chiede qual è il sostrato che possiede già in atto la forma “calore”. E’ necessario allora presuppore un movente in atto che non passa dalla potenza all’atto, solo così è possibile spiegare l’indefinita serie di cause efficienti movente\mosso. Ora, per estensione, ogni forma deve preesistere in un movente non mosso che è puro atto e non passa dalla potenza all’atto. 90 Filieri Andrea 53 eterna immobile. Ora, come può ciò che è immobile causare il movimento? Come può ciò che è indiveniente essere causa del diveniente? Sembra che abbiamo a che fare con due nature profondamente diverse: come può una essere causa dell’altra? Per rispondere a tale questione dobbiamo riferirci alla terza caratteristica del motore immobile: il motore immobile non è potenza o non è in potenza. In effetti tutto ciò che in potenza può diventare qualcosa ossia può subire o fare qualcosa, quindi tutto ciò che in potenza è soggetto al movimento. Ora il motore immobile è atto ma, attenzione, solo un atto che non contenga nulla di potenziale (l’esperienza che noi facciamo delle sostanza sensibili è esperienza di sostanze che sono atti ma che contengono, tutte, qualcosa di potenziale, ossia tutte possono diventare altro da sé). Alla fine allora, il motore immobile deve essere Atto puro. Non solo: dovrà anche essere immateriale perché la materia conferisce alla sostanza il carattere di potenzialità, è la presenza della materia che conferisce potenzialità alla sostanza sensibile. In conclusione : poiché questo atto puro non può contenere nulla di potenziale non può contenere nulla di materiale. In questo senso, un atto che non può contenere nulla di potenziale deve essere un atto che ha realizzato pienamente se stesso, questo è il significato dell’assenza di potenza. In buona sostanza l’Atto puro è perfetto. Spieghiamoci: l’Atto puro è perfetto nel senso che non manca di nulla. Ossia non c’è nulla che esista al di fuori dell’Atto che manchi all’Atto puro. Chè, se così fosse, allora l’Atto sarebbe mancante e tenderebbe a diventare questo qualcosa. All’opposto, l’Atto è proprio la realizzazione in quanto tale, la realizzazione di tutto, il compimento del mondo, il compimento della totalità, se vogliamo, non ci deve essere nessuna cosa del mondo che esso non abbia portato a compimento. Esso è la realizzazione in quanto tale, la perfetta realizzazione. Solo a questa condizione può essere atto, ma questo è anche il motivo per cui muove l’universo: perché ne rappresenta il compimento. L’Atto attira verso di sé ciò che non ha ancora compiuto se stesso, ciò che è ancora in potenza e vede nell’Atto puro il proprio compimento. Detto in altri termini: ogni cosa è in potenza qualcos’altro da sé e l’Atto rappresenta la verità di ogni cosa in quanto ogni natura, ogni sostanza naturale, tende a compiersi perché è immanente l’atto. In questo senso ogni natura si muove nel senso che si muove verso il suo compimento ed il motore immobile attira verso di sé ciò che ancora non è compiuto. Aristotele ci parla del motore immobile che attira il mondo fisico come l’oggetto del desiderio attira il desiderante. In effetti il desiderante si muove perché nell’oggetto del desiderio trova il suo fine e quindi il suo compimento. Aristotele ci dice nel XII libro della metafisica: “il motore immobile muove in quanto è amato”. Ma allora, in questo senso capiamo perché A. ci dice che il motore immobile è causa del movimento: - - - - non causa nel senso della causa efficiente, nel senso del primo motore temporale, che è quello che aveva datola prima spinta. Il motore immobile non dà nessuna spinta e non garantisce questo tipo di causa efficiente perché dare una spinta significa muoversi; non è paragonabile all’Idea del bene in Platone in quanto l’Idea del bene diventa strumento del demiurgo per creare le cose ed in quanto il bene non è causa efficiente. E’ il demiurgo la causa efficiente. Ma il bene non neanche la causa finale in Platone, è la causa che A. chiama formale: il bene è il principio in base al quale le cose poi sono; il motore immobile muove in quanto causa finale e tuttavia, e questo è il senso di tutta la Fisica aristotelica, questo fine non è mai raggiunto, non c’è mai la risoluzione del divenire, perché questo significherebbe la fine del divenire; il motore immobile è un fine che non è la fine ossia è la condizione del movimento. In effetti il termine fine può essere ambiguo e può farci pensare l’universo come Dio che è origine e poi Filieri Andrea 54 - - fine di tutte le cose: le cose infine si riassumerebbero in Dio. Questo però è il cristianesimo e , per certi versi, il neoplatonismo. Qui, viceversa, non c’è una fine della physis, ed il motore immobile è : eterno, immobile, atto puro, causa finale; c’è una quarta caratteristica del motore immobile: la necessità. L’essere necessario è ciò che impossibile che non sia; l’essere contingente è l’essere che può essere e non essere cioè che ammette la possibilità del suo contrario; ora la sostanza sensibile è chiaro che sia contingente in quanto materiale e quindi contenente la potenza di essere e di non essere. La sostanza come atto puro invece, come pura forma, è invece sostanza necessaria dove la necessità è la condizione della sua eternità. In effetti se l’Atto puro non fosse necessario, non sarebbe causa del movimento, che è eterno. E solo in questo senso, nel senso della sua necessità, l’Atto puro può essere considerato l’essere parmenideo. Ma ovviamente nell’Essere parmenideo mancano tutta una serie di caratterizzazioni che abbiamo elencato sopra. Aristotele afferma che: All’origine dei fenomeni ci sono quattro cause: 1. materiale; 2. efficiente; 3. formale; 4. finale Sussitono quattro tipi di movimento: 1. sostanziale; (genrazione\corruzi one) 2. qualitativo;(mutam ento\alterazione) 3. quantitativo 4. locale L’universo si articola in due zone distinte : 1. mondo terrestre;(moto rettilineo) 2. mondo celeste (moto circolare senza inizio né fine) Filieri Andrea 55 L’anima è la forma del corpo: 1. vegetativa; 2. sensitiva; 3. intellettiva Tutto il movimento dell’universo è causato da Dio, primo motore immobile che agisce come causa finale La conoscenza in Aristotele I sensi percepiscono le forme sensibili degli enti ed il senso comune cordina le percezioni sensazione Conoscenza Conserva le immagini nella memoria immaginazione Astrae dagli enti la loro forma intellegibili (concetto) permettendo di percepirne l'essenza intelletto La filosofia pratica “Ogni arte, ogni azione ed ogni proposito sembrano mirare a qualche bene: perciò a ragione il bene è stato definito ciò a cui ogni cosa tende” Etica Nicomachea, A1, 1094 a1-3 “L’uomo che sa pensare da sé è assai migliore; buono è pure colui che presta ascolto a chi ben lo consiglia; ma chi non è in grado di pensare da sé, né sa accogliere quanto gli dice un altro nel suo spirito, è un buono a nulla” Esiodo Secondo Aristotele, tutte le azioni umane hanno come fine un bene. Ora, molte sono le azioni e molti sono i fini. Del resto alcune azioni perseguono beni in vista di altri beni e via così. Al fine di evitare un regressus ad infinitum, qual è il bene cercato per se stesso? Qual è il bene supremo? Ora, diversamente da Platone che indica nell’Idea del Bene (per Aristotele Bene immanente e non trascendente come in Platone, per cui Aristotele è in polemica antiascetica con Platone ed antiintelletualistica con Socrate) il fine della ricerca dell’uomo, Aristotele parla di felicità92 e l’Etica93 è la scienza che, tramite i suoi dettami, porta l’uomo alla felicità. Ora la felicità 92 Cfr. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, Rizzoli. Si puo dire che l’Etica come scienza comincia con Socrate: e dobbiamo a Socrate se l’uomo può evadere dal suo soggettvismo per attingerea qualcosa di universale ossia il concetto. Una conoscenza insomma universalmente valida ed oggettiva. Ancora, in Socrate l’uomo non appetice mai il male bensì solo il bene, che va indagato in tutte le sue forme e manifestazioni. Ecco perché solo il 93 Filieri Andrea 56 è raggiungibile per lo Stagirita solo mediante la politica: scienza architettonica e legislativa del popolo e della città in cui il singolo può raggiungere la felicità. In effetti l’uomo, per natura, vive a contatto con il suo simile, vero animale politico, per cui il suo bene è impensabile fuori della polis, anche se Aristotele pone delle differenze tra bene collettivo e bene del singolo, tra singoli affetti individuali e beni di carattere politico e sociale. Il bene supremo di carattere pratico è dunque la felicità94. Ora, il significato di tale termine non ha tanto a che fare col piacere dei sensi, comune anche agli animali, nemmeno col possesso di ingenti ricchezze, di onori, di glorie, piuttosto la felicità ha che fare con l’esercizio delle più alte facoltà umane: l’intelletto e la ragione95. Attività svolte in massimo grado, secondo Aristotele, grazie alla virtù. Dove la virtù per lo stagirita è quella disposizione acquisita mediante lunga consuetudine ad esercitare, a livello di eccellenza, le facoltà proprie dell’uomo. In tale disposizione consiste la felicità, ovvero il bene supremo pratico. La felicità dell’uomo consiste dunque in una attività dell’uomo secondo virtù. Le virtù poi si distinguono in: virtù etiche, virtù corrispondenti alla facoltà desiderativa dell’anima (le virtù etiche derivano in noi dall’abitudine : noi per natura siamo potenzialmente capaci di formarle e mediante l’esercizio traduciamo questa potenzialità in attualità). virtù dianoetiche, ossia le virtù delle facoltà dell’anima razionale. Tra le virtù si segnalano: Etiche: la magnanimità, il coraggio, la giustizia. Virtù del carattere ossia disposizioni ad agire secondo una certa inclinazione nella misura in cui tramite l’abitudine a compiere azioni giuste diventiamo giusti; nella misura in cui compiamo azioni coraggiose diventiamo coraggiosi- aquistiamo insomma un Habitus. Si badi però che questo habitus, aquisito con l’esercizio secondo virtù, è espressione del giusto mezzo tra estremi. La virtù etica è infatti medietà tra vizi estremi: non mediocrità, ma culmine della ragionevolezza, in quanto segna l’affermazione della ragione sull’irrazionale. Dianoetiche: (le virtù della parte più elevata dell’anima: anima razionale) la saggezza (phrònesis96) e la sapienza (sophìa; virtù intellettuali). sapiente può essere virtuoso. Ed ecco perché la virtù si può insegnare ed apprendere. Platone, in misura diversa, inaugura il dominio della ragione sulle passioni (Fedro, Repubblica) anche se continua Socrate nell’intenderla come sapienza. Ancora, Platone intende la virtù come distacco della ragione dal corpo (che distrae, non consente di elevarsi alle Idee), ragione con la quale si conosce (e si possiede) e ci si eleva alla conoscenza delle Idee. 94 G. Reale,Storia della Filosofia Antica, Vita e Pensiero, Milano 1987. “In senso proprio, l’attività dell’uomo consiste nella sua attività virtuosa ovvero (…) nella più alta e nella più perfetta di esse. E questa è l’attività della mente ossia il pensiero”. Cfr. Z eller Mondolfo, Aristotele III. La ragione è dunque il divino in noi. 96 Cfr. Etica Nicomachea, Z 1. “Disposizione pratica ad agire accompagnata da ragione verace , intorno a ciò che è bene e male per l’uomo.” Essa addita i mezzi idonei a raggiunger i fini più propri dell’uomo. Essa non indica quindi i fini ma solo i mezzi per conseguire i fini dettati dalla sophìa. 9595 Filieri Andrea 57 Il metodo Aristotelico Lega il piano logico a quello ontologico in quanto è convinto che il piano logico sia intimamente legato al piano ontologico o meglio che pensiero e linguaggio riflettano la struttura della realtà. A talfine, come metodo, A. utilizza il metodo induttivo che parte dal particolare per giungere all’universale Il metodo aristotelico, partendo dallo studio delle proposizioni, consente di constatare che in alcune di esse il predicato esprime l’essenza propria del soggetto della predicazione mentre in altre ne evidenzia l’accidentalità. Da questa analisi A. ricava che vi sono una serie i generi universali: le catagorie ossia l’insieme dei predicabili riferibili ad un oggetto. Nell’enciclopedia del sapere la filosofia prima o meafisica è la scienza che descrive le caratteristiche dell’Essere. La sostanza non è costituita semplicemente da un principio materiale, né da un principio solo fomale (Platone) essa è bensì sinolo di materia e forma.Le sostanze sono sottoposte al divenire, ossia alla relizzazione della potenzialità di un ente. Le Categorie La metafisica La sostanza Ogni azione è diretta ad un fine considerato buono Ci possono essere dei beni che perseguiamo per un bene superiore Ci deve però essere un bene ultimo che coincide con il bene supremo Fine e bene quindi coincidono L’uomo è un animale razionale dunque è felice solo se vive secondo ragione La felicità L’uomo felice sa però anche godere dei piaceri che derivano: dall’amicizia che può essere fondata Sul piacere che però è instabile in quanto muta col mutare del piacere Il bene di un ente coincide sempre con la realizzazione della sua essenza Moderatamente dalla ricchezza Sull’utile che però è di breve durata in quanto cessa al cessare dell’utile Sul bene: tipica del saggio. Solo questa è la vera amicizia Poiché l’amicizia del saggio è massimamemte buona, possiamo definirla anche massimamente piacevole ed utile Filieri Andrea 58 La virtù La parola “virtù” traduce indebitamente il termine “aretè”: essa significa ripondenza dei mezzi al fine. Sì che, come l’opera propria del calzolaio è fabbricare le scarpe, e l’opera propria del calzolaio virtuoso è fabbricarle bene, così l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione. Ora, l’opera propria dell’uomo virtuoso (ossia dell’uomo chea la capacità ed i mezzi per per raggiungere quello scopo – fine che è lo sviluppo compiuto della sua essenza) è l’attività razionale dell’anima97. In effetti, l’essenza dell’uomo, ciò che rende l’uomo un uomo, è espressa dalla sua attività razionale: nello specifico, l’opera propria dell’uomo virtuoso è esprimere al massimo grado – bellamente – la sua attività razionale. Come già espresso, esistono virtù etiche, che consistono nel sottomettere le tendenze sensitive ed appetitive alla tendenza razionale dell’anima; e vi sono virtù dianoetiche – razionali – che consistono nel mantenere l’anima razionale al culmine delle proprie possibilità. La virtù etica La virtù etica consiste nella disposizione, a lungo esercitata (Habitus), a volere fini buoni, dove si vede come per Aristotele il tema della volontà sia molto importante. In effetti, il voler fini buoni, quei fini dettati della retta ragione sono per Aristotele gli aspetti essenziali delle virtù etiche. Ora, la regola della retta ragione consiste nel determinare il giusto mezzo, sia nel campo dei desideri che delle passioni. Se per esempio, il coraggio è una virtù etica, esso evita al contempo i suoi estremi: la paura e la viltà, come eccessi. Come si vede Aristole contempla le passioni esortando il singolo a cercare sempre il giusto mezzo tra gli eccessi, tra i vizi. Giusto mezzo mai stabilito definitivamente, ma cercato in relazione a chi agisce in un determinato contesto. Se pensiamo al coraggio, esso si pone come punto medio tra la temerarietà e la viltà. Ora il giusto mezzo non è tanto il compromesso quanto quella sorta di equilibrio, di apice tra estremi che, di volta in volta, il filosofo si trova a dover determinare. In merito poi alla saggezza ed alla sapienza, Aristotele precisa che è la saggezza - tradotta dai latini con prudentia (sebbene questa traduzione sia un po’ un tradimento del senso greco attribuito al termine phrònesis) - a metterci in grado di cercare quale sia, caso per caso, il giusto mezzo delle virtù etiche: la disposizione a ben deliberare intorno ai mezzi più idonei per conseguire il fine buono. La sapienza infine, appare al filosofo come la virtù più degna d’essere perseguita; come la virtù di chi dedica la propria vita alla teoria ed alla conoscenza. Ma si badi, la teoria è cura per la teoria e per la conoscenza; l’uomo allora non è semplice cura disinteressata del vero: la conoscenza della verità determina piuttosto il suo modo di vivere. 97 Cfr. Severino, cit. pagg. 199 e sgg. Filieri Andrea 59 La sapienza riguarda allora ciò che è al di sopra dell’uomo: la saggezza riguarda l’uomo, o meglio ciò che è mutabile nell’uomo, mentre la sapienza riguarda ciò che ha a che fare con i principi immutabili ed eterni dell’Essere. In una battuta la Metafisica. Ancora, l’uomo non è tanto il singolo uomo isolato da altri bensì la comunità della pòlis (da cui la politica). Ora, se la filosofia come cura del vero si rivolge all’uomo come comunità allora sin dall’inizio la filosofia è politica. Vediamo un confronto: Intento Migliore forma di governo Interesse preminente Giustizia Platone Normativo Sofocrazia: aristocrazia dei sapienti Benessere della polis che coincide col benessere individuale Uno stato è giusto se ogni individuo realizza al meglio il proprio compito Aristotele Descrittivo Governo della classe media Esigenza del singolo realizzarsi come individuo di Uno Stato è giusto se lo Stato agisce nell’interesse dei singoli Per quanto afferisce invece gli aspetti etici: Platone Aristotele Le Idee sono realtà trascendenti: sono Le Idee descrivono le essenze causa e criterio di giudizio delle cose immanenti delle cose (non esiste il mondo delle Idee, le cose che ci circondano sono reali) Concezione Dualismo ontologico: la vera realtà sono L‘essere è uno solo e si configura dell’essere le Idee, il mondo empirico è mutevole ed come un insieme di enti imperfetto Giudizio L’esperienza è un sapere imperfetto: il L’indagine scientifica ossia filosofica sull’esperienza suo oggetto è mutevole deve sempre avere una base epirica Concezione La ricerca filosofica è ciò che rende la vita Condivide essenzialmente la proposta della filosofia degna di essere vissuta platonica: la filosofia guida la vita pratica La felicità I felici sono felici per il possesso della La felicità include anche il possesso giustizia e della tempereanza; gli infelici dei beni materiali. I felici devono son tali per il possesso della cattiveria. possedere tutti e tre i tipi di beni: esterni, del corpo e dell’anima. Concezione delle Idee Filieri Andrea 60 “E diremo che un uomo è prudente proprio per questa piccola parte che in lui governa e dà questi comandi, poiché possiede in sé la scienza di ciò che giova a ognuna delle parti ed all’unità di tutte e tre insieme. Temperante è dunque , per l’armonia di queste tre parti , quando quella che ha il governo e le altre che obbediscono si trovano d’accordo nel riconoscere che spetta alla ragone il comando, senza che nessuna ne disputi l’autorità?Proprio in questo disse consiste la temperanza tanto nella città quanto nell’uomo singolo”” Platone, La Repubblica, IV Per quanto concerne la Politica Intento Forma di governo migliore Interesse preminente Definizione di cittadino Giustizia Generi sommi La dialettica l’essere, la sostanza la concezione dell’Essere significato Molteplicità Filieri Andrea Normativo Sofocrazia: forma di aristocrazia il cui governo è affidato ai sapienti Il benessere della Polis coincide col benessere del singolo Sono cittadini tuttigli uomini e le donne libere Descrittivo Politeia:governo moderato Platone Individua cinque generi sommi della predicazione: essere, identico, diverso, moto, quiete) allo scopo di mettere in relazione tra loro le Idee soprattutto nei dialoghi della maturità è l’arte di distinguere le Idee ed è il modo con cui si esprime l’essere Aristotele Individua dieci generi sommi della predicazione o categorie allo scopo di definire il che cos’è delle cose L’esigenza del singolo realizzarsi come individuo di Sono cittadini coloro che che hanno diritto di partecipare alle cariche pubbliche. Esclusi gli schiavi, i ragazzi, le donne, gli stranieri e gli operai Uno stato è giusto se ognuno Uno stato è giusto se loi realizza il proprio compito governanti agisno per il benessere del singolo la dilaettica è lo strumento argomentativo più diffuso ma partendo da proposizioni probabili e non certe giunge a conclusioni solo probabili Le essenze delle cose sono le Idee collocate nell’iperuranio Parmenide Aristotele UNIVOCO: essere significa POLIVOCO: l’essere si dice in solamente esistere molti modi. La parola essere fha mlteplici significati a livello logico ed ontologico L’essere è unico poiché L’Essere è uno solo (non ammettere l’esistenza di più dualismo platonico) ma si enti implicherebbe riconoscere presenta come un insieme di 61 il non essere Divenire Filieri Andrea L’essere è immobile: divenire è un’illusione 62 sostanze per cui il molteplice è reale, ma il suo riconoscimento non implica dare sostanza al non essere, se si comprende la polivocità del termne essere il l’Essere è caratterizzato dal divenire che è continuo passaggio dalla potenza all’atto La metamorfosi culturale Dopo la caduta dei confini tra gli stati greci e gli altri stati denominati “barbari” si assiste ad una fusione tra diversi popoli di diverse culture: l’Ellenismo. Si tratta dell’affermazione della cultura greca sulle altre. La diffusione della cultura greca tra i barbari è avviata - in primis – da Alessandro, sebbene non sia solo la sua volontà a determinare il diffondersi dell’Ellenismo, bensì il valore intrinseco della paidèia greca, l’aspetto formativo della cultura greca in grado di sviluppare le capacità e le attitudini personali. Dal punto di vista storico\politoco va peraltro sottolineato il decadere della città stato greche a cui subentrano Stati più ampi e complessi: governati da sovrani assoluti. Nuovi aspetti economici, la stessa estensione dei territori impongono nuovi problemi che non più risolvibili secondo il modello classico della assemblee di cittadini. Nascono nuovi organismi statali, la concentrazione del potere, una complessa amministrazione burocratica, un esercito regolare. Da un punto di vista storico, l’enorme impero costruito da Alessandro si disgregò subito dopo la sua morte, a causa delle lotte dei suoi generali. Con la battaglia di Ipso (301 a.C.), che pose fine al tentativi di Antigono di ricostituire a unità l’impero di Alessandro, ebbe inizio il sistema politico dei vari regni ellenistici: la Macedonia, sotto i successori di Antigono; l’Egitto, sotto i discendenti di Tolomeo; la Siria, comprendente anche la Mesopotamia la Persia, sotto i discendenti di Seleuco. alla metà del 3° secolo a.C. si aggiunse, nella Misia, il regno di Pergamo, con la dinastia degli Attalidi. A tutti i regni pose termine la conquista romana. La società L’assenteismo dei singoli dalla vita pubblica, che già agli inizi del 4° sec. a.C. aveva provocato il graduale soccombere delle libere poleis dinanzi allo Stato macedone, fu favorito dalle tendenze assolutistiche dei sovrani. Spenta la libertà e con essa la creatività che aveva caratterizzato i Greci del 5° sec., il primato delle poleis della madrepatria non tardò a trasferirsi alle capitali e metropoli ellenistiche protette e beneficate dai nuovi sovrani: Alessandria, Antiochia, Efeso, Pergamo. La coesione della cittadinanza, caratteristica della polis ellenica, si perse negli immensi conglomerati ellenistici dove la popolazione proletaria era molto maggiore che nell’Atene del 5° o del 4° sec. a.C. Nelle città libere, dal 2° sec. in poi, vi fu una classe ristretta di grandi ricchi e cominciò a delinearsi la distinzione tra persone di ‘società’ e popolo. Cfr. Treccani on line La cultura ellenistica Linguisticamente si creò un dialetto unico, la koinè, che fu mirabile strumento della diffusione della cultura greca su un’area enormemente più estesa di quanto non fosse ancora nel 5° e 4° sec. a.C. Ma il progressivo distaccarsi dei singoli dalla vita collettiva causò l’abbandono di quei generi letterari che maggiormente aderivano all’animo delle masse nell’età precedente: la tragedia e la commedia. La prima manca quasi del tutto nella letteratura ellenistica, la seconda perse Filieri Andrea 63 mordente, fissandosi nell’elaborazione di tipi e caratteri. I generi letterari più coltivati furono i poemetti mitologici, la lirica amorosa o bucolica, l’epigramma, tutti profondamente pervasi da psicologismo Le scienze - Di contro, le scienze esatte furono coltivate intensamente e su basi rigidamente scientifiche: fu fondata la filologia, furono elaborate la cronologia e la geografia, e i rifacimenti e le forma originale sono giunte opere di matematica e meccanica. Una delle caratteristiche principali dell’ellenismo è che l’arte non rappresentò più la voce di una comunità, ma si pose al servizio di committenti privati, come i sovrani dei vari Stati ellenistici o i collezionisti. Allo stesso tempo si andò costituendo una categoria particolare di intellettuali, della quale partecipavano anche pittori e scultori che acquistarono una nuova dignità, differenziando il loro opus artistico dalla produzione artigiana che, contemporaneamente, metteva in atto un processo di industrializzazione. L’arte era considerata un ornamento, piuttosto che l’espressione della devozione civile e religiosa dei cittadini, e l’artista acquistò una autonomia di invenzione mai raggiunta prima. L’opera d’arte ebbe quindi un valore nuovo: rivolta al piacere dei sensi (vista e tatto) e a stimolare l’intelletto, si concentrò nell’espressione di un linguaggio di estrema eleganza e raffinatezza. CFr. Treccani on line. La filosofia ellenistica : epicureismo scetticismo stoicismo Dal punto di vista politico\sociale è caratterizzata da : frantumazione dell’impero macedone in diversi regni crisi delle Pòleis greche crisi del modello del cittadino Dal punto di vista culturale è caratterizzata da : sviluppo degli studi scientifici specialistici (Aessandria d’Egitto); primato della teoria sulla pratica; isolamento degli studiosi Si concentra su interrogativi esistenziali e morali in quanto mira a condurre l’uomo alla serenità Filieri Andrea 64 Virtù e felicità Da un punto di vista filosofico, la domanda fondamentale dell’età ellenistica è relativa al tema della felicità: cos’è la felicità? Cosa deve fare l’uomo per essere felice? La risposta a questa domanda dipende da cosa si intende per felicità. Ora per i Greci, il raggiungimento della felicità dipende dall’esercizio della virtù: l’uomo virtuoso è felice. L’uomo virtuoso realizza infatti le attitudini e le potenzialità della natura umana. Virtù e felicità coincidono dunque. Platone afferma che solo l’uomo giusto può essere felice mentre chi agisce male è infelice. Ma per agire bene bisogna sapere come agire: il bene infatti è ciò che la ragione ri-conosce come tale. Esattamente come affermava Socrate: il male deriva da una distorsione della ragione, da una erronea distorsione del fine. La rilessione socratica è dunque una forma di razionalismo , così come quella di Platone e Aristotele: nel primo l’etica è scienza universale e necessaria; nel secondo la vita pratica, regno del possibile, è guidata dalla phrònesis che conduce alla scelta del giusto mezzo. Ma anche in Aristotele la scelta del retto comportamento è una operazione precipuamente intellettuale. Infine in entrambi, la felicità piena si realizza nella vita contemplativa, nella conoscenza dell’universale ossia nell’esercizio stesso della filosofia: nella beatitudine. In questo senso la filosofia è fine. Diversamente, nella filosofia stoica ed epicurea, la filosofia è mezzo, non rappresenta in sè la realizzazione delle vita felice. Secondo Epicuro: “vano è il discorso di quel filosofo che non sappia curare qualche umana passione, infatti come l’arte medica non è di alcun giovamento se non ci libera dalle malattie dei corpi, così non è di alcun giovamento neppure la filosofia se non ci libera dalle malattie dell’anima”. E l’anima è malata se non conosce la verità, verità illuminata dalla filosofia. E cos’è vero? Ciò che è evidente: sia esso sensazione, affezione dell’anima,piacere o dolore. E’ necessario allora limitarsi ad affermare ciò che è presente senza interpretare: ciò che è evidente. Vediamo: la teoria della conoscenza di Epicuro mette la sensazione, l’esperienza sensibile, a capo dell’atto conoscitivo. In particolare, la sensazione – aìsthesis – è contatto: i corpi che si trovano fuori dell’esperienza tattile emettono, a causa del movimento vibratorio degli atomi, delle immagini – simulacri – eìdola – che colpiscono gli organi di senso. La rappresentazione è dunque registrazione (sempre vera) degli oggetti . Nel caso l’oggetto non sia presente, sussiste per Epicuro la prolessi, che grazie alla memoria anticipa la rappresentazione di un oggetto prima di farne esperienza. Sembra dunque che ogni sensazione sia sempre vera: il bastone che appare spezzato nell’acqua secondo Epicuro, non costituisce una smentita della sua teoria, piuttosto è l’opinione – hypòlepsis - che erra nell’attribuire un qualsiasi giudizio. Se da lontano credo di riconoscere un caro amico e da vicino mi rendo conto del contrario l’errore sta nel giudizio: “A è un mio amico” è un giudizio erroneo, non la prima sensazione - A da lontano - nè la seconda - A da vicino - 98. Intorno all’etica ed alla condotta che porta alla felicità, Epicuro fa riferimento alla natura dell’uomo: il piacere non si aggiunge alla natura umana, qualcosa che va inseguito per mezzo della vita: il piacere è la vita. É l’esistenza liberata dal turbamento e dal dolore: assenza di dolore fisico e spirituale. 98 Cfr. Cioffi. Cit. pagg730 e sgg. Filieri Andrea 65 Piacere e dolore Individua il piacere come motore e fine dell’azione umana L’Etica epicurea Esalta l’amicizia che nasce dalla ricerca dell’utile ma di per sé è un bene Distingue tra : Piacere autentico ossia stabile : aponia atarassia Bisogni Naturali necessari Piacere in movimento: gioia letizia Bisogni Naturali non necessari Da soddisfar e a volte Soddisfare sempre In base ad un calcolo Non naturali non necessari Da soddisfar e mai Secondo Epicuro, lo scopo della filosofia è il conseguimento della felicità. Ora la felicità si identifica col piacere: questo è un dato indiscutibile. Piacere distinguibile in piacere cinetico (il mangiare) e catastematico (la sazietà che ne deriva). Ora, al di là di tale distinzione, Epicuro insiste su una definzione di piacere in senso negativo: è cioè l’assenza di dolore e di turbamento la condizione necessaria affinchè si possa parlare di dolore , come dire che il piacere è mancanza di dolore. In merito poi ai diversi piaceri quali quelli naturali e necessari e non naturali, Epicuro parla anche di amicizia ed amore : due aspetti essenziali per il Filosofo. Ora, il raggiungimento di tali piaceri, essenziali all’essere felici, senz’altro vedono la filosofia in primo piano come esercizio di ragione secondo il lògos: la retta ragione che consente di allontanare la paura della morte, del dolore, degli Dei o del raggiungimento del piacere, in primis quello naturale. Un esercizio di ragione dunque che garantisce anche la possibilità della scelta: la possibilità di astrarre dalle leggi fisiche materiali per comprendere il livello dei propri comportamenti ed atteggiamenti. L’azione dunque, lungi dall’essere determinata da leggi fisiche materiali è libera da condizionamenti, se questi non susssitono ovviamente (costrizioni, etc). In ciò, in quanto detto sebbene per motivi diversi, il motivo della libertà umana si tocca anche negli stoici: in effetti per lo stotico, l’uomo , attraverso la ragione, attraverso il suo esercizio, può controllare le passioni, le può , come si suol dire, gestire. In effetti per lo stoico il fondamento di una vita felice risiede nella retta ragione e nel suo uso che consente un allontanamento dalle passioni: ancora la passione eccede la ragione o meglio la passione è un impulso che eccede i limiti naturali della ragione. La passione dunque, per Filieri Andrea 66 gli stoici, si sviluppa allorquando in presenza di un qualcosa di preferibile per la propria vita, ossia utile ed eventualmente necessario per la propria vita, noi reagiamo in misura eccessiva tale da alterare il nostro normale corso di vita: in effetti per lo stoico l’unico vero bene che devo sempre tenere in vista della ragione è la virtù, come assenza o gestione e regolatezza delle passioni. E tale gestione accade per lo stoico nella misura in cui egli è in grado di blocare il valore attribuito ad un evento rappresentato. Lo stoico dunque oppone all’impulso collegato ad un determinato evento la ragione: ragione che controlla lo stato emotivo ed affettivo legato ad eventi ed accadimenti che possono turbare la vita dell’uomo. Lo Stoicismo: Tutto è Logos – 300 a.c.-180 d.c. Anche per gli stoici, la fonte della conoscenza è la sensazione: l’anima in orgine è come una carta, ben disposta alla scrittura: per gli sotici infatti gli oggetti colti dai sensi lasciano le loro impronte . Tali impronte sono per gli stoici rappresentazioni, fissate nella mente per mezzo della memoria.l’insieme della rappresentazioni costituisce l’esperienza.99Ma quale sarà il criterio che garantisce la corretta rispondenza tra le rappresentazioni e le cose a cui rimandano tali rappresentazioni? Tale criterio è l’assenso per gli stoici.In effetti il soggetto può negare o accordare l’assenso alla propria rappresentazione, e solo l’assenso ad una rappresentazione trasforma la propria rappresentazione in rappresentazione catalettica ossia una rappresentazione vera. Ed è l’evidenza la forza che spinge il singolo a dare l’assenso alla propria rappresentazione. Evidenza empirica si intende. Come in epicuro dunque l’errore nasce dall’assenso alla rappresentazione. Per altro verso gli stoici concepiscono il cosmo, ossia la totalità dell’esistente, come un immenso organismo pulsante, i cui processi dinamici sono governati dal logos o pneuma o fuoco. Principio immanente alla realtà ed inseparabile da essa. Esiste dunque un unico piano dell’essere : quello della corporeità. Tutto è corpo: Dio, l’anima, il vizio. Ora, non solo tutto è corpo ma anche tutto ha una causa: ciò comporta una conseguenza inaggirabile: che ogni cosa è inserita nell’ordine del tutto che è logos, ragione provvidenziale. Ancora, la visione stoica del cosmo esclude la contigenza che trova invece spazio nell’epicureismo. In effetti per gli stoici il caso non esiste. Semmai il caso è frutto del nome che gli uomini danno a ciò che non riescono a spiegare. In questo senso negli stoici non trova spazio la libertà: in realtà in Crisippo, ad esempio, sebbene il sorgere in noi delle rappresentazioni sia necessario in quanto opera di una causa è però libero l’assenso che possiamo dare a tale rappresentazione. In misura più specifica l’uomo è natura, natura che abbiamo visto essere logos: tale natura è secondo gli stoici precipuamente di ordine intelletuale e razionale per cui l’uomo farà il bene se e solo se sceglierà\delibererà in vista della propria natura razionale. Morale sarà dunque quel comportamento che spinge l’uomo a fare il proprio bene ossia a seguire la propria natura razionale. In questo senso le passioni sono vere e proprie malattie dell’anima che richiedono una adeguata terapia: si tratta di estirparle. Il saggio staoico è infatti apatico ed impassibile. Un’etica quindi rigorosa o meglio rigoristica: bene\male; virtù\vizio; niente posizioni intermedie. 99 Il testo filosofico, Cioffi, cit. pag. 739 Filieri Andrea 67 La natura È Dio È razionalità È pervasa dal logos Teoria cognitiva delle passioni (non esiste una componente irrazionale nell’uomo Visione etica Fisica deterministica Tempo ciclico È possibile liberarsi dalle passioni 100 Come Pneuma Dovere Poiché tutto è razionale ciascuno deve assecondare il suo destino Atarassia: assenza di turbamento Felicità Atarassia: Termine già usato da Democrito, ma che venne particolarmente in uso nella terminologia delle scuole postaristoteliche, epicurea, stoica e scettica, per designare lo stato di serenità indifferente del saggio, che contempla il mondo senza più subirne la pressione affettiva. Il termine equivale ad apatia e adiaforia, più propriamente cinico-stoici Adiaforia: Generale disposizione di spirito di chi, bastando a sé stesso, e non chiedendo nulla alla natura e agli uomini, non ha alcun motivo per giudicare gli eventi del mondo buoni o cattivi, desiderabili o indesiderabili, e mantiene in ogni caso immutata la propria serenità e autosufficienza d’animo. È l’ideale etico del cinismo e dello stoicismo, e coincide per gran parte, nel suo contenuto, con l’apatia e atarassia epicuree 100 Filieri Andrea 68 Verifica che i contenuti corrispondano alla realtà Teoria della conoscenza Sensazione che produce : A questo livello è impossibile l’errore Impressione che è sottoposta a: Assenso che conduce a: A questo livello : elaborazione mentale e possibilità di errore Rappresentazione catalettica Filieri Andrea 69 In Platone ed Aristotele, l’orizzonte di riferimento è l’agire nella Polis: la felicità è pensata come esercizio di facoltà (Platone) o di abiti (Aristotele) in un contesto politico. Le filosofie ellenistiche si rivolgono invece a sudditi e non a cittadini. Ora, secondo Epicuro è necessario tenersi lontano dall’attività politica, viceversa lo stoicismo ritiene che la società sia espressione della phisys universale che lega tutti gli uomini: non vieta perciò al saggio l’impegno politico e prescrive all’uomo comune il rispetto del dovere che viene indicato dalle leggi.101 Resta comunque in entrambe le filosofie l’accento della dimensione individuale slegata dall’ambito politico, un uomo che a volte arriva alla autoesclusione dal mondo. Un ideale questo perlopiù inaccessibile. Un abisso separa quindi il saggio dal popolo: un abisso separa l’ideale del saggio da colui che vive nelle false opinioni. Un carattere aristocratico questo, dell’etica greca dell’età ellenistica. Si affaccia allora nella temperie culturale dell’epoca una idea di cosmopolitismo scarsamente presente nell’età precedente: l’individuo è visto come facente parte di una comunità universale, una Humanitas che si impone al di là delle barriere etiche, sociali e poliche. Per altro verso, il lascito del messaggio ellenistico, del saggio, risiede nella esaltazione della dimensione privata come ambito decisivo della vita pratica. In buona sostanza un’etica della salvezza o di sopravvivenza nel turbolente ed instabile mondo ellenistico. Si tratta quindi di una ricerca di sicurezza. 101 Ibidem. Filieri Andrea 70 Lessico ellenistico Adiaforia: termine cinico e stoico per indicare le cose né buone né cattive ossia moralmente indifferenti. Tra queste, alcune sono assolutamente indifferenti come il numero delle stelle pari o dispari, altre sono desiderabili, corrsipondendo alla cosiddetta sfera dei beni esterni quali ingengno, salute, ricchezza. Afasia: termine scettico che indica la rinucia a pronunciare affermazioni dogmatiche sulla realtà: l’afasia consegue all’epochè ed è condizione per il raggiungimento dell’imperturbabilità del saggio detta anche atarassia. Affezione o passione: in genere la condizione per cui un soggetto subisce una azione che ne modifica lo stato: fisico : percezioni sensibili o sentimenti del piacere o del dolore. In tal senso era inteso da Epicuro che utilizzava il termine “tarachai” - turbamento - per indicare le passioni quali ira, dolore, gioia. Psichico: tendenze o inclinazioni dell’anima - passioni - di particolare intensità o durata considerate dagli stoici come momenti di perversione - diastrophè – del logos dell’individuo. Tali passioni sono considerate frutto dell’assenso dato a false rappresentazioni da un logos debole o malato, o traviato dall’ambiente esterno. da qui la concezione del saggio come colui che atraverso il rafforzamento del logos è capace di estirpare le passioni – apatia - cui non è riconosciuto alcun aspetto positivo. Logos: termine fondamentale nella filosofia greca: negli stoici il logos è principio di razionalità che governa gli eventi naturali ed umani ed al tempo stesso fonte normativa delle azioni virtuose. Esso coincide con: natura - physis - ; pneuma –soffio vitale che anima il mondo; legge immanente al cosmo; destino–eimarmène – provvidenza102 – prònoia, concatenazione necessaria degli eventi orientata al bene degli eventi.103 102 Fato: originariamente, presso i Latini, la parola, il detto della divinità, quindi il destino irrevocabile fissato fin dal principio e a cui nessuno si può sottrarre, e perciò la morte; al plurale, i detti del veggente che indicava il futuro e le personificazioni del destino, le Moire, le Parche, chiamate appunto anche Fata o tria Fata. Storicamente, i vari modi di intendere il fato si intersecano e si confondono, collegandosi, nel mondo antico, anche alla concezione della causalità dei cieli nel corso degli eventi terrestri. Fatalismo è in generale, ogni concezione che consideri il mondo come governato da un f. irrevocabile. Nella storia, il fatalismo ha assunto diverse forme, presentandosi in rapporti diversi con la religione e la morale, secondo la concezione stessa del f., inteso anche come legge irrazionale. Strettamente connesso è il problema del rapporto tra f. e libertà umana, ora contrapposta al fato, ora, all’opposto, identificata con la piena accettazione della suprema legge di razionalità che si presume regoli il corso degli eventi. Nel mondo ellenistico il fato fu oggetto di ampia discussione fra gli aristotelici, gli stoici, gli gnostici, i neoplatonici e nelle religioni soteriologiche, con una ricca fioritura di trattati De fato (come quello di Alessandro di Afrodisia). Le religioni monoteistiche escludono l’idea di un fato e alcuni scrittori cristiani si opposero all’uso del termine; in s. Tommaso tuttavia esso sta a significare il complesso delle cause finite preordinate, per il conseguimento di un dato effetto, da Dio che nella sua onnipotenza è però libero di agire quando e come alla sua sapienza paia opportuno. Il problema, trasformato in quello della predestinazione, è stato lungamente discusso dai teologi del cristianesimo e dell’islamismo. 103 Ora, se il fato razionale e provvidenziale estende veramente la sua azione a tutto l'universo, come potrà sfuggirgli l'attività umana? Anche questa sarà governata dalla stessa necessità inevitabile e si attuerà con la medesima perfezione, senza peraltro averne più merito di quanto ne abbia la pietra che perfettamente cade secondo la verticale: e il problema morale non avrà la più lontana ragion d'essere, giacché in un mondo in cui tutto è naturalmente buono, nulla è moralmente buono, non sussistendo la possibilità del male e quindi neppure il merito del bene. A tale difficoltà, che in Filieri Andrea 71 Apatia – apàtheia - :termine stoico che indica la liberazione dalle passioni ottenuta dal saggio attraverso l’esercizio della virtù. Esso non indica tanto l’indifferenza assoluta bensì la non dipendenza dalle affezioni e quindi la condizione di possibilità per l’esercizio di una vita razionale. L’apatia quindi non indica la rinucia all’attività come nell’atarassia – ataraxia, securitas, tranquillitas animi. Nello specifico, l’atarassia indica l’imperturbabilità dell’epicureo che coincide con il superamento della paura degli dei e della morte, nonché con l’acquisizione del piacere catastematico. Dovere o azione conveniente - kathèkon – officium: azione conforme a norma razionale . Nel primo stoicismo, azioni doverose sono quelle secondo natura – onorare i genitori, servire la patria. Piacere – hedoné – voluptas : fondamento della vita morale e della felicità in Epicuro. Egli distingue tra: piacere cinetico –in movimento : soddisfazione di un bisogno; piacere stabile – catastematico : assenza di dolore fisico (aponia) e di turbamento spirituale (atarassia) necessario al conseguimento della felicità o eudaimonia. Scepsi –skèpsis, ricerca, indagine: dal greco skèeptomai ossia mi guardo intorno, osservo rifletto. La scepsi solleva innzitutto il dubbio circa conoscenze, credenze, valori. Il dubbio è la premessa stessa della ricerca. Nellomscetticismo il dubbio non è tanto o solo il punto di partenza della ricerca filsofica ma anche il punto di arrivo: negazione totale e radicale circa la possibilità di conoscere il reale. Virtù: la virtù come disposizione, modo d’essere costante ed uniforme , richiama l’abito aristotelico, -Aristotele però ammette una gradazione delle virtù . Ora la virtù negli stoici è premio a se stessa, non è mezzo per alcun fine come in Epicuro. Si tratta insomma di un ritorno al rigorismo platonico contro Aristotele che predicava anche la necessità di soddisfare necessità fisiche e “benessere” di tipo economico. In che senso il tema della felicità è interesse unificante nelle filosofie ellenistiche? A dispetto di una pluralità di indirizzi nettamente definiti, spesso in contrasto su aspetti specifici, la preferenza accordata all’etica costituisce una costante della riflessione tra IV e III secolo a.c. Ora. Per quanto le scuole ellenistiche rigettassereo il socratismo platonico, ne riprendevano: l’idea della filosofia come cura dell’anima; l’identificazione di virtù e scienza; in qualche caso: l’apertura alla ricerca implicita del “non sapere” (scetticismo). un panteismo assolutamente inteso è a rigore insolubile, lo stoicismo (specialmente per opera di Crisippo) cerca di ovviare ammettendo, entro certi limiti, una libertà dell'uomo, non totalmente determinato dalla necessità cosmica nella realizzazione della sua attività e quindi capace, sempre entro quei ristretti limiti, di reluttare ad essa o di adeguarlesi libertà ha carattere soltanto negativo, la virtù consistendo proprio nella rinuncia ad essa e nella sottomissione completa al destino cosmico. pienamente. S'intende con ciò che tale Filieri Andrea 72 Paradigmatico però, della figura del filosofo, fu la manifestazione della coerenza, anche estrema nel non farsi turbare dalle opinioni del volgo. Una base su cui fondare quella riflessione sull’esistenza umana ed in particolare su quel bene umano cui ogni sforzo umano tende (bene sommo): la felicità o eudaimonia. In cosa cosiste la felicità per Epicuro? Epicuro propone un modello di vita per tutti: liberi e schiavi, uomini e donne. Modello che ha per fine la felicità individuata in una condizione di perfetto equilibrio psicofisico cui sono connessi : l’assenza di pena (aponia) nel corpo, l’assenza di turbamento nell’animo (ataraxia). il piacere connesso all’attività spirituale essenziale per una vita beata. Ora per Epicuro il piacere si conquista anche attraverso una sistematica razionalizzazione dei timori e paure, connessi all’ignoranza dei fenomeni naturali. Per altro verso va fatta una scelta virtuosa dei piaceri e dolori: nello specifico l’hedoné (piacere)è, in natura, il fine in sé di ogni sforzo, così come il dolore (ponòs) rappresenta ciò che la natura rifugge. Sulla base di tali premesse, Epicuro può affermare che per conseguire la felicità è necessario valutare gli affetti sia per ottenere una buona soddisfazione fisica che una giusta tranquillità nella consapevolezza di tale soddisfazione. Tale capacità è espressa dalla phrònesis ossia virtù connessa alla ricerca della felicità, del quieto godimento di quel bene pieno che è la vita. Filieri Andrea 73 Lo scetticismo La sensazione produce solo fenomeni La conoscenza produce solo opinioni La filosofia produce solo dogmi Sospensione del giudizio: epoché Dubbio sistematico perché non c’è certezza Afasia perché di nulla si può parlare con verità Atarassia Filieri Andrea 74 Conformismo perché tutti i valori si equivalgono per cui è meglio riferirsi alle ttadizioni Filone di Alessandria L’accenno a Filone di Alesandria si giustifica per la sua figura, potremmo dire di rottura, a cavallo di due epoche e culture: recuperò la dimensione dell’incorporeo di contro al materialismo delle scuole ellenistiche; contrappose alla visone immanentistica precedente la sua visione trascendentistica; ridemensionò la fiducia nell’autarchia dell’uomo e “mostrò la necessità di trascendere la ragione e di agganciarla a Dio ed alla divina Rivelazione per poter veramente risolvere i problem ultimativi”.104Tali aspetti sono essenziali per comprendere lo sviluppo del pensiero greco successivo. In buona sostanza Filone D’Alesandria inaugura quell’alleanza tra fede biblica e ragion filosofica ellenica che era destinta ad avere così larga fortuna con la diffusione del pensiero cristiano e dalla quale dovevano scaturire le categorie del pensiero successivo.105 Le fonti I testi che costituiscono il punto di partenza della formazione di Filone D’Alessandria sono senz’altro le Sacre Scritture, vero fondamento del suo pensiero. In particolare, la traduzione greca dei Settanta (che costituiva già una prima mediazione tra ebraismo ed ellenismo), iniziata ad Alessandria sotto il regno di Tolomeo Filadelfo (285\246 a.c.). Egli privilegiò il Pentateuco, La Legge (Torah in ebraico, Nomos in greco) che a suo avviso contiene tutta la verità su Dio. Ancora, egli ritiene che la Bibbia abbia un senso e respinge l’assimilazione del racconto biblico al mito, sebbene il senso letterale si collochi su piano inferiore rispetto al valore ed al senso del messaggio mosaico. L’interpretazione allegorica si colloca su un piano decisamente superiore. In effetti Filone fu il primo ad applicare una lettura allegorica della Bibbia che gli consentì di far convergere tradizione ebraica e tradizione greca: suppose infatti che parte della dottrina greca derivasse da Mosè, ovvero dalla sapienza ebraica rivelata da Dio106. Fede e Ragione In quale maniera possono rapportarsi il termine “Fede” con il termine “Ragione”? A quale delle due spetta una priorità?: per primo Filone interpreta i rapporti tra filosofia e Rivelazione (parola divina) in termini di subordinazione ancillare della prima alla seconda. Tale subordinazione passerà indenne alla Patristica e alla Scolastica. Certo anche nell’Ellenismo le scienze particolari erano ancelle della filosofia, ora Filone ripropone tale asservimento della filosofia alla sapienza (: come le scienze su cui si basa la cultura generale (contribuiscono all’apprendimento della filosofia, così anche la filosofia contribuisce all’apprendimento della sapienza (. Infatti la filosofia è lo sforzo per raggiungere la sapienza, e la sapienza è la scienza delle cose divine ed umane e delle cause di queste. Dunque come la cultura generale è 104 Cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, IV, pag. 248. Ibidem. 106 Cfr. Geymont. Cit. pag. 564. 105 Filieri Andrea 75 ancella della filosofia, così anche la filosofia è ancella della sapienza.107. Ed è la fede la convinzione salda ed incrollabile che fa da fondamento alla sapienza. Essa dischiude nuovi orizzonti preclusi alla ragione solo che essa sia disposta a seguirLa. Per altro verso Filone, contrariamente a tutta la tradizione greca, scioglie la concezione di Dio da quella del cosmo per collegarla a quella dell’uomo: la teologia è sciolta dalla fisica per essere trasportata sul piano dell’etica (la conoscenza del Creatore) da cui deriva la santità.108 Filone ripudia dunque la concezione materialistica ed immanentistica di Dio e del Divino, sostenuta dalle scuole elleniche, e ridimensiona il senso e la portata della cosmologia109. Ma anche la concezione ellenistica della phronesis (saggezza) come superiore alla sophia è respinta: è la sapienza infatti a dare spessore alla saggezza La metafisica e la teologia Filone afferma dunque la realtà dell’incorporeo: nell’incorporeo risiede la causa del corporeo. Al corporeo, viene dunque negata ogni autonomia ontologica ossia ogni capacità di dare ragione di sé. Platone è dunque recuperato ancorchè superato, in funzione di alcuni elementi essenziali della Scrittura. Per Filone, Dio è incorporeo come il Logos, le Potenze, le Idee, ed il mondo delle Idee così come le anime. Nelle Legum Allegoriae: “Invece Dio non è un composto, è una natura semplice ( mentre ciascuno di noi e tutte le altre cose che sono state generate siamo molteplici. Io sono molte cose: anima, corpo (...) Dio non è un composto, nè è costitutito da molte parti ma è privo di mescolanza con altro.110 Dio è allora semplice (mancanza di parti) nonchè assoluta incorruttibiità. Ancora: “Neppure il cosmo potrebbe costituire un luogo adeguato ed una dimora di Dio, perchè Lui è luogo a se stesso, ed è Lui che è pieno di se stesso, ed è Lui, Dio, che è bastevole a se stesso. (...) Egli è l’Uno ed il Tutto.”111 Ora però, la stessa descrizione di Dio è forse una conoscenza di Dio? E che tipo di conoscenza? Tralasciando la conoscenza mediata di Dio sulla base di aspetti a posteriori – partenza dalle cose per ritenerle incacapaci di dar ragione di loro stesse ed arrivare a Dio – Filone parla di conoscenza immediata di Dio: “Come possa avvenire questa visione diretta mette conto chiarirlo con una immagine. Questo sole sensibile forse che non lo vediamo con nient’altro se non con il sole? (...) la luce con la luce?Nello stesso modo anche Dio , che è luce di se stesso, è contemplato mediante Lui solo, senza che null’altro cooperi alla chiara comprensione della sua esistenza”112 Ciò che l’uomo fa allora, non è vedere Dio, bensì è Dio che si dà a vedere all’uomo: un dono come gesto d’amore. Un dono che ci consente di intuire la sua esistenza, non la sua essenza: “La comprensione della mia essenza non solo la natura umana ma neppure il cielo potrebbero contenerla” risponde Dio a Mosè. Una trascendenza ontologica che comporta ovviamente una trascendenza gnoseologica di Dio, sebbene Filone parli di alcuni aspetti di Dio quali l’incorporeità, semplicità, perfezione, infinitezza - Dio è quindi non nominabile -. Filone prosegue l’elenco delle proprietà di Dio puntando però su un aspetto centrale: quello del poiein o meglio dell’agire. E questo agire è creazione: creazione dal non essere all’essere. VEDIAMO: secondo l’autore, Egli non è solo Demiurgo bensì Creatore. Creatore a cui tutto appartiene, infatti ogni cosa è gratuitamente e liberamente donata dalla sua bontà. Tutte le cose 107 Congr., 79, in Giovanni Reale, cit, pag. 265. Cfr. REale, cit. pag. 267. 109 Ibidem 268. 110 Leg. All., I,44, in Giovanni Reale, cit., pag. 270. 111 Ibidem . 112 Ibidem. 108 Filieri Andrea 76 sono una grazia di Dio113. Ora, la novità dell’introduzione del concetto di creazione comporta una ri-trattazione: il nuovo senso del Logos divino. Logos inteso apparentemente come attività pensante di Dio,come Nous di Dio: Filone fa quasi del Logos una sorta di ipostasi, denominato figlio primigenito del Padre.114 Altre volte il Logos è un Dio secondo, comunque il Logos per Filone esprime la valenza fondamentale della biblica sapienza, della parola di Dio. Parola creatrice e fattrice.115 Logos come una realtà incorporea trascendente dunque, archetipo di tutta la realtà, anche immanente alla realtà sensibile: un Pensiero che racchiude in sè l’intero cosmo intelligibile e che contemporaneamente regola il mondo sensibile che su quello si modella. Potenza Abbiamo visto che Dio è attività creatrice, di cui il Logos esprime un aspetto, una modalità di attività. In particolare il Logos è una Potenza, come altre. Non una Potenza come infinita potenzialità, bensì forza ed azione: attività. Le altre Potenze per Filone sono la potenza creatrice e la potenza regale: creatrice come Elohim – secondo la tradizione ebraica – e regale come Jehovah. La potenza della creazione come forza del bene ma anche come forza legislatrice e punitrice. Plotino La filosofia di Plotino, in linea con tradizione platonica, si propone di approfondirne il senso sviluppandone alcuni aspetti essenziali: la molteplicità delle Idee, l’idea del Bene, la relazione con la materia inanimata. Plotino osserva innanzitutto come nessuna cosa potrebbe essere , nessuna Idea potrebbe essere se non fosse unica. L’unità sembra essere quindi il fondamento dell’essere delle cose, delle Idee. L’ente in quanto tale è unico. L’unità è quindi fonte d’essere, condizione d’essere delle cose e della loro concepibilità. Per Plotino, l’unità è espressione dell’Uno assoluto che fonda l’essere e l’intelligibilità dell’essere: “Tutti gli enti sono enti in virtù dell’Uno, sia quelli che sono enti in senso originario, sia quelli di cui si dice che in un senso qualsiasi rientrano tra gli enti.Infatti che cosa potrebbe esserci se non ci fosse unità?” Enneadi, VI,9,1. Ma da che cosa riceve\deriva l’unità degli enti?116 Gli enti fisici per Plotino derivano la loro unità dall’Anima la quale è plasmatrice, formatrice, di tutte le cose sensibili. Ossia causa e fondamento della loro unità. Ora, anche l’anima che dà l’unità ai corpi non è essa stessa l’unità117: “...essa non è l’Uno in sè”. Enneadi IV,9,1. L’anima introduce dunque l’unità nel mondo fisico ma la riceve essa stessa da ciò che le sta al di sopra: il Nous, dallo Spirito e dall’Essere. Ma anche l’Essere e lo Spirito , per quanto abbiano un grado superiore di unità rispetto all’anima non sono l’Uno in quanto implicano molteplicità: dualità di pensante e pensato e molteplicità di Idee ossia la totalità delle realtà intelligibili. In effetti Plotino afferma: “Non certo dal molto deriva il molto, ma questo nostro molto deriva dal non 113 Ibidem. Ibidem. 115 Ibidem 285. 116 Cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, IV, pag. 504. 117 Ibidem. 114 Filieri Andrea 77 molto. Se infatti anch’esso fosse molto, non sarebbe principio questo molto, ma vi sarebbe un altro principio prima di questo molto. (Enneadi,VI,9,2). Ora,dell’Uno possiamo parlare solo in termini negativi: non è essere, nè pensiero, nè causa. Piuttosto esso è àmorphon , àpeiron, incomposto. Per altri versi, l’Uno è perfezione, autonomo e distinto da ciò che da esso deriva: l’Uno non intrattiene rapporti con gli enti, sono reali invece le realzioni degli enti con l’Uno. Se ogni ente è come esso è quindi, il suo fondamento sta nella sua unità, sebbene tale unità non sia l’Uno in sè – l’Idea dell’Uno – perchè l’Uno trascende tanto il mondo sensibile quanto quello intelligibile. L’Uno in sè è allora la prima ipostasi118 – ciò che sta sotto - tutto ciò che esiste e che crea tutto l’ente. Non è qualcosa di finito -àpeiron –perchè il finito è determinato, ossia ha dei limiti, dei confini, per cui è anche qualcosa di molteplice. Nè l’uno come numero minimo della matematica, peraltro immisurabile, anzi semmai massimo per potenzialità. Non potenzialità passiva, contrapposta all’atto, bensì attività illimitata e creatrice nella misura in cui l’Uno non è limitato da nulla di indipendente da esso.119 Potremmo anche dire che, come in Anassimandro, la divisione dell’Uno è 118 IPOSTASI (gr. ὑπόστασις, da ὑπό "sotto" e ἵστημι "sto"). - Dal punto di vista etimologico, questo termine coincide pienamente con substantia, che la tarda latinità coniò per esprimere il concetto della realtà esistente, e indipendente nella sua esistenza individuata. E infatti, se il termine substantia traduceva nell'uso quello greco di οὐσία - al quale propriamente corrispondeva invece quello molto meno usato di essentia - esso esprimeva poi esattamente l'aspetto onde quella "essenza" si presentava come "soggiacente" (ὑποχείμενον, o subiectum) e cioè come sostrato per sé sussistente e sorreggente gli attributi, i quali invece non avrebbero potuto esistere senza quel sostegno. Con lo stesso significato (ma con la particolare intonazione onde la realtà "sottostante" appariva, rispetto alle sue soprastrutture, più profonda, vera e insieme arcana), "ipostasi" entrò invece nell'uso più tardi, specialmente col neoplatonismo, che designò con esso le supreme nature dell'Uno, dell'intelletto e dell'anima, e con la teologia patristica, che se ne valse nell'elaborare la definizione del dogma trinitario. E fu precisamente nel corso delle controversie trinitarie e cristologiche che si palesò il bisogno di distinguere il termine d'ipostasi da quelli, considerati tra loro equivalenti, di sostanza ed essenza. Si definirono infatti le tre Persone divine come consustanziali, cioè della medesima essenza (ὁμοούσιος), distinguendo ciascuna di esse come ipostasi, e parlando di "unione ipostatica" della natura divina e umana in Gesù Cristo (v. arianesimo; gesù cristo, XVI, pp. 868 segg. e 872 segg.; trinità). Da questo uso derivò il carattere di maggior solennità oggettiva che contraddistingue ipostasi a paragone di sostanza; e, di conseguenza, la maggior forza che, di fronte al termine "sostanzializzare", assunse il termine "ipostatizzare" per designare il processo per cui, lecitamente o no, s'innalzano al grado dell'oggettiva esistenza enti concettuali o ideali, che vi possono essere elevati solo per astrazione. In un senso derivato da quello teologico di "persona", il termine ipostasi è usato anche nella mitografia e nella scienza delle religioni per indicare la "personificazione" di concetti astratti pertinenti al mondo soprannormale e concepiti come altrettante personalità definite. Tuttavia conviene distinguere la semplice personificazione di fenomeni della vita e della natura (o anche, col progresso del pensiero e della cultura, di qualità o proprietà astratte) dalle ipostasi divine vere e proprie. Nel primo caso - di cui ci porgono esempî i Romani con le divinità degli Indigitamenta, lo zoroastrismo con i sei "santi immortali" (Amesha Spenta; v.) - è possibile scorgere il legame con elementi naturistici o animistici. Ipostasi vere e proprie si possono ritenere le divinità astratte dei Romani, quali Virtus, Pietas, Pudicitia, ecc., e meglio ancora quelle di certe dottrine gnostiche (v. gnosticismo) o del manicheismo e in genere di tutte quelle concezioni religiose che, per spiegare il passaggio dall'unità della natura divina trascendente alla molteplicità che regna nel mondo contingente, ricorrono a un emanatismo del tipo, appunto, di quelli di cui la gnosi ci porge numerosi esempî. Ipostasi di questo genere sono state considerate da varî studiosi anche le personificazioni della Sapienza - che troviamo in libri dell'Antico Testamento (Proverbî, Ecclesiastico, Sapienza) - e della Parola, Presenza, Gloria, ecc., di Jahvè, nel giudaismo dell'epoca ellenistica. Ma altri studiosi hanno fatto osservare che in realtà la Sapienza personificata ed esaltata nella cosiddetta letteratura sapienziale non è altro, in sostanza, che la stessa Legge; e che gli altri supposti attributi di Dio ipostatizzati non sono se non metonimie, grazie alle quali si evitava di pronunciare il nome sacro di Dio: onde, dato il concetto di Dio personale, l'apparente ipostatizzazione. Comunque, poiché nel giudaismo il concetto di Jahvè è stato sempre quello di un Dio vivente e personale, la cui azione è immediata (in contrasto con la concezione metafisica e impersonale che ha di Dio la filosofia greca), non potrebbe mai trattarsi d'ipostasi o d'intermediarî tra Jahvè e il mondo, nel senso proprio di questi termini.Treccani on line 119 Cfr. Severino, Cit. pagg. 190 e sgg. Filieri Andrea 78 la stessa generazione del molteplice. Ora l’Uno dividendosi non perde la sua unità, piuttosto l’Uno dividendosi, il dividersi dell’uno, è la stessa produzione della molteplicità; ma l’Uno non è l’Uno indeterminato di Parmenide, non è il semplice vuoto, il semplice manchevole, piuttosto è l’unità di tutte le cose: “Egli è tutte le cose”. L’Uno non è quindi il Nulla: è tutte le cose, ivi compreso il pensiero e la vita che in quanto enti sono distinti - sebbene non separati - come unità, da altro. L’Uno di Plotino, si vuole com’è, creatore di sè, non potendo voler altro che sè. Ed in questo volersi l’Uno produce il molteplice e l’intero universo. L’Uno allora non vuole l’altro da sè, nè altro da sè, in quanto contiene anche il principio per cui egli è produttore: il senso plotiniano della produzione, del portare ad essere, che in Platone ha il valore dela causa formale, in Plotino assume il valore della causa formale ed efficiente. L’uno e le tre ipostasi Il principio ultimo del reale, per Aristotele, era l’ousia e l’intelligenza del Motore immobile; per Plotino il principo è ancora ulteriore: l’Uno , al di là dell’essere e dell’essenza ed al di là dell’intelligenza: l’Uno trascende la stessa ousia e lo stesso Nous. Vediamo: ogni ente è tale solo in virtù della sua unità, la cosa si spezza se si rompe l’unità. Ora, da che cosa deriva l’unità degli enti? Secondo Plotino, gli enti fisici ricevono la loro unità dall’anima che esplica una attività plasmatrice e formatrice e coordinatrice di tutte le cose sensibili.Eppure l’anima non coincide con l’unità in quanto per Plotino vi sono diversi gradi di unità: l’anima introduce nel mondo fisico l’unità ma la riceve essa stessa da ciò che le sta al di sopra ossia dal Nous, dallo Spirito e dall’Essere. Per Plotino però, anche sia l’Essere che lo Spirito, per quanto abbiano un grado superiore di unità rispetto all’anima, non son l’Uno, perchè implicano molteplicità: dualità di pensante e di pensato e molteplicità di Idee, vale a dire la totalità delle realtà intelligibili. In conclusione: nel ricercare il fondamento delle cose, che è l’unità, noi siano costretti a risalire dal mondo fisico all’anima (che è l’ipostasi più bassa),quindi dall’anima che ha ma non è unità, allo Spirito (che è la seconda ipostasi) e dallo Spirito ( che include la molteplicità) ad uno assolutamente semplice: l’Uno, la prima ipostasi, l’Assoluto. 120 Ora, le caratteristiche dell’UNO PLOTINIANO QUALI SONO? Senz’altro l’infinitudine ma nella dimensione immateriale (Filone D’Alessandria). Come in Filone D’Alessandria infatti, l’infinito plotiniano non è l’infinito dello spazio, nè l’infinito della quantità, bensì come infinita ed inesauribie, immateriale potenza produttrice.In questo contesto la parola “Potenza” non assume il significato di potenzialità, in quanto lgato al corporeo e materiale, bensì alla attività. L’uno è insomma infinita energia creatrice, creatore di sè medesimo e di tutte le altre cose. Conseguenze: l’Uno non è Idea, ousia nel senso platonico, in quanto implicano finitudine e limite; l’Uno non è la sostanza immobile , eterna e separata, Intelligenza autopensantesi finita. L’Uno è allora, al di là dell’Essere, una trascendenza che ha antecedenti solo in Filone d’Alessandria. Il principio supremo trascendente quindi non solo il mondo fisico, ma ogni forma di finitudine, risultando quasi ineffabile. Diremo piuttosto che l’Uno non è una semplice unità, ma l’Uno in sè, ossia la causa e ragion d’essere dell’unità delle cose. Esso è assolutamente semplice, sebbene non una semplicità povera ma, al contrario, infinita potenza di tutte le cose. Nel senso che 120 Storia della Filodofia antica; Reale, Vol. IV Filieri Andrea 79 tuttel le cose le porta all’essere e nell’essere le mantiene. L’Uno è anche il Bene, non il Bene per sè, visto che non abbisogna di nulla, ma per tutte le altre cose: un Bene assolutamente trascendente. Sulla base di quanto si è detto è forse possibile chiarire perchè l’Uno, per Plotino, è al di sopra dell’Essere, al di sopra del pensiero: non nel senso che l’uno sia il non-essere, il non-pensiero, piuttosto l’Uno sussiste non al modo delle Idee, in quanto molteplici, o al modo del pensiero, sdoppiantesi in pensante e pensato. La libera attività produttrice dell’Uno Perchè c’è l’Assoluto e non il nulla? Vediamo: 1) L’Uno non è per caso, solo le cose divenienti sono per caso; 2) Non sussiste per libera scelta, quale quella che possa scegliere tra contrari; 3) Non esiste per necessità visto che è Lui la necessità degli altri Enti, la necessità gli è infatti posteriore. Potremmo o forse dovremmo dire invece che, per Plotino, essere ed operare nell’Assoluto coincidono in quanto il primo principio si autopone, crea se medesimo ed è attività produttrice. 121 Ancora, per Plotino, la volontà corrisponde al suo atto: egli è volontà di essere quello che è, è libertà totale ed assoluta: “L’espressione “Egli vuole ed agisce secondo la sua natura” non vale più dell’altra “l’essere di lui corrisponde alla sua volontà ed al suo atto”Di conseguenza Egli è in tutto padrone di sè, poiche fa rientrare anche l’essere nel suo libero arbitrio (...) Egli non è così com’è perchè non poteva essere diverso, ma perchè questo suo “così com’è” è quanto di più alto si possa immaginare . Da ciò deriva anche che Egli è amore di sè . La processione di tutte le cose dall’Uno Plotino risponde alla domanda sul perchè le cose procedano dall’Uno con alcune immagini di cui la più celebre è quella della luce:come l’irraggiarsi di una luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi via via digradanti in luminosità. IL ptimo cerchio è il Nous o Spirito, ossia la seconda ipostasi. Il cerchio che segue segna il momento dello spegnersi della luce e simboleggia la meteria. Vediamo: da tutte le immagini proposte si ricava già questo: il principio rimane e, rimanendo genera , nel senso che il suo generare non lo impoverisce. Ancora, possiamo chiederci se il generante è necessitato a generare: Plotino risponde ponendo una distinzione. Esistono due tipi di attività: 1) L’attività dell’ente 2) L’attività che deriva dall’ente. La prima è immanente all’ente, la seconda esce dall’ente e si dirige al di fuori122. Analogamente, si dovrà parlare di una attività dell’Uno e di una attività che deriva dall’Uno, 121 Ibidem. Tutti gli esseri, afferma Plotino, fino a che permangono, producono ntorno a loro e dalla loro sostanza, una realtà che tende verso l’esterno e dipende dalla loro attualità presente. Questa realtà è come un’immagine degli archetipi dai quali è nata: così il fuoco fa nascere il calore, e la neve non trattiene in sè il freddo. Inoltra tutti gli esseri giunti alla perfezione generano; perciò l’essere che che è sempre perfetto genera sempre: genera un essee eterno che da meno di lui. (Enn. V,1,6) 122 Filieri Andrea 80 quella attività che fa sì che dall’Uno derivi o meglio proceda un’altra realtà. Orbene, alla fine di questo ragionamento, possiamo affermare che, come abbiamo visto, l’attività dell’Uno consiste nel voler esser ciò che è, ossia nella libertà di essere ciò che è, cosicchè l’attività che procede dall’Uno e che consegue necessariamente all’atttività dell’Uno, (l’emanazione) costitutisce una necessità, in un certo senso voluta, ossia una necessita posta da un atto libero, o meglio la conseguenza di un atto libero. In una battuta: la volontà dell’Uno di essere la propria natura è la causa diretta dell’emanazione dalla sua natura. In un certo senso, la creazione è libera o meglio la processione è una necessità che consegue da un atto libero. Lo spirito Quando parliamo di Spirito, in Plotino, non possiamo semplicemente affermare che Esso è la potenza che procede dall’Uno. Plotino, in riferimento a questo punto è assai preciso. Egli parla: 1) Il rivolgersi della potenza all’Uno, il quale feconda riempie e colma la potenza medesima; 2) Il riflettere di questa potenza su se medesima già fecondata. 3) Tale duplicità di momenti spiega, per Plotino, la nascita del molteplice o meglio la molteplicità delle Idee. (Cosmo intellegibile). Vediamo meglio: l’Uno è la potenza di tutte le cose; lo Spirito, a sua volta, è tutte le cose. Tale affermazione significa che lo Spirito di Plotino è l’Essere Puro di Platone, quell’Essere che è pienamente e in alcun modo affetto dal non essere. Plotino, in minura ancora maggiore fa dello Spirito la dimora di tutti gli esseri ideali. Di più ancora, le Idee sono pensieri di Dio. Infatti nel contesto plotiniano le Idee vengono ad essere non solo il contenuto del Pensiero, ma, esse stesse, pensiero: ciascuna e tutte le Idee non sono solo nello Spirito ma sono esse stesse spiriti. Lo Spirito poi è anche vita, il Vivente perfetto, Vita infinita. La vita della seconda Ipostasi è dunque vita nella dimensione immateriale, è vita spirituale, al di fuori della temporalità. Del resto già Aristotele aveva caratterizzato il suo motore immobile come la più alta forma di vita possibile, la vita propria del pensiero e dell’intelligenza, appunto nella dimensione dell’eternità. La terza Ipostasi Lo Spirito, come abbiamo visto, è potenza infinita, inesauribile, ed in quanto tale trabocca e genera un’altra realtà, gerarchicamene inferiore: l’Anima. Ma qual è la caratteristica specifica dell’anima?. Ora, se la caraterisica principale dello Spirito consiste nel pensare (Nous) , da cui la sua dualità Essere\Pensare, ed anzi la sua molteplicità ( (L’Essere è una molteplicità di Idee), va anche detto che l’Uno, se vuol pensare, deve farsi Spirito: dato che l’Uno come tale, non può pensare. Orbene, anche l’Anima pensa, contempla lo Spirito che l’ha generata, ma la sua essenza consisite non nel pensare, ma nel dare vita a tutte le cose sensibili, nell’ordinarle e governarle. Essa è la primgenia causa produttrice , il principio creatore e vificatore di tutte le cose: “Compito dell’Anima, a dir il vero, si è di creare tutte le cose, poichè ella è ragione e principio”. In conclusione, come l’Uno doveva diventare spirito per pensare, così doveva diventare Anima per generare tutte le cose del mondo vsibile: l’incorporeo genera il corporeo. Filieri Andrea 81 Il problema della generazione del mondo fisico L’elemento caratteristico del mondo corporeo è la materia sensibile. Ora, secondo Plotino, caratteristica di ogni materia è l’essere indefinita, indeterminata, illimitata. La materia sensibile, in Plotino, presenta una differenza ontologica con la materia intelligibile. Vediamo: in Plotino la materia sensibile diventa esempio di lontananaza e privazione estrema rispeto all’originaria dell’Uno. In breve, Plotino definisce la materia sensibile come non essere. Ossia non tanto come il nulla ma come il diverso dall’Essere. Nello specifico, il mondo sensibile è costituito da materia e forma , ma a differenza della materia intelligibile che è forza o potenza, la materia sensibile non è positiva capacità di ricevere la forma, ma solo inerte possibilità di rifletterla , senza esserne a fondo veramente informata. Insomma, la materia sensibile è tale da essere incapace di costituire una vera unità con la forma.123 In questo senso allora possiamo affermare che l’Anima crea il mondo fisico : 1) Dapprima pone la materia, che è come l’estermità del cerchio di luce che si spegne e diventa oscurità 2) Successivamente dà forma a questa materia , quasi squarciandone l’oscurità e ricuperandola alla luce. 3) Detto in altri termini le Idee che costituiscono lo Spirito sono contemplate e pensate dall’anima come Forme e poi calate nel mondo fisico come determinazine razionale, come logos o disegna razionale del mondo L’Uno è l’origine di tutte le cose- Esso è realtà suprema trascendente ed ineffabile che irradia oltre se stesso per la propria sovrabbondanza d’essere originando: Uno : realtà suprema 123 Intelletto: essere e pensiero sede dei modelli eterni (Idee) Ibidem. Filieri Andrea 82 È possibile solo dire ciò che non è: 1. demiugo; 2. motore immobile; 3. Dio ebraico; 4. causa delle cose; 5. pensiero o essere; 6. Bene Anima : si moltiplica nelle singole anime umane; si volge verso la materia vivificandola ed organizzandola sulla base dei modelli ideali. L’uomo ed i rapporti tra anima e corpo Secondo Plotino, l’uomo vero, è solo l’anima, anzi l’anima separata. Permeglio dire, Plotino insiste nella dimensione di tre anime: o meglio tre potenze dell’anima. La prima non è se non l’anima considerata nella sua tangenza con lo Spirito (Tangenza che non viene mai meno); il secondo uomo, per così dire, è l’anima o il pensiero discorsivo, che è in mezzo tra l’intellegibile ed il sensibile; il terzo uomo, per così dire, è l’anima che vivivifica il corpo terreno. L’uomo dunque è comprensibile solo nell’unione di questi tre momenti. A seconda che noi lasciamo predominare la parte sensibile, oppure trascndiamo il sensibile tenendoci stretti a questa partte superiore , decidiamo i nostri destini. Ma in che cosa consiste l’attività più alta dell’anima? Riprendendo Socrate , Plotinio ritiene che l’attività più alta dell’anima consista nella libertà. Nello specifico,per Plotino, la libertà, non può consistere nell’attività pratica, ossia nell’agire esteriore, ma nella virtù e soprattutto nelle più alte virtù ed in paticolar modo nel pensiero: nella contemplazione e nell’estasi. In buona sostanza, quello che nell’Ellenismo poteva essere trovato nell’immanenza (la ricerca della felicità epicurea e stoica) per Plotino, diversamente, può senz’alro essere cercato in questa vita, ma distaccandosi con lo spirito da tutto ciò che è materialee, per questa via entrando in intima unione (sia pure solo qualche volta e solo per breve tempo con l’Assoluto trascendente). Plotino elabora il concetto di Unità assoluta: l’Uno Principio originario della realtà Che è: infinito; informe; indeterminato; trascendente; indefinibile. Filieri Andrea Infinita potenza 83 Termine finale del “ritorno “ Compiuto dall’uomo attraverso: le virtù etiche; l’arte; l’amore; la filosofia; l’estasi Da cui tutte le cose procedono per : emanazione differenziandosi secondo una scala gerarchica Che comprende il mondo intelligibile Prima ipostasi: l’Uno che emana l’Intelletto Seconda ipostasi: l’Intelletto che contempla l’Uno; che emna L’Anima L’uno è al di là della possibilità di definizione E Che comprende il mondo sensibile ea arriva sino al grado più basso Quindi Le parole e l’intelligenza non sono in grado di esprimerlo Filieri Andrea Terza ipostasi: l’Anima che contempla l’Intelletto e che vivifica la Materia quindi Di esso non si può dire ciò che è, semmai ciò che non è La materia infatti L’anima che libra verso l’Uno trascendere esperienza e ragione 84 L’Uno è senza forma, al di fuori del tempo e dello spazio, della quiete e del movimento e La pura contemplazione dell’Uno è possibile solo trascendendo i limiti umani Porfirio Porfirio, noto discepolo di Plotino, e grande commentatore degli scritti di Aristotele e Platone, risulta importante nel panorama filosofico per la sua codifica dei cinque predicabili (genere, specie, differenza, proprio ed accidente) che vanno a costituire una struttura logica gerarchica nota come albero di Porfirio (scala praedicamentalis): la subordinazione dei generi e delle specie, distinte attraverso differenze, procedendo dal genere sommo sino alle specie infime e quindi agli individui.124 In ordine al senso di predicabile (praedicabilis), questo termine è stato coniato da Boezio nella sua traduzione dell’Isagoge di Porfirio. In effetti sia Aristotele che Porfirio usano il termine sia per indicare il il predicato che per indicare il modo in cui viene predicato ossia il predicabile. In breve, il predicabile si riferisce nell’Isagoge a cinque termini (genere, specie, differenza, proprio ed accidente) che esprimono cinque modi in cui un predicato si predica di un soggetto. Nello specifico, il genere (genus) è il primo dei cinque predicabili: “il genere è ciò che si predica di più realtà che differiscono per specie, per quel che riguarda l’essenza”. Porfiro esprime quindi l’essenza delle specie con questa definizione, ponendo al vertice dell’albero porfiriano il genere sommo ossia la “sostanza” e tutte le altre categorie. Il secondo dei cinque predicabili è : “specie” (species). Termine non incluso da Aristotele tra i predicabili. Consideradola solo come soggetto. Porfirio così la definisce: “ciò che è subordinato al genere e di cui il genere si predica in relazione all’essenza”. In buona sostanza Porfirio qui intende la specie come essenza dove l’essenza si definisce a sua volta in riferimento al genere ed alla differenza, definita come “ciò che per natura divide le realtà comprese in uno stesso genere”. Il circolo quindi si chiude: il genere “animale” (ad es.) si predica di più realtà: uomini, scimmie, etc., che differiscono in quanto specie diverse. Tutte queste specie, a loro volta, sono animali, se ne può predicare l’animalità; l’essenza di queste diverse specie si rintraccia nella loro differente animalità le une dalle altre. 124 Cfr. Isagoge, Porfirio, Bompiani, 2014 Filieri Andrea 85 Felicità nell’ellenismo Scettici : la felicità si raggiunge grazie all’esercizio del dubbio (sképsis) rifiutando ogni convinzione o dottrina perché la verità ed il bene assoluti sono inconoscibili Felicità: Atarassia o impertubabilità che si ottiene grazie all’epoché o sospensione di giudizio (ed afasia sulle cose oscure) conseguente all’esercizio del dubbio su ogni cosa. La felicità implica l’indifferenza verso le emozioni (atarassia) Epicurei : la felicità si raggiunge atraverso l’esercizio della filosofia ossia atraverso un quadrifarmaco che agisce contro: il timore degli dei il timore della morte l’idea che il piacere sia irragiungibile il dolore Felicità: piacere inteso come assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell’anima che si ottiene grazie al tetrafarmaco Pirrone di Elide: è il fondatore dello scetticismo che si basa sull’esercizio del dubbio.Egli afferma che tutte le dottrine sono ugualmente fallaci e quindi conviene non affannarsi nella ricerca della verità che è inafferrabile per cui assume l’attaggiamento Filieri Andrea 86 dell’epochè ossia SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO Stoici : la felicità si raggiunge grazie alla virtù mediante la sapienza che è conoscenza dell’ordine cosmico Felicità: apatia ossia liberazione\distacco dalle emozioni che possono turbare l’animo e renderlo inquieto. Essa si ottiene grazie all’accettazione della necessità del destino ossia grazie all’esercizio del dovere che è un comportamento conforme all’ordine razionale L’etica stoica identifica: il bene con l’agire secondo natura ossia secondo ragione; il dovere con la virtù ossia la disposizione ad agire secondo ragione; la vita buona e felice con La filosofia romana È una forma di eclettismo che comporta l’adattamento delle dottrine greche ai bisogni della società romana Cicerone: esprime il bisogno di ricercare la verità ovunque essa si trovi Seneca: esalta i valori della vita spirituale e della solidarietà interpretando lo stoicismo in modo quasi religioso Epitteto: ha una visione tragica dell’esistenza dell’uomo combattuto tra una vita secondo ragione ed una vita dominata dalle passioni Marco Aurelio: accentua i temi dell’interiorità e dell’introspezione riconocendo che la realtà non ha significato indipendentemente dall’uomo Filieri Andrea 87 La cultura romana :I sec A.c. Nella cultura romana, la filosofia assegna a se stessa il compito di delineare uno stile di vita: una indicazione morale politica del singolo e della collettività. In questo senso, nella cultura romana si radicalizza il tema della problematica morale tipico dell’età ellenistica125. In particolare, dallo Stoicismo la cultura romana eredita la figura normativa del saggio: colui che persegue la sapientia126ossia la conoscenza delle cose umane e divine (Cicerone). 125 CFr. Il testo filosofico, Cit. pagg. 840 e sgg. Sapienza: Possesso di profonda scienza e dottrina. Il termine (dal lat. sapientia, der. di sapiens -entis «sapiente, saggio») traduce il greco σοφία, vocabolo che nel pensiero filosofico presocratico e ancora in Platone viene impiegato per indicare quella concezione della s. che è insieme abilità tecnica, conoscenza razionale ed equilibrata prudenza nel distinguere bene e male, lecito e illecito, utile e dannoso. In quest’ultima accezione esso è utilizzato come equivalente di φρόνησις, «saggezza» (phronesis), che, espressione anch’essa di perfezione spirituale, riguarda più specificamente il comportamento pratico e l’agire morale. La distinzione nel concetto e nell’uso dei due vocaboli si pone con chiarezza in Aristotele che nell’Etica Nicomachea definisce la saggezza come «una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire e concerne le cose che per l’uomo sono buone e cattive» (VI, 5, 1140 b, 4-6) e la s. invece come «scienza delle realtà che sono più degne di pregio coronata dall’intelligenza dei supremi principi» (VI, 6, 1140 b 17-20). La prima attiene quindi la sfera del comportamento morale, l’economia e la politica, la s. è invece «la più perfetta delle scienze», che comprende sia il sapere dimostrativo della scienza propriamente detta, sia l’intellezione dei principi; il suo oggetto sono le realtà metafisiche (gli astri e il primo motore), cioè le realtà immutabili, mentre la saggezza, avendo come oggetto l’uomo, vale a dire una realtà imperfetta e mutevole, non è una scienza suprema. A differenza di quest’ultima, infine, la s. non concerne ciò che è utile; tale concetto si ritrova anche nella Metafisica (I, 981 b, 13-20), dove della s. si ricorda l’attinenza con le «prime cause e i principi» (981 b, 28), profilando la sua coincidenza con la «filosofia prima». Nella filosofia ellenistica che riporta l’uomo e la sua felicità al centro dell’interesse del filosofo, la s. tornerà a essere il sapere che attiene il bene e che spinge ad agire per il bene, conseguendo la felicità. Questi tratti si ritrovano in Cicerone, che nel De officiis (i, 43, 153) la distingue esplicitamente dalla saggezza: «Princeps omnium virtutum est illa sapientia, quam Graeci σοφίαν vocant. Prudentiam etiam, quam Graeci φρόνησιν, aliam quamdam intelligimus: quae est rerum expetendarum fugiendarumque scientia» Poi, quella sapienza, signora di tutte le virtù, che i Greci chiamano sofia da non confondersi con la prudenza, che i Greci chiamano fronesis e che io definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare o fuggire; «[sapientia] si maxima est, ut est, certe necesse est, quod a communitate ducatur officium, id esse maximum. Etenim cognitio contemplatioque manca quodam modo atque inchoata sit, si nulla actio rerum consequatur» (ibid.). quella sapienza, dunque, che ho chiamato signora, altro non è che la scienza delle cose divine e umane e in sé comprende gli scambievoli rapporti tra gli dèi e gli uomini e le relazioni degli uomini tra di loro alla vita dell’uomo, pena l’inutilità del sapere stesso 126 Nelle filosofie fortemente connotate in senso religioso dell’età alessandrina e oltre, invece, si sottolinea il carattere ‘divino’ della s. e si afferma quindi la tendenza a ‘ipostatizzarla’, facendone una sorta di medio tra l’essere supremo e il mondo sensibile, come accade, per es., in Filone di Alessandria, che la identifica con il Logos divino (Legum Allegoriae, I, 65). In Plotino essa rivela anche un’intrinseca potenza creatrice, grazie alla quale è all’origine di tutte le cose e coincide con la natura dell’essere (Enneadi, V, 8, 4-5). Nello gnosticismo Sapienza è una ipostatizzata potenza mondana inferiore a Dio; nella corrente valentiniana, essa – presumendo audacemente di conoscere da vicino il Padre, oppure tentando di spezzare la legge che regola la gerarchia del Pleroma divino e generare da sola – determina al tempo stesso la propria caduta e l’origine del mondo materiale. Filieri Andrea 88 Cicerone (seguendo Panezio) non ripropone però il rigore etico e morale della Stoa, né quello inarrivabile di Zenone. Per altro verso, Cicerone si trova ad ereditare le ricerche di Antioco, che si muove in una direzione dogmatica contro lo scetticismo assoluto. Egli riporta il pensiero di Platone verso una ricerca della verità contro il parere dei sensi. Ecco che allora, dinanzi a Cicerone si profila una linea del pensiero o piuttosto della vita che deve conciliare PLATONISMO, ARISTOTELISMO, STOICISMO. Egli riformula allora la sua concezione filosofica secondo quanto espresso nelle Tuscolane: “pensi pure ciscuno ciò che vuole, vi deve essere libertà di giudizio: noi ci atteremo sempre ai nostri principi: ricercheremo sempre in ogni questione quello che quello che abbia ma ggior carattere di probabilità. Senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità. (Tuscolane disputationes, IV, 4). Si tratta, in buona sostanza, di adottare un metodo argomentativo – pro et contra – un confronto tra diversi punti di vista e libera scelta fra questi.127Non si tratta però, in Cicerone, di aderire ad uno scetticismo assoluto che non reca nulla con sé: “Io non sono uno di quelli, il cui animo vaga nell’incertezza e non segue principi costanti. Che mai ne sarebbe del pensiero e della vita stessa se togliessimo non solo di ragionare ma anche di vivere?” (De Officis, II,/) Il probabilismo è dunque l’attegiamento di pensiero più accettabile in quanto evita il fanatismo e lo scetticismo più assoluto:evita sia il dogmatismo più assoluto che lo scetticismo più marcato senza per questo precludere all’azione. Cicerone fu quindi figura complessa, che teorizzò e cercò di realizzare un ideale di humanitas: l'ideale cioè di un uomo di cultura capace di coniugare sapienza teorica ed esperienza pratica, impegno di studio e attività politica. Le opere filosofiche documentano quindi lo sforzo di divulgare a Roma la filosofia greca, la cui conoscenza Cicerone riteneva importante per la formazione della classe dirigente romana. Fu un eclettico, cercò, cioè, di conciliare filosofie diverse: polemizzò con l'epicureismo, che predicava il disimpegno politico e sociale, e fu invece vicino alle posizioni dello stoicismo, che tendeva a valorizzare le virtù civiche. Tra le opere filosofiche ricordiamo Le dispute accademiche, Il sommo bene e il sommo male, Le tusculane (cioè le discussioni di Tuscolo, così chiamate dalla villa di Tuscolo dove si immaginano tenute), Sulla natura degli dei, Dei doveri, La vecchiaia, L'amicizia128. 127 128 Nella scolastica medievale sembra riaffermarsi la posizione aristotelica rinnovata dalle riflessioni di Tommaso d’Aquino, il quale, se da una parte riprende la nozione della s. come virtù speculativa somma derivata dallo Stagirita, dall’altra introduce la nozione di s. come dono di Dio, sapere che l’uomo riceve attraverso la grazia e gli permette di accedere alle verità che altrimenti accetta per fede (Summa theologiae, Ia IIae, q. 68, a. 4-5). Nel pensiero moderno il termine conserva il significato di conoscenza piena e perfetta affermatosi già nell’aristotelismo. Cr. Treccani. Ibidem. Treccani Filieri Andrea 89 Morale ed etica del dovere “Questa è la verità, o Ateniesi: ovunque un uomo si sia posto, giudicando questo il suo meglio, o dovunque sia posto da colui che lo comanda, ivi egli deve restare, qualunque sia il pericolo da affrontare, non tenendo in alcun conto nè la morte, nè altro in confronto della vergogna” Platone, Apologia di Socrate In ordine poi all’aspetto morale, che qui ci interessa più da vicino, Cicerone, nel De Officiis, ispirandosi al Perì tou kathèkonthos di Panezio, parla del vir bouns romano: si tratta della antica concezione della virtus romana unita alla humanitas (ideale civile). Cicerone tratta nello specifico dell’honestum e del decorum: ciò che moralmente è buono e bello (il kalòn greco) o meglio di ciò che è buono, bello e conveniente. Egli è grande d’animo, ma non ostenta onore e potenza e si rapporta con i suoi simili con mitezza ed equità; è il saggio capace di operare con mitezza, misura e signorilità nella città. Vediamo: “Nessuna azione della nostra vita, si tratti di atti pubblici a privati, forensi a domestici, di rapporti con noi stessi a con altri, è esente dal dovere; anzi nell'osservanza e nella trascuratezza di questo si pone tutta 1'onorevolezza a la infamia della vita” (…)“Anzi, come nell'adempimento del dovere consiste tutta l'onestà della vita, cosi nell'inosservanza, di che ardisca chiamarsi filosofo, senza dare alcun precetto d'ordine morale? Ma ci sono alcune scuole che, con la loro definizione del sommo bene e del sommo male, sovvertono ogni moralità. Chi definisce il sommo bene come affatto disgiunto dalla virtù, e lo misura non col criterio dell'onestà, ma con quello del proprio vantaggio, costui, se vuol esser coerente a se stesso, e non è vinto talora dalla bontà della propria indole, non potrà coltivare né l'amicizia, né la giustizia, né la liberalità: certo non può essere in alcun modo forte, giudicando sommo male il dolore, né temperante, ponendo come sommo bene il piacere.” (…) “Bellissima, dunque, quella sentenza di Platone: «Non solo quel sapere, che è disgiunto da giustizia, va chiamato furfanteria piuttosto che sapienza, ma anche il coraggio che affronta i pericoli, se è mosso non dal bene comune, ma da un suo proprio interesse, abbia il nome di audacia piuttosto che di fortezza». Noi vogliamo pertanto che gli uomini forti e coraggiosi siano, nel medesimo tempo, buoni e schietti, amanti della verità e alieni da ogni impostura: qualità queste che scaturiscono dall'intima essenza della giustizia.” (…) Forti e magnanimi, adunque, si devono stimare non quelli che fanno, ma quelli che respingono l'ingiustizia. E la vera e sapiente grandezza d'animo giudica che quell'onestà, a cui tende sopra tutto la natura umana, sia riposta non nella rinomanza, bensì nelle azioni, e perciò non tanto vuol parere quanto essere superiore agli altri. In verità, chi dipende dal capriccio d'una folla ignorante, non deve annoverarsi fra gli uomini grandi. D'altra parte, l'animo umano, quanto più è elevato, tanto più facilmente è spinto a commettere azioni ingiuste dal desiderio della gloria; ma questo è Filieri Andrea 90 un terreno assai sdrucciolevole, perché è difficile trovare uno che, dopo aver sostenuto fatiche e affrontato pencoli, non desideri, come ricompensa delle sue imprese, la gloria. La fortezza e la magnanimità si manifestano soprattutto in due cose: nel disprezzo dei beni terreni, persuaso che uno sia che 1'uomo non deve ammirare o ricercare nulla che non sia l'onesto e il decoro ma che non deve lasciarsi vincere dalle passioni a dalla fortuna. (…) Invero, il far sapiente uso della ragione e della parola, il meditare ogni azione, e in ogni cosa cercare e osservare la verità, e ad essa attenersi, è decoroso, mentre al contrario l'ingannarsi e l'errare, il cadere in fallo e il lasciarsi gabbare è altrettanto indecoroso quanto l'uscir di strada e l'essere fuor di senno; e così ogni azione giusta è decorosa, e ogni azione ingiusta, com'è disonesta, così è anche indecorosa. Allo stesso modo si comporta la fortezza: tutte le azioni generose e magnanime appaiono degne dell'uomo e informate al decoro; le azioni contrarie, invece, come sono disoneste, così offendono il decoro. Quindi questo decoro riguarda tutte le parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di ragionamenti reconditi, ma balza agli occhi. Vi è un qualche cosa di decoroso the si presuppone in ogni virtù; ma questo può essere separato dalla virtù più in teoria the in pratica. Allo stesso modo che la grazia a la bellezza del corpo non possono essere disgiunte dalla buona salute, così il decoro è strettamente congiunto con la virtù, ma può esserne disgiunto solo per astrazione a teoricamente. Ora, il decoro è di due specie, giacché per decoro intendiamo tanto un carattere generale che risiede in tutto l'onesto, quanto un carattere particolare, a quello subordinato, che appartiene alle singole parti dell'onesto. Del primo si suol dare pressappoco questa definizione: «E' decoro ciò che è conforme all'eccellenza dell'uomo, in quanto la sua natura differisce da quella degli altri esseri viventi»; la parte speciale, invece, è definita così: «Decoro è ciò che è conforme alla particolare natura di ciascuno, sempre che in esso appaia moderazione e temperanza con un certo aspetto di nobiltà». “Ora la prima strada che si presenta al dovere derivante dal decoro, è quella che conduce a una piena e stabile armonia con le leggi della natura: poiché, se prenderemo la natura per guida, noi non ci partiremo mai dalla retta via, e conseguiremo quelle tre virtù che abbiamo già esaminate: la naturale perspicacia ed acutezza della mente, una condotta adeguata alla convivenza civile, la forza ed il vigore del carattere. Ma la maggior forza del decoro risiede in questa parte della quale ragioniamo, cioè nella temperanza. Perché, se sono da lodare i movimenti del corpo, quando sono conformi a natura, tanto più sono da lodare quelli dell'animo, quando egualmente si accordano con la natura.” De Officiis, Cicerone. In merito poi alla tematica delle passioni: “Est efficiendum autem, ut appetitus oboediant rationi et neque praecurrant, eam propter temeritatem nec deserant propter pigritiam aut ignaviam sintque tranquilli atque careant omni perturbatione animi;” Bisogna fare in modo poi che gli appetiti obbediscano alla ragione e nè precorrano essa per temerità né abbandonino per Filieri Andrea 91 pigrizia o per dappocaggine e sieno tranquilli e sieno esenti da ogni turbamento dell’animo. Cfr. De officiis, Libro primo, Dante Alighieri, Roma 1981. La filosofia Cristiana nasce con : L’avvento e la diffusione della religione cristiana L’esigenza della Chiesa delle origini di far comprendere il significato della Rivelazione Gli elementi di novità del messaggio cristiano sono universalità Filieri Andrea L’invito a rinunciare ai legami terreni L’annuncio del regno di Dio come realtà spirituale 92 La legge dell’amore L’immgine di Dio come Padre autorevole I primi scritti filosofici cristiani sono : Le lettere di Paolo Il Vangelo di Giovanni Che diventano punti di riferimento per l’interpretazione del messagio cristiano Che costituisce un tentativo di intendere in modo filosofico la figura di Cristo Il quale è presentato come Lògos divino Il quale è presentato come il figlio di Dio e salvatore La Patristica è il periodo di elaborazione dottrinale del Cristianesimo e si divide in Sino al 200: difesa del cristianesimo contro i pagani Filieri Andrea Dal 200 al 450 circa : formulazione dottrinale delle credenze cristiane 93 Dal 450 al 735 rielaborazione delle dottrine A questo punto: Problemi di partenza Qual è la natura dell’uomo? Qual è il destino dll’anima dopo la morte Come deve essere pensata la divinità Come si spiega l’esistenza del male? Potrà mai la scienza spiegare la totalità dei fenomeni I nuovi problemi Come si configura il rapporto tra fede e reagione? Filieri Andrea Come di devono interpretar e le sacre scritture Con quali mezzi l’uomo può avvicinarsi a Dio 94 Come deve vivere un credente In che modo è possibile conquistare la salvezza etena? Eredita da: lascia in eredità Socrate e Platone:dialogo come modalità Agostino trasforma il dialogo interpresonale di ricerca filosofica socratico\platonico in dialogo interiore condotto con Dio. L’introspezione è la chiave d’accesso per trovare Dio il quale si rivela nell’animo umano. Scettici: l’invito a sottoporre al dubbio Del dubbio scettico Agostino fa il punto di qualunque conoscenza partenza della sua speculazione, ma lo supera individuando una certezza indubitabile proprio nella consapevolezza di esistere in quanto soggetto che dubita Platone: l’idea che conscre sia ricordare Agostino è convinto che conoscere significhi trarre la verità dal profondo della propria anima, la quale però può riconoscerla grazie all’illuminazione divina Socrate: l’idea che i maestri non Agostino condivide l’idea che i maestri in trasmettano conoscenze masi limitano a realtà non insegnino nulla, poiché ad favorire la ricerca dell’allievo insegnare davvero è solo Dio. Maestro interiore di chiunque si lasci illuminare dalla sua luce. Plotino: l’idea della non sostanzialità del Convinto che tutto ciò che esiste sia un male bene, in quanto creato da Dio, Agostino identifica il male in una privazione di bene Stoici: Idea di un ordine provvidenziale del La nozione di un ordine razionale del cosmo mondo si traduce in A. nella nozione cristiana di provvidenza intesa come disegno salvifico dell’umanità Filone d’Alessandria:l’idea che il mondo sia Concetto cristiano di creazione dal nulla stato creato da Dio dal nulla Filieri Andrea 95 Il messaggio cristiano Dopo la predicazione di Cristo in Palestina, l’area di diffusione del Cristianesimo fu l’impero romano, in particolare la sua parte orientale. Da Oriente, provenivano San Marco e San Paolo. Ma la diffusione della Parola di Dio si estese ben presto alla penisola italica e all’Africa settentrionale, dove nasce Agostino. Tuttavia è Roma a costituire il maggior centro della Cristianità in Occidente. Città su cui si riverbera il messaggio cristiano non solo nelle classi meno agiate, ma nache in quelle elevate. Inizialmente il messagio cristiano viene visto con sospetto: in riferimento al modello di povertà e pace proclamato. Iniziano così le prime accuse contro i cristiani e le loro pratiche (I sec. d.c.: accusa di Nerone per l’incendio di Roma; Domiziano contro il monotesimo cristiano avverso alla tradizione pagana). Solo nel 313 l’editto di Milano – Costantino- consente di professare liberamente la religione cristiana chiudendo così, de facto, l’epoca delle persecuzioni. Con Teodosio I, il Cristianesimo diverrà poi religione di stato. Si apre così l’era degli imperatori cristiani: la Chiesa rafforza così il suo potere. In un impero quale quello romano oramai in crisi ed in difficoltà, la nuova religione offre al singolo una via di salvezza e di solidità. Mentre il mondo antico si dissolve, si apre una nuova visione della vita che caratterizzerà il nuovo medioevo cristiano129. In particolare, in via riassuntiva possiamo affermare che se l’ideale greco della virtù coincideva con la contemplazione della verità, diversamente per il Cristianesimo la virtù dell’uomo coincide con la fede. Fede accompagnata dalle operre cristiane e dalla carità. Ora, il sapere greco, la sophìa, per il Cristianesimo è stoltezza presso Dio (Paolo). E’ l’annuncio di Dio ai credenti che consente all’uomo la salvezza, non la sophìa greca130. Quadro sinottico . Filosofia 397-401 Agostino, Confessioni Storia 410 Sacco di Roma: Visigoti 413-427 Agostino, La città di Dio 476 Caduta Impero Romano Occidente 529Giustinianochiude la scuola di Atene 525 Boezio, Consolazione della filosofia 129 130 540 Regola di Benedetto da Norcia; 622Maometto abbandona la Mecca 728: nasce lo Stato Pontificio 732CarloMartello sconfigge gli arabi a Poitiers 800 Carlo Magno è incoronato imperatore Cfr. Roberta De Monticelli, l’Espresso. Cfr. E. Severino, cit. pagg 50 e sgg. Filieri Andrea 96 860 Scoto Eriugena, De Divisione Naturae 1076\77 Anselmo, Monologion e Proslogion La patristica Nei primi secoli dopo Cristo la tradizione occidentale vede il delinearsi di una nuova corrente di pensiero: la Patrisitca dal termine “Padre” ossia fondatori della Chiesa. Le teorie filosofiche di qusta epoca sono ancora derivanti dalla Grecia classica: il platonismo e lo stoicismo. Il Cristianesimo vi attinge sia sul piano dei contenuti che del lessico. Agostino afferma che il platonismo si avvicina al cristianesimo per la concezione dell’anima e per l’oggettiva conoscenza del Bene: oggetto di conoscenza e supremo principio morale. Inoltre i platonici mettevano in evidenza l’assoluta trascendenza di Dio sebbene il Cristianesimo si distaccasse da queste impostazioni per la tematica della Rivelazione e della Fede che conduceva alla salvezza. Il rapporto con il pensiero greco va quindi lentamente distaccandosi dalle premesse platonico\stoiche sino a considerare la filosofia una premessa della verità. Cristianesimo Subisce influenze dal: platonismo; gnosticismo Nasce all’interno dell’ebraismo Condividendone: Dio\Uno; teologia negativa; Filieri Andrea Si sviluppa con Paolo di Tarso e la Patristica A sua volta influenzato da: culti misterici; pitagorismo; 97 Agostino Agostino, considerato homo religiosus e uomo di pensiero dalla tradizione successiva, nasce nel 354 a Tagaste in Algeria. Sedotto dai piaceri in giovane età, scopre la filosofia e la letteratura. In giovane età,nella sua ricerca dell’Assoluto, si lega al manicheismo che predicava l’esistenza di due principi cosmici - Bene e Male - che reggono l’evolversi del Tutto. Successivamente decide di dedicarsi totalmente a Dio, battezzato da Ambrogio, e ordinato sacerdote nel 391, poi vescovo di Ippona sino alla morte. Vero genio del Cristianesimo Agostino è noto per le Confessioni: il viaggio\percorso di un anima attraverso il mondo verso Dio. Se vogliamo, l’esistenza concreta è posta da Agostino come base e fondamento del pensiero di Dio. Come dire che nella propria vita, nella propria interiorità, l’uomo deve trovare Dio. Anzi, solo nella propria ricerca interiore l’uomo trova Dio: “nosce te ipsum” afferma socraticamene Agostino nella scoperta di Dio. Ancora: “noli foras ire, in te ipsum redi” . E questo perchè “ in interiore homine habitat veritas”. Agostino modifica dunque la nozione greca di conoscenza, di cui il saggio imperturbabile è l’emblema: nozione quindi impersonale di conoscenza. Agostino è invece turbato nella propria vita dalla ricerca di Dio: la conoscenza è dunque intesa come viaggio verso Dio e salva l’uomo nella sua ricerca di Assoluto. In definitiva, l’homo christianus non vuole solamente la salvezza di qualcosa dal tempo e dalla morte: è l’esistenza concreta che deve trovare salvezza (passioni, sapere). E ciò che salva, che ci salva, è la Verità: una verità però personale131 che porta alla felicità: Nulla est homini causa philosophandi, nisi ut beatus sit. In questa finalizzazione della conoscenza alla felicità, Agostino è senz’altro erede della filosofia ellenistica, come pure dell’identificazione tra beatitudo e sapientia. Ma la sapientia deve essere conoscenza del vero bene: l’oggetto d’amore per eccellenza, ossia Dio. Un Bene non solo conosciuto ma goduto e posseduto ed amato: questa è la felicità. In effetti, in riferimento ad Aristotele, che parla di un Assoluto conosciuto in maniera impersonale, conosciuto dalla pura intelligenza distaccata da questo mondo, dalle passioni, <dall’Amore, Agostino oppone un percorso personale che discute e disputa con Dio stesso. E la ricerca personale che arriva a Dio è anche una forma di beatitudine, di felicità: inquietudo (mancanza e desiderio) e beatitudo (pienezza ed appagamento) sono le note fondamentali delle Confessioni. 131 Cfr. Lezioni di Filosofia, L’Espresso, Roberta De Monticelli Filieri Andrea 98 Pelagio 350\427: monaco sassone che ricevendo l’influsso stoico matura un atteggimento antimanicheo Agostino Il peccato originale è stato annullato dalla venuta di Cristo Il peccato originale è sempre attuale e tutt’ora operante Allora in ogni individuo esiste una predisposizione al male Allra ogni individuo può scegliere tra bene e male per libero arbitrio Di conseguenza le opere buone sono necessarie ma insufficienti per la salvezza Perciò ogni uomo può salvarsi da solo compiendo buone opere Perciò la salvezza è un dono che Dio concede per motivi personali Filieri Andrea 99 Essere e non essere Se faccio quello che non voglio, ammetto che la legge è buona; allora non sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me. Difatti,io so che in me,vale a dire nella mia carne, non abita alcun bene, poichè il volere si trova in me, ma il modo di compiere il bene no. Perchè il bene che voglio non lo faccio, ma faccio il male che non voglio. Paolo, Romani,7, 17-20. Agostino viene tradizionalmente considerato colui che ha introdotto il peccato originale nella Teologia: Agostino legge un passo paolino in una traduzione probabilmente erronea in cui ciò che Adamo porta nel mondo è il peccato ma, con il peccato, la morte. Morte come eredità del peccato che si trasmette in forza del peccato stesso. Ecco che allora Agostino può inizare le Confessioni affermando che ognuno si porta dietro la sua morte, la sua finitudine. Ancora, ognuno è responsabile della propria morte e lo è in forza della propria scelta, del deliberare in ogni momento della propria vita: dalle scelte più banali alla scelta suprema tra Dio e Diavolo, tra Essere e non essere. Tra l’Essere per eccellenza: necessario, atemporale e l’essere contingente, temporale, finito (finitudine percettiva, temporale), transeunte, dipendente (mancanza d’essere). In buona sostanza, la scelta dell’uomo risulta essere allora tra Dio ed il Nulla. Nulla verso cui l’uomo, in quanto creato da Dio, tende inevitabilmente. Ora, nella scelta dell’uomo verso Dio gioca un concetto essenziale per Agostino: la volontà. Voluntas per Agostino, a differenza del mondo greco132, è quella sequenza sempre rinnovata del filo dei giorni: l’intentio profunda di una vita. Il singolo quindi è sempre in gioco, in quanto responsabile, del proprio essere secondo la voluntas che lo individua come singolo nel mondo. E’ questo un tema fondamentale: ciò che ci individua come singoli, non è tanto l’intelligenza, il sapere, quanto la voluntas che indizza il nostro esistere. Voluntas dettata da Amor per Agostino, non verso la concupiscentia carnis, verso la curiositas (avidità di sapere) o verso sè stessi (amor inordinatus, di tipo demoniaco) ma Amor ordinatus verso l’Altissimo che orienta la creatura in direzione ascensionale come persona. Persona non solo collocata tra i savi o dannati ma persona come scintilla di Dio, specchio dell’Universo . La volontà allora è quella forza che interviene determinatamente nella conoscenza: per conoscere alcunchè occorre volerLo. E si vuole ciò che si ama.133Si cerca per trovare l’Amato. “pondus meum amor meus: eo feror quocunque feror” – il mio peso è il mio amore. DA LUI SON MOSSO dovunque io muova . La volontà è dunque principio di individuazione della persona, come desiderio universale di felicità che ha come oggetto la beatitudo: ma sinchè la volontà non si decide alla conversione è destinata all’inquietudo. In una battuta : la volontà tende alla conoscenza dell’oggetto d’amore, che però può incorrere nell’errore, ossia nell’inquietudine, o nella verità ossia nella beatitudine. 132 133 Vediamo: Il Testo Filosofico, Cioffi, Luppi, Mondadori 2000. Filieri Andrea 100 Tempo Nel mondo greco la concezione del tempo era ciclica: vi è dunque una ragione intrinseca per cui tutto accade, così come ad una stagione succede un’altra. Viceversa, nel Cristianesimo, la tematica delle Creazione e dell’Apocalisse produce un’altra visione: il tempo lineare, rettilineo e progressivo. Questa idea suggerisce la progressione irrevocabile delle epoche storiche, così come quella di progresso, una idea questa fondamentale in tutta la cultura occidentale. Per Agostino, Dio prima della creazione, preparava un bastone per coloro che avessero posto la domanda sull’origine del Tempo: il tempo infatti inerisce la creatura, non c’è precisamente nell’eterno. Il modo d’essere dell’Assoluto non è il tempo. Dunque tra tempo ed eternità quale rapporto sussiste? Agostino ha presente Platone quando il filosofo cita il tempo come immagine mobile dell’eternità. Platone aveva probabilmete in mente il moto ciclico delle stelle che sempre ritorna, potremmo dire partecipando dell’eterno. Ora, con Agostino, con la cristianità ed il mondo biblico, il tempo ciclico si sfalda a a favore di un tempo storico: - il mondo fu creato per essere un inizio. Per altro verso l’eternità per Agostino134 non è un tempo senza fine bensì il presente di Dio. L’oggi di Dio non scorre è presente eterno: Interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio ossia il possesso simultaneo pieno di una vita interminabile che non passa e sfugge. Il tempo vissuto è invece quello dell’esistenza umana: vive nell’incompiutezza e nel rimpianto e nella preoccupazione del futuro fuggendo il presente. Qui c’è l’idea dell’aderire al qui ed ora come ascesi: la resurrezione infatti non è prima\\dopo il tempo. Si tratta di nuovo quindi di scegliere tra l’essere ed il non essere. Come Amleto nel suo monologo, noi siamo responsabili della nostra morte in quanto scelta verso l’Assoluto Con la caduta dell’Impero romano d’occidente, si apre lo spazio per la formazione dei regni romano barbarici, nei quali si assite ad una compresenza di continuità e rottura tra istituzioni e cultura –filosofica\religiosa. Boezio, romano e cristiano nel regno gotico di Teodorico, è nel IV secolo Anselmo, Padre della Chiesa Latina, compie senz’altro una operazione quasi unica nel suo genere : la fusione\intersezione tra Filosofia ed Teologia: Fides quaerens intellectum. La dimostrazione del’esistenza di Dio prodotta da Anselmo d’Aosta - 354 d.c. - nel “Proslogion” - unum argumentum - è comunemente conosciuta come argomento ontologico. Essa consiste in una prima parte in cui, riferendosi all’idea di Dio, si sostiene che non sia possibile pensare nulla di più grande. Una volta ideata, pensata tale Idea, intuitivamente, l’esistenza di Dio si mostra da sè come qualcosa che non possa essere negata vista la grandezza di Dio. Ora, ad Anselmo, questo non basta135 scendendo su un piano dimostrativo e confutativo piuttosto che intuitivo. L’obiezione evidente risulta essere quella che attribuisce ad una Idea, qualsiasi essa 134 135 Roberta De Monticelli, Citato. Lucio Cortella, Storia della Metafisica, Cafoscarina 2015 Filieri Andrea 101 sia, la sua natura: la soggettività. Per cui, proprio in virtù della natura di Idea, non è possibile pretendere che un’idea si riferisca necessariamente ad un reale esistente. Vediamo: dal punto di vista confutativo, “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande” non esiste nel solo intelletto, ché, se così fosse, si potrebbe pensare qualcosa di ancora più grande. Qualcosa che esiste sia nell’intelletto che nella realtà. Per cui, colui che nega l’esistenza di Dio, in realtà non pensa a Dio come nulla di cui si possa pensare qualcosa di maggiore: il suo sarebbe un concetto falso ed autocontraddittorio (PROSLOGION, capitoli II,III,IV). Prova ontologica di Anselmo XI secolo (capitoli IIIV) del Proslogion Obiezione di Gaunilone Risposta di Anselmo Filieri Andrea Chi pensa Dio pensa ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore Un simile essere deve esistere, chè altrimneti sarebbe inferiore ad esseri imperfetti che del resto esistono L’attributo dell’esistenza tramite il pensiero non implica la condizione della sua esistenza Dio non è perfetto solo nel suo genere ma è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore Quindi un simile essere deve esistere anche fuori dalla mente di chi lo pensa Pensare un’isola perfetta nn ne implica l’esistenza Quindi il pensiero di un tale essere ne implca necessariamente l’esistenza 102 Anima\corpo Destino dell’anima cos’è il tempo psicologico? Esiste una dimensione temporale dell’universo? La materia può nascere e perire? Come si può concepire la divinità? Cos’è un uomo? La materia è male? L’uomo può salvarsi con le proprie forze? Qual è l’origine del male? Filieri Andrea Aristotele L’uomo è sinolo di corpo (materia) ed anima (forma) cotituendo un tutto inscindibile In quanto forma del corpo, l’anima è destinata a dissolversi alla morte di questo Agostino L’anima possiede coscienza di se stessa ed è capace di agire autonomamente dal corpo Il fatto che l’anma riesca ad intuire le verità immutabili ed eterne dimostra la sua immortalità E la misura del movimento: Il tempo è una dimensione ossia uno dei modi con cui dell’anima: memoria degli l’uomo interpreta il divenire eventi passati ed aspettativa di dei processi naturali quelli futuri Il mondo esiste da sempre e Il mondo è nato con la sempre esisterà . E’ eterno creazione di Dio e cesserà nonostante il perenne divenire d’esistere , almeno in questa delle sue parti forma, alla fine dei tempi No, nascono e periscono i Tutta la materia che compone composti (enti ed individui) ma l’universo è stata creata dal la materia che li compone è nulla da Dio, quindi prima eterna della creazione l’uomo può concepire la Dio è a tutti gli effetti una divinità solo come una nozione persona, essendo dotato di filosofica paradossale, come volontà, di una capacità di Motore immobile agire ed amare Platone Agostino la vera natura dell’uomo anche il corpo è stato reato da consiste solo nella sua Dio, quindi partecipa della spiritualità, mentre il corpo bontà del creato, Anima e rappresenta un elemento corpo, sebbene distinti tra loro, estraneo, è come un carcere dal sono incredibilmente uniti quale l’anima desidera evadere nell’uomo sì, esa non partecipa delle vera No, la materia non va realtà e quindi del Bene. Non considerata negativamente, ha esistenza propria, come il perché anch’essa è stata creta buio. da Dio sì, egli può intraprendere un No, per la sua natura corrotta cammino di ritorno all’Uno dal peccato originale l’uomo raggiungendo con le proprie non può salvarsi senza essere forze livelli sempre maggiori di aiutato in modo determinante spiritualità dalla grazia divina Cultura greca Agostino Il male non ha una vera natura La creazione divina del mondo autonoma: consiste sempre in è perfetta quindi il male non un errore della ragione che esiste. Ciò che può apparire scambia ciò che è vantaggioso tale è frutto solo dell’umana con ciò che non lo è ignoranza , della nostra incapacità di cspire ls logica della Provvidenza 103 Manicheismo Il male esiste ed è potente quanto il bene. E’ stato creato da un dio malvagio che si oppone ad un dio buono. L’uomo è campo di battagli tra questi dèi opposti Fides Credo quia absurdum Tertulliano (De carne Christi) Il tema della Fede religiosa è stato efficacemente riassunto da S.Paolo con le celebri parole : “Fede è sostanza delle cose sperate ed argomento delle non parventi”. Nella frase citata compare il termine argomento: con tale termine, secondo S. Tommaso, si intende distinguere la fede dall’opinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle quali cose manca la ferma adesione dell’intelletto al suo oggetto (ossia in quanto l’oggetto pensato dall’intelletto è messo in dubbio nella sua esistenza, validità, veridicità). In effetti: l’opinione non include normalmente il il proprio valore di validità e verità, ED IN QUESTO SENSO SI OPPONE ALLA ENUNCIAZIONE DI CARATTERE SCIENTIFICO (scientificità che assumerà un aspetto autonomo con Galileo) S Tommaso diceva infatti che l’opinione: “ è l’atto che si porta su una parte della contraddizione con la paura dell’altra”. In ordine poi al dubbio, sempre Tommaso, lo ritiene privo di informazione o comunque in relazione ad una scarsa conoscenza. Il sospetto poi, è tema di ordine psicologico, più un atteggiamento che un fatto di ordine linguistico o semantico, per cui non attinente in questo senso. Si diceva “argomento delle cose non parventi” in quanto l’oggetto di studio della scienza è manifesto e parvente ossia chiaro e determinato. Per quanto concerne poi il rapporto tra fede e ragione, l’impostazione prevalente nel Medioevo è quella di Agostino136, centrata sulla circolarità137 tra il credere e il comprendere. Anche 136"Fides quaerit, intellectus inventi", la fede cerca, l'intelletto trova; "Praecedis fides, sequitur intellectus", la fede precede, ma alla fine segue l'intelletto; "Craedendo cogiti, et cogitando credi", nsi credendo e credendo pensi. 137credo ut intelligam Espressione lat. («credo per [poter] comprendere») ripresa dal Proslogion di Anselmo, e invocata per affermare la priorità della fede sulla ragione anche nei processi conoscitivi; nel contesto anselmiano comporta una concezione del conoscere come ‘intelligenza della fede’, e dell’intelletto come guidato da quella stessa verità eterna che si manifesta nella rivelazione. Del resto, lo stesso Anselmo afferma: “Neque enin quaero intellegere ut credam, sed credo ut intellegam” ossia non cerco di ccapire per credere ma credo per capire. Anche nella versione dei Settanta, in Isaia, era del resto affermato “ se non credete non Filieri Andrea 104 se la ricerca intellettuale risulta in questo caso intrinseca alla f. (fides quaerit, intellectus invenit), essa resta però sempre aperta nello sforzo di intelligere le profondità della f. stessa. Tocca allora ad Anselmo d’Aosta ritrovare il senso di una indagine teologica guidata dalla ratio dialettica, ma sempre a partire dalla f.: la ricerca di Dio è compito dell’intelligenza (fides quaerens intellectum). La ragione ha però cominciato a ricavarsi, all’interno della f., una sua specifica autonomia. La scolastica prosegue sulla stessa linea, accentuando l’autonomia delle scienze con la riscoperta del pensiero aristotelico: da una impostazione in cui le diverse forme di conoscenza erano considerate anche come modalità attraverso le quali l’intelligenza risale a Dio, ora le scienze assumono valore in sé stesse. Il punto di equilibrio è raggiunto da Tommaso d’Aquino: la distinzione dei principi della conoscenza in naturali e rivelati non ne inficia infatti l’unità, poiché anche i naturali derivano da Dio, dunque non può esserci contrasto tra la conoscenza naturale e quella rivelata. La filosofia, ancora intesa come strumento per la sacra doctrina, si evolve verso una nuova sintesi che si svilupperà nel tomismo. Parallelamente però, alla fine del 13° sec., alcuni filosofi della facoltà delle arti, come Sigieri di Brabante, riprendendo Averroè affermano la necessità delle conclusioni filosofiche, anche se contrarie alla fede. Si avvia così quel percorso di separazione tra f. e ragione che caratterizzerà l’epoca moderna. Quanto poi al tema della verità, connesso al tema dele fede, possiamo affermare che esso è determinante sia per il mondo greco che per quanto si afferma nei Vangeli: dove forse più che di verità si parla di testimonianza della verità ossia la testimoninanzadi Dio fattosi Uomo che con il suo, diremmo oggi, comportamento offre supporto alla Parola di Dio enunciata nella Bibbia. Certo non è una verità di ragione, non è una verità pagana, che si fonda su una epistème, ossia su una scienza incontrovertibile che letteralmente “sta e resta vera sopra“ la mole delle semplici credenze, bensì una verità di fede: la fede in un Dio Padre che attraverso Cristo può salvare l’uomo. D’altro canto Gesù non è un filosofo, non a rgomenta in modo incontrovertibile ma offre attraverso la sua Parola la possibilità della salvezza: una salvezza non dimostrabile razionalmente. Filosofia e Fede Per la filosofia greca, la conquista suprema nella sua vita terrena è la contemplazione della verità; per il cristianesimo invece, in terra, la conquista suprema è la fede, accompagnata dalle opere e dalla carità. Nella fede, l’uomo di fede, crede in qualcosa che non si mostra nell’episteme, nella sophìa, che secondo l’apostolo Paolo esprime solo la sapienza dell’uomo. Dio infatti, per i credenti, è annunciato , detto , non compreso dalla sapienza greca. Semmai, le categorie ontologiche del pensiero greco (Logos, Essere, Niente) saranno utilizzate per fornire al concetto di Creazione (Vangelo di Giovanni) ciò di cui ancora mancava nel Vecchio Testamento: il Logos è Dio ed è ciò per cui esiste ogni cosa. Libertà Sebbene i Greci non ignorano il concetto di libertà, all’interno della cultura cristiana, da Agostino a Tommaso, la creazione libera del mondo è un tema dominante: la creazione del mondo da parte di Dio non è infatti necessaria come in Plotino, è, lo ripetiamo libera, chè, se così non fosse, Dio sarebbe unito al divenire del mondo, ma ciò non sarebbe possibile. L’immutabile non può essere unito al divenire del mondo. potetete nemmeno capire”. Anche S. Agostino : “Credimus enim ut cognoscamus non cognoscimus ut credamus” ossia crediamo per conoscere non conosciamo per credere. Filieri Andrea 105 Tommaso (XIII sec.) muove dalla definizione di “ente” che può essere Reale ossia ciò che esiste nella realtà Il quale è composto di: - Esistenza ossia l’atto d’essere Il quale è composto di: essenza: la sua natura o forma ossia ciò che è espresso nella sua definizione Filieri Andrea 106 Logico ossia ciò che virene espresso in una proposizione affermativa Tommaso d'Aquino L’oggeto dell’intellleto è più semplice e più assoluto dell’oggetto della volontà, infatti è la ragione stessa del bene appetibile.138 Possiamo affermare che l'aristotelismo costituisce il punto di partenza del pensiero di Tommaso. Da questo punto di vista è fondamentale l'accoglimento della metafisica di Aristotele con la sua concezione139: 1. dell'essere; 2. la dottrina della causalità; 3. la distinzione tra potenza e atto; 4. sostanza e accidente; La composizione di atto e potenza è propria di tutti gli esseri finiti, anche delle nature puramente spirituali. La potenza, ossia l'essere della possibilità, non rappresenta una mera possibilità logica nel senso di una mancanza di contraddizione intrinseca, bensì alcunché di reale nel senso d'un essere incompleto, che può diventare un determinato ente, pur non essendo ancora tale. Ciò che è in potenza, non si può realizzare da sé stesso ma presuppone un essere in atto dalla cui causalità viene attuato.140 Su questa dottrina di atto e di potenza si basa anche la concezione di T. della reale distinzione fra essenza ed esistenza141 nelle cose create e finite.142 138 Objectum enim intellectus est simplicius et magis absolutum quam objectum voluntatis, nam est ratio boni appetibilis. Tommaso. Da qui il principio che quanto più una cosa è semplice ed astratta, tanto più è per sè nobile. 139 Treccani, vol X ed on line. 140 Ibidem. 141 essenza La realtà propria e immutabile delle cose, intesa soprattutto come la forma generale, l’universale natura delle singole cose appartenenti allo stesso genere o specie. Da Aristotele alla tarda antichità: nella Metafisica Aristotele, trattando la questione generale della determinazione di cosa sia la sostanza , indica, in relazione a essa, l’e. come «τὸ τί ἦν εἶναι» (VII, 3, 1028 b 34), espressione traducibile con «che cos’era essere» e che i latini renderanno con la formula «quod quid erat esse». E. è ciò che la cosa è considerata «per sé» (καϑ᾿ αὑτό), al modo in cui Filieri Andrea 107 per definire, rispetto a un uomo concreto, l’e. dell’uomo, non si può rispondere è musico o è bianco, poiché tali determinazioni sono ‘accidentali’. E. di una cosa è ciò che la definisce al di là dei suoi caratteri peculiari e accidentali (VII, 4, 1029 b 13-18). In tal senso l’e. indica quel particolare significato di οὐσία (di cui il termine italiano essenza costituisce il calco, ma non rende il significato) che coincide con la ‘quiddità’, la ‘forma’, ossia ciò che fa sì che una cosa sia quella e non un’altra. La connessione fra e. e definizione (qualcosa è e. in quanto è possibile definirla) riconduce l’e. ‘primariamente’ alla sostanza e ‘secondariamente’, in modo derivato, alle altre categorie (1030 a 7-b 3). Nei Topici, trattando la questione del rapporto fra predicabili e categorie, Aristotele afferma che «chi esprime l’e. talora significa una sostanza, talora una qualità, talora una delle altre categorie» (I, 9, 103 b 28-29). A partire dalla domanda su ‘cosa sia una cosa’ (τί ἐστι) la definizione può determinare l’e. come quello che essa è in sé (τὸ τί ἐστι) o come espressione di una delle categorie cui è riconducibile qualcosa. Nella logica proposizionale stoica il problema dello statuto ontologico degli elementi che concorrono alla definizione non ha luogo, mentre nel medio platonismo l’e. intesa come ‘forma’ viene a coincidere con l’εἶδος platonico, che ne costituisce l’universale natura, conferendo all’e. realtà oggettiva. Plotino, nelle Enneadi , parla dell’e. come ‘perché’ della cosa: «coloro che cercano in tal modo di conoscere l’e. di una cosa ci riescono in pieno. Infatti ciascuna cosa è in quanto è il suo ‘perché’» (VI, 7, 2). L’Uno genera l’e. intelligibile (e. prima o generale) di cui l’e. sensibile (e. seconda o particolare) partecipa (VI, 6, 13-18). L’Isagoge e le Sentenze sugli intelligibili di Porfirio potenziano e divulgano nel successivo pensiero medievale il concetto di e. come prima forma determinata dell’Uno che coincide con la seconda ipostasi, dunque con le idee e, in tal senso, con l’intelligibile. La nozione di e. considerata come forma (εἶδος) rientra in quella di specie «che si dice della forma di ogni realtà» (Isagoge 3) e si declina secondo il genere e la differenza. Il Medioevo. In Agostino il concetto di e. viene esteso a Dio stesso. In Esodo (3, 14) è scritto «ego sum qui sum» (io sono colui che sono); ciò significa, per Agostino, che Dio è la sola vera e. e che il termine più appropriato per definirlo è: «e., termine giusto e proprio, al punto che forse solo Dio si deve chiamare essenza. Infatti lui solo ‘è’ veramente, perché è immutabile, e con questo nome ha designato sé stesso al suo servitore Mosè, quando gli disse: lo sono colui che sono» (De Trinitate, VII, 5). Nel definire Dio come e. Agostino modifica profondamente tesi platoniche come quelle di Plotino avviando, al tempo stesso, una riflessione sull’e. che involge anche il problema dell’essenzialità di Dio. Questo tema sarà ancora al centro del pensiero di Anselmo, che concepisce Dio come somma e. («Ergo summa essentia et summe esse et summe ens, id est summe existenssive summe subsistens, non dissimilitersibiconvenient, quam lux et lucere et lucens»; Monologion, 6), di Alessandro di Hales e di Bonaventura. In tale contesto, il problema della definizione dell’essenza si rapporta direttamente a quello dell’esistenza, come avviene altresì nei dibattiti sviluppatisi a partire dalla distinzione posta da Boezio fra «esse» (essere) e «id quod est» (ciò che è): «diversum est esse et id quod est» (De Hebdomadibus). Boezio separa il quod est, soggetto sussistente, e l’esse, ciò in virtù di cui qualcosa è (ossia la forma), per poi distinguere ulteriormente, nell’esse, l’essere qualcosa in senso assoluto («tantum esse aliquid»), caratterizzazione della sostanza, dall’essere qualcosa in un ente («esse aliquid in eoquod est») che invece si rapporta all’accidente. Si tratta di un nucleo di problemi che avranno lungo corso nel pensiero medievale e dal cui insieme origina anche l’antitesi fra e. ed esistenza, centrale, per es., nella formulazione della prova anselmiana dell’esistenza di Dio del Proslogion. Tommaso d’Aquino, che raccoglie il lungo dibattito sviluppatosi da Aristotele in avanti, avendo presenti gli apporti delle tradizioni avviate da Boezio, Agostino e Anselmo, come anche tesi ricondotte ad Avicenna, Averroè, Avicebron, Maimonide, e problematiche legate alla questione del ‘realismo degli universali’, ridefinirà lo statuto dell’essenza in rapporto a quello dell’ente nel De ente et essentia. L’essenza è, come l’ente, una delle nozioni prime del nostro intelletto. Essendo l’essenza quel che è espresso nella definizione, essa è la ‘quiddità’, oppure la ‘forma’, nell’accezione avicenniana di certezza concernente il contenuto oggettivo di ogni cosa, o ancora la ‘natura’, nel senso conferitole da Boezio di «tutto ciò che può essere conosciuto dall’intelletto». L’e. nelle sostanze composte coincide con il composto stesso, mentre nelle sostanze semplici è costituita dalla forma : «L’essenza della sostanza composta differisce dunque da quella della sostanza semplice per il fatto che la prima non è la sola forma, ma comprende la forma e la materia, mentre l’essenza. della sostanza semplice è soltanto la forma», cap. 4°). L’e. di Dio è invece l’essere stesso: («Vi è infatti qualcosa, come Dio, la cui e. è il suo stesso essere», cap. 5°). Anche gli accidenti, allo stesso modo in cui posseggono una definizione, possiedono un’essenza che risulta dal loro comporsi con un soggetto; poiché il soggetto cui l’accidente sopravviene è già completo e «può essere pensato senza questo», l’accidente «possiede un’e. in senso relativo» e non assoluto (cap. 6°). L’e. in senso assoluto non è né universale né particolare; quanto alla sua esistenza fisica è singolare, mentre in merito alla sua esistenza mentale è universale. Guglielmo di Occam, collocandosi lungo la tradizione nominalista avviata da Roscellino, nella sua logica (Summa totiuslogicae) risolve il problema dell’e. in modo profondamente rinnovato, escludendo dall’analisi dei termini che compongono le proposizioni le implicazioni ontologiche (come avviene nelle teorie ‘realiste’). In una proposizione il predicato non rinvia a un’e., per es. quella di uomo (o a un universale, quello di ‘umanità’); il soggetto come il predicato si connettono a ciò che significano mediante la ‘supposizione’ (suppositio), ossia essi non ‘sono’ qualcosa, ma ‘stanno per’ qualcosa, secondo le regole della logica. Per altri versi, l’Essere in Tommaso D’Aquino assume una posizione particolare, sebbene sempre di più ontico e statico. Ad esprimerlo sono i termini subsistere ed exsistere, Nello specifico il termine existentia, riferito all’ente che è e non è nulla, è causato da Dio. Dio quindi è causa essendi dell’ente, in senso efficiente. Come se si parlasse isomma di due enti, di cui uno causa, in modo efficiente, l’altro. Non l’Essere e l’ente allora, ma due enti di cui uno è sommo (Dio) e l’altro creato. 142 Treccani. Filieri Andrea 108 Questa distinzione, già chiara nei primi scritti di T., è sviluppata attraverso la ripresa di un tema proprio della metafisica di Avicenna, inserito su una concezione del concreto che prende le mosse da un ripensamento originale di Boezio: le creature sono esseri per partecipazione143 la cui essenza non coincide con l'esistenza (l'essenza partecipa all'essere per esistere) e questa struttura composita del concreto ne segna la caratteristica, distinguendo radicalmente le creature dal creatore, perfezione pura in cui essenza ed esistenza coincidono. A questa dottrina si ricollega quella dell'analogia dell'essere: l'essere non è un concetto di specie, univoco, bensì analogo e si estende dai limiti del più tenue esistere partecipato fino a Dio, essere assoluto. La metafisica aristotelica viene così approfondita e in più punti coerentemente sviluppata: di particolare importanza da questo punto di vista è la teoria dell'unità della forma sostanziale con cui, eliminando ogni tipo di dualismo platonico-agostiniano, T. giunge fino all'affermazione che anche nell'uomo unico è il principio formale per cui egli vive, sente e intende, e questo principio (l'anima) si unisce immediatamente al corpo come sua forma144, senza intermediarî. È lo sviluppo coerente del concetto di sinolo145 e la più rigorosa difesa dell'unità sostanziale dell'uomo.). La metafisica La metafisica si corona nella dottrina di Dio. L'esistenza di Dio non è dimostrabile a priori (con l'argomento di s. Anselmo, detto poi ontologico) perché tale argomento comporterebbe un illecito passaggio dall'ordine del pensiero all'ordine dell'essere. L'esistenza di Dio si dimostra, per T., a posteriori, attraverso cinque vie: la prima via procede dalla considerazione che ogni mosso richiede un motore, e che nella catena dei mossi si deve giungere a un primo motore immobile perché non si può andare all'infinito; la seconda via procede dalla connessione delle cause efficienti disposte verticalmente: anche qui si deve arrivare a una prima causa perché è impossibile un processo all'infinito; la terza via è dalla distinzione del possibile e del necessario: ciò che è possibile (cioè che può essere e non essere, che è contingente) presuppone un necessario, e così via via fino a un necessario assoluto, libero da potenza e che ha in sé la ragione della sua necessità, puro atto; Significato metafisico. La p. o metessi ; (dal gr. μέϑεξις) rappresenta – insieme alla parusia e alla mimesis – uno dei concetti con i quali Platone cerca di risolvere il difficile problema del rapporto tra la realtà delle idee (trascendente, unica, indivisibile) e quella delle cose (sensibile, molteplice, divisibile). Impiego analogo dell’idea di p. si avrà nella filosofia cristiana e in quella araba, una volta accolta l’identificazione del platonico mondo delle idee con il νοῦς neoplatonico e risolto questo nel verbo di Dio: la p. avrà lo scopo di esplicare, in questo caso, il rapporto tra Creatore e creature. Queste ultime sono in quanto ‘partecipano’ delle idee presenti nella mente divina: il loro è un essere per p., a 143 differenza di quello divino che è un essere per essenza (come dirà Tommaso d’Aquino, Dio «è» l’essere, mentre le cose «hanno» l’essere La posizione di Tommaso d’Aquino è di particolare rilievo per una ripresa del concetto aristotelico di f. nella maniera più coerente per quanto potevano permettere le implicazioni teologico-religiose. Egli concepisce l’anima come f. del corpo, che costituisce con questo un tutto inscindibile (la resurrezione dei corpi viene così a completare lo stato temporaneamente incompleto in cui l’anima vive dopo la morte dell’individuo). Correggendo secondo preoccupazioni teologiche l’aristotelismo, Tommaso accentua la divisione tra f. spirituale, che può avere un’esistenza indipendente dalla materia (pur restando sostanza incompleta come l’anima umana dopo la morte), e f. materiale, che esiste solo in ragione del sinolo 145 sinolo Dal gr. σύνολον, comp. di σύν «con» e ὅλος «tutto»: «tutto insieme». In Aristotele, la sostanza individuale, cioè l’oggetto concreto composto di materia e di forma 144 Filieri Andrea 109 la quarta via è dalla gradualità delle perfezioni (bene, buono, ecc.): questa gradualità presuppone un valore assoluto di cui i varî gradi partecipano; la quinta via è dall'ordine e finalità dell'universo che rinvia a un principio di questo ordine e di questa finalità. Dio è creatore146 in quanto trae dal nulla tutti gli esseri, formandoli secondo le idee che sono in lui (esemplarismo platonico-agostiniano da tempo definitivamente acquisito nella teologia cristiana); ma gli esseri creati, sospesi all'atto della libera volontà147 creatrice (creazione continua), costituiscono un ordine naturale retto dalle leggi della causalità. T. respinge decisamente la dottrina di coloro che negano azioni proprie agli esseri naturali togliendo ogni autonomia alle cause seconde e l'accettazione della dottrina aristotelica lo sorregge nella difesa di un ordine naturale che non può essere semplice epifania del divino: anzi proprio nell'esser dotato di una reale capacità causativa esso manifesta la potenza e la carità di Dio che quella capacità ha concesso agli esseri creati. Tale difesa del concetto di natura, della sua attività e iniziativa, è di grande importanza anche in tutti i problemi in cui si discute del rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale, come nel problema della libertà e della grazia. Con T., un'idea di natura schiettamente aristotelica si sostituisce all'idea di natura platonico-agostiniana tutta permeata di Dio. Materia e forma Gli enti creati o sono composti di materia e forma, o sono forme pure (puri spiriti): nei primi, il principio d'individuazione è la materia (materia quantitate signata); gli esseri spirituali invece costituiscono ciascuno una specie . Coerente con la fisica e la metafisica è la psicologia; abbiamo accennato alla tesi dell'unità della forma sostanziale; dobbiamo qui ricordare la polemica sull'unità dell'intelletto sostenuta contro gli averroisti. Il processo della conoscenza in T., come in Aristotele, rientra sotto le generali leggi del movimento, ed è quindi inteso come passaggio dalla potenza all'atto; così nella sensazione l'organo di senso (in potenza a sentire) è attuato dal sensibile esterno; le sensazioni unificate dal senso interno passano nella fantasia e formano l'immagine sensibile dell'oggetto: questo contiene, in potenza (perché limitato dalle caratteristiche particolari della sensibilità), l'intelligibile, che, smaterializzato e universalizzato cioè "astratto" dalle condizioni individuanti per opera dell'intelletto agente, diviene intelligibile in atto e come tale capace di attuare l'intelletto in potenza (l'intelletto coglie direttamente solo gli universali). Ma è appunto attorno all'intelletto in potenza che si apre la polemica con gli averroisti: questi accettavano l'interpretazione “ Il distinguersi ed il precisarsi della Volontà nel pensiero occidentale prende avvio dalla riflessione greca sul Bene, (tò Agathòn), sia pure in quei termini di inceretezza ed ambiguità precedentemente sottolineati, e dalla mediazione cristina che, diffondendo nel mondo antico i concetti di creazione, grazia e carità, offre un vasto campo di esperienza in cui la volontà emerge all’inizio (creazione) ed alla fine (savezza) di tutta la vicenda ontologica”. Cfr. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente,Feltrinelli, Milano 2006. 147 Secondo Heidegger, “Intelletto e Volontà sono determinazioni spiccatamente antropologiche, riferile all’Essere significa ridurre l’Essere a misura d’uomo, anche se il riferimento è a Dio. Una riduzione di questo tipo era sconosciuta al mondo greco. Lògos e nòesis sono parole greche che non esprimono una ricerca di logica o di psicologia, nè l’analisi di un processo mentale, ma il modo necessario in cui l’Essere è. Tale è il Lògos di Eraclito, in cui si compone l’invisibile armonia del cosmo. (...) là dove Kòsmos non significa mondo ma invisibile armonia sottesa al chàos.Con Filone d’Alessandria il Lògos si ipostatizza, diventa l’archetipo, di ogni cosa, la sintesi di tutte le realtà intermedie che per Filone sono le Idee, la Sapienza, gli Angeli, lo Spirito, le Potenze. Con il cristianesimo infine il Logòs è Dio stesso: In principio era il Lògos, ed il Lògos era presso Dio, , e il Lògos era Dio.” Cfr. Galimberti, cit. pagg. 208 e sgg. 146 Filieri Andrea 110 del commentatore di Cordova per cui l'intelletto possibile è una sostanza separata unica per tutta la specie umana. Contro questa interpretazione T. polemizza nel corso di varie opere e scritti, e infine nel De unitate intellectus contra Averroistas indirizzato, sembra certo, contro Sigieri di Brabante: la tesi centrale dell'Aquinate, che vuole salvare l'individualità dell'atto dell'intendere, è che se l'intelletto fosse uno non si potrebbe spiegare come "questo uomo" (hic homo) intenda, e tutti verrebbero a coincidere nell'identico atto dell'intendere; anzi, se l'unità e universalità dell'oggetto inteso richiedesse, come diceva Averroè, l'unità dell'intelletto, unico dovrebbe essere l'intelletto per tutti gli esseri intelligenti in tutto l'universo. A garantire l'individualità del conoscere interviene poi (oltre la teoria della sensazione) la dottrina tomista dell'intelletto agente, inteso come facoltà dell'anima che è forma del corpo (non quindi unico, come, sia pure secondo diverse prospettive, si sosteneva dagli avicennisti-agostiniani): all'intelletto agente spetta la funzione di smaterializzare la specie intelligibile presente nell'immagine della fantasia perché, resa intelligibile in atto, si imprima nell'intelletto in potenza. Ed è l'intelletto agente, luce divina impressa nell'anima, secondo una similitudine cara alla tradizione agostiniana, che contiene i principî primi del conoscere, evidenti per sé stessi. Ente Può essere : Logico: possiede una essenza Reale : possiede una essenza (potenza) ed una esistenza (atto) Conferita nelle creature da Dio creatore In Dio coincidono L’Etica Dalla metafisica discende anche l'etica tomista: Dio, fine ultimo dell'uomo, è il termine della beatitudine che si risolve nella visione di Dio concessa ai beati. Dio come bonum universale muove la volontà necessariamente, ma nella vita terrena non si è innanzi a questo bene assoluto, bensì a una molteplicità di beni, e la libertà del volere si fonda sulla possibilità di scelta tra questi beni relativi, ed è strettamente connessa alla loro affermazione intellettuale: vi è una valutazione oggettiva dei beni che diviene misura, misura della bontà degli atti morali. Ma la moralità presuppone anche la presenza nel soggetto di "abiti" delle virtù naturali e soprannaturali, e, fuori di lui, di una legge divina. Un'impronta di questa legge è però anche nell'uomo (morale naturale), che conosce, se ha l'uso di ragione148, i principî fondamentali della legge morale: l'abito della ragione che permette la scoperta dei principî dell'agire morale è Ragione: l’anima umana può cogliere l’universale proprio in quanto è unita ad un corpo che, a differenza di quello animale, non può dirsi perfetto, in quanto privo degli strumenti naturali di cui sono forniti i corpi animali (corpori imperfecto tanquam talibus auxiliis privato). Questa valutazione libera l’anima da valutazione istintive . Cfr. U. Galimberti, Psiche e Techne, feltrinelli, Milano 2003. 148 Filieri Andrea 111 chiamato synteresis. L'etica naturale si corona poi nell'etica cristiana ispirata al principio dell'amore di Dio. In effetti, nel cristianesimo Dio e l’uomo emergono come amore: nell’amore l’uomo trova la sua realizzazione morale attraverso quelle virtù che non esprimono solo un impegno etico, ma si profilano come determinazioni di quell’amore salvifico che è la carità149. La Politica La politica di T., elaborata muovendo dalla Politica di Aristotele che egli è il primo a commentare, si fonda nella naturale socievolezza della natura umana, che conduce gli uomini a costituire gli stati; il potere politico ha la competenza nell'ordine temporale e come tale è distinto dal potere della Chiesa, di ordine spirituale, ma poiché anche le cose temporali interessano al fine ultimo dell'uomo e dello stato, che è la vita eterna, lo stato è in questo subordinato alla Chiesa. La ripresa dell'aristotelismo da parte di T. non si limita all'ambito della filosofia naturale e della metafisica: essa ispira anche il metodo teologico e la sua opera rappresenta una tappa fondamentale nella teorizzazione della teologia come scienza. Proseguendo lo sviluppo che la speculazione teologica aveva avuto nel sec. 12° (quando, vicino alla semplice lectio divina e alla meditazione sullasacra pagina, si era iniziata una teologia sistematica), T. utilizza in teologia la teoria aristotelica della scienza e della dimostrazione scientifica. La speculazione teologica ha per oggetto i dati della Rivelazione (accettati per fede); da questi dati il discorso teologico muove secondo il metodo della dimostrazione aristotelica per dedurre dalle premesse rivelate altre verità che traggono la loro certezza dai principî da cui muovono e dal rigore del ragionamento apodittico. La teologia è scienza: in questo il distacco dalla tradizione agostiniana è notevolissimo, ed è di fondamentale importanza per il successivo sviluppo teologico. Con la teologia di T., assunta poi nelle scuole cattoliche, una particolare filosofia (con i suoi fondamentali concetti: sostanza, accidente, atto, potenza; e i suoi metodi) è inserita all'interno della teologia cattolica: di qui i complessi problemi per la storia del dogma e per il valore di formulazioni dogmatiche espresse in termini di filosofia aristotelica. Ma resta comunque mirabile la sistematicità del pensiero teologico di T., la volontà di distinguere ragione filosofica e fede (quindi anche natura e soprannatura), come pure la massima utilizzazione della filosofia e delle sue tecniche nell'elaborazione delle formule dogmatiche e nella dimostrazione dei praeambula fidei che rientrano completamente nel dominio della ragione. Confronto tra filosofi, Agostino, Tommaso Come ci si deve porre nei confronti dell’eredità Agostino: Platone e Plotino anticipano , in greca? qualche modo, la spiritualità cristiana; Averroisti: Aristotele rappresenta la vetta massima ed insuperabile del sapere. Possiede una auctoritas superiore alla stessa Bibbia. Bisogna quaindi ritornare alle sue dottrine. Tommaso: proprio perche la dottrina aristotelica rappresenta il massimo delle potenzialità intellettuali, i suoi risultati possono essere solo in accordo con le verità di fede. Come avviene il processo della conoscenza Agostino: tramite l’illuminazione ossia un umana? gratuito dono divino che ci mette in grado di percepire le verità all’interno della nostra 149 Galimberti, cit. pag. 220. Cionostante per Tommaso, le virtù intellettuali sono superiori alle virtù morali. Filieri Andrea 112 Come ci si può avvicinare a Dio? Da chi e cosa eredita Avicenna: ente\essenza Aristotele: passivo\attivo Potenza\Atto; coscienza. Agostino: attraverso un colloquio interiore con la propria anima, nella quale Dio ci parla direttamente. Cosa lascia in eredità Ente come ciò che esiste o è realmente ed essenza ossia ciò che è, ovvero la sua quidditas intelletto Potenza ed atto sono associati all’azione creatrice di Dio in virtù della quale le creature che hanno l’essre in potenza passano all’essere in atto ossia all’esistenza; Aristotele: analogia dell’essere Anselmo: la ragione procede in maniera autonoma rispetto alla fede Agostino: l’idea che l’uomo sia predestinato da Dio LA RAGIONE Può PROVARE L’ESISTENZA DI Dio? Plotino Anselmo Tommaso Filieri Andrea Sebbene non sia affatto necessario cercare una prova scientifica dell’esistenza dell’Uno, la riflessione razionale cerca di affermare che la molteplicità degli enti che compongono il mondo si radichi in un ente trascendente, una unità produttiva del molteplice. Ancora, per quanto concerne il problema dell’origine del mondo, il rapporto che lega l’uomo all’Uno è riassumibile nel concetto di emanazione: un processo attraverso il quale l’Uno produce tutta la realtà (della quale non fa parte la materia) per effetto della sovrabbondanza del suo essere. Anselno, risponde che è possibile attraverso un corretto ragionamento ontologico. In effetti l’esistenza di Dio è implicita nella sua definizione. Tommaso, non concorda con Anselmo: la dimostrazione anselmiana infatti dimostra l’esistenza di Dio solo nella mente di chi la pensa. Diversamente, se si applica la ragione all’esperienza è possibile affermare che il mondo ha cinque caratteristiche che rendono necessaria l’esistenza di Dio: il movimento dimostra Dio come motore immobile; 113 le cause rimandano ad una causa prima incausata; la possibilità rimanda ad un Ente necessario; i gradi di perfezione ad una perfezione somma; il fine ad una intelligenza ordinatrice. In che modo si articolano i rapporti tra filosofia e cristianesimo nel Medioevo? La filosofia medioevale trova la sua dimensione prioritaria nella religione cristiana. E’ la rivelazione a dettare le linee guida del pensiero e dei problemi ed è la teologia ad avere un ruolo indiscusso. La riflessione sviluppatasi nelle Scholae determina la produzione e la trasmissione del sapere. Sapere fondato su una auctoritas: la Bibbia ed il Vangelo trasmessi dai Padri della Chiesa. La svalutazione della ragione Nel xiv secolo si assiste alla crisi della scolastica in quanto viene meno la fiduxia nella ragione e si afferma una posizione fideistica i cui principali esponenti sono: Si afferma la via mistica come alternativa all’indagine razionale su Dio ossia una forma di religiosità in cui l’uomo mira a farsi assorbire completamente da Dio nell’esperiena dell’estasi Duns scoto: 1. Dio è oggetto di rivelazione e non di ragione; 2. la rivelazione è fondata sulla parola di Dio 3. la fede garantisce conoscenze più attendibili rispetto alla ragione che è confinata ai ragionamenti sull’essere Filieri Andrea Ockham:assume una posizione di empirismo radicale da cui seguono: 1. inconciliabilità tra fede e ragione; 2. impotenza della ragione in ambito religioso dal momento che la verità di fede è indimostrabile 3. Dio è assoluta libertà; 4. Apertura alla ricerca naturale; 5. Nominalismo moderato: gli universali sono segni di insiemi di cose particolari; 114 Guglielmo di Ockham La fede Solastica : tramite La ragione ne deriva: nominalismo ossia le nozioni metafisiche sono nomi Come si conosce la verità? Ockham : tramite Filieri Andrea L’esperienza: empirismo radicale 115 Da cui il principio del rasoio: eliminazione di enti e nozioni non empiriche Quindi: volontarismo ossia credere in Dio è un atto di volontà Il rapporto tra fede e ragione in Guglielmo di Ockham deve essere inquadrato nel contesto più generale del rapporto tra teologia e filosofia150. La posizione di Ockham si caratterizza per una forte radicalità. Per Ockham, filosofia e teologia sono discipline distinte e complementari, con ambiti di studio indipendenti. La filosofia è la scienza dell’essere, mentre la teologia è la scienza di Dio. Da una parte, il filosofo studia l’essere basandosi sulla ragione e sull’esperienza; dall’altra, il teologo tratta di Dio a partire dalla Rivelazione. La conclusione di Ockham è che solo la filosofia è una scienza speculativa. La teologia rivelata, invece, è una scienza pratica. La teologia non è una scienza speculativa La visione che Ockham ha della teologia si basa su un principio generale che altro non è che una variante del famoso ‘rasoio di Ockham’ o principio di economia. Secondo Ockham, Dio non fa niente in modo vano o superfluo; di conseguenza, se alcune verità sono state comunicate all’uomo tramite la Rivelazione, questo significa che esse non potevano essere conosciute dall’uomo tramite la ragione naturale. Stando a questo principio, Ockham intende stabilire due punti: primo, che i contenuti della Rivelazione non possono essere dimostrati dalla ragione naturale; secondo, che, dal canto suo, la Rivelazione non aggiunge niente alla capacità che l’uomo possiede di ricostruire in modo razionale l’esperienza comune. La ragione di questa simmetrica limitazione è che, per Ockham, si può avere scienza solo di quelle cose di cui si può avere intuizione. In particolare, nella sua principale opera teologica, il Commento alle Sentenze, Prologo, q. 1 (1317-1319), Ockham descrive l’intuizione come quella conoscenza in virtù della quale si può sapere con evidenza che una cosa esiste, se esiste, e che una cosa non esiste, se non esiste. 150 Treccani. Filieri Andrea 116 L’intuizione, cioè, richiede l’esistenza (o quantomeno la presenza) della cosa intuita, per questo l’intuizione è una conoscenza evidente e quindi certa151. Di Dio, però, non abbiamo nessuna conoscenza certa ed evidente; prova ne è, osserva Ockham, che si discute della sua esistenza e di come dimostrarla. Di conseguenza, se non si può avere una conoscenza intuitiva di Dio, che è l’oggetto proprio della teologia, allora non si può provare niente riguardo a Dio. Questa ulteriore conseguenza è comprensibile se uno tiene presente l’idea di scienza che Ockham aveva ereditato da Aristotele: conoscere scientificamente una cosa di cui si può avere intuizione equivale a spiegare la connessione causale che sussiste tra la cosa e le proprietà che la cosa esibisce. 152 Ammessa questa idea di scienza, la conclusione che Ockham tira è molto netta: se non si può avere conoscenza intuitiva di Dio, allora non si possono provare di Dio proprietà come ‘essere trino e uno’, ‘essere onnipotente’, ‘essere infinito’, e così via per le altre proprietà che tradizionalmente sono attribuite a Dio. Anche il tema più delicato, l’esistenza di Dio, è da Ockham svuotato di significato scientifico: si può provare che esiste una prima causa incausata dell’essere di cui abbiamo esperienza, ma non si può provare che tale causa sia il Dio di cui ci parla la Rivelazione. Fede e ragione in Ockham153 Per Ockham il termine ‘ragione’ fa riferimento a quella facoltà tipicamente umana di procedere in modo razionale partendo da dati ricavati per intuizione dall’esperienza. Anche la fede ha ovviamente una dimensione razionale e argomentativa, ma la mancata verificabilità empirica delle ‘proposizioni credibili’ impedisce qualsiasi serio dialogo teoretico tra fede e ragione. Con Ockham la prospettiva agostiniana viene abbandonata: non è necessario credere per comprendere né tanto meno comprendere per credere. Attraverso la separazione tra fede e ragione, Ockham non vuol sminuire la fede rispetto alla ragione ma al contrario valorizzarle entrambe, ciascuna nel proprio ambito. La ragione rinuncia a ogni velleità di parlare di ciò che trascende l’esperienza. La ragione non può provare l’esistenza del Dio della Rivelazione ma non può nemmeno provare la non-esistenza di un tale Dio. La ragione semplicemente non può decidere, perché non può verificare, una proposizione credibile come ‘Dio esiste’. Tale limitazione vale anche dal punto di vista dell’uomo di fede, che assume come tratto caratteristico della divinità l’onnipotenza. Da teologo, Ockham collega l’onnipotenza alla volontà divina, al suo poter fare tutto ciò che non implica contraddizione. Dio crea con un atto di libera volontà il quale resta, in quanto atto volontario, inconoscibile all’uomo. In assoluto, il mondo creato non è il migliore dei mondi possibili, ma è solo uno dei mondi che Dio poteva creare. Tuttavia, se la volontà divina non è obbligata a scegliere quello che l’intelletto divino le presenta possibilmente come il migliore dei mondi possibili, è comunque vero che il mondo voluto e scelto da Dio diventa, per il fatto stesso di essere voluto da Dio, il migliore dei mondi possibili. Così dicendo, Ockham rinuncia all’idea che la ragione possa risalire al progetto originario dell’intelletto divino o alla motivazione originaria della volontà divina. Qual è la conclusione di questo ragionamento? Il progetto di Ockham è ambizioso: mostrare che non vi sono argomenti per provare che la fede sia giustificabile razionalmente. Se la fede potesse essere provata, osserva Ockham seguendo una massima di Gregorio Magno, la fede sarebbe priva di valore. Se così è, la fede viene a essere, per Ockham, niente più che un sentimento esterno alla ragione. La ragione può certamente aiutare l’uomo a definire e a dar conto dei contenuti 151 Treccani. Treccani. 153 Treccani. 152 Filieri Andrea 117 della fede. Ma il valore della fede risiede interamente nell’atto con cui l’uomo dà il suo assenso incondizionato alle verità della Rivelazione.154 Vediamo: “ In un primo senso scientia è: conoscenza certa di verità, dove la cosa preminente è la certezza conoscitiva. In questo senso, scientia comprende soprattutto quella che chiamiamo anche credenza (fides) o, in alttre parole, il convincimento certo. In questo senso sappiamo (scientia certa)ad esempio che Roma è una grande città senza che l’abbiamo mai vista. Questo nostro sapere che Roma è una grande città senza averla mai vista, ma per altrui notizia o resoconto, è credenza, certezza convinzione: ossia scientia in questo primo senso, di mera certezza. Ancora, nello stesso senso, ad esempio, abbiamo scientia (credenza, convinzione certa) che quest’uomo qui è mio padre. Come si vede, il fondamento di questo tipo o stato di scientia non è per niente l’evidenza della cosa stessa in carne ed ossa; è invece l’assenza di ogni ragionevole dubbio circa la verità di un fatto, e d’altra parte, è la esistenza di motivi estrinseci ma fondati i quali portano ad aderire fiduciosamente ad una o ad un’altra verità: motivi come la testimonianza di uomini e di cose degli di fede. In un altro senso scientia è conoscenza evidente. Si tratta di un piano o strato di conoscenza il quale si costituisce del tutto indipendentemente da altrui testimonianze e non poggia su alcun motivo estrinseco per quanto fondato155. Tale tipo di scientia, è costituito invece da atti diretti e semplici di conoscenza. Quanto a dire: nella evidenza (conoscenza evidente o scientia evidente) ci troviamo: ci groviamo, o perché vi siamo immediatamente coinvolti, o perché vi giungiamo da evidenze. Eswmpio: posto di fronte ad una parete bianca la conoscenza (scientia) della bianchezza della parete non si costituisce per testimonianza d’altri o per motivi del genere ma perché qui ed ora vedo in prima persona quel bianco. La scientia dunque, in questo secondo tipo è costituita allora dalla evidenza conoscitiva .In tale senso scientia è conoscenza evidenente sia di oggetti, eventi, verità contingenti in carne ed ossa, sia anche di oggetti, verità, eventi che mi presentano immediatamente come evidenti. Identità Rapporto tra ragione e fede Scoto Eriugena ; Anselmo D’Aosta (teologia razionale) Superiorità della fede Bernardo di Clairvaux; Gioacchino da Fiore: approdano al misticismo Averroismo influenzato dall’aristotelismo Superiorità della ragione 154 Treccani. La conscenza intuitiva della realtà sta a fondamento della conoscenza experimentalis nella quale la realtà concreta si manifesta nella sua evidenza e costituisce la base della scienza. L’experientia intesa qui come osservazione costituisce il momento essenziale della edificazione del sapere. 155 Filieri Andrea 118 Alberto Magno Tommaso D’Acquino Accordo Distinzione Duns Scoto: elabora la teologia pratica ; Guglielmo di Ockham: la teologia non è una scienza Nel divenire del mondo cosa non muta? fisici ionici le cose mutano ma l’archè non muta eraclito tutto muta tranne il divenir e qual è l’origine del mondo? parmenid e Il mutamen to è apparenz a: L’Essere non muta democrito protagora socrate il mondo deriva dal movimento casuale degli atomi aristotele mutano le cose non le Idee ossia le loro essenze le cose mutano sulla base di forme immutabili è opera di una intelligenz a divina cosa sono il bene e la felicità? il bene coincide con l’esercizio della conoscenza donde viene il male? l’esistenza dell’individ uo coincide con quella del cittadino rapporto individuo\ stato platone origine della conoscenz a l’uomo si realizza solo in quanto pienamente cittadino bene e felicità consistono nell’eserci zio della ragione il made deriva dalla materia l’individu o esiste solo nello Stato la conoscenz a deriva dal fondo della nostra anima Filieri Andrea 119 la vita buona e felice è una vita secondo ragione l’uomo è un animale politico la conoscenza deriva dalla esperienza Epicuro Nel divenire del mondo cosa non muta? qual è l’origine del mondo? cosa sono il bene e la felicità? bene e felicità coincido no col piacere Stoici Filone di Alessand ria Plotino Agostino Il mondo è creazion e di Dio il mondo è una emanazione dell’Uno Il mondo è creazione di Dio dal nulla il male è una forma di non essere il male è privazione di bene Anselmo d’Aosta Tommaso Ockham bene e felicità consist ono nel dovere donde viene il male? rapporto individuo\ stato origine della conoscenz a la conoscenza è illuminazio ne divina la fede orienta la ragione e la ragione fortifica la fede\ragio ne Filieri Andrea 120 lo Stao èper l’indivuo una società naturale la conoscenz a comincia dai sensi la fede deve essere indagata con la ragione verità di fede e ragione non sono in fede eragione si occupano d ambiti diversi fede Filieri Andrea 121 contraddiz ione